RELITTI...e storie di mare

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  1. gheagabry
     
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    Storie di relitti....


    L'attimo di un affondamento può essere inteso come "l'anno zero" di quella nave, in cui tutto finisce e, al contempo, rinasce a nuova vita


    ...un aereo ..il BEECHCRAFT BARON



    Il Beechcraft Baron era un aereo costruito sin dal 1937 dalla Beech Aircrft Corporation di Wichita - Kansas - USA, utilizzato e quindi conosciuto anche in ambito militare con la sigla C-45, oltre che prodotto per trentadue anni di fila. È a partire dal modello 95 che la Beechcraft, società specializzata nei piccoli aerei da trasporto, sviluppa il suo 95- 55, chiamato appunto Baron. Esso si caratterizzava per linee più filanti e motorizzazioni più potenti dei predecessori. Effettuò il suo primo volo nel febbraio del 1960, all’inizio del decennio del cosiddetto boom economico, in cui sempre più frequenti avrebbero dovuto essere le sue prenotazioni e richieste, un tempo invece appannaggio solo dei più ricchi in assoluto. Entrò quindi in servizio attivo nel novembre del medesimo anno, equipaggiato per volare con qualsiasi tempo, fu un immediato successo commerciale tanto da convincere la Beechcraft a svilupparne differenti versioni con la massima cura dei più piccoli dettagli di costruzione interni ed esterni. Il B-55, prodotto a partire dal 1963, ad esempio, era un quadriposto che poteva essere portato sino a 5/6 persone; nel ‘64 questa versione fu testata dall’aviazione dell’Esercito Statunitense e scelto soltanto successivamente per l’addestramento dei piloti al volo strumentale. Nel 1965 una versione più grande nel vano bagagli, oltre che per una serie di piccole modifiche di volo e per la scelta dei motori Continental da 258 cavalli. Nel 1982 il totale degli apparecchi Baron costruiti era arrivato alla cifra di 2.405 esemplari. La nostra storia parte da un lontano lunedì 22 agosto 1994, allorché il signor Antoine Caprioglio, pensionato di 62 anni di chiare origini italiane, e sua moglie Eliane decollano dall’aeroporto di Mandelieu, adiacente a Cannes, dopo aver affittato il Beechcraft Baron appartenente ad una società di noleggio per raggiungere Marsiglia. Dopo qualche istante dal decollo però prima un motore e poi subito dopo anche l’altro emettono rumori inquietanti – “come se fossero male alimentati” - scrive l’articolo tratto dal quotidiano Nice Matin che abbiamo reperito. L’inchiesta seguente al naufragio dell’apparecchio stabilirà in qualche modo che i segnali erano quelli di un motore sovralimentato, come se avesse avuto lo starter troppo a lungo tenuto tirato (inchiesta che evidentemente si è potuta basare solo su prove testimoniali, dato sì che il relitto non fu mai recuperato, n.d.r.). I motori in panne non permisero ad Antoine Caprioglio di poter tenere in volo l’aereo ed egli, pilota confermato con certificazione di volo professionale di Stato e per lungo tempo proprietario a sua volta di un apparecchio, non si fece così prendere dal panico riuscendo a portarlo a posarsi perfettamente sulla superficie del mare senza danno alcuno nel tratto antistante Port de la Galère tra la Pointe de l’Esquillon e la Pointe Saint-Marc, ove una grande falesia s’immerge ininterrotta per una sessantina di metri e più nell’azzurro cobalto. Mentre i due naufraghi uscivano velocemente dal cockpit, avendo avuto l’ottima presenza di spirito di aprire il portello anteriore prima che esso fosse bloccato dalla pressione dell’acqua e posizionandosi sull’ala per essere quindi recuperati da un’imbarcazione di diportisti che avevano assistito stupefatti allo sviluppo degli eventi dal basso, l’aereo s’inabissava allagato, scivolando lungo il pendìo del fondo sino alla quota ove riposa a -68 metri dalla superficie. Fu ritrovato circa due anni dopo, nel maggio del 1996, da Jean Philippe Jahier e Daniel Durero, che re- recuperarono il libro di bordo per l’inchiesta della Police de l’Air et des Frontiéres Française.

