RELITTI...e storie di mare

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  1. gheagabry
     
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    Storie di relitti.....

    La torpediniera LUPO


    La Lupo è stata una torpediniera della Regia Marina. Nel primo periodo di servizio l’unità ebbe base in Sicilia, poi, nel gennaio 1940, venne trasferita in Mar Egeo. A partire dalla metà del 1942 la Lupo iniziò ad operare, oltre che sulle rotte dell’Egeo, anche su quelle che conducevano in Libia.

    22 maggio, 1941

    I piani tedeschi per l'occupazione di Creta furono pronti per la fine dell'aprile del 1941, l'assalto all'isola sarebbe stato di compito esclusivo della Lufwaffe e dei suoi paracadutisti quando ci si rese conto che il piano originario dipendeva troppo dall'assalto e dalla sorpresa iniziali i generali tedeschi corsero ai ripari e organizzarono alcuni sbarchi secondari di alpini sulle coste di Creta e chiesero l'appoggio della Regia Marina per dirigere, non per scortare perché la Luftwaffe avrebbe affondato qualsiasi nave che si fosse avvicinata a Creta, sull'isola i convogli dei piccoli carichi di soldati. [..]
    Il ritardo provocato dai problemi della Sirio, il disordine della formazione (nessuna delle piccola nave era stata attrezzata minimamente per una navigazione così pericolosa, non vi era nemmeno una radio di bordo) fecero si che la Lupo riuscisse a rintracciare il convoglio solo all'alba del 21. Il comandante della piccola nave italiana, Francesco Mimbelli, dopo aver spiegato con il megafono e con le bandiere gli ordini a tutte le barche cominciò la rotta per Creta che distava ancora 50 miglia, alle 07:15 tuttavia ricevette un messaggio che gli ordinava di fermarsi sul posto in attesa di nuovi ordini, che arrivarono "puntualmente" un'ora dopo: la torpediniera e il suo convoglio dovevano rientrare subito a Millo.
    Alle 11:00 arrivò un altro contrordine: si doveva arrivare a Creta alla massima velocità di formazione (anche lasciando indietro i pescherecci più lenti) e far sbarcare gli uomini nella mattinata del 22. In quella mattinata un ricognitore aveva scoperto una formazione navale inglese che avrebbe tagliato (involontariamente) la strada al convoglio per cui fu deciso di sospendere l'azione; successivamente un altro ricognitore segnalò (commettendo un errore ) che la formazione nemica aveva invertito la rotta, per cui sicuri di questa nuova informazione si decise di far riprendere la marcia per Creta alla Lupo e ai pescherecci. Le navi avvistate erano gli incrociatori Ajax, Orion, Dido e i Ct Hereward, Hasty, Janus, Kimberley al comando del contrammiraglio Irvine G. Glennie imbarcato sul Dido; una forza immensamente superiore alla solitaria Tp italiana. Alle 22:33, mentre la Tp si trovava a circa 5 miglia a NNE di Capo Spada, una vedetta segnalò a circe 1200-1500 metri di distanza un Ct nemico sul lato di dritta; si trattava del Janus che aveva già scoperto il convoglio invertì subito la rotta, cosa che neutralizzò il lancio dei due siluri di dritta del Lupo che furono lanciati di poppa alle 22:34. Un minuto dopo veniva avvistato un incrociatore inglese e subito dopo le navi britanniche aprirono il fuoco, la torpediniera allora lanciò i due siluri rimasti contro l'incrociatore stimando la velocità in 20 nodi (in realtà era di 28 nodi) e ad una distanza giustamente valutata in 700 metri.
    Poi la Tp accostò a sinistra e iniziò il fuoco con tutte le armi di bordo, in quel frangente il tiro inglese fu molto preciso e la nave fu ripetutamente colpita da proiettili e da colpi di mitragliera che tuttavia non provocarono gravi danni ma uccisero 2 marinai (sottocapo furiere Orazio Indelicato e il cannoniere P.M. Nicolò Moccole) e ne ferirono 26. Mentre la Tp stava defilando a sinistra un secondo incrociatore, mai avvistato fino ad allora, le passò a pochi metri dalla poppa; la Tp Lupo, da quel momento definita "la nave più fortunata della flotta", approfittando della confusione che regnava in campo britannico riuscì a ritirarsi. I siluri che la Lupo aveva lanciato contro il Dido mancarono il bersaglio per l'evidente errore di valutazione della velocità ma non andarono del tutto sprecati poiché esplosero molto vicino all'incrociatore Orion che lo seguiva provocando vari danni di lieve importanza e alcune deformazioni alla carena. L'Orion fu anche ripetutamente colpito dai proiettili da 40 mm del Dido che nella mischia sparò alcuni colpi contro il suo divisionario. Le navi inglesi ripresesi dalla sorpresa, grazie al radar, rintracciarono il convoglio e ben 10 barche furono affondate, tutte le altre sfuggite alle navi nemiche ritornarono in Grecia: circa 800 soldati tedeschi erano morti in questo fallito tentativo di sbarco.
    Per questa azione, il comandante della torpediniera italiana Francesco Mimbelli venne decorato con la Medaglia d'oro al valore militare. Viceversa il contrammiraglio Irvine G. Glennie andò incontro a molte critiche, questa volta le navi inglesi non avevano combattuto come al solito e sebbene avessero impedito lo sbarco dei piccoli pescherecci si erano fatte sfuggire una piccola torpediniera e per giunta l'Orion ebbe alcuni danni da un siluro esploso nelle vicinanze e da colpi sparati dal Dido; a sua discolpa va notato che la Lupo ricevette ben 18 colpi a bordo ma per un difetto al munizionamento soltanto tre esplosero.
    (Andrea Piccinotti, regiamarina.net)


    Sei anni di ricerche, ventinove navi ritrovate sul fondo del mare, fra cui la torpediniera "Lupo", protagonista di un epico scontro navale durante la seconda guerra mondiale. «Nei sei anni di ricerche in quest'area teatro di una serie di scontri noti agli storici come Battaglia dei convogli - spiega Arena - abbiamo esplorato e documentato 29 relitti di navi, la gran parte dei quali non erano mai stati localizzati o visitati in precedenza, a profondità comprese tra i 35 ed i 130 metri: una decina di questi sono particolarmente spettacolari grazie soprattutto al contenuto delle loro stive, ricolme di automezzi, mezzi corazzati, artiglierie, munizioni, ricambi per aerei e altre merci regolarmente inviate per supportare lo sforzo bellico sul fronte d'Africa».... «Fin dal primo anno - dice ancora Arena - è stato uno degli obiettivi primari della spedizione, perché la nave fu protagonista di un'azione che gli meritò la medaglia d'argento al valore durante la Battaglia di Creta». Era il maggio del 1941, e la torpediniera "Lupo" fu inviata di scorta a una flottiglia di piccole imbarcazioni cariche di truppe tedesche da sbarcare a Creta per l'occupazione dell'isola. Il "Lupo" raggiunse il convoglio il 21 maggio 1941 e alle 22.33 una vedetta segnalò l'arrivo di un caccia nemico, il cacciatorpediniere "Janus" contro il quale il "Lupo" lanciò due siluri mancando però il bersaglio. Il Janus era solo l'avanguardia di una grossa forza nemica che contava tre incrociatori e quattro cacciatorpediniere. La torpediniera presto si trovò circondata da altre unità britanniche contro le quali si lanciò per proteggere il convoglio. Colpita più volte riuscì a sganciarsi e tornò indietro a raccogliere i naufraghi del convoglio decimato dagli inglesi. Per questa azione la torpediniera si guadagnò la medaglia d'argento mentre al suo comandante, il capitano di fregata Francesco Mimbelli, fu conferita la medaglia d'oro. Il "Lupo" affondò la notte del 1 dicembre 1942 attaccata di sorpresa da quattro cacciatorpediniere britanniche mentre al comando del capitano di corvetta Giuseppe Folli stava salvando i naufraghi del piroscafo "Veloce", colpito da aereosilutanti.
     
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  2. gheagabry
     
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    L'ANDREA DORIA


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    L'Andrea Doria era una nave da passeggeri della Italia di Navigazione S.p.A., gruppo IRI - Finmare, meglio conosciuta nel mondo dello shipping internazionale con il nome di Italian Line. Costruita ai cantieri navali Ansaldo di Genova Sestri Ponente, fu varata il 16 giugno 1951 ed effettuò il suo viaggio inaugurale il 14 gennaio 1953.
    La nave prese il suo nome dall'ammiraglio ligure del XVI secolo Andrea D'Oria. Poteva portare fino a 1241 passeggeri e, quando venne varata, rappresentava uno dei punti d'orgoglio dell'Italia, che stava allora cercando di ricostruire la propria reputazione dopo la seconda guerra mondiale. Degna erede dei transatlantici degli anni trenta, la Andrea Doria era la più grande e più veloce nave da passeggeri della flotta italiana di linea ed era considerata anche la più sicura...era lunga 213,5 m, con una sezione massima di 27,5 m, essa aveva una Stazza Lorda di 29.083 tonnellate ed una Stazza Netta di 15.788 tonnellate. La propulsione era affidata a due impianti separati di turbine a vapore, collegate a due eliche gemelle a tre pale, che permettevano alla nave di raggiungere agevolmente una velocità di esercizio di 23 nodi, con una velocità massima raggiunta alle prove di 26,5 nodi. L'Andrea Doria non era la più grande al mondo né la più veloce: i due primati andavano, rispettivamente, alla inglese della Cunard Line RMS Queen Elizabeth ed alla statunitense della United States Line United States.
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    La Andrea Doria era invece la più lussuosa: sin dal suo primo viaggio, fu la prima nave ad avere a bordo tre piscine aperte, una per ogni classe (prima, cabine e turistica).
    La nave poteva portare un totale di 1241 passeggeri i quali erano suddivisi nel seguente ordine: 218 passeggeri di prima classe, 320 di classe cabina e 703 di classe turistica, su 10 ponti.
    Grazie ad un investimento di oltre 1 milione di dollari di allora spesi in decori e pezzi d'arte nelle cabine e nelle sale pubbliche, inclusa una statua a grandezza naturale dell'Ammiraglio Doria realizzata dallo scultore Giovanni Paganin, molti la consideravano la più bella nave mai varata. L'esterno della nave era anch'esso considerato molto elegante: la linea era affusolata, con l'unico fumaiolo (colorato in verde, bianco e rosso come la bandiera italiana) e la sovrastruttura che digradava armoniosamente verso poppa.
    Alla fine della seconda guerra mondiale, l'Italia aveva perso metà della sua flotta mercantile per le distruzioni dei bombardamenti e per l'uso militare delle navi. Le perdite includevano il mitico Rex, detentore del Nastro Azzurro. Inoltre, la nazione stava lottando contro un'economia allo sfascio. Per incentivare la ripresa economica e recuperare l'orgoglio nazionale, vennero commissionate nei primi anni cinquanta due unità simili: l'Andrea Doria, e la Cristoforo Colombo che fu varata nel 1953.
    L'Andrea Doria fu impostata al cantiere n. 918 dei Cantieri Ansaldo a Genova. Il 9 febbraio 1950, la chiglia fu poi portata alla rampa del Cantiere n. 1 ed il 16 giugno 1951 la Andrea Doria venne varata. Durante la cerimonia lo scafo fu benedetto dal cardinale Giuseppe Siri arcivescovo di Genova, e battezzato dalla signora Giuseppina Saragat, moglie dell'ex ministro della Marina Mercantile e futuro Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat. A causa di problemi alle macchine durante le prime prove in mare, il viaggio inaugurale della Andrea Doria fu rimandato dal 14 dicembre 1952 al 14 gennaio 1953.
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    Durante tale viaggio la Andrea Doria incontrò intense tempeste specialmente in fase di avvicinamento al continente Nord Americano viaggiando alla volta di New York e accumulò molto ritardo. Ciò nonostante, giunse a destinazione il 23 gennaio e ricevette una delegazione guidata dal sindaco della città di New York, Vincent R. Impellitteri. In seguito, l'Andrea Doria raccolse l'atteso ed il meritato consenso, divenendo per questo una delle navi più famose dell'epoca. Essa si rese famosa per la puntualità e per la grande richiesta di biglietti di passaggio da parte di una sempre crescente clientela che ambiva ad attraversare l'oceano viaggiando a bordo della bellissima ed elegantissima nave italiana; viaggiando per questo sempre a pieno carico.


    È il 26 Luglio del 1956, alle ore 23,10, in pieno Oceano Atlantico, nelle immediate vicinanze dell’Isola di Naunticket, la Turbonave Andrea Doria sta avanzando maestosa verso le coste degli Stati Uniti, da cui dista in quel momento appena 180 miglia.
    Il fotografo di bordo ha 52 anni, si chiama Italo Jacy Rainato, nel suo laboratorio sottocoperta è intento a sviluppare i rullini, nel salone sontuoso ed elegante è in corso una festa, le foto saranno eccezionali, impaziente di vederle il fotografo con il suo aiutante armeggia tra le bacinelle e i contenitori di acidi. Il suo aiuto, Enrico, è giovane, alla sua prima, primissima esperienza in mare, ma anche lui è entusiasta, la Turbonave Andrea Doria è l’ammiraglia della flotta italiana, la veterana del trasporto passeggeri, il fiore all’occhiello della Marina, il vanto dell’orgoglio nazionale, in poche parole una specie di Titanic tutto italiano, un miracolo dell’economia, una speranza per il futuro, un monumento al progresso. Entro mezzanotte i fotografi contano di tornare nel salone per distribuire e vendere le loro stampe ai passeggeri che stanno festeggiando, l’atmosfera è idilliaca, gli animi elettrizzati.
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    A un tratto gli acidi saltano fuori dalle bacinelle, i fotografi compiono un balzo all’indietro, ancora prima di riuscire a capire cosa è accaduto si percepisce lungo la minuscola cabina un fremito inquietante. Dagli oblò si vede il mare calmo, liscio come una tavola, la lucida superficie nera scintilla come olio, non presagendo ancora il pericolo i due si avventurano fuori, pensano a un’avaria della sala macchine, a un banale contrattempo, nessuno dei due ancora realizza che possa trattarsi di qualcosa di più grave. Salendo verso i ponti superiori pensano di arrivare fino in coperta per chiedere notizie al Ponte di Comando, a un tratto odono delle grida, si volgono verso un corridoio per cercare di capire, e si trovano davanti a una visione allucinante.
    Una donna corre terrorizzata verso di loro, sospingendo e tirando i suoi tre bambini. Sono completamente coperti di nafta, sembrano minatori appena usciti da un pozzo petrolifero, le urla risuonano nella vastità silenziosa della nave.
    “Dio mio, è terribile -dice la donna - la nave affonda, siamo perduti…”.
    L’Andrea Doria, il vanto della Marina Italiana, il Translantatico più elegante, più potente e più rappresentativo della flotta, costruito dalla Società Italia presso i cantierei dell’Ansaldo sta per inabissarsi nel mare. È un attimo e si scatena il panico.