    "Da tempo sapevo che sotto la superficie delle acque antistanti l’abitato di La Théoule, tra Cannes e St. Raphael in Costa Azzurra, si celava il relitto di un aereo da turismo che alcuni amici mi avevano detto essere intatto e suggestivo. Da altrettanto tempo quindi nutrivo il desiderio di scendere nelle limpide acque antistanti la cittadina rivierasca francese per godere di quello che per un sommozzatore appassionato è il massimo del massimo: un relitto integro adagiato sul fondo e pronto per essere esplorato in ogni suo dettaglio. Non nascondo che all’inizio della mia avventura subacquea, quando in acqua ci andavo più per i lavoretti che mi mantenevano agli studi che non per diletto, non mi piaceva granché andare per relitti in quanto li trovavo in qualche misura il teatro di una tragedia e consideravo che immergersi su questi fosse un po’ come fermarsi a guardare nella carreggiata opposta la scena di un incidente automobilistico con un non che di voyerismo. Il passare del tempo mi fece invece comprendere l’importanza della scoperta, della testimonianza e della documentazione storica che i relitti possono costituire per chi li visita, e di conseguenza li riporta alla loro antica vita galleggiante, o volante nel nostro caso. Uno di essi integro allora, pensavo mentre mi accingevo a preparare questa immersione, poteva rappresentare un valido motivo per studiare altri aspetti importanti della subacquea.....Compiere il tuffo da soli è impossibile, occorre essere accompagnati e reperire il sito dell’immersione è comunque non facile: da una parte non ci si può fidare ciecamente dell’ecoscandaglio, poiché il fondo è abbastanza accidentato per poter identificare correttamente il relitto. Dall’altra la frequente presenza di corrente potrebbe deviare la caduta del piombo del pedagno durante la sua discesa sul fondo, ovvero spostarlo una volta giunto sull’obiettivo, qualora esso non fosse sufficientemente pesante. Il club che ci accompagna opta per una cintura di piombi da otto chili e lancia con sicurezza nel blu filando la cima del galleggiante. Il piombo cadrà, per la felicità istantanea di noi sommozzatori, praticamente ad un centimetro dall’ala destra dell’aereo, ma col senno di poi pensiamo alle ripetute che ci sono state e ci saranno sul relitto, che non potranno, prima o dopo, che distruggere la struttura del Beechcraft stesso. Giunti sul punto e dopo la varie manovre necessarie al pedagno da calare, il nostro vettore non spegne i motori e noi ci prepariamo così a calare nel mare azzurro. Siamo fortunati però - almeno in questo - calata la cima notiamo che la corrente è davvero minima.... il relitto c’è, è lì davanti a noi ed è completamente integro! Si notano subito il parabrezza in vetro ricoperto da incrostazioni marine, ma intatto, e le piccole antenne radio sul tettuccio. L’apparecchio sembra aver seguito la pendenza del sottofondo colando a picco, quasi come se avesse tentato una sorta di disperata corsa su una pista di decollo sommersa. Il naso e le eliche del Beechcraft Baron sono finiti infissi nella sabbia soffice del fondo, che ne ha attutito sicuramente il colpo e preservato la struttura, e la coda è a circa due/tre metri di stacco dal piano orizzontale. Ciò che colpisce particolarmente l’attenzione del sommozzatore in immersione è la porta laterale destra della prima fila di sedili aperta davanti alla retrostante chiusa, quasi come se si potesse ancora salire a bordo per partire, e l’integrità complessiva del relitto. Ancora presenti le scritte matricolari: “F-GDPV” sul fianco e la pittura azzurro-bianca che appaiono alla luce dei fari, stante un ancora sottilissimo velo di concrezione che ricopre la fusoliera. La luce naturale non è delle migliori, ma rispetto alle nostre esperienze di acque dolci, qui si va letteralmente a nozze. La posa sul fondo dell’aereo è imbarazzante e imponente allo stesso tempo poiché il bimotore non ha pieghe apparenti, lenze da pesca, reti o cavi che lo circondano, anzi, penetrando appena in cabina di pilotaggio si possono ancora scorgere tutta la strumentazione dell’avionica di bordo sul pannello centrale pressoché intensa, i sedili blu trapuntati dell’arredo interno e la disposizione, dietro a quello del posto di comando oggi sgualcito, di una serie di carteggi, che chi scrive non ha voluto assolutamente toccare per non turbare l’equilibrio generale di una scenografia perfetta..."
    (Pierpaolo Montali)


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  2. gheagabry
     
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    Storie di mare




    Alla fine del '600, Inghilterra, Francia e Olanda si lanciarono in una vera e propria guerra commerciale sui mari. L'era degli Imperi coloniali corrispose dunque a quella delle compagnie di navigazione. Invaghendosi dei prodotti esotici, l'Europa aveva posto il commercio marittimo al centro di importanti poste in gioco finanziere e politiche.
    Il dominio dell'oceano Atlantico aveva come obiettivo il rifornimento di zucchero, mentre il controllo dell'oceano Indiano mirava a quello delle spezie. Una zona ancor più circoscritta fu teatro della guerra del tè: fino all'800 gli occidentalia potevano rifornirsi di tè soltanto a Macao e Canton il Cina, o a Deshima in Giappone, perché quei paesi erano allora i soli produttori. Le Vereenigngle Oostindische Compagnie fu fondata nel 1602 e aveva sede ad Amsterdam; la Compagnie française des Indies orientales, fondata nel 1664 era insediata a Lorient e a Nantes.infine l'East India Company, fondata nel 1599, era domiciliata a Londra. Tutte e 3 erano incessantemente impegnate a siglare accordi commerciali o a stabilire scali commerciali in Estremo Oriente.
    Gli olandesi furono i primi, nel 1606, a importare tè in Europa..seguiti nel 1657 dagli inglesi, poi nel '700 dai francesi......Gli inglesi seppero ottenere i migliori risultati e conquistarono il monopolio quadi esclusivo delle esportazioni a partire da Canton..Ma la Cina, diffidando dell'espansioismoeuropea, limitò gli scambi, li tassò e afidò a uan delle 12 associazioni ufficiali di commercio il compito di trattare con i "Barbari". L'inghilterra trovò un'altra fonte di profitto commerciale (in questo caso illegale): grazie alla vendita dell'Oppio, proveniente dalle colonie indiane, inondò la Cina, rovesciando la bilancia dei pagamenti a suo vantaggio e indebolendo l'Impero millenario sia dal punto di vista economico che umano, poiché il nuovo vizio riguardava iln particolare la classe dirigente.
    Nel 1834, l'East India Company aveva perduto il monopolio sul tè cinese, ma realizzava enormi guadagni con quasi 2000 tonnellate d'oppio movimentate ogni anno (SMD)



    .....il Clipper....