    Siamo nel 1956 e ancora non erano stati attuati i piani obbligatori per le emergenze, esistevano sì, dopo la disastrosa esperienza del Titanic, salvagenti e scialuppe a bordo, in numero sufficiente per condurre tutti in salvo, ma ancora non si era ritenuto opportuno di istruire i passeggeri o di condurre esercitazioni simulate di naufragio. Oggi su tutti i tratti a lunga percorrenza le moderne motonavi prevedono un programma di informazione e di addestramento, tre colpi di fischietto e tutti si precipitano ad indossare i salvagenti per poi radunarsi presso la scialuppa loro assegnata. I turisti si divertono e la prendono come un’attività ludica, ricreativa, ma sono questi piccoli accorgimenti che in caso di un disastro in mare possono fare la differenza.

    L’Andrea Doria è stato speronata dalla nave svedese Stockholm che l’attraversa come se fosse burro, conficcando la sua prua fino a dentro il ventre della nave italiana. Sul fianco dell’ammiraglia si apre uno squarcio lungo lateralmente almeno cinque metri e profondo più di dieci. Nessuna nave sarebbe potuta rimanere a galla con una simile ferita sulla paratia e infatti l’Andrea Doria affonda, rapidamente, non c’è il tempo materiale di far niente.
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    In coperta i passeggeri corrono forsennati da un lato all’altro del ponte di coperta, le prime scialuppe di salvataggio vengono calate fuori bordo, un uomo terrorizzato afferra la figlioletta e la lancia verso una delle lance, già prossima a raggiungere il livello dell’acqua.Gli occupanti non hanno il tempo di fermarlo, gli gridano di attendere, ci sono altre lance, altre scialuppe, ma l’uomo è reso folle dal panico. Non sarà più ritrovata.
    Cinquantadue persone perirono nel naufragio, una ragazza che dormiva nella sua cabina sull’Andrea Doria verrà ritrovata la mattina dopo selvaggiamente aggrappata in grave stato di shock alla prua della Stockolm. Sarà l’ultima superstite.

    Per tre ore fervono le operazioni di evacuazione, l’equipaggio si prodiga per salvare vite umane, per ricercare i feriti, ci si attarda fino all’ultimo per organizzare i soccorsi, il fotografo alle 3.15 del mattino è uno degli ultimi ad abbandonare la nave morente, su una scialuppa carica fa rotta verso l’Ile de France, posti in salvo i passeggeri torna indietro per rendere l’ultimo omaggio alla maestosa Andrea Doria che si andava inabissando.

    A bordo trova il Comandante in seconda, Magagnini, è ancora in pigiama, il Comandante Calamai invece indossa la divisa blu con il basco d’ordinanza sul capo. Non vogliono scendere, rifiutano di abbandonare la nave, i pochi marinai ancora presenti siedono sulla scaletta fumando, sanno che la scialuppa è pronta per portarli via, sarà l’ultimissimo carico prima della fine, ma ancora si rifiutano di abbandonare la nave, vogliono attendere lo sbandamento completo, dicono agli uomini della lancia di allontanarsi per non essere travolti dal risucchio, li raggiungeranno a nuoto.
    Solo all’alba accettano di abbandonare l’imbarcazione morente, che, come un cigno colpito a morte, sta per inabissarsi nelle profondità oceaniche. Mentre lentamente l’orgoglio della Marina Mercantile Italiana sta soccombendo, offrendo il fianco squarciato alle acque del mare, in molti si stringono attorno a lei, riluttanti a lasciarla. L’Ile de France prima di allontanarsi con i superstiti a bordo lancia tre lunghi malinconici fischi di commiato.

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    La William Thomas si avvicina per offrire ancora assistenza e soccorso, una lancia vuota vaga in circolo abbandonata sulle acque, l’Andrea Doria si sta piegando sul fianco squarciato, lentamente con maestosa dignità, alle otto di mattina l’acqua è ormai giunta alle vetrate del salone panoramico, la fine è vicina. Un apparecchio aereo effettua lunghi giri di perlustrazione sull’imbarcazione morente e sulla scialuppa con i Comandanti che ancora aspetta in mare, gli occhi lucidi dell’equipaggio sono fissi sulla grande nave che va inabissandosi e che ancora scintilla, bianca, sotto il sole nascente. Alla fine anche un motoscafo della Marina si avvicina per rendere l’ultimo estremo commiato all’Andrea Doria, ora posseduta dal mare.

    È l’epilogo dolente e drammatico di un disastro che colpisce la Marina Mercantile Italiana dritto al cuore, a 24 anni di distanza le polemiche ancora infuriano, il giorno dopo il naufragio novanta dei passeggeri presenti a bordo sporgono reclamo contro l’equipaggio per la carente organizzazione dei soccorsi, un libro svedese accusa i cantieri dell’Ansaldo di aver utilizzato manodopera non competente e poco professionale, l’Andrea Doria sarebbe affondato per un difetto strutturale della costruzione. Come sempre in Italia le vere cause del disastro forse non saranno mai note, rimane solo il cordoglio per le 52 vittime perite a bordo e il perenne ricordo di una delle imbarcazioni più maestose ed eleganti mai costruite in Italia. Ancora una volta l’uomo si è dovuto arrendere alla supremazia della natura e consegnare un ennesimo tributo alla furia dei mari.

    Così l’Andrea Doria oggi giace nel cimitero delle navi assieme agli antichi vascelli invelati carichi di spezie che contribuirono ad ampliare i confini dell’orizzonte conosciuto, silenzioso monito per la sicumera del progresso che tutto macina e tutto consuma.
    (Sabina Marchesi)


    ....Indagini....



    Nel 1956, a New York, vi furono mesi di processo, che videro schierati l'una contro l'altra le due compagnie armatrici delle navi coinvolte ed i parenti delle vittime schieratisi parte civile. Tuttavia non si giunse ad una conclusione riguardo le responsabilità, attribuite infine ad entrambi gli ufficiali delle due navi, a causa di un accordo extragiudiziale raggiunto dalle due Società, grazie al quale entrambe intascarono i soldi delle assicurazioni. La Swedish-American Line, armatrice della Stockholm, subì danni per circa 2 milioni di dollari dell'epoca, la Società Italia per oltre 30 milioni di dollari.
    Unica responsabile del disastro venne considerata la nebbia.
    Secondo la difesa svedese non c'era nebbia al momento (nonostante questo fatto fosse confermato anche dalle altre navi e da esponenti della U.S.Navy), inoltre, a loro avviso, sulla plancia della Doria non si era seguite le corrette procedure radar con conseguenti errori nel calcolo delle distanze tra le due navi, inoltre la Doria non aveva seguito le norme di navigazione internazionali che prevedono che le navi debbano virare a destra in caso di incrocio di altre navi in mare, la Doria infatti in un estremo tentativo di evitare la collisione virò a sinistra, mentre la Stockholm virò a destra. La difesa italiana ovviamente affermò, come in effetti era, che sul luogo vi fosse una nebbia molto fitta, mentre la responsabilità sarebbe stata da imputarsi ad errori nella lettura del radar causata dall'inesperienza degli ufficiali al momento al comando della nave svedese.

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    In seguito a ciò, il comandante Calamai, uomo di grande esperienza, venne messo a terra e morì in disgrazie nel 1972, ingiustamente. Anni di ulteriori indagini da parte della Marina Americana hanno permesso finalmente di chiarire meglio quanto accadde.
    Innanzitutto le immersioni sul relitto hanno permesso di constatare che lo squarcio nella murata della Doria era ben più grande di quanto inizialmente ipotizzato, condannando la nave a prescindere dalla robustezza della costruzione.
    Infine, cosa più importante, si è potuto stabilire, attraverso l'analisi dei tracciati radar ed attraverso accurate simulazioni computerizzate, che la responsabilità dell'incidente fosse dell'inesperto giovane terzo ufficiale della Stockholm, lasciato solo al comando della nave, che mal interpretò i segnali indicati dal radar, in quanto egli credeva che la visualizzazione del radar fosse importata su una distanza maggiore di quanto invece non fosse, facendo credere che le due navi fossero molto più lontane tra loro.
    Johannsen credette così di aver tutto il tempo per effettuare una virata a destra e defilare di dritta rispetto alla nave italiana, mentre con questa manovra in pratica andò ad infilarsi nella vicina nave passeggeri. E' da considerare che, come troppo spesso accade in Italia, già nel 1957 una commissione d'inchiesta nazionale era arrivata alle medesime conclusioni, ma che tali risultati vennero tenuti nascosti per via degli accordi tra le compagnie assicurative e gli armatori.
    Ancora una volta in Italia gli interessi economici superarono l'importanza della ricerca della verità, in spregio a quelle 47 vittime del naufragio che, ad oltre 50 anni di distanza, non hanno ancora viste riconosciute le reali responsabilità di quella tragedia.

    Ironia della sorte, anni dopo la tragedia la Stockholm venne acquistata da una compagnia di navigazione italiana ed ancora oggi naviga con il nome di MS Athena.


    ...Piero Calamai, il Comandante dell'Andrea Doria...



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    Il Capitano Superiore di Lungo Corso Pietro Calamai nativo di Genova, iniziò a navigare nel 1916, partecipando al primo conflitto mondiale nella Regia Marina dove ottenne una medaglia al valor militare. Passato poi alla marina mercantile aveva prestato servizio come ufficiale su ben 27 navi. Durante la seconda guerra mondiale venne richiamato in servizio nella Regia Marina con il grado di Capitano di Corvetta dove ottenne una seconda medaglia al valore. Alla fine del conflitto rientrò in marina mercantile al servizio della Italia navigazione dove divenne uno degli ufficiali più stimati. Da parte dell'Italia navigazione fu quindi una scelta oculata quella di affidare il comando dell'Andrea Doria (la tredicesima tra le navi più grandi del mondo, benchè Calamai fosse il comandante più giovane della compagnia).
    Calamai fu unico Comandante del Doria, ne seguì la costruzione e seguìle prove in mare. Nei tre anni di comando sul Doria, Calamai aveva aggiunto al suo curriculum un passo importante alla sua carriera, quello del comando di una nave ammiraglia tant'è che si riteneva che quel viaggio del luglio del 56 fosse l'ultimo a bordo del Doria in quanto i suoi titoli erano tali da renderlo il più valido candidato al comando della costruenda nuova ammiraglia Cristoforo Colombo.
    Nessuno sa cosa ne pensasse Calamai di questa eventualità, neanche i suoi stretti collaboratori, in quanto in Calamai era radicata la convinzione che gli stati d'animo non si dovessero mescolare con il senso del dovere. Questa sua riservatezza era una caratteristica fondamentale tanto che l'equipaggio di bordo lo rispettava e nel contempo ne aveva fiducia. Questa fiducia traeva certamente origine dalla provata professionalità dei singoli, tuttavia sembrava quasi impersonata da quell'uomo che tutto osservava dalla plancia, dando i suoi ordini con voce bassa, calma e sicura.
    Considerato un'autentica personalità da chi avesse avuto la rara occasione di conversarci, era un uomo riflessivo, che spesso preferiva ricorrere al linguaggio dei gesti e degli sguardi piuttosto che a quello, più plateale, delle parole. Il suo profondo rispetto per il prossimo veniva contraccambiato a bordo ben oltre quegli obblighi di grado che ponevano tutti sotto la sua autorità.
    Calamai, in definitiva ebbe una carriera irreprensibile sotto ogni aspetto, e l'unico difetto che gli si poteva rimproverare era una certa indulgenza nei confronti dell'equipaggio.
    Dopo il naufragio del Doria, venne praticamente abbandonato dalla compagnia Italia e venne anticipato il suo pensionamento di due anni.
    Si rinchiuse quindi nella sua casa di Genova dove morirà nella primavera del 1972. La vita di Calamai, come affermava la figlia, era comunque finita con il naufragio del Doria. Pochi mesi dopo il naufragio ad un giornalista durante il dibattimento processuale dichiarò
    <<fin da bambino e per tutta la vita ho amato il mare. Ora lo odio >>.
    Sul letto di morte alla figlia disse :
    <<i passeggeri sono tutti salvi ? >>
    (dal web)


    Il 25 luglio 1956, alle 23.10, il fianco destro del transatlantico fu squarciato dalla prua rompighiaccio della svedese Stockholm : alle 10,09 della mattina successiva la più bella nave italiana scomparve sotto 74 metri d'acqua, al largo del battello-fanale di Nantucket, a meno di sette ore dall'approdo a New York.
    Il comandante Augusto Meriggioli, nell'articolo Andrea Doria: le verità trascurate nella tragedia del naufragio (Rivista Marittima, marzo 2004), così la descrive:

    "Varata il 16 giugno 1951, l'Andrea Doria era l'ammiraglia della flotta italiana da passeggeri e, con le sue 29.082 tonnellate di stazza lorda, era anche fra le più grandi navi del mondo.
    Progettata per la Società Italia, rappresentava l'eleganza e lo stato dell'arte nella costruzione navale dell'Italia, tanto da conquistarsi il soprannome di "Grande Dama del Mare". Era una galleria d'arte o, meglio, una pinacoteca galleggiante, con dipinti, arazzi, statue, ceramiche e altre meraviglie che ne facevano un museo capace di muoversi a 26 nodi sul mare.
    E l'opulenza non apparteneva solo alla Prima Classe, ma anche alla Classe Turistica e alla Classe Cabina. Le attività ricreative, le piscine, i saloni e l'aria condizionata erano a disposizione di tutti i passeggeri. Privilegi che la ponevano molto avanti ai tempi.
    Sarebbe dovuto passare un trentennio prima che questi servigi fossero a disposizione di tutti coloro che salivano a bordo di una nave da passeggeri, e non riservati ai pochi eletti della classe lusso, come era stato per tanto tempo. Il capitano di questo superbo transatlantico, per tutta la sua vita, fu Piero Calamai, il più giovane Comandante della Società Italia. [...]
    Era fra le navi più grandi e veloci al mondo, anche se non era stata progettata per competere in dimensioni e celerità con i prestigiosi transatlantici di quel momento, ma per portare nel mondo il messaggio delle incomparabili bellezze artistiche che l'Italia poteva offrire. Ciò non di meno, si trattava di una nave imponente: con 218 cabine di Prima Classe, 320 di Classe Cabina, 703 di Turistica, aveva un equipaggio di 572 persone, di cui 42 erano ufficiali. [...]
    Fu al 100° tragitto, nella tratta verso New York, che l'Andrea Doria incontrò il suo destino vicino al battello-fanale di Nantucket, a 180 miglia da Ambrose..."