    Quando gli appassionati di regate contemplano nel porto di Londra l'ondeggiare nostalgico della prora slanciata del Cutty Sark, sono consapevoli che si tratta di una delle ultime vestigia dei famosi Tea Clipper....All'inizio dell'800, il tè veniva trasportato da Canton a Londra con pesanti navi panciute, le Indiamen, concepite per accogliere a bordo più merce possibile. Impiegavano almeno 110 giorni per raggiungere l'Inghilterra costeggiando l'africa. Fintanto che la compagnia mantenne saldo il controllo del commercio del tè, questi tempi lunghi di consegna non erano preoccupanti. Nel 1834, la perdita di questa esclusività spinse gli armatori ad optare per navi più rapide, i clipper, veloci velieri dalla linea elegante. Quando il clipper americano L'Oriental compì per la prima volta il tragitto che separava le banchine di Canton da quelle di Londra in 95 giorni soltanto, venne dimostrata l'efficacia di queste navi adatte alla corsa. Poiché il suo carico era il solo sul mercato, i suoi armatori realizzarono un profitto dal 30% superiore al guadagno abituale.
    Nel 1886 ebbe luogo una corsa memorabile: il 28 maggio undici clipper partirono dal porto cinese di Fuzhou, tre mesi più tardi le prime due navi che entrarono nel porto di Londra distavano tra loro soltanto qualche minuto..la terza arrivò qualche ora più tardi e le successive qualche giorno dopo.Ma l'apertura del Canale di Suez nel 1869, e la comparsa degli steamer intorno al 1870, misero progressivamente fine all'era eroica.



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    I Blackballer



    Con questo termine venivano chiamati uomini singolari, capaci di annusare il vento e riconoscere l’avvicinarsi della tempesta. Oppure sapevano bordeggiare per districarsi da bonacce in grado di attanagliare gli scafi in una morsa d’acqua e le menti degli uomini nell’abisso della follia. Nei deserti degli oceani i blackballer restavano sul ponte, agili come scimmie, pronti a inerpicarsi lungo alberi maestosi.
    «E le navi?», direte voi. Erano gli scafi più belli di ogni tempo, lunghi una settantina di metri, armati generalmente con tre alberi, dotati di un gioco di quasi quaranta vele da spiegare ai venti portanti degli oceani. Si chiamavano clipper ed erano capaci di velocità impensabili per il più veloce tra i vapori.
    Recita un antico adagio che solo il marinaio che abbia doppiato i capi oceanici sia legittimato a portare gli orecchini e a mettere i piedi sul tavolo. I blackballer, nelle rare pause in porto, li riconoscevi dagli orecchini d’oro, l’aria scanzonata, il coltello portato al fianco con disinvoltura. Il soprannome faceva originariamente riferimento all’appartenenza di quei lupi di mare alla Black Ball Line, una compagnia di navigazione che vantava i minori tempi di percorrenza su molte tratte, prima tra tutte quella tra la vecchia Inghilterra e i territori ricchi d’oro e di sogni della nuovissima Australia. In seguito il termine blackballer venne esteso a tutti i marinai delle navi a vela sino al momento della loro definitiva resa nei confronti delle macchine a vapore. Immaginate una nave invelata che viaggia a oltre venti nodi. In lontananza apparivano come “nuvole di vele all’orizzonte”, questo invece il soprannome dei clipper. Immaginate le stive cariche di merci e di anime: erano oltre settecento i passeggeri che ogni clipper imbarcava nel viaggio verso l’Australia. E si trattava di persone che si allontanavano con un miraggio nel cuore: quello di un’esistenza decorosa che la vecchia Europa non sapeva offrire. Negli interminabili tempi della tratta, i blackballer riuscivano a regalare ai passeggeri la tranquillità necessaria per affrontare oceani insidiosi. L’unica distrazione era rappresentata da una pubblicazione, una sorta di rotocalco su cui venivano annotati gli avvenimenti quotidiani.
    Alcune delle notizie riportate riguardavano i tempi di percorrenza dei clipper: spesso si trattava di veri e propri record che avrebbero mantenuto la loro inviolabilità nonostante i progressi della vela nei secoli. Sulla tolda c’erano loro, i blackballer, lo sguardo perso nel mare che schiuma, i piedi ben piantati sul ponte, un sorriso appena accennato che dispensava tranquillità ai passeggeri. E finalmente l’arrivo a destinazione: il porto, le taverne fumose, la terraferma. Ma sembrava che questa bruciasse loro sotto i piedi: erano sufficienti poche ore perché quel mondo statico venisse a noia e i blackballer fossero pronti a rincorrere una nuova avventura.
    (Marco Buticchi, Tratto da yachtonline n.1/2010)


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  3. gheagabry
     
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    Ogni tragedia, si sa, reca con sé morte e orrore, ma la storia non può fermarsi ed ecco l'uomo rialzarsi dalla batosta e ripartire con regole nuove. Ogni naufragio diventa così una nuova luce che si accende sul cammino tecnologico e sul progresso scientifico navale.

    La Marina Mercantile ha dovuto registrare, fin dall'inizio del XX secolo, numerosi disastri con gravissime perdite di vite umane e di navi. Tra i più drammatici si ricorda quello dl 23 gennaio 1909, che ebbe luogo nelle stesse acque in cui colò a picco quarantasette anni dopo l' Andrea Doria . Anche allora si trattò di una collisione; affondò una nave inglese, la Republic , speronata dal piroscafo italiano Florida. Il disastro costò la vita di sei persone; per la prima volta la maggior parte dei naufraghi fu salvata grazie all'impiego della radio .



    E' forse bene qui ricordare che Guglielmo Marconi, il genio di Pontecchio, il 12 dicembre 1901, mentre si trovava in una capanna-laboratorio a Terranova (Nuova Scozia), ricevette tre brevi suoni: la “S” in alfabeto Morse, trasmessa dalla lontana Cornovaglia. Da quel giorno ebbe inizio la telegrafia senza fili.