    Nell'intervista resa al Corriere Mercantile di Genova (a firma Marco Marchegiano, sabato 22 luglio 2006), Fabio Pozzo dice che

    "Il caso Andrea Doria non si è mai chiuso perché nessun tribunale ha mai emesso un verdetto di indicasse il colpevole della collisione. L'illazione che la responsabilità del sinistro fosse italiana fu sollevata fin dai primi giorni dagli Svedesi, che la sostennero con un'efficace campagna di marketing, a differenza degli armatori italiani che opposero il silenzio. Il giudizio fu preceduto da un accordo delle compagnie di navigazione, che transarono e misero fine al procedimento: fu la decisione migliore per gli armatori, per gli assicuratori e per i passeggeri che furono risarciti in tempi record, ma non per la verità. L'inchiesta promossa dal Ministero della Marina Mercantile […] rimase sotto riserbo: in Italia era conveniente chiudere il caso Andrea Doria al più presto: doveva entrare il linea […] la Leonardo da Vinci, e l'Italia di Navigazione aveva tutto l'interesse a non parlare più del naufragio […] che non avrebbe giovato al lancio pubblicitario della nuova unità. Inoltre i Cantieri Ansaldo […] avevano in costruzione la nuova ammiraglia svedese […] ed era meglio […] dimenticare la collisione per non infastidire il committente svedese." Aggiunge Fabio Pozzo di essersi quindi riproposto di chiarire l'accaduto e dare il giusto riconoscimento all'equipaggio che si era comportato coraggiosamente, salvando il 70% dei passeggeri, e di salvaguardare l'onore del comandante Piero Calamai: alle sue decisioni, prima e dopo l'urto, devono la vita tutti i sopravvissuti alla collisione.


    ...Trovò l’Andrea Doria, muore accanto al relitto....



    David Bright, il pioniere della ricerca marina ed illustre storico noto per le ricerche sull'affondamento dell'Andrea Doria, è morto dopo l'ennesima immersione fra i relitti del translatlantico affondato nel 1956. Il prossimo 25 luglio, nel corso della commemorazione per il cinquantesimo anniversario della tragedia, Bright avrebbe dovuto fare gli onori di casa alla Nantucket Historical Association con una relazione sulle sue scoperte e su ciò che rimane del famoso relitto affondato al largo del Massachusetts, circa 55 miglia a sud dell'isoletta di Nantucket. David Bright aveva 49 anni ed è stato vittima di un misterioso arresto cardiaco immediatamente dopo essere emerso sabato pomeriggio, lamentando problemi di decompressione. I soccorritori non hanno potuto fare altro che trasportarlo d'urgenza in elicottero all'ospedale di Hyannis, sulla punta di Cape Cod dove è però giunto cadavere: «Una morte che presenta molti aspetti poco chiari», è stato il commento dei sanitari.
    Il relitto dell'Andrea Doria, che gli esperti del settore hanno battezzato «il monte Everest dei sub», giace su un fondale a 70 metri di profondità. Già 14 ricercatori, prima di Bright, hanno perso la vita nel tentativo di raggiungerlo.
    Sommozzatore espertissimo, storico preparatissimo, esperto di relitti marini, David Bright aveva già fatto più di 120 immersioni sull'Andrea Doria e stava preparando per il 25 luglio un discorso in cui avrebbe esposto tutto quello che c'era da sapere dal punto di vista tecnico sia sull'affondamento sia su ciò che era stato scoperto grazie alle immersioni.
    La moglie Elaine, presente sul luogo dell'incidente, ha raccontato: «Non abbiamo capito cosa gli sia successo e non ha fatto in tempo a dircelo perche´ stava malissimo».
    David Bright studiava i fondali marini da ventitre´ anni, immancabilmente accompagnato dalla moglie Elaine. Ha anche fatto in passato diverse immersioni sul Titanic ed è noto nel mondo dei sub come l'esperto che negli ultimi anni compariva più spesso nei documentari sui segreti del mare.
    Proprietario di un'incredibile collezione di oggetti recuperati dalle profondità degli oceani, compresi due battelli di salvataggio dell'Andrea Doria, David Bright aveva fondato a Nantucket l'Andrea Doria Museum Project. Era anche, in quanto autorità massima sul translatlantico, fondatore e presidente del comitato che gestiva le riunioni della commissione dei sopravvissuti della tragedia.
    La carriera di David Bright come autorità massima sull'Andrea Doria, ha raccontato ieri la moglie Elaine, era stata possibile grazie ai soldi della liquidazione che aveva preso quattro anni fa dopo aver lavorato per 12 anni come scienziato nei laboratori della casa farmaceutica Pfizer.
    Per coltivare la sua passione, David Bright aveva anche collaborato per due anni con la National Oceanic and Stratosferic Administration facendo decine di immersioni sul relitto della USS Monitor, la cannoniera corazzata usata durante la guerra civile americana ed affondata il 31 dicembre 1862 al largo della Carolina del Nord.
    «Per lui ha spiegato - Elaine Bright - si trattava di una vera passione. Voleva visitare tutti i relitti più famosi e studiarli. Ciò che è successo è una tragedia per la nostra famiglia, ma sappiamo anche che stava facendo una cosa che lo rendeva felice. L'acqua e le immersioni erano il suo mondo».
    (Mariuccia Chiantaretto, il giornale 12 luglio 2006)
     
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  3. gheagabry
     
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    Relitto vecchio 200 anni trovato nel golfo del Messico

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    Un anno fa la compagnia petrolifera statunitense Shell riscontrò, grazie al sonar, la presenza di un oggetto sconosciuto a un chilometro di profondità nelle acque del golfo del Messico, a circa 300 chilometri dalla costa. Ieri sono state diffuse le foto del relitto, scattate dalla nave Okeanos Explorer durante una missione organizzata dall’Amministrazione Nazionale Oceanica e Atmosferica (NOAA) – agenzia federale statunitense che normalmente si occupa di studi climatici. La missione è durata quasi due mesi e aveva l’obiettivo di indagare su quattro relitti che si trovano nei fondali del golfo del Messico.

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    Nel caso del relitto in questione lo scafo di legno è andato quasi completamente distrutto, mentre è rimasta integra l’intelaiatura di rinforzo in rame. Il relitto contiene bottiglie, ceramiche e moschetti. Jack Irion, un archeologo marino che lavora per l’agenzia governativa che si occupa degli oceani (BOEM), dipendente dal ministero degli Interni statunitense, ha dichiarato che il materiale ritrovato nel relitto dovrebbe risalire ai primi decenni dell’Ottocento.

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    (ilpost.it - foto: AP Photo/NOAA Okeanos Explorer Program)

     
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  4. gheagabry
     
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    Il traghetto “Cariddi”.



    Pubblicato da peppecaridi su 21, settembre, 2009






    Per anni è stato il fiore all’occhiello della flotta delle “Ferrovie dello stato” in servizio nello stretto di Messina. Ha solcato migliaia di volte lo stretto portando su di se storie, speranze di chi lo utilizzava per partire, per emigrare o semplicemente per il piacere di ammirare lo stretto di Messina. Ha superato indenne la seconda guerra mondiale nonostante i bombardamenti sulla nostra città. Adesso giace, stanco, sui fondali della nostra costa, vittima dell’indifferenza di politici e amministratori che negli ultimi anni hanno più volte cercato di recuperarlo ma solo a parole, fino a quando lui, il Cariddi, nel marzo 2009 si è totalmente lasciato andare sprofondando a più di 50 metri di profondità lasciando alla nostra vista solo la parte estrema della poppa come a volerci ricordare che è esistito. Troppo costoso recuperarlo, si parla di qualche milione di euro perchè il traghetto, essendo coperto dal vincolo dei beni culturali non può essere tagliato e bisogna “sollevarlo” con attrezzature molto costose.
    Tempo Stretto ha pensato, però, di farlo rivivere nella memoria dei messinesi avvalendosi di due sub che sono scesi a più di 40 metri di profondità per fotografarne il relitto che si trova in un invasatura davanti ai “Cantieri Picciotto” nella rada San Francesco. Le immagini dimostrano come il traghetto sia sprofondato obliquamente lasciando fuori dall’acqua solo una piccola parte della poppa mentre la prua è appoggiata sul fondale. Il traghetto è, tutto sommato, conservato relativamente bene anche se l’erosione dell’acqua marina sta lentamente distruggendo ogni sua parte. Si riescono a scorgere addirittura i tavolini del bar interno alla nave e molti altri particolari interessanti.
     
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  5. gheagabry
     
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    IL PESCATORE

    L'acqua frusciava, l'acqua cresceva,
    un pescatore stava sulla riva,
    tranquillo, intento solo alla sua lenza,
    ed era tutto freddo, anche nel cuore.
    E mentre siede e ascolta,
    si apre la corrente:
    dall'acqua smossa affiora
    una donna grondante.
    A lui essa cantava, a lui parlava:
    "Perchè tu attiri con astuzia umana,
    con umana malizia, la mia specie
    su alla luce che la ucciderà?
    Ah, se sapessi come son felici
    i miei piccoli pesci là sul fondo,
    anche tu scenderesti, come sei,
    e solo là ti sentiresti sano.
    Non si ristora forse il dolce sole
    nel mare, e così anche la luna?
    Il loro volto, respirando l'onda,
    non risale più bello?
    Non ti alletta il cielo profondo,
    l'azzurro che nell'acqua trascolora?
    E il tuo volto stesso non ti chiama
    quaggiù, nell'immutabile rugiada?".
    L'acqua frusciava l'acqua cresceva,
    e a lui lambiva il piede.
    Il cuore si gonfiò di nostalgia,
    come al saluto della sua amata.
    A lui essa cantava, a lui parlava,
    e per lui fu finita:
    un pò lei lo attirava, un pò lui scese,
    e non fu più veduto.

    (WOLFGANG GOETHE)
     
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  6. gheagabry
     
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    Storie di relitti....

    Il GAIRSOPPA





    Settantuno anni fa il mercantile britannico SS Gairsoppa affondò nelle acque ghiacciate a 4700 metri di profondità a sud ovest dell’Irlanda, dopo esser stato silurato da un U-boat tedesco.

    La Gairsoppa era una nave mercantile varata nel 1919 dalla British India Steam Navigation Co Ltd, e fu in servizio per tutta la seconda guerra mondiale. Il mercantile britannico lasciò il porto di Calcutta nel dicembre del 1940 con un carico di tutto rispetto. Oltre alle solite spezie e ad altri materiali dal valore medio basso, la Gairsoppa aveva all’interno della propria stiva 219 tonnellate d’argento.



    Proprio per questo motivo la nave si unì ad un convoglio a Freetown in Sierra Leone e si garantì così una protezione lungo il viaggio verso Liverpool.
    Durante il tragitto, però, qualcosa che nessuno avrebbe mai potuto prevedere cambiò le sorti di questo mercantile e del suo carico. Un violento temporale colpì le navi in viaggio quando si trovavano nelle acque a sud dell’Irlanda e le manovre condotte durante questo momento di crisi da parte della Gairsoppa la fecero rimanere a secco di carburante.
    Fu così costretta a staccarsi dal convoglio e cambiare rotta per navigare verso un porto più vicino. Mentre, infatti, la nave si dirigeva verso il porto Irlandese di Galway e ormai rimasta sola in mezzo al mare, divenne facile preda di uno dei micidiali U-boat tedeschi che la colpì in pieno con un siluro. La nave affondò nel giro di 20 minuti e con essa il suo prezioso carico e tutto l’equipaggio, fuorché un unico fortunato superstite.




    ........

    Il MANTOLA





    L'SS Mantola era un piroscafo lungo 450 piedi, salpato da Londra il 4 Febbraio 1917 avente come meta finale il porto di Calcutta. Oltre ai membri dell’equipaggio, su di esso viaggiavano passeggeri e merci destinati all’India ma non solo: la Mantola aveva nelle proprie stive un carico davvero prestigioso che era composto da circa 600.000 once d’argento.
    Dopo appena quattro giorni di navigazione, l’8 Febbraio, la nave venne colpita da un sottomarino tedesco che la fece affondare con tutto il suo carico di vite umane e dei preziosi bauli contenenti l’argento.
    Il prezioso minerale che ormai riposa in fondo al mare da quasi 100 anni, e che oggi varrebbe più di 14 milioni di euro, è stato recentemente ritrovato dalla Odyssey Marine Exploration.




    dal web
     
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  7. gheagabry
     
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    ...io, miraggio sperduto alle dune,
    ripiego nel cuore il quoto che ancora mi tocca
    nel computo divino ho schernito
    le miridadi di pose, i gesti di altri percossi dal vento;
    mi ripiego e stordito rimiro le marine ora secche,
    rive cosparse di antichi relitti...
    (dal web)


    Storie di relitti....