    Il 1912 fu un anno disastroso. Il 5 marzo il piroscafo spagnolo Principe de Asturias finì su una scogliera presso Cabo S.Sebastian, 500 passeggeri annegarono. Un mese dopo, il 15 aprile, durante il viaggio inaugurale, il grande transatlantico Titanic, che negli anni del primo Novecento era considerata la più bella e più sicura nave del mondo, urtò contro un iceberg e colò a picco trascinando con sé 1.513 tra passeggeri e uomini dell'equipaggio.



    Un'altra collisione avvenne nell'estuario del S.Lorenzo il 29 maggio 1914. Affondò il vapore Empress of Ireland e nella catastrofe morirono 1.024 persone. Il 7 maggio 1915 il sommergibile tedesco U-20 affondò il transatlantico inglese Lusitania. Fu questo forse, l'avvenimento che volse l'opinione pubblica mondiale contro la Germania. La grande nave apparteneva alla famosa Società inglese Cunard Line, veniva dall'America e trasportava 1916 passeggeri, di cui 146 americani. Ne morirono 1.152, solo 764 si salvarono, ma non certo ad opera del sommergibile di Schwieger, che senza intimare l'Alt , come vuole la legge di guerra, colò a picco la nave senza prima aver fatto sbarcare i passeggeri, che poi abbandonò alla loro sorte, quando il codice d'onore di ogni marinaio impone il soccorso dei naufraghi.

    La tragedia del Lusitania suscitò dovunque orrore ed indignazione e contribuì alla decisione degli Stati Uniti di entrare in guerra a fianco degli Alleati. Il 24 luglio 1915, sui grandi laghi americani, altra grave perdita: l'affondamento della Estland e la morte di 811 passeggeri.




    Tra le due guerre, il primo grande disastro navale avvenne il 25 ottobre 1927 al largo delle coste brasiliane. Andò a picco un transatlantico italiano, il Principessa Mafalda e con esso il mare ingoiò 314 persone. Il tragico fatto commosse il mondo anche per l'eroico sacrificio del comandante Simone Gulì. I suoi marinai, che si allontanavano piangendo sulle scialuppe, videro l'alta figura dell'Ufficiale, eretta sul ponte di comando, fino a quando il Mafalda s'inabissò con l'uomo che l'aveva guidata per tanti anni.

    Un anno dopo, il 12 novembre 1928, il vapore inglese Vestris scomparve durante una burrasca al largo della Virginia con 110 persone. Altre 450 vittime si ebbero il 14 giugno 1931 davanti a Saint Nazaire, con l'affondamento di un traghetto costiero. Meno spaventoso, ma non per questo di minor gravità, un'altra catastrofe di quegli anni: l'incendio del Morro Castle al largo delle coste americane, l'8 settembre 1934, con 130 morti.

    L'ultima grande sciagura del periodo prebellico fu l'incendio, davanti alla costa catalana, della motonave italiana Orazio. Il sinistro avvene il 22 gennaio 1940 e provocò 104 vittime. Dopo la dichiarazione di guerra di Mussolini del 10.6.1940, nel Regno Unito furono internati 4.000 italiani, un migliaio dei quali perirono nell'affondamento della Arandora Star . Erano cittadini italiani, civili, fatti deportare come “stranieri nemici”.



    Stessa sorte toccò a 3.000 prigionieri di guerra, nella maggior parte italiani, imbarcati sulla nave trasporto inglese Laconia (20.000 T.S.L.) colata a picco dal sommergibile tedesco U-156 il 13 settembre 1942. “Il Caso Laconia” fu portato davanti al Tribunale di Norimberga. Le navi mercantili italiane, requisite e militarizzate dal governo durante il conflitto e poi affondate, catturate, alienate e distrutte dal nemico furono 2.556 .

    La Liguria pagò il suo tributo alla nazione con la perdita di oltre 500 navi mercantili. Nel conto non sono inclusi i pescherecci ed il naviglio minore. Lo storico navale Maurizio Brescia, nelle sue preziose ricerche, ci ricorda quanto segue:

    - da “ Cacciatorpediniere classe Navigatori” (Albertelli-Parma 1995): Il 18 settembre 1941, in posizione 33°02'N-14°42'E, il sommergibile Upholder silurava ed affondava i transatlantici Oceania e Neptunia. (Dei 5.818 uomini a bordo delle due navi, ne morirono 384 ). Il Da Recco , capo scorta, recuperò ben 2.083 naufraghi delle due navi e protesse poi il rientro a Napoli del Vulcania, unico superstite del convoglio”.



    - da: “Cacciatorpediniere classe Freccia/Folgore/Maestrale e Oriani” (Albertelli-Parma, 1997): “…Quando la formazione si trovava ormai sulla rotta di sicurezza per l'entrata a Tripoli, alle 10.20 del 20 agosto 1941, il sommergibile inglese Inique silurò ed affondò l'Esperia ; le unità di scorta recuperarono complessivamente 1.139 naufraghi, e tra questi 417 furono salvati dallo Scirocco …”

    - “..La 3° Divisione assicurava la protezione a distanza della formazione e, vista l'importanza della missione, a bordo del Conte Rosso si trovava il contrammiraglio Canzonieri nella veste di capoconvoglio. Le numerose unità di scorta, la cui consistenza era stata rinforzata, all'altezza di Messina, da tre ulteriori torpediniere, non poterono però impedire il siluramento del Conte Rosso avvenuto alle 20.41 dello stesso 24 maggio, da parte del sommergibile britannico Upholder…”

    Una vasta eco ebbe la perdita del glorioso Conte Rosso, militarizzato ed adibito al trasporto truppe. L'affondamento avvenne mentre navigava in convoglio a poche miglia da Siracusa. Morirono 1.300 dei 2.729 militari che si trovavano a bordo, diretti in Libia. Durante l'ultima guerra, la Marina Mercantile subì gravi perdite, indipendentemente dalle operazioni militari, come l'esplosione nel porto di Bari, il 9 aprile 1945, di un cargo americano: 360 vittime, e l'affondamento al largo di Danzica del vapore tedesco Wilhelm Gustloff , il 18 febbraio 1945; catastrofe in cui trovarono la morte circa 6 mila fuggiaschi che cercavano di sottrarsi all'avanzata russa e che può pertanto essere considerata la più spaventosa di tutta la storia della Marina.


    Nel dopoguerra si ebbero gravi sciagure specialmente nei mari orientali. Il 3 dicembre 1948 saltò in aria il piroscafo cinese Kiangya e morirono 1.000 persone. Un mese dopo un'altra nave cinese, il vapore Taiping, speronò una carboniera; entrambe colarono a picco trascinando nel mare 600 vittime.

    Negli altri mari si registrarono le perdite del Noronic , incendiatosi al largo di Toronto e vi furono 130 morti, e del cargo Pennsylvania abbandonato il 9 gennaio 1952, 45 furono i dispersi. Gli ultimi nomi della tragica lista sono: il vapore coreano Chang Tyong Ho, affondato il 9 gennaio 1953 con 249 persone; il ferry-boat inglese Princess Victoria inabissatosi il 31 gennaio dello stesso anno con 133 passeggeri; il cargo Hobson speronato dalla portaerei Wasp il 26 aprile 1953 ( 176 dispersi); il passeggero francese Monique scomparso il 1° agosto dello stesso anno nel Pacifico con 120 passeggeri ed infine il traghetto giapponese Shinan Maru , affondato l'11 maggio 1955 con 138 passeggeri.

    Il 25.7.1956 l'Italia e la Liguria in particolare caddero nella disperazione per l'affondamento della Andrea Doria , speronata nella nebbia dalla nave passeggeri svedese Stockholm . L'orgoglio della nostra flotta trascinò con sé verso i fondali di Nantucket 54 vittime di quel tragico disastro.

    Poi ci fu la straordinaria espansione della traghettistica, dovuta in parte all'assorbimento dei traffici delle navi di linea ormai scomparse, e in parte alle tariffe favorevoli rispetto all'aviazione a corto raggio, ma soprattutto per l'aumento costante del turismo di massa. Purtroppo, a questo trend commerciale favorevole se ne contrappose uno molto negativo sul piano della sicurezza navale.



    L'8 dicembre 1966 il traghetto Heraklion si scontrò con un rimorchiatore nel mar Egeo. I morti furono 264 . Il 28 agosto 1971 il traghetto Heleanna s'incendiò poco prima dell'arrivo a Brindisi, morirono 25 passeggeri. Lo scafo del traghetto, letteralmente devastato e deformato dal fuoco, fu preso a rimorchio dal M.re Torregrande che lo consegnò ai Cantieri della Spezia per essere demolito.

    Il 6 marzo 1987 il traghetto Herald of free Enterprise affondò nella Manica al largo del porto belga di Zeebrugge. Le vittime furono 193 . Il 21 dicembre 1987 al largo dell'isola di Marindique, Filippine, nello scontro tra il traghetto Dona Paz ed una petroliera, morirono almeno 4. 000 persone, molte divorate dagli squali. Si trattò del più recente e grave incidente nel mondo. Il 7 aprile 1990 sul traghetto Scandinavian Star scoppiarono tre incendi e morirono 186 persone.



    Il 29 aprile 1990 il traghetto Espresso Trapani affondò al largo del porto di Trapani, morirono 13 persone. Il 10 aprile 1991, nella rada del porto di Livorno, il traghetto Moby Prince entrò in collisione con la super petroliera Agip Abruzzo che era alla fonda. I morti furono 141 . Il 14 gennaio 1993, nel mar Baltico, al largo dell'isola di Ruegen, a causa del mare tempestoso, si rovesciò il traghetto polacco Jan Heweluisz. I morti furono 54.

    Il 28 settembre 1994 il traghetto Estonia affondò nel mar Baltico, nei pressi dell'isola di Utoe. Morirono 852 persone. Dalla superfice degli oceani spariscono mediamente 100 navi ogni anno. Soltanto una piccola parte di loro ci viene raccontata dai media e si tratta solitamente di navi famose, sia per la loro grandezza o semplicemente per i danni ecologici procurati all'ambiente. Per qualche tempo le paure deflagrano scoppiettanti sulle cronache, poi il silenzio!

    (Carlo Gatti, scmncamogli)



    Edited by gheagabry - 6/11/2013, 01:09
     
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  4. gheagabry
     
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    Storie di mare e di relitti...