    ...l' ANCONA


    Il relitto della nave italiana Ancona, affondata a tradimento nel 1915, custodisce il suo prezioso carico.
    Lo scenario in cui si svolge la vicenda dell’Ancona è la prima guerra mondiale. L’Italia entra nel conflitto con l’impero austro-ungarico il 23 maggio 1915. Con i tedeschi la guerra inizierà il 27 agosto 1916, quattordici mesi dopo. Il piroscafo Ancona lasciò Napoli alle 11,45, sabato 6 novembre 1915, diretto a Messina dove imbarcò altri 130 passeggeri per un totale di 446 nelle varie classi oltre ai 163 uomini di equipaggio al comando del capitano Massardo, un cinquantenne stimato ed esperto. Dopo l’imbarco di passeggeri e mercanzie, reso lento dalla situazione disastrosa del porto dopo il terremoto del 1908, il piroscafo diresse la prua verso il largo a luci spente. Ai passeggeri di prima classe erano state consegnate candele che venivano accese solo dagli inservienti.
    Il 7 mattina l’Ancona corresse la rotta al traverso di Trapani per dirigersi verso Gibilterra. Il tempo era discreto: nubi basse sopra un mare calmo. Una densa foschia circondava il piroscafo che proseguiva a 16 nodi. Alle 12.00 quando la campanella raccolse gli ospiti di prima classe nel salone del ponte superiore per il pranzo il tempo era leggermente schiarito. Le signore raccolte attorno al tavolo - i passeggeri di prima classe erano poco più di una dozzina - si lamentarono con il comandante perché la luce delle candele non era sufficiente. Il capitano Massardo, per non propagare allarmismi, spiegò che era una precauzione ma che in quella zona non avrebbero incontrato navi nemiche o un sommergibile austro ungarico. In quel particolare viaggio aveva un carico delicato di cui erano a conoscenza solo il commissario Muzio e il Cavalier Spiaccacchi accompagnatore ufficiale dei preziosi «bauli». Massardo non fece in tempo a terminare il pranzo. La rigida etichetta, oltremodo rispettata a bordo, fu interrotta dall’entrata di un marinaio che riferì un messaggio all’orecchio del comandante, che si alzò, afferrò il berretto e corse via.
    La nave si scosse dal suo torpore. I motori ruggirono, denso fumo proruppe dai fumaioli, la prua si inclinò in avanti. Una secca accostata produsse uno sbandamento avvertito dai passeggeri di prima classe che uscirono sulla balconata.

    Nei cameroni di terza classe nessuno si accorse di alcunché. La manovra non fu sufficiente. L’aria fu rotta dal rumore di un frullo, poi da un’esplosione. Il colpo di cannone era partito da un enorme sommergibile nero che si stagliava contro il fondale latteo dell’orizzonte. Colpì la fiancata. Poi un secondo tolse di mezzo le antenne radio, il terzo ne fracassò la cabina. Massardo mise in panne la sua nave. Non fu sufficiente: un quarto proiettile, forse un siluro, colpì a poppa sfondando timone e eliche. Il panico aggredì i poveracci della terza classe che come una fiumana inarrestabile uscirono dai boccaporti e si gettarono sul ponte superiore senza indossare le giubbe di salvataggio aggrappandosi disperati alle scialuppe che l’equipaggio stava cercando di calare. L’eccessivo peso degli occupanti, le manovre errate, la paura, il panico, fecero il resto. Alcune si fracassarono appese ai ganci, altre si sfasciarono. I passeggeri morivano annegati uno dopo l’altro mentre il sommergibile continuava ad avanzare e cannoneggiare.

    Sulla superficie grigia del mare un solco bianco fece la sua comparsa. Senza preavviso, senza rispettare gli accordi internazionali l’U-boot aveva lanciato la sua terribile arma. Squarciò una fiancata con un botto tremendo. Urla, grida, ovunque. Massardo ordinò l’abbandono della nave. Chi poteva ancora muoversi doveva lanciarsi in mare. La nave fortemente sbandata, tra poco si sarebbe cappottata. Le rimanenti scialuppe furono calate. Il secondo ufficiale Carlo Lamberti, pistola in pugno, a bordo di una di queste trasse in salvo alcuni passeggeri tra cui una donna, un medico della Croce Rossa, che si era lanciata direttamente nella scialuppa. Sarà la testimone che accuserà con precisione il comandante del sommergibile del misfatto compiuto. Al contrario Massardo alla stampa italiana rilascerà il suo racconto decurtato - forse dalla censura - di alcuni preziosi particolari.
    Ci vollero altri due siluri per far affondare l’Ancona. Alcune scialuppe si allontanarono verso ovest, altre tra cui quella del comandante si diressero ad est sospinte dalla corrente. Prima di saltare per aria il radiotelegrafista aveva inviato una richiesta di soccorso. Da Biserta, in ascolto, i francesi raccolto l’Sos avevano inviato il Pluton che a notte fonda raccolse molti naufraghi. Altri giunsero a remi sulla costa dell’isola di Zembra. Di altri non si seppe più nulla. Giorni dopo una scialuppa con tredici naufraghi fu rinvenuta a Marettimo dove, senza nome, questi sventurati furono sepolti dal prete del paese: ancora oggi una targa li ricorda.

    ....Le reazioni....


    La notizia del siluramento trasmessa dalla Reuter si propagò sui giornali di mezzo mondo, tranne che su quelli nazionali. Il New York Times chiese al proprio Governo se su quella nave non vi fossero cittadini americani. La situazione si fa presto critica. La Casa Bianca chiese spiegazioni agli austro ungarici i quali dichiararono di non avere sommergibili in Mediterraneo. La pressione sul caso salì rapidamente. Gli elenchi dei sopravvissuti faticavano ad arrivare. Per giorni restarono incerti. Le nostre autorità, si comprende, in qualche modo avevano qualcosa da nascondere. La pubblica opinione americana premeva. I giornali, travolti da richieste di parenti preoccupati per i congiunti. Il presidente americano Wilson arrivò a dare ordine agli ambasciatori e ai consoli nei paesi mediterranei di spendere qualunque iniziativa pur di avere testimoni americani.
    I naufraghi furono riportati a Napoli, sede della commissione d’indagine. Il motivo di tutto stava in ciò che c’era a bordo, delicato non solo per il suo valore ma per le conseguenze politiche. Il Cavalier Spiaccacchi del Ministero dell’Agricoltura, deceduto nell’incidente, era in missione per conto del suo Ministero diretto a San Francisco a saldare la presenza italiana all’Expo con quattro milioni di lire in contanti. La pubblica opinione americana lesse la descrizione dell’aggressione del sommergibile dalla testimonianza della dottoressa Greil. La dottoressa menzionava il cambio di bandiera - da tedesca (l’Italia non era ancora in guerra con la Germania) ad austro-ungarica - la ferocia delle cannonate con passeggeri ancora a bordo, l’inseguimento delle scialuppe per non lasciare tracce. Il caso, dopo un lungo strascico diplomatico tra Washington e Berlino, mentre il nostro Governo taceva, terminò con l’entrata in guerra degli americani e la dichiarazione italiana verso i tedeschi. Dopo lunghe ricerche storiche si comprende che l’Italia non avrebbe potuto annunciare la perdita dei bauli, né l’America poteva fare altrettanto, perché coinvolta. Sarebbe emerso che da tempo l’Italia «importava» di nascosto materiale bellico - contrabbando di guerra - e chi forniva la merce erano gli americani. Sarebbe stato un atto irresponsabile dichiarare che quel pagamento in oro, andato a fondo, non era per le spese fieristiche ma per la fornitura di muli e biada. In barba alle leggi sottoscritte fra i paesi belligeranti e i neutrali.

    Che l’Ancona fosse uno dei maggiori relitti tesorieri del Mediterraneo lo si sapeva. In pochi erano a conoscenza di quanto vi fosse nelle sue stive. Informazioni riservate e costose, disponibili solo ai cacciatori di tesori.
    Il relitto dell’Ancona fu ritrovato nel 1985, dalla Comex di Marsiglia. L’anno dopo la medesima compagnia effettuò un sondaggio usando uno dei primi sommergibili da ricognizione e scoprì che il relitto era ancora in buone condizioni, integro, alla profondità di 471 metri. Una ditta specializzata inglese nel 1990 effettuò il primo tentativo di recupero. Con l’uso di una campana d’alta profondità, i sommozzatori si calarono sul fianco della nave, ritagliando un’apertura all’altezza dell’ufficio del commissario per potervi penetrare. Operazione riuscita, ma nel comparto non fu trovato nulla. Nel 1995 un’azienda scozzese, partendo da Ravenna, riprovò a ripescare i dodici barrels. Usando una benna che fora, taglia e preleva. Nonostante lo sfondamento di vari ponti, il tentativo fallisce.
    In anni recenti tornò all’attacco una compagnia inglese, ben nota per altre operazioni illecite in Mediterraneo. Con esplosivo per aprirsi una via di accesso. Si sa solo che l’operazione distrusse ancora di più il relitto.
    (.velaemotore.it)


    Quasi un secolo dopo il disastro, nel maggio 2007, la Odyssey Marine Exploration, azienda leader nel settore di ritrovamento e recupero dei tesori sommersi, ha fatto richiesta allo stato italiano per poter recuperare il relitto dell’Ancona e con esso il suo tesoro. La nave — è stato poi scoperto — trasportava una tonnellata d’oro; oro che oggi potrebbe valere più di 48 milioni di euro. Dopo un contenzioso legale con il governo italiano durato tre anni, un tribunale statunitense ha congelato il caso: non si è pronunciato sulla titolarità del relitto ma ha deciso che la Odyssey, se vorrà tentare il recupero, dovrà avvisare le autorità italiane con almeno 45 giorni d’anticipo.
    Dunque la nave dal misterioso carico continua a rimanere lì, immobile e silenziosa, nell’attesa che qualcuno riesca finalmente a ridonare alla luce il suo prezioso e appetibile bottino.


    ...le 12 casse d'oro...



    A cosa servivano? Il Governo italiano dice che si trattava di regolari «pagamenti tra banche». Due giornalisti d’inchiesta, Enrico Cappelletti e Vito Tartamella, hanno recentemente sostenuto invece che quei soldi servivano ad altro. E, precisamente, a pagare agli americani armi, cavalli e biada. Siamo nel 1915. E l’Italia — pur essendo alleata di Austria e Germania — avvia trattative segrete con Inghilterra e Francia per rientrate in possesso di Istria e Trentino. Quelle armi, dunque, servono per prepararsi al conflitto. E infatti, il 23 maggio 1915, l’Italia dichiarerà guerra all’Austria. Quasi un secolo dopo, la posizione ufficiale del Governo è che quei soldi sarebbero serviti ai pagamenti per la partecipazione dell’Italia all’Expo del 1915 a San Francisco. Qualunque sia il motivo della loro presenza su quel piroscafo, quelle dodici casse d’oro — che oggi valgono 50 milioni di euro — giacciono in fondo al mare. E restano lì in pace fino al 1985, quando la Comex , società con sede a Marsiglia, scopre il relitto dell’Ancona. Lo trovano nella maniera più banale possibile, e cioè consultando il libro di bordo del comandante Max Valentiner, che riporta le coordinate dell’affondamento. Il piroscafo è a 471 metri di profondità, in acque internazionali, tra la Sardegna, la Sicilia e la Tunisia: circa 90 miglia marine a ovest di Marettimo e 60 miglia a nordest di Bizerta.
     
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  8. gheagabry
     
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    I velieri a Brest

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    Brest è un piccolo porto sull’Oceano nella regione della Bretagna, sulla costa occidentale della Francia. È sede della principale base navale militare francese e di un famoso festival al quale ogni quattro anni partecipano oltre 2.500 barche di tutte le tipologie: da pesca, militari, grandi velieri, barche tradizionali, d’epoca e navi moderne provenienti da ogni parte del mondo.

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    Il “Tonnerres de Brest” si è svolto per la prima volta nel 1992 e ha festeggiato quest’anno il ventesimo anniversario. Ogni edizione prevede una serie di paesi ospiti che per il 2012 sono stati Messico, Indonesia, Marocco, Russia e Norvegia. Oltre al raduno di barche tradizionali, durante il festival si svolgono spettacoli e incontri sulla ricerca scientifica, il trasporto e l’industria marittima.

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    La parola “tonnerres” significa “tuono” e vuole ricordare il colpo dei cannoni che annunciavano ogni giorno l’apertura e la chiusura dell’armeria del castello di Brest. L’espressione è poi diventata famosa (“Tuoni e fulmini di Brest!”) grazie al Capitano Haddock, un personaggio della serie a fumetti Le avventure di Tintin, del fumettista belga Hergé(ilpost)


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  9. gheagabry
     
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    La nebbia entrava a bocconate golose nell'intirizzito pontile della Ca' d'Oro, dove attendevo da tempo lo spuntare d'un vaporetto per la Stazione.
    Avvoltolato in lane sovrabbondanti, come si conveniva in quel novembre già rigido, un piccolo dal passeggino guardava assorto tra i banchi di nebbia transitare le gondole del traghetto di Santa Sofia, mentre una barca a motore portava il suo carico al mercato di Rialto, spandendo intorno generose zaffate di carburante.
    Accanto al pontile un cacciapesca dal fondo piatto, ingombro di reti e cordami, rilasciava effluvi salmastri che parlavano di laguna aperta e barene.
    Il bimbo allungò il collo tra le sciarpe e, rivolto il faccino alla ragazza che lo accompagnava (troppo giovane per essere la mamma, troppo grande per essere la sorella), esclamò: "che profumo di barche".
    Intorno qualcuno sorrise compiaciuto.
    Io sentii una specie di brivido e pensai: "ragazzo mio, tu sei un poeta. Non sarà facile per te".



    (Dino Tonon)
     
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  10. gheagabry
     
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    "Il primo millennio ha visto le navi nascere ed affogare sott’acqua.
    Il secondo millennio le ha viste bruciare".