    Lo stretto di BASS


    Quando nel 1798 gli esploratori britannici scoprirono quello che fu chiamato stretto di Bass, tra gli ufficiali della Marina ci fu grande entusiasmo. Questo braccio di mare, che separa lo stato insulare della Tasmania dal resto dell’Australia, accorciava di oltre un migliaio di chilometri la rotta dall’Inghilterra a Sydney. Lo stretto di Bass si è però rivelato uno dei tratti di mare più pericolosi per la navigazione. Gli impetuosi venti di ponente, le forti correnti e la scarsa profondità delle acque (in media una sessantina di metri) concorrono a rendere il mare particolarmente agitato e turbolento. Un altro pericolo è rappresentato dalle coste frastagliate dell’Isola del Re, che si trova nel mezzo dell’imboccatura occidentale dello stretto. Oggi come oggi la navigazione nello stretto di Bass non presenta problemi, ma non era così all’epoca in cui i velieri solcavano le acque senza i moderni strumenti di navigazione. Imboccare lo stretto da occidente era un’esperienza che metteva a dura prova i nervi e fu giustamente paragonata all’infilare la cruna di un ago. La navigazione lungo la rotta ortodromica Agli inizi del XIX secolo le navi impiegavano anche cinque mesi per andare dall’Inghilterra all’Australia orientale; era un viaggio di 19.000 chilometri tutt’altro che piacevole. In genere centinaia di passeggeri, perlopiù emigranti e prigionieri, erano stipati sottocoperta in condizioni disumane, afflitti da mal di mare, malnutrizione, malattie e parassiti. La mortalità era alta. Eppure il sogno di una vita migliore dava a molti passeggeri la forza di resistere. Ci fu una svolta nel 1852, quando il capitano James (Bully) Forbes scoprì una rotta più breve. Non viaggiò lungo il 39° parallelo, che sembrava il percorso più corto per l’Australia attraverso l’Oceano Indiano meridionale. Per andare dall’Inghilterra all’Australia sud-orientale Forbes seguì invece la rotta ortodromica, che lo portò ancor più a sud, verso l’Antartide. Nonostante iceberg e marosi la sua nave, la Marco Polo, con 701 emigranti a bordo, attraccò al porto di Melbourne, nello stato di Victoria, dopo soli 68 giorni, quasi dimezzando i tempi. Il primato raggiunto capitò al momento giusto, dato che nel Victoria impazzava la febbre dell’oro. Quando si sparse la notizia di quel viaggio così veloce, migliaia di aspiranti minatori decisi a raggiungere l’Australia fecero a gara per potersi imbarcare. Una volta che le navi lasciavano l’Inghilterra, il primo approdo era Capo Otway, dopo circa 16.000 chilometri. I marinai calcolavano la latitudine con l’aiuto di un sestante e di una serie di tabelle, e la longitudine con un cronometro da marina, sincronizzato con l’ora di Greenwich. L’ora locale veniva stabilita in base alla posizione del sole. Ogni ora di differenza tra quella locale e quella di Greenwich corrispondeva a 15 gradi di longitudine. I due valori, la latitudine e la longitudine, permettevano a un bravo ufficiale di rotta di determinare la sua posizione con una buona approssimazione. Ma le cose non andavano sempre bene. Le nuvole potevano oscurare il sole per giorni e i cronometri non erano sempre precisi. Un solo secondo di scarto al giorno poteva in tre mesi portare l’imbarcazione fuori rotta addirittura di 50 chilometri. Se si aggiungevano pioggia, nebbia e oscurità, invece di imboccare lo stretto di Bass le navi potevano sfracellarsi contro le coste rocciose del Victoria o dell’Isola del Re. Senza dubbio più di un viaggiatore avrà condiviso il pensiero di un capitano che, avvistando Capo Otway da una certa distanza, gridò: “Sia ringraziato Dio! Non abbiamo fatto errori”. Il fatto che nella maggioranza dei casi i marinai del XIX secolo abbiano saputo “infilare la cruna dell’ago” senza incidenti testimonia la loro perizia. Oggi sono migliaia le imbarcazioni, grandi e piccole, che ogni anno attraversano senza problemi lo stretto di Bass, seguendo rotte che toccano anche più di cento siti in cui si trovano vecchi relitti. Evocano in modo suggestivo gli uomini coraggiosi del XIX secolo che, venuti dall’altra parte del mondo in cerca di una vita migliore, sfidarono quell’ultimo tratto di mare: “la cruna dell’ago”. ppure, a dispetto dei pericoli e delle centinaia di avvenimenti tragici che si verificarono lungo la Shipwreck Coast, tutte le navi provenienti dall’Europa facevano rotta attraverso queste acque.

    ....il clipper LOCH ARD....


    Era il 1° giugno 1878 e non era ancora sorto il sole. Il clipper Loch Ard navigava nella densa foschia verso le coste del Victoria. Anche il giorno prima c’era stata foschia e a mezzogiorno il capitano non era riuscito a usare il sestante per le osservazioni. Così si ritrovò molto più vicino alla costa dell’Australia di quanto pensasse. Improvvisamente la foschia si alzò scoprendo a meno di due chilometri di distanza scogliere a picco sul mare alte 90 metri. L’equipaggio fece di tutto per virare, ma il vento e le correnti giocavano a sfavore. In meno di un’ora il Loch Ard si schiantò rovinosamente sugli scogli e in 15 minuti fu inghiottito dalle acque. Delle 54 persone a bordo solo due sopravvissero: il mozzo Tom Pearce e la passeggera Eva Carmichael, entrambi di neanche vent’anni. Tom rimase per ore aggrappato a una scialuppa rovesciata; essendo inverno le acque erano gelide. Infine la corrente lo spinse in una stretta gola tra le scogliere. Scorgendo una spiaggia piena di relitti, la raggiunse a nuoto. Eva non sapeva nuotare, per cui restò aggrappata a un relitto per circa quattro ore prima di essere sospinta verso la stessa gola. Vedendo Tom sulla spiaggia, chiese aiuto a gran voce. Tom si tuffò e, lottando per un’ora con la corrente, riuscì a trascinare in salvo la ragazza in stato di parziale incoscienza. Eva raccontò: “Mi portò al riparo in una cupa grotta a una cinquantina di metri dalla spiaggia. Trovata lì in giro una cassa di brandy, ruppe una bottiglia e me ne fece trangugiare un po’, il che mi rianimò. Sistemò dell’erba e del fogliame perché mi ci potessi adagiare. Persi i sensi e probabilmente rimasi in quello stato per ore”. Nel frattempo Tom si arrampicò sugli scogli e diede l’allarme. Meno di 24 ore dopo che il Loch Ard era affondato, Tom ed Eva furono portati in una vicina fattoria. Nel naufragio Eva aveva perso i genitori, tre fratelli e due sorelle.
    (papjpool,dal web)
    Il relitto del Loch Ard trasportava passeggeri dall'Inghilterra quando affondò a Mutton Bird Island. È forse l'immersione più interessante per la quantità di merci ancora conservate in fondo al mare, tra accessori in cuoio, bottiglie e vasellame.


    .....altri relitti......


    Il vento soffia implacabile, il mare ruggisce lanciandosi contro l’arenile con le sue onde oceaniche, l’alta marea avanza pronta a spazzare via, nel giro di poche ore, ogni traccia di spiaggia e di orme umane. Appena superato il primo promontorio, si vede l’ancora corrosa dalla salsedine del Marie Gabrielle, il tre alberi che qui si sfracellò nel 1864. Stesso destino che toccò al Fiji: il bastimento s’incagliò su questo stesso lido il 6 settembre 1891, a 300 metri dalla riva; l’ancora, conficcata fra gli scogli in posizione verticale a futura rimembranza, si trova qualche centinaio di metri più avanti rispetto a quella del Marie Gabrielle. Il naufragio del Fiji fu particolarmente drammatico perché diluito nel tempo, con quasi due giorni di vani tentativi di calare in acqua le scialuppe di salvataggio, i 26 uomini dell’equipaggio costretti a cercare rifugio avvinghiati al bompresso e i soccorritori a rischiare la vita (uno morì) per trarre in salvo chi, cercando di raggiungere la riva aggrappato a una cima di salvataggio, cedeva alla forza travolgente delle onde.
     
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  5. gheagabry
     
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    Dal molo di Coney Island affiora il relitto del sottomarino “Quester I”. Testimonianza dell’idea visionaria di un carpentiere newyorkese: recuperare vent’anni dopo il tesoro celato dal mare....


    Uno ‘Yellow Submarine’ per l’Andrea Doria


    “Viviamo tutti in un sottomarino giallo”, cantavano i Beatles nel 1966. E due anni dopo lo Yellow Submarine, simbolo di pace e allegria, era anche il soggetto del loro primo film animato: a bordo del sottomarino, i fumetti di John, Paul, George e Ringo sconfiggevano le forze del male per ripristinare la serenità a Peperlandia, paradiso terrestre in fondo all’oceano. Mentre la band di Leaverpool consacrava al mondo la fama dello Yellow Submarine, a Coney Island, un vero sottomarino giallo veniva costruito da Jerry Bianco, per intraprendere un’altra avventura bizzarra e strampalata. Il relitto del sottomarino affiora ancora oggi dalle acque dell’oceano e attira la curiosità dei passanti, perché la sua storia è ancora poco conosciuta.
    Tutto cominciò nel 1951 a Genova, quando venne costruito l’Andrea Doria, uno dei transatlantici più famosi dell’epoca.
    La notte del 25 luglio 1956, al largo della costa di Nantucket, l’Andrea Doria si schiantò contro la nave svedese Stockholm, che procedeva verso Gotheborg. Dopo undici ore il transatlantico affondò.
    Con l’Andrea Doria non scomparse solo un mito, ma un enorme quantità di oggetti di valore: basti pensare all’argenteria, le porcellane, le statue di marmo, i gioielli, i dipinti che facevano parte del sontuoso arredamento, oltre alle scorte di cibo e agli effetti personali dei passeggeri che la nave trasportava. Un tesoro di grande valore che giaceva abbandonato in fondo al mare, destinato a diventare la meta privilegiata di molte immersioni subacquee. Fu così che qualche anno dopo, un carpentiere navale di nome Jerry Bianco, decise – pur non avendone mai realizzato uno – di progettare un sottomarino, per recuperare il tesoro dell’Andrea Doria.
    Il relitto della transatlantico sarebbe stato portato in superficie riempiendolo di sacchetti pneumatici pieni d’aria. Bianco iniziò così a raccogliere le donazioni di parenti, amici, vicini di casa e di tutti quelli che credevano nella sua impresa strampalata.
    Dopo quasi dieci anni di sforzi, sacrifici e attenzione mediatica, finalmente il sottomarino era pronto: “Quester I” era il suo nome, ed era giallo. La scelta del colore dipendeva unicamente dal prezzo: il giallo era ben più economico degli altri. Tutto infatti era stato costruito con il massimo risparmio, contando ogni singolo penny. Il giorno del varo, il 19 ottobre 1970, dopo aver rotto la bottiglia di champagne sulla chiglia del battello davanti agli occhi di giornalisti e curiosi, Bianco si accorse immediatamente che i mezzi che aveva avuto a disposizione non erano all’altezza della missione. Il sottomarino si capovolse subito per poi inabissarsi. Dopo questo colossale fallimento, gli investitori si tirarono indietro e Jerry Bianco riuscì solo ad organizzare il recupero del “Quester I”.
    Da allora il sottomarino giallo rimane parcheggiato sul molo di Coney Island, in preda a vandalismi, ma è il ricordo di chi ha creduto in un’idea, sebbene bizzarra, e ha fatto di tutto per realizzarla.
    ( 2008 - Ottobre/Novembre, Itinerario Newyorkese, Elena Casadoro)
     
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  6. gheagabry
     
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    Storie di relitti...