    Le NAVI di CALIGOLA


    Che strano destino quello delle due navi romane: per poco tempo hanno galleggiato sul lago di Nemi. Per due millenni hanno dormito in fondo al lago e, se vi fossero rimaste ancora per qualche anno, non sarebbero state divorate dalle fiamme.
    Nessun autore dell’antica Roma ne ha mai parlato. Se ne conosceva (anzi se ne supponeva) l’esistenza solo perché i pescatori, già dal Medioevo, di tanto in tanto, oltre ai pesci, portavano alla superficie numerosi reperti archeologici che provavano come qualcosa d’antico e di bello giacesse in fondo al lago. Ma di che cosa si trattasse esattamente nessuno lo sapeva; così la fantasia poteva correre a briglia sciolta; e si cominciò a pensare, a sperare in tesori nascosti, mentre ogni volta che le reti strappavano dal fondo qualche cosa era la prova che… qualcosa vi fosse.
    Passarono i secoli e di tanto in tanto qualcuno provava a carpire, alle acque, il loro segreto; ma i tentativi erano volti solo ad assicurarsi cimeli e a strappare quelle opere d’arte che potevano impigliarsi nelle reti, senza quindi quello spirito di ricerca scientifica che deve caratterizzare una campagna di recupero archeologico.
    Peraltro va detto che nei secoli passati non esisteva quello spirito, ma solo l’iniziativa dei singoli che, nella più completa libertà d’azione e senza nessun controllo da parte dello Stato, potevano prelevare (ma sarebbe meglio dire saccheggiare) tutto ciò che apparteneva al passato. Questo, che a noi moderni sembra assurdo, è accaduto non solo in tutto il Medioevo, ma in tempi quasi contemporanei. Basti pensare che i Papi, molte volte, smantellavano meravigliose opere dell’antica Roma per farne mattoni.
    Ad onor del vero, va anche detto che non c’erano, allora, i mezzi tecnici per raggiungere quelle imbarcazioni che riposavano sul fondo del lago. Qualche raro tentativo si fece, anche se non si aveva la certezza di cosa vi fosse esattamente nelle profondità delle acque, mentre i racconti delle genti che vivevano intorno a quello specchio d’acqua continuavano a mantener vivo l’interesse sui segreti custoditi dal lago.
    E venne il tempo in cui alcuni spiriti colti e amanti dell’arte ascoltarono con interesse quei racconti, esaminarono con attenzione gli oggetti che tornavano alla luce del sole dopo tanti secoli d’oblio e si adoperarono a restituire a tale luce quelli che ne erano privi. Dei tentativi di recupero che furono fatti nei secoli da eminenti personaggi fino a quello definitivo, raggiunto con mezzi d’avanguardia, e seguito purtroppo, a brevissimo tempo, dalla loro distruzione. Esaminando quei ritrovati tecnici connessi all’arte nautica che, conosciuti dai romani, dimenticati per tutto il Medioevo, riscoperti ai nostri tempi e usati con orgoglio dalle marine moderne, ci si avvede come già facessero parte del bagaglio culturale e tecnico di Roma....le moderne àncore di duemila anni fa; le piattaforme rotanti su cuscinetti a sfere conosciute e usate, poi dimenticate e… riscoperte; la tecnica nella costruzione dello scafo, il suo calafataggio ottenuto usando speciali materiali tipici delle navi marine e adoperati per le navi lacustri che hanno esigenze diverse....i diversi tipi di chiodi e la particolare tecnica del loro uso marinaro.
    Solo quando iniziarono precise ricerche, a partire dal XV secolo, si capì che si trattava di imbarcazioni. Due navi antichissime cominciarono allora lentamente ad avvicinarsi, ancora avvolte nelle nebbie dei secoli...Se ne scorgevano appena i contorni che grondavano d’acqua e di storia. I ponti, deserti, erano affollati di fantasmi.
    Si sono fatte mille ipotesi su chi potesse essere il personaggio, certamente ricco e potente, che ne ordinò la costruzione. Si fecero vari nomi, ma la certezza si raggiunse solo quando, fra i numerosi reperti che si trassero dalle acque, comparvero le così dette fistulae acquariae. Sono esse delle grosse tubazioni in piombo che facevano parte di un impianto idraulico alla portata delle possibilità economiche di persone particolarmente ricche e potenti. Portavano l’acqua corrente sino all’interno dei loro palazzi. Convogliandola, poi, in altre fistule plumbee, veniva utilizzata come acqua potabile e per alimentare le fontane che abbellivano le case dei romani doviziosi. Questi tubi erano ricavati da lastre rettangolari di piombo saldato longitudinalmente e si era soliti stampigliare su di essi il nome del proprietario, spesso il nome del "liberto idraulico" e a volte il numero progressivo. Fu così che si risalì all’identità di chi le volle: l’imperatore Caligola.... le fistule plumbee che assicuravano il rifornimento idrico, partendo dalle rive del lago e arrivando fino alle navi. Caligola non desiderò due navi qualsiasi, ma con una particolarità peculiare: dovevano essere portatrici di costruzioni di tipo terrestre, con terme e templi coperti da tegole in terracotta oppure in bronzo ricoperte da una patina d’oro. E poi colonne di varia grandezza e foggia, pavimenti in mosaico, statue e altre opere in bronzo finemente lavorato, e ancora statue, protomi leonine, ghiere per i timoni e tante, tante cose ancora…


    V’era una consuetudine nel mondo antico romano: la damnatio memoriae, cioè la distruzione di ciò che una persona, particolarmente odiata, aveva fatto in vita. Essa faceva parte delle pene che colpivano la maiestas e prevedeva che il praenomen del condannato non si tramandasse in seno alla sua famiglia, che le sue immagini venissero distrutte e il suo nome cancellato dalle iscrizioni. Anche Nerone e Didio Giuliano vennero chiamati hostes, cioè nemici, e condannati dal Senato. In altri casi, invece, i senatori votarono una damnatio memoriae postuma che comprendeva anche la rescissio actorum. Roma, grande e terribile: come le sue leggi! Esse sapevano trasformare un nemico vinto in uno schiavo; uno schiavo, se uomo di valore, in liberto; un liberto, se uomo di cultura, in precettore; un generale, se valoroso, in imperatore, come accadde a Diocleziano, che era addirittura figlio di un liberto. L’Urbe sapeva, quindi, innalzare alle supreme vette dello Stato un cittadino fino a farne un dio, se meritevole, ma sapeva anche precipitarlo nell’abisso del nulla. Nel caso della damnatio memoriae le leggi di Roma tendevano a cancellare addirittura lo stesso nome e financo il ricordo d’un cattivo cittadino. E se esse lo colpivano quando era ancora vivo, venivano a creare, dal punto di vista giuridico, una sorta di morte civile. Era quello che il Romano antico temeva di più d’ogni cosa: non fare più parte dell’Urbe, pur essendo ancora vivo. Non poter più dire: "Noli me tangere, civis romanus sum" e incutere, con queste parole, un immenso rispetto e timore intorno a sé. Era come la morte; era più della morte.

    Le due navi di Nemi erano state volute da Caligola, e quando questi fu ucciso, nell’anno 41, furono affondate con tutto quello che contenevano. Il lago inghiottì un’opera unica e lussuosa che giacque per due millenni sul fondo. Nessuno mai ne scrisse una parola, e su di esse scese l’oblio. Solo qualche pescatore, di tanto in tanto, traendo dalle acque le reti, strappava dall’abisso e riportava alla luce qualcosa che sembrava appartenere a un altro mondo lontano. Ne nacque una leggenda.
    Il primo tentativo lo dobbiamo al cardinale Prospero Colonna nell’anno 1446. Questo prelato, signore delle terre di Nemi e del lago, uomo di vasta erudizione e, come tutti gli studiosi del tempo, entusiasta di quanto poteva riferirsi alle glorie di Roma antica, avuta cognizione delle voci dell’esistenza delle navi, volle tentare di riportarle a galla. Nonostante non si fosse ancora in possesso di mezzi tecnici idonei al recupero di navi affondate, affidò il difficile compito a Leon Battista Alberti. Questi non solo aveva giusta fama come umanista e letterato, ma era anche considerato fra i più esperti ingegneri idraulici del suo tempo.
    I marangoni, andando sotto senza maschera, naturalmente in apnea, vedendo poco e niente né lateralmente, né soprattutto al di sotto, si avvicinavano ad una "cosa" ancora non conosciuta, misteriosa e forse ostile, piena di storia e di antiche leggende… dovevano avere certo un bel coraggio. Essi raggiunsero e, per quanto fu loro possibile, esplorarono la nave più vicina alla riva che era adagiata sul fondo del lago e ne riferirono la distanza e la profondità. Si costruì una piattaforma galleggiante e con delle corde munite di ganci, si tentò di tirare la nave a riva. Si riuscì invece solo a strappare un pezzo dell’imbarcazione, e insomma il risultato fu semplicemente disastroso: non solo la nave nel suo insieme non si mosse ma, privata di una parte importante della sua struttura, fu seriamente danneggiata. Tuttavia molti personaggi della Corte di Roma che seguivano i lavori dalla riva del lago si affollarono ad ammirare quel frammento dell’antica Roma che tornava alla luce del sole. Poi fu portato trionfalmente nell’Urbe perché fosse ammirato da Nicolò V°, valoroso promotore del Rinascimento umanistico. Passati alcuni anni, però, non si ebbe più notizia di che fine avesse fatto il reperto; tuttavia questo episodio ebbe il merito di accendere il fuoco del desiderio di ricerca e di studio.
    Il secondo tentativo, non meno rovinoso del precedente, lo dobbiamo a Francesco De Marchi nel 1535. È passato quasi un secolo. Il tentativo è documentato da un resoconto sulla nave più tecnicamente preciso. Il De Marchi, che era allo speciale servizio di Alessandro de’ Medici, Duca di Toscana. Contrariamente a chi lo aveva preceduto non delega ad altri l’esplorazione del lago, ma si immerge personalmente varie volte avvalendosi di una specie di "campana" inventata da Guglielmo di Lorena, che partecipa anch’egli alle immersioni. Come si vede non è passato del tutto un secolo e già c’è un notevole progresso… di mezzi tecnici subacquei: dalle braccia dei nuotatori ad una campana per l’esplorazione sott’acqua. De Marchi stesso ce lo descrive in un suo scritto.
    L’istrumento era fatto di legno ed aveva la forma di una campana le cui parti erano tenute l’una stretta all’altra per mezzo di alcuni cerchi di ferro. Avevano un tondo di vetro sul davanti per vedere di fuori, mentre l’esploratore poteva entrarvi fino alla metà del corpo avendo braccia e gambe libere. L’aria poteva entrare nella campana e probabilmente poteva uscirne, ma per mezzo di un altro tubo. In ogni caso l’esatta tecnica del ricambio dell’aria non si conosce, anzi, Guglielmo di Lorena fece giurare al De Marchi che mai avrebbe descritto quale fosse il marchingegno che permetteva tale ricambio. Entrambi mantennero il segreto e nulla si sa di più sull’argomento. Dell’impenetrabile Mastro Guglielmo, il De Marchi ci ha lasciato questo curioso ritratto: "Era homo di grandissima barba e folta e li passava la cintura mezzo palmo e se ne faceva le trezze intorno al capo, ma era homo di grande ingegno". Il resoconto dell’allora trentunenne esploratore prosegue, e ci narra che il giorno 15 luglio 1535 si immerse nelle acque del lago. La luce, data la profondità, era scarsa e la visibilità non era molta a causa della poca trasparenza delle acque. Si era denudato dalla cintola in giù poiché temeva che i panni si sarebbero potuti impigliare in qualche roccia rendendogli difficile, o addirittura impossibile, il ritorno in superficie. Attraverso quel vetro, tutto ciò che vedeva gli sembrava molto più grande, anche i pesci latterini, che invece sono molto piccoli. Ebbe, forse, quel tuffo al cuore che prende tutti i subacquei moderni alla prima immersione: i pesci appaiono grandissimi… molto più di quanto lo siano fuori dall’acqua.....Cominciò ad osservare la nave più vicina alla riva, che era anche quella che giaceva a minor profondità. Si spostava lentamente sott’acqua camminando sullo scafo, e poté vedere che era molto grande. La lunghezza secondo la sua valutazione era di sessantaquattro metri e la larghezza di venti. Una nave molto grande, sia per i tempi che per il sito dove si trovava. Il legno, protetto dal fango, era ben conservato anche se aveva quasi duemila anni. Era coperta parzialmente dalla melma del lago, si intravedeva la ruota e parte della poppa, si intravedevano gli scalmi; molti erano i danni provocati dai tentativi di recupero precedenti.
    Dai primi due tentativi di recupero delle navi passarono quasi tre secoli prima che qualcun altro ne tentasse un terzo. Questa fu documentata anche dalla cronaca di Padre Casimiro che ne parla nelle sue "Memorie sui conventi francescani" nella seconda metà del Settecento..."Nel mezzo del lago l’Imperatore Tiberio edificò un palazzo, cui servivano di fondamento due navi gettate nel fondo dell’acqua, non altrimenti di quello che facessero nel secolo XV° il Conte Borso di Ferrara sul Po, Ludovico di Mantova sul Mincio ed i Principi Elettori sul Reno, come narra Pio II° (Silvio Enea Piccolomini) nei suoi Commentarii"...... Finalmente, nel settembre 1827, si tenta per la terza volta l’impresa del recupero delle navi. Il nobile cavaliere Annesio Fusconi, dopo aver studiato i tentativi dei suoi precursori, pensa di servirsi della "campana di Halley...il giorno dieci settembre dell’anno 1827 si diede inizio al tentativo di recupero della nave che era più vicina alla riva: fu immersa la campana con dentro gli otto marangoni che però, una volta sul fondo, non poterono asportare grandi quantitativi di materiale. Allora furono legate alcune gomene agli argani e, nella speranza di poter strappare al lago tutta o almeno parte della nave, si avvolsero delle cime allo scafo di quella. A forza di braccia si misero in tiro gli argani, ma ancora una volta le corde si ruppero e l’impresa fu rimandata anche a causa di un gran temporale sopraggiunto. Evidentemente Giove Pluvio, piuttosto preoccupato, era intervenuto da par suo.
    Tuttavia era stato portato sulla zattera abbastanza materiale del quale il Cavalier Fusconi compilò, nelle sue Memorie, un preciso elenco: "due tondi di pavimento uno di porfido orientale e l’altro di serpentino, pezzi di marmo di varie qualità, smalti, mosaici, frammenti di colonne metalliche, laterizi, chiodi, tubi di terracotta ed infine travi e tavole di legno". Tali travi e tavole furono, ma solo in parte, utilizzati per ricavarne bastoni, canne da fumare (cioè bocchini da sigaro) ed ancora tabacchiere, segretini, cassettine da viaggio, libretti, ricordini ecc.....
    Quarto tentativo.. Racconta Carlo Montani presente al ritrovamento, "usciva dalle acque azzurre del lago, tra le braccia del palombaro che l’aveva divelta dallo scafo affondato. La bella testa di bronzo, grondande acqua, pareva spargere lacrime di dolore per la sua pace di secoli inopinatamente turbata". Per quanto riguarda le strutture navali, lo stesso Borghi scrive: "insieme con tutti gli oggetti preziosi di sopra menzionati, fu estratta dal lago una quantità grandiosa di legname, in gran parte costituita di bellissime travi, in ottimo stato di conservazione. Era quello un materiale che, quanto a valore storico, presentava un interesse forse maggiore dei singoli oggetti d’arte riportati alla luce. Erano più di 400 metri di travi, che sarebbero servite come parti principali nella eventuale ricostruzione di quei monumenti e che, almeno, avrebbero rappresentato le linee fondamentali per la ricostruzione ideale di essi. Ma quelle travi —prosegue il Borghi— quei preziosi avanzi che il fato aveva voluto nei secoli conservare e poi rendere alla luce, furono lasciati a marcire sotto la pioggia ed a polverizzarsi sotto i dardi cocenti del sole, onde non resta neppure il diritto di attribuire ai barbari atti degli abitanti del luogo se, dopo i guasti delle intemperie, misero mani anch’essi sugli avanzi di quelle grandi memorie per farne legna da fuoco." Per fortuna la maggior parte del prezioso materiale recuperato dal Borghi fu acquistato dal governo per il Museo Nazionale Romano. Tuttavia il Montani afferma che non poco materiale, giudicato meno importante, andò perduto nelle mani di collezionisti privati, mentre qualche cimelio di grande importanza, come la testa di Elios, che pare trovasse posto a prua della nave, dopo qualche tempo che il Borghi la custodiva nel retrobottega del suo negozio di antiquario, andò persa e non si seppe mai che fine avesse fatto.

    Era il 1895. Lo Stato Italiano intervenne per raggiungere un obiettivo che oggi sembra ovvio ma che allora era una novità: la salvaguardia, il recupero e la conservazione dei reperti antichi. Tuttavia i tempi non erano ancora maturi: il grande pubblico non era coinvolto dal punto di vista culturale e, salvo pochi spiriti eletti interessati al lato scientifico, quei pochi che la seguivano erano sollecitati solo dalle storie più o meno fantastiche di ricchi tesori. Inoltre c’è anche da considerare che l’Italia era unita da pochi anni, i problemi erano enormi, le soluzioni lontane e la vita dura; ed il popolo minuto, vuoi perché assorbito dalla cura di sopravvivere, vuoi per scarsa cultura, era comprensibilmente piuttosto lontano dall’interessarsi fattivamente delle Navi di Nemi. Nonostante questo vi furono campagne di stampa e scritti sull’argomento che tentavano di trascinare l’adesione della gente a prendere parte al problema del recupero di quelle navi, ma…..non lo si sentiva ancora come un problema comune. Si parlò addirittura di "regge natanti imperiali ricolme di ogni preziosità" e, mentre si favoleggiava di scenografiche visioni, il pubblico, il grande pubblico, si allontanava sempre più dalla vera essenza della questione. Vi furono alcune proposte di recupero da parte di vari personaggi; alcune erano studi seri e fattibili, molte altre solo fantasticherie dalla realizzazione impossibile. Passarono così molti anni che videro il fiorire di scritti ed opuscoli che descrivevano quelle imbarcazioni con molta fantasia riaccendendo le leggende del lago di particolari fantastici e romantici. Vi furono delle ricostruzioni così dette "ideali" di quei natanti e si aggiunsero e crearono particolari che erano di pura fantasia. Finalmente nell’anno 1926 si torna a trattare del recupero, il completo recupero fu effettuato da ingegneri del Genio Civile e della Marina, e di archeologi: il lago fu prosciugato con potenti elettropompe, i due scafi furono tirati in secco, e nel 1935 fu inaugurato un museo sulla riva, che li ospitasse insieme con gli oggetti pertinenti. Purtroppo, i rarissimi cimeli, documenti unici al mondo dell'insospettata perfezione tecnica navale romana, furono distrutti dagli eventi bellici il 31 maggio del 1944, per un incendio doloso le cui cause sono ancora oggi controverse.
    Ciò nonostante, il Museo delle Navi Romane è ancora di estremo interesse per i numerosi pezzi archeologici che conserva. Delle navi sono esposti due fedeli modelli in scala 1:5 e molti elementi salvati dall'incendio: tra questi, i notissimi bronzi di rivestimento delle travi, con teste di leone, di lupo, di pantera, di medusa e con mani apotropaiche che dovevano tenere lontani gli spiriti maligni; molte ermette bifronti, una transenna bronzea, terrecotte ornamentali, un'ancora di ferro a ceppo mobile che porta inciso il peso (pari a 417 kg), un grande rubinetto di bronzo, pompe, piattaforme girevoli, ruote dentate, un timone, ecc. Il museo comprende anche una sezione documentaria sulla tecnica navale romana e sulle organizzazioni marinare.
    (comunedinemi.it)
     
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    L' H. L. Hunley

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    Randall Hill, Reuters

    Per la prima volta dalla guerra civile americana, il vascello confederato H. L. Hunley - il primo sottomarino al mondo ad aver affondato una nave nemica - è stato mostrato dopo 11 anni di restauri in South Carolina.
    L'Hunley affondò la U.S.S. Housatonic al largo di Charleston nel 1864. Dopo pochi minuti anche il sottomarino affondò, per cause ancora misteriose. Morirono tutti gli otto uomini dell'equipaggio.

    Il viaggio dello Hunley cominciò nel luglio 1863 quando fu costruito a Mobile, in Alabama e chiamato come uno dei suoi progettisti, Horace Lawson Hunley. Trasportata a Charleston via ferrovia, la rivoluzionaria arma da guerra doveva servire a spezzare il blocco navale che l'Unione aveva imposto allo strategico porto confederato.

    Il relitto fu scoperto nel 1995. Cinque anni dopo, il sottomarino fu riportato in superficie usando una speciale impalcatura d'acciaio che è stata rimossa solo da poche settimane.
    Nessuno aveva mai visto l'Hunley per intero ha detto l'ingegnere John King, fino a quando il relitto è stato esposto al Warren Lasch Conservation Center della Clemson University, a North Charleston.


    Quella notte l'Hunley affondò la nave secessionista Housatonic, avvicinandola e collocando sul suo fianco, attraverso una torpedine, un barile di polvere da sparo da 60 Kg Non esistevano siluri all'epoca. Al suo apice era collocato il barile esplosivo, collegato ad una corda, sufficientemente lunga da permettere l'allontanamento, che permetteva di agire sull'innesco. L'Hunley per far tutto questo emerse e quindi, fu visto dall'equipaggio della nave nemica. Insieme alla Housatonic affondò anche l'Hunley.

    Tra le varie ipotesi vagliate, i marinai operavano in un ambiente stretto e claustrofobico, si pensa, che durante l'allontanamento, l'intero equipaggio fosse stato avvelenato dall'aria resa irrespirabile, a causa del grande sforzo compiuto, satura di anidride carbonica.

    Tra gli effetti personali dell'equipaggio, accanto a scarpe, pipe, cerini, candele e bottoni, fu trovato un orologio d'oro appartenente al comandante Dixon, fermo alle ore 08.23 .... L'affondamento della Housatonic avvenne alle 08.45 e l'Hunley affondò circa alla stessa ora.
    Sotto i resti del corpo del tenente Dixon, a prua, è stato trovato un frammento di ghisa, proveniente da un oblò distrutto nella torretta. Forse la causa della tragedia fu provocata da un'esplosione interna.


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    Illustrazione di Richard Schlecht, National Geographic

    Il disegno raffigura il sottomarino che si allontana dopo aver colpito la nave da guerra dell'Unione Housatonic con una carica esplosiva, la sera del 17 febbraio 1864, a largo di Charleston in South Carolina. Appena prima lo Hunley aveva speronato la nave con la punta di ferro di cui era dotato a prua e sulla quale era collocato l'esplosivo.
    Prima dell'attacco, il marinaio di vedetta sulla Housatonic aveva avvistato un bizzarro vascello in avvicinamento appena sotto la superficie dell'acqua - solo la torre centrale era visibile - e aveva lanciato l'allarme. Ma i cannoni della Housatonic non potevano colpire così in basso; così l'equipaggio usò fucili e pistole contro lo strano nemico, senza successo.

    Cinque minuti dopo l'esplosione, la Housatonic era a nove metri di profondità sotto l'oceano.
    L'Hunley - che era spinto dalla forza di sette uomini - salì in superficie in modo da consentire al suo comandante, George Dixon, di sparare dei razzi di segnalazione per comunicare al comando confederato a terra che l'attacco era stato portato a termine con successo.
    Il sottomarino e il suo equipaggio non fecero però più ritorno dalla storica missione. Subito dopo aver lanciato il segnale, il sottomarino affondò a 6,4 chilometri da Charleston, dove l'Hunley è poi rimasto per 136 anni.

    Il sottomarino, lungo 12 metri, aveva due zavorre, una anteriore e una posteriore, che potevano essere riempite d'acqua per far scendere il sottomarino in profondità. L'equipaggio poi pompava fuori l'acqua a mano per far risalire il sottomarino in superficie. Gli archeologi hanno trovato falle in entrambe le zavorre ma ritengono che siano state praticate dopo l'affondamento del sottomarino, anche se non si è ancora capito in che modo.

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    Randall Hill, Reuters

    L'interno del sottomarino, alto 122 centimetri e largo 61, era così stretto che gli otto uomini di equipaggio non potevano scambiarsi di posto dopo aver preso posizione
    Durante la missione, sette uomini sedevano su una panca di legno e giravano un albero a gomiti per far muovere il sottomarino.
    Le maniglie sull'albero a gomiti erano disposte in modo che ogni membro dell'equipaggio non applicasse allo stesso tempo tutta la forza, in modo che il sottomarino avesse una propulsione costante che lo manteneva in assetto.
    L'ottavo membro dell'equipaggio era il comandante, che si trovava in una piccola torretta con degli oblò. Il comandante guidava il sottomarino tramite un timone e delle "pinne" orizzontali che servivano anche a far immergere o portare in superficie lo Hunley.


    Gli ingegneri navali ancora si meravigliano per la perizia con cui il sottomarino era stato progettato e costruito. Era però molto pericoloso per l'equipaggio. Cinque marinai morirono durante un collaudo nel porto di Charleston. Durante un secondo test l'intero equipaggio, compreso Horace L. Hunley, annegò. Infine il fatale terzo e ultimo tentativo, disperata mossa per spezzare il blocco del porto che metteva a rischio la continuazione della guerra da parte della Confederazione sudista.



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    Il messaggio in bottiglia
    più vecchio del mondo


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    La bottiglia di vetro era andata alla deriva per 98 anni nel Mare del Nord. Andrew Leaper, capitano di un peschereccio scozzese, l'ha trovata nelle sue reti, nell'aprile scorso, vicino alle Isole Shetland. Ma quando l'ha aperta non ha scoperto una lettera d'amore o l'SOS di un marinaio abbandonato su un'isola deserta. Il messaggio, stampato su un foglietto di carta, diceva: "Siete pregati di compilare questa nota indicando data e luogo del ritrovamento, e portarla al più vicino ufficio postale. Nella risposta vi sarà comunicato dove e quando è stata messa in mare. Il nostro scopo è di determinare la direzione delle correnti profonde del Mare del Nord".

    Peccato per i romantici. Quello che secondo il Guinness dei Primati è il messaggio in bottiglia più vecchio mai ritrovato viene da un esperimento scientifico di quasi un secolo fa. Per studiare le correnti marine, il capitano C. Hunter Brown della Glasgow School of Navigation, il 10 giugno 1914 mise in mare 1.890 bottiglie di vetro. Quella ritrovata ad aprile era la numero 646B.

    "All'inizio del secolo scorso, gli oceanografi usavano le bottiglie alla deriva per ottenere informazioni importanti che consentivano di creare modelli della circolazione delle acque nei mari attorno alla Scozia, dice Bill Turrell di Marine Scotland Science, un'agenzia governativa scozzese che ha sede ad Aberdeen.

    L'agenzia continua a tener traccia delle bottiglie del capitano Brown. Secondo Turrell, quella raccolta da Leaper a soli 15 chilometri dal luogo del lancio è la 315ma ritrovata finora. Ciascuna bottiglia, spiega Turrell, era appesantita in modo tale da permetterle di restare sospesa poco al di sopra del fondo marino, così che potesse finire nelle reti di un peschereccio o, alla fine, essere trascinata a riva dalle onde.

    Il fatto più curioso è che a detenere il precedente era un messaggio in bottiglia datato 1917 ritrovato nel 2006 da Mark Anderson, un amico di Leaper, mentre navigava sulla stessa barca, la Copious. "È stata una coincidenza incredibile", ha dichiarato Leaper. "Come vincere due volte alla lotteria".

    Un po' di storia

    Naturalmente, la gente ha affidato messaggi alle bottiglie per ben più che 98 anni. Attorno al 310 a.C., il filosofo greco Teofrasto gettava in mare bottiglie sigillate per dimostrare che il Mediterraneo era formato dall'afflusso delle acque dell'Atlantico.

    Nel XVI secolo, Elisabetta I d'Inghilterra, nella convinzione che alcune bottiglie gettate in mare potessero contenere messaggi segreti da parte di spie, nominò uno "Stappatore di bottiglie oceaniche" ufficiale, e ordinò che chiunque altro tentasse di aprirne una venisse punito con l'impiccagione.

    Nel XVIII secolo, un marinaio e cacciatore di tesori giapponese, Chunosuke Matsuyama, naufragò con 43 compagni su un'isola del Pacifico meridionale. Incise quindi un messaggio su un pezzo di legno, lo infilò in una bottiglia e lo affidò alle correnti. Il messaggio venne ritrovato, ma solo nel 1935, pare nello stesso villaggio natale di Matsuyama.

    Nel XX secolo, alcuni soldati che combattevano ormai senza più speranze durante la Prima guerra mondiale affidarono ai messaggi in bottiglia le ultime parole per i loro cari; e altrettanto fece nel 1915 un passeggero del Lusitania, che mentre il transatlantico affondava gettò in mare un messaggio che recitava: "Sono ancora sul ponte con poche persone.L'ultima scialuppa è stata calata. Affondiamo rapidamente. Alcuni uomini vicino a me stanno pregando con un prete. La fine è vicina. Possa questo messaggio..."

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    Galleggiando per la scienza

    Oggi le bottiglie alla deriva vengono utilizzate dagli oceanografi per studiare le correnti del pianeta. Nel 2000 Eddy Carmack, un climatologo dell'Institute of Ocean Science canadese, ha dato vita al Drift Bottle Project per studiare le correnti attorno all'America del Nord settentrionale.

    Negli ultimi 12 anni, Carmack ha gettato in mare da varie navi in tutto il mondo circa 6.400 messaggi in bottiglia; di queste, 264 (corrispondenti a circa il 4%) sono state ritrovate.

    "Alcune di queste bottiglie hanno seguito rotte sorprendenti", racconta Carmack.

    Tre, che erano state gettate nel Mare di Beaufort, sopra l'Alaska settentrionale e il Canada nordoccidentale, sono rimaste intrappolate nel ghiaccio marino; cinque anni dopo, lo scioglimento dei ghiacci artici le ha liberate e spinte verso l'Europa del nord. Un'altra bottiglia ha fatto una volta e mezza il giro dell'Antartide prima di approdare in Tasmania. Alcune hanno viaggiato dal Messico alle Filippine, e altre ancora hanno dimostrato che le fuoriuscite di petrolio o i rifiuti del Mare del Labrador o della baia di Baffin sono in grado di approdare sulle coste irlandesi, francesi, scozzesi o norvegesi.

    Ormai, ammette Carmack, il suo non è più un progetto solo scientifico: "La cosa più importante di queste ricerche è che crea una relazione tra le persone e le correnti oceaniche", dice. "Ci permette di scoprire che la distanza fra noi e un nostro 'vicino' nel mondo è solo una bottiglia gettata alla deriva".

    Passione infantile

    Il capitano Sean Bercaw, del Connecticut, non potrebbe essere più d'accordo. È dagli anni Settanta che Bercaw ha la fissa dei messaggi in bottiglia, da quando cioè, a soli 10 anni, navigava attorno al mondo con i genitori a bordo di un bialberi da 12 metri chiamato Natasha. Bercaw gettò 40 bottiglie dalla barca, ma non fu impresa facile: "i miei genitori non bevevano, quindi dovetti recuperarle dai bar dei porti". In compenso, ricevette due risposte.

    Venticinque anni dopo, ha deciso di ricominciare: a tutt'oggi ne ha gettate in mare 250 ricevendo una cinquantina di risposte. "Mi hanno scritto bambini di 7 anni e anziani settantenni", racconta. "Una volta ho gettato due bottiglie al largo della Costa orientale, a un giorno di distanza l'una dall'altra. Entrambe sono approdate in Francia. Una però ci ha impiegato 18 mesi, l'altra 10 anni".

    Bercaw predilige bottiglie da vino ben tappate ("galleggiano meglio") e mette i suoi messaggi scritti a mano in buste di plastica, per proteggerli ancora meglio dall'acqua. La pressione dell'acqua contribuisce a sigillare la bottiglia, quindi una che fluttua ben al di sotto della superficie - come la bottiglia trovata in Scozia - protegge meglio il suo contenuto rispetto a una che galleggia in superficie.

    "Una delle cose che mi affascinano dei messaggi in bottiglia è che mettono più cose assieme", dice Bercaw. "Nella società odierna spesso si deve scegliere tra scienza e umanesimo, ma i messaggi in bottiglia li contengono entrambi: ci aiutano a capire le correnti oceaniche, ma anche molte cose sull'essere umano". E fanno anche da ponte fra le epoche e le tecnologie.
    (Jeremy Berlin)




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    Siracusa, scoperto in mare il relitto
    di un galeone spagnolo del 1600


    KE+-+Mombasa+-+relitto+generico+Kenya

    PALERMO - «Stavamo rastrellando la zona tra Siracusa e Porto Palo, e con un pizzico di fortuna uno dei nostri militari, al di fuori della propria attività di servizio, ha notato elementi di ferro e di legno». Così, come ha raccontato Costanzo Ciaprini, comandante del Reparto operativo aeronavale della Guardia di Finanza di Palermo, inizia la storia di un ritrovamento che si può considerare «eccezionale». I sub, infatti, non avrebbero mai immaginato che quegli elementi di ferro e legno in realtà facessero parte di un relitto di una nave che, molto probabilmente, apparteneva della flotta spagnola del XVII secolo che combattè contro quella inglese lungo le coste della Sicilia sud- occidentale. Custoditi dai fondali sono stati ritrovati anche cinque cannoni dalla lunghezza di oltre 2 metri con relativi carrelli risalenti alla fine del 1600 e l'inizio del 1700, armi da fuoco più piccole. L'operazione è stata effettuata dalla sezione operativa navale di Siracusa nell'ambito di un servizio coordinato dal Reparto operativo aeronavale della Guardia di finanza di Palermo e dalla Sovrintendenza del Mare della Regione siciliana.


    SOMMOZZATORI IN ACQUA PER 20 GIORNI - Le operazioni di localizzazione al largo delle acque di Avola sono iniziate lo scorso mese: dopo la segnalazione, militari e Sovrintendenza, come previsto dai protocolli d'intesa, hanno avviato le esplorazioni, che hanno impegnato per 15-20 giorni il Nucleo sommozzatori di Messina e due motovedette della Gdf in stretta collaborazione con l'equipe di subacquei archeologici guidati dal sovrintendente Sebastiano Tusa. «Evito sempre esagerazioni o grandi metafore, però in questo caso si tratta davvero di una scoperta eccezionale, importantissima per la storia di quest'Isola - ha detto Tusa -. Una scoperta assolutamente inedita, di grandissime potenzialità dal punto di vista storico e archeologico». Secondo Tusa «questo risultato è frutto anche di una strettissima intesa umana tra la Sovrintendenza e la Finanza, una collaborazione lunga un decennio. Faremo subito un progetto di ricerca - ha concluso il sovrintendente - per cercare di approfondire il ritrovamento del relitto». Nell'ultimo anno il Reparto navale delle Fiamme gialle ha rinvenuto, sempre nel Siracusano, un cannone spagnolo a Capo Passero, uno a Capo del Melo, e due ancore di epoca romana a Capo Murro di Porco.




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    STORIE DI RELITTI

    «Nessuna nave è inaffondabile, ma la Bismarck ci andò molto vicino»
    (W.Churchill)

    La BISMARK


    È appoggiata sulla scarpata di un vulcano sommerso, a 4.791 metri di profondità, nelle acque plumbee dell'Oceano Atlantico. La chiglia quasi intatta, così come il ponte di teak. A prua un'enorme svastica sfregia la sagoma elegante di questo gigante del mare. È il relitto della corazzata Bismarck, una delle più grandi navi da guerra mai varate, affondata dalla Rotal Navy dopo quattro giorni di caccia disperata tra le onde forza 7 del Mare del Nord e dell'Atlantico Settentrionale.
    L'ammiraglia affondò alle 10,30 di mattina del 27 maggio 1941: per domarla ci erano volute 2876 cannonate, di cui quasi 400 andarono a segno. Pochissime attraversarono i 33 centimetri di corazza d'acciaio Wotan. Con la Bismarck s'inabissò anche l'era delle corazzate: avevano dominato il mare per un secolo. Il cielo e la velocità diventarono un nuovo imperativo.
    La nave, che prendeva il nome dal cancelliere tedesco Otto Von Bismarck (1815-1898), venne varata ad Amburgo il 14 febbraio del 1939: 251 metri di lunghezza, 36 di larghezza, 50mila tonnellate, 2.192 uomini di equipaggio. Durante i suoi otto mesi di vita fu al servizio del capitano Ernst Lindermann, renano, reduce della Grande guerra. L'imbarcazione più imponente nella flotta del Terzo Reich aveva a bordo anche l'ammiraglio Günther Lütjens, comandante de facto dell'unica missione a cui partecipò. Il nome in codice era operazione Rheinübung (esercizio sul Reno); l'obbiettivo attaccare i convogli diretti in Inghilterra dalle coste americane. Affamare il nemico e costringerlo alla resa. La flotta incaricata era composta da solo due navi: la Bismarck e l'incrociatore pesante Prinz Eugen. La Tirpitz, gemella della Bismarck, non era ancora pronta: anche lei subì un destino tragico, bloccata come una tigre in gabbia per quattro anni nei mari scandinavi e poi affondata da una squadriglia di bombardieri.
    BISMARCK e Prinz Eugen lasciarono il porto di Gdynia, Polonia, il 19 maggio 1941. Il giorno dopo vennero avvistate al largo di Göteborg dalla porta-idrovolanti svedese Gotland. Il messaggio mandato dal suo capitano al comando della marina (la Svezia era neutrale) fu intercettato dall'ambasciata inglese. Il giorno dopo un aereo Spitfire, decollato dalla base scozzese di Scapa Flow, intercettò la Bismarck vicino alle coste norvegesi.
    La prima trappola scattò il 24 nello Stretto di Danimarca, il braccio di mare che separa l'Islanda dalla Groenlandia. I tedeschi si trovarono davanti l'incrociatore pesante Hood, ammiraglia della flotta inglese deputata alla difesa della madrepatria, e la corazzata Prince of Wales. Alla quinta salva la Bismarck colpì lo Hood a metà dello scafo: le due navi erano a una distanza di nove miglia marine una dall'altra. Un colpo perforò la corazza ed esplose nella santabarbara: lo Hood si ruppe in due, affondando in meno di tre minuti. Morirono 1.415 marinai. Solo tre i sopravvissuti.
    L'ordine di Winston Churchill fu: «Affondate la Bismarck!» Ne dipendeva il morale di un'intera nazione. La corazzata, ferita da una salva del Prince of Wales, perdeva olio. Si divise dalla Prinz Eugen, ancora sana e veloce, con l'intenzione di dirigere verso Brest, nella Francia occupata, percorrendo rotte separate. Sette U-Boot le stavano andando incontro. Le davano la caccia più di cento navi. La traccia di olio venne individuata e seguita, mentre l'intera marina inglese brancolava nel buio, da un ricognitore della RAF.
    A frapporsi tra la corazzata tedesca e la salvezza intervenne la flotta H britannica: due portaerei, tre corazzate, quattro incrociatori e sette cacciatorpediniere. Alle ore 21 del 26 maggio un vecchio biplano Swordfish lanciato dal ponte della Ark Royal colpì il gigante con un siluro al timone: la Bismarck cominciò a descrivere un cerchio immenso. Alle 23,40 Lütjens telegrafava a Parigi: «Impossibile manovrare la nave. Combatteremo fino alla fine delle munizioni. Lunga vita al Führer». Il cannoneggiamento iniziò alle 9 del giorno successivo. Lütjens, solo e bersagliato da migliaia di colpi, mantenne la promessa: non si arrese, sebbene fosse impossibile prendere la mira contro il nemico. Affondò con la bandiera alzata; 110 marinai vennero salvati dagli inglesi, prima che fossero messi in fuga da un allarme U-Boot. Altri 2.200 morirono.
    Il 18 giugno 1989 il relitto è stato trovato da James Ballard, lo scopritore del Titanic, 600 miglia a ovest di Brest. Mancano le torrette del cannoni: inabissandosi, la nave si rovesciò e caddero sul fondo. Oggi ogni immersione deve essere autorizzata dal governo tedesco, che considera i resti della nave un cimitero di guerra.
    (Adamo Dagradi, larena.it)


    La notizia dell’affondamento della “Bismarck” fu accolta con sollievo da tutti gli inglesi; i giornali britannici l’annunciarono con titoli di scatola. Essa confermava che il vecchio leone era ancora temibile sul mare e che il Terzo Reich sarebbe stato costretto a faticare per prevalere sull’Atlantico. La paura, tuttavia, era stata tanta. Il sollievo personale del Primo Ministro Churchill traspare dal telegramma che “il vecchio marinaio” inviò il giorno 28 al presidente Roosevelt:
    “Vi manderò più tardi la vera storia della battaglia con la Bismarck. Era una nave terribile, un capolavoro di ingegneria navale. La sua eliminazione alleggerisce la situazione delle nostre navi da battaglia, perché, altrimenti avremmo dovuto tenere la King George V, la Prince of Wales e le due unità della classe Nelson praticamente immobilizzate a Scapa Flow per vigilare contro una sortita della Bismarck e della Tirpitz, e mentre queste potevano scegliere il momento opportuno, noi dovevamo sempre contare su di una unità di meno per le necessarie revisioni. Adesso è tutt’altra faccenda. L’avvenimento avrà ripercussioni assai favorevoli sui giapponesi. Ritengo che stiano facendo da capo tutti i loro calcoli“.
    Da parte sua il presidente Roosevelt aveva valutato correttamente il significato dello spettacolare scontro. Parlando alla radio il 27 maggio (era il giorno stesso dell’affondamento), il Presidente disse:
    “La guerra si avvicina ai margini dello stesso emisfero occidentale… La battaglia dell’Atlantico si estende ora dalle acque ghiacciate del Polo Nord al continente coperto di ghiaccio dell’Antartico… Sarebbe un suicidio aspettare finché il nemico si trovasse sulla porta di casa nostra… Noi abbiamo per questo esteso il nostro pattugliamento alle acque dell’Atlantico settentrionale e meridionale“.
    Ciò significava che l’America aveva raccolto l’invito inglese di cooperazione alla difesa delle rotte oceaniche: gli Stati Uniti erano ormai ad un passo dalla guerra. Da parte tedesca la fine della “Bismarck” decretò anche la sconfitta del grande ammiraglio Raeder. Pagando con la sua vita e con quella di tutto l’equipaggio l’ammiraglio Lütjens aveva dimostrato quanto tale strategia fosse folle e quanto invece avesse ragione Doenitz a sostenere il primato degli U-boote in questo genere di guerra. Quanto disastrosa fu questa strategia lo conferma il giudizio degli inglesi. Scrisse Winston Churchill:
    “In nessun modo Hitler avrebbe potuto impiegare le due gigantesche navi da battaglia più efficacemente che tenendole nel Baltico in pieno assetto di guerra; esse consentivano di spargere, di tanto in tanto, la voce di un’imminente sortita. Noi saremmo stati così costretti a tener riunite a Scapa Flow, o nei suoi pressi, praticamente tutte le nostre nuove navi, mentre egli avrebbe avuto tutti i vantaggi della scelta del momento senza lo sforzo di dover essere sempre pronto…“
    (anticafrontierabb.wordpress)


    I problemi della Bismarck erano da ascrivere a due fattori -difetti di progettazione ed errori tattici- che resero inevitabile la sua perdita. I tedeschi avevano tenuto uno stretto segreto sulla disposizione delle corazzature, ma dopo che la nave era affondata i soccorritori trovarono un gruppo di piantine nella tasca di un sottufficiale. Da quelle il gruppo di lavoro del genio navale (DNC) ricostruì la disposizione interna della Bismarck. Questo risolse un altro questito di importanza fondamentale: perché questa moderna unità maggiore smise di sparare dopo solo 20 minuti?
    La classe Bismarck, così come gli Scharnhorst e gli incrociatori pesanti classe Admiral Hipper, erano deboli nelle strutture poppiere. Nel caso della Bismarck, l'esame del suo relitto con telecamere mostra che la poppa si separò dallo scafo. Quindi è chiaro che il siluro aviolanciato non aveva solo demolito il timone; anche senza di ciò il collasso della poppa l'avrebbe resa molto difficile da manovrare.
    La ricostruzione del giugno 1941 della sua disposizione interna stupì il DNC ed il suo gruppo di lavoro quando videro che il ponte corazzato era molto in basso nello scafo, come sarebbe stato in una nave della Grande Guerra. In confronto, le corazzate contemporanee della Royal Navy e dell'US Navy avevano i loro ponti corazzati molto più in alto per aumentare il volume della zona protetta. Un'altra particolarità del progetto era l'installazione di una batteria terziaria antiaerea da 10,5 cm in aggiunta ad un armamento secondario di cannoni da 15 cm in torri binate. Questo armamento su tre livelli, in particolar modo le torri da 15 cm, comportava un grande svantaggio in termini di pesi. Nella Royal Navy e nell'US Navy la decisione di installare armi a doppio scopo era stata presa tempo prima, un considerevole risparmio in pesi e spazio occupato.
    Ricercatori tedeschi hanno recentemente scoperto che i cannoni da 10,5 cm della Bismarck erano controllati da due differenti direzioni di tiro, una a prua ed una a poppa. Per complicare ancora le cose, il personale non era ben avvezzo all'uso di alcuno dei due sistemi. Il fallimento nell'ostacolare gli attacchi degli Albacore e degli Swordfish è spesso attribuita alla velocità degli aerei, troppo bassa per il limite inferiore dei calcolatori della precessione delle direzioni tiro; i nuovi dati dimostrano che le direzioni tiro erano inefficienti.
    Una domanda cara alla scuola di pensiero della “Bismarck inaffondabile” è: fu affondata dal fuoco d'artiglieria, dai siluri o per autoaffondamento? Uno storico americano rispose una volta: “Sì! Autoaffondamento”. Le prove dell'autoaffondamento si basano su affermazioni dubbie sui media tedeschi di persone che affermavano di esser state a bordo e che le sale macchine erano “pronte per l'ispezione dell'Ammiraglio” ed un ordine di attivare le cariche di autoaffondamento seguì poco dopo. Purtroppo tutte queste quantomeno dubbie affermazioni ignorano le testimonianze dei sopravvissuti secondo le cui sulla nave c'era un inferno fra i ponti, e nessuno dai locali inferiori fu visto dopo che l'azione iniziò. Tutte le comunicazioni, forza elettrica, comandi dei motori e casse fumo delle caldaie erano sopra il basso ponte corazzato, ed il fuoco nemico aveva distrutto tutto tranne le macchine principali. Questo spiegherebbe perché nessun cannone stava sparando dopo 20 minuti.
    La pretesa che “non un singolo colpo penetrò la corazzatura” è smentita dalle fotografie sottomarine che mostrarono circa 400 fori nello scafo. Testimoni oculari dicono che la Bismarck era un relitto allagato, ed è quasi certo che nelle fasi finali qualche proiettile passò attraverso porzioni non corazzate dello scafo, ma qualcosa ha fatto questi 400 fori, molti di essi colpi di grosso calibro che penetrarono la cintura. La salva di 4 siluri lanciati dall'HMS Dorsetshire affrettò senza dubbio la sua fine, ma era già stata allagata da migliaia di tonnellate d'acqua.
    L'Ammiraglio Lutjens fece tre grossi errori tattici. Il primo fu di lasciare il Baltico durante il giorno, rendendo molto facile alla Royal Air Force il compito di scovarlo. Di gran lunga l'errore più madornale fu quello di prendere il mare dopo che una manichetta del carburante aveva ceduto mentre si riforniva nel Bergenfjord; la capacità mancante equivaleva ad un terzo del totale del combustibile. L'errore fu reso più grave del colpo sotto la linea d'acqua da parte dell'HMS Prince of Wales, che fece sì che l'acqua di mare contaminasse buona parte del combustibile restante. Gli analisti dell'US Navy corroborarono l'opinione della Royal Navy che l'errore più grande di Lutjens fu di cominciare la sortita in atlantico dopo aver perso così tanto combustibile. Apparentemente credeva nella propaganda su di lei che la dava per inaffondabile.
    Non si nega che la Bismarck fosse una potente corazzata, ma non sembra che la Kriegsmarine abbia speso i suoi soldi nel miglior modo possibile. Comparazioni obbiettive possono essere fatte con la classe South Dakota della US Navy e con la cancellata classe Lion della Royal Navy, dal dislocamento di 40,000 tonnellate, armati con nove cannoni da 16 pollici e protetti da una cintura da 15 pollici ed un corrispondente robusto ponte corazzato. Il vero problema è che le qualità della Bismarck sono state magnificate, in gran parte per i motivi già menzionati. Io stesso ho sentito pretese che l'acciaio Wotan Hard fosse stato usato per rendere la cintura impenetrabile. Negli effetti fu un acciaio strutturale a prova di scheggia ad essere usato, col Wotan Soft usato dove non era necessario fermare schegge di proiettile.
    La Bismarck incontrò la sua fine sotto una pioggia di cannonate, ma combatté finché poté ed i suoi ufficiali e marinai morirono coraggiosamente. E' un peccato che tale coraggio non fosse corroborato da buone tattiche e da una migliore progettazione della loro nave.
    (Secondo Marchetti, betasom.it)
     
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  15. gheagabry
     
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    Storie di relitti....


    «Un monumento sottomarino assurdo, bellissimo nella sua unicità, il vero Monte Everest per i subacquei. Le eliche, i timoni e i cannoni di poppa sono puntati verso il chiaro della superficie »


    L'Ammiraglia inglese VICTORIA


    Per decenni i marinai lo indicavano come uno dei luoghi più pescosi della costa libanese. Curioso, perché proprio qui, in questo tratto d’acqua blu profondo, una dozzina di chilometri al largo di Tripoli, dovrebbero darsi appuntamento i branchi più numerosi? «Non c’è altra spiegazione, se non la presenza di un grande relitto di nave che funziona da scoglio sommerso. È questa l’intuizione che quattro anni fa mi condusse direttamente a Victoria [..] «Dopo otto anni di ricerche ero finalmente riuscito a individuare il relitto dell’ammiraglia inglese, la corazzata Victoria, affondata per uno stupido errore di manovra il 22 giugno 1893..... la mia sorpresa fu immensa nello scoprire che questo è l’unico caso del genere al mondo: un relitto immane, intatto, che si è conficcato sul fondo del mare in modo assolutamente perpendicolare», spiega. Victoria era lunga 103 metri, per circa 35 la sua prua con i cannoni da oltre 400 millimetri è sprofondata nel fondale. Gli altri quasi 80 metri restano in piedi nell’acqua, come un gigantesco grattacielo che nella sua parte più alta si trova ancora a 70 metri dalla superficie del mare.» (Christian Francis )

    HMS Victoria era la nave guida nella sua classe di due navi da guerra della Royal Navy . La nave è stata soprannominata 'la scarpetta' (o con la sua gemella Sans Pareil anche associate alla squadra Mediterraneo, 'la coppia di pantofole') a causa di una tendenza per la sua prua a scomparire dalla vista, anche con un mare un po 'agitato.
    In origine battezzata Renown, poco prima del varo venne ribattezzata Victoria per festeggiare i 50 anni di regno dell'omonima regina. Fu la prima nave ad essere dotata di motori a vapore a triplice espansione ed anche la prima a montare la turbina a vapore, utilizzata per caricare la dinamo che forniva elettricità alla nave. Pur montando potenti cannoni, essendo ad avancarica essi dovevano rinculare all'interno delle torri per poter essere ricaricati ed avevano perciò una cadenza di tiro molto lenta. Il Victoria, mentre serviva come nave ammiraglia della Flotta del Mediterraneo, il 22 giugno 1893 al largo di Tripoli (Libano), durante le manovre fece collisione con lo HMS Camperdown che la speronò in pieno affondandola velocemente, con la perdita di 357 uomini compreso il Comandante della Flotta, Vice Ammiraglio Sir George Tryon.
    La perdita dell’HMS Victoria, l’orgoglio della flotta vittoriana e nave ammiraglia dello squadrone navale del Mediterraneo, rimane uno degli episodi più imbarazzanti nella storia della Royal Navy.
    Una flotta di 11 navi da guerra si stava esercitando tranquillamente nel giugno del 1893. Le navi erano divise in due colonne parallele ed erano pronte a gettare l’ancora, quando Tryon ordinò alle navi in testa a ogni colonna – la Victoria e l’HMS Camperdown – di voltarsi l’una verso l’altra e girare a 180 gradi. Nonostante gli ufficiali più giovani avessero espresso la preoccupazione che le due navi non avrebbero avuto spazio sufficiente per manovrare, entrambe le imbarcazioni seguirono gli ordini e alla fine si scontrarono. Mentre Tryon affondava con la sua nave, i sopravvissuti dissero che le sue ultime parole furono “È tutta colpa mia”.


    Il tesoro dell'ammiraglio Lord Horatio Nelson ritrovato sui fondali marini del Mediterraneo. Numerosi oggetti preziosi appartenuti all'eroe di Trafalgar che nella celebre battaglia navale del 1805 guidò la Royal Navy alla vittoria schiacciante sulla flotta francese distruggendo per sempre i sogni di egemonia marittima di Napoleone, sarebbero stati ritrovati all'interno della HMS Victoria, nave britannica naufragata nel 1893 al largo delle coste del Libano. Il relitto, affondato assieme ai suoi 358 marinai a causa di una manovra sbagliata del comandante George Tryon, sarebbe colata a picco quasi 90 anni dopo la morte di Nelson. Secondo gli esploratori inglesi che hanno ritrovato la carcassa della nave, l’imbarcazione custodirebbe anche una delle spade appartenute all'ammiraglio più celebre della storia della Gran Bretagna.
    Il comandante George Tryon, grande ammiratore di Nelson, aveva comprato gli oggetti preziosi appartenuti all’ammiraglio a un'asta di fine Ottocento. Nella cabina del relitto sarebbe stato trovato un armadio, descritto da Mark Ellyatt, l'esploratore che ha guidato il team di archeologi marini che hanno ritrovato l'imbarcazione, come «una sorta di santuario» nel quale sarebbero custoditi «una serie di articoli» appartenuti a Nelson. Il Ministero della Difesa inglese, che ha la proprietà legale del relitto, ha contattato la squadra di esploratori e ha ordinato di lasciare a bordo tutti gli oggetti ritrovati e soprattutto di non toccare i beni appartenuti all'ammiraglio. Interesse verso il tesoro custodito nel relitto è stato espresso anche dalla Nelson Society, che attraverso il suo ex presidente Victor Sharman ha fatto sapere che da un’asta di questi beni si potrebbe ricavare una somma davvero cospicua (nel 2002 un'altra spada di Lord Nelson fu battuta all'asta per oltre 400.000 euro).
    Da parte sua l'esploratore Ellyatt, che il prossimo 4 febbraio parteciperà alla «International Shipwreck Conference, appuntamento annuale che si tiene all’Università di Plymouth nel quale si confrontano diversi esperti di storia marittima, vuole evitare che i memorabilia di Lord Nelson finiscano in mani sbagliate e che siano poi venduti all'asta. L'esploratore avrebbe nascosto la spada dell'ammiraglio in un punto segreto del relitto per proteggerlo dai saccheggiatori: «Il Ministero della Difesa voleva sapere in che punto si trovassero gli oggetti personali di Lord Nelson - ha confessato il sub al Sunday Telegraph - I funzionari del dicastero non vogliono che i memorabilia dell'ammiraglio compaiano all'improvviso su qualche sito d'aste. Si sono mostrati molto interessati alla spada, ma quando ho proposto di riportarla alla luce, sembra che abbiano cambiato idea. Non voglio che qualcuno entri nel relitto e lo spogli completamente di ogni suo bene. In verità vorrei portare in superficie la spada, ma temo che appena sbarcata sulla terraferma sarà sequestrata dalle autorità locali. Se alla fine i beni fossero recuperati, mi farebbe piacere vederli custoditi in un museo del Regno Unito».
    (Francesco Tortora, corriere.it)
     
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78 replies since 13/9/2011, 17:53   34431 views
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