    Il Lusitania, "Levriero dell'Atlantico"



    Agli inizi del XX secolo il governo inglese affronta un periodo di grande difficoltà nello scenario dei collegamenti marittimi transoceanici.
    Dopo anni di indiscusso primato in campo navale, la potenza britannica è costretta a registrare l’inarrestabile ascesa dei piroscafi tedeschi che di anno in anno stabiliscono nuovi record di velocità ed affidabilità. Inoltre, le più importanti compagnie americane, guidate dallo spregiudicato da J.P. Morgan, firmano proprio in questi anni una serie di accordi economici che mirano a strappare agli inglesi il monopolio delle rotte nord-atlantiche. Il governo inglese decide dunque di correre ai ripari finanziando la Compagnia Cunard Line nella realizzazione di due navi capaci di riaffermare la grandezza inglese: il Lusitania ed il Mauretania, conosciuti come "I levrieri dell'Atlantico." La realizzazione del Lusitania viene affidata alla ditta John Brown &CO. Di Claydebank, in Scozia ed ha inizio nel 1904. L'ingente finanziamento del governo (ben 2.600.000 sterline), sarà molto vincolante in fase di progettazione. In caso di conflitto bellico, il Lusitania sarebbe divenuto un mercantile militare: per questo motivo vengono predisposte postazioni rinforzate per ospitare cannoni e stive che avrebbero potuto ospitare armi e munizioni.
    I "numeri" del transatlantico sono impressionanti: lo scafo ha una lunghezza di 239.25 metri, per un peso di circa 31.550 tonnellate. La progettazione degli interni è affidata a James Millar che, ispirandosi al periodo georgiano, realizza ambienti di grande eleganza; ma ciò che rende unico il transatlantico è senza dubbio la sua straordinaria velocità dovuta all’impiego della turbina a vapore, una tecnologia al tempo considerata ancora sperimentale. Ben presto il Lusitania ed il Mauretania divengono le protagoniste assolute delle rotte atlantiche, in particolare della frequentatissima tratta di collegamento tra Liverpool e la città di New York: entrambe erano in grado di raggiungere una velocità di navigazione pari a 26 nodi, un dato inimmaginabile per l’epoca. Il Lusitania fece il suo viaggio inaugurale compiendo la traversata da Liverpool a New York nel settembre del 1907. La sua costruzione era iniziata nel 1903,su ordine della compagnia di navigazione Cunard Line, con l’obiettivo di realizzare la nave più grande che avesse mai solcato i mari. I suoi motori sviluppavano l’impressionante potenza di 68.000 cavalli, che spingevano la gigantesca nave alla velocità di 25 nodi,che spingevano una stazza di quasi 40.000 tonnellate.Per la sua agilità venne definita “il levriero dei mari”„. I fasti delle navi Cunardiane terminano di fatto con l’avvento della I Guerra Mondiale.


    Il 1° maggio 1915, la nave partì da New York City, con destinazione Liverpool. La guerra, in Europa, era ormai scoppiata, e il ministero della guerra tedesco aveva diffuso un comunicato minaccioso, nel quale si diffidavano gli stati neutrali, come gli Usa, dal far intraprendere a suoi cittadini viaggi su navi che avessero come destinazione uno dei paesi in guerra.La Gran Bretagna era pattugliata da navi e sommergibili tedeschi, decisi a bloccare qualsiasi tentativo di rifornimento delle truppe inglesi;ma nonostante il comunicato, circa un migliaio di cittadini statunitensi aveva comunque deciso di imbarcarsi sul Lusitania, destinazione Inghilterra. In totale, durante quel viaggio, che sarebbe stato l’ultimo per la orgogliosa nave e per molta gente che si imbarcò,a bordo c’erano quasi duemila persone; le minacce del ministero della guerra tedesca non produssero molta impressione. C’era la errata convinzione che la Germania stessa non avrebbe mai attaccato una nave civile, con il rischio di coinvolgere nella guerra gli Usa, che fino a quel momento si erano mantenuti neutrali. Così il 7 maggio del 1915 il Lusitania giunse nei paraggi di Liverpool; la zona era considerata ad alto rischio, per la presenza di numerose imbarcazioni tedesche, inclusi i famigerati U boot, i sommergibili che avevano già dato un duro colpo al commercio marittimo inglese durante le prime fasi della guerra.
    A metà giornata dall’ammiragliato inglese giunse, al Lusitania, un messaggio di allerta, riguardante la presenza in zona di un U boot tedesco; ma vista la distanza dalla nave, il comando del Lusitania non prese provvedimenti.In realtà si sarebbe davvero potuto far poco, anche perchè sulla zona si alzò all’improvviso la nebbia, rendendo la visibilità bassa, con conseguente rallentamento della velocità della nave, che divenne un bersaglio ancora più facile.
    Quasi in contemporanea il comandante dell’U boot 20,Walter Schwieger ricevette la segnalazione della violazione del blocco da parte del comando tedesco; si mosse immediatamente, e alle 14,00 circa avvistò la nave e si predispose in assetto di attacco. La segnalazione giunta permise al comandante di identificare, grazie ai 4 giganteschi fumaioli e alla stazza della nave stessa, il nome del bastimento. Schwieger ordinò di lanciare un siluro,e l’equipaggio dell’U boot obbedì. Alle 14,10 il siluro centrò il Lusitania; si verificò una potente esplosione e la nave si inclinò immediatamente. Subito dopo un’esplosione ancor più potente squassò la nave.A bordo si scatenò l’inferno; i marinai cercarono di lanciare in acqua scialuppe di salvataggio e di aiutare i passeggeri a infilare giubbotti di salvataggio e a calarsi in acqua, mentre il comandante mandava un disperato Sos;ma la confusione, la disperazione, la paura ebbero un ruolo fondamentale. La nave si inclinò ancora di più, e alcune delle scialuppe lanciate in acqua si capovolsero. a bordo c’erano numerosi bambini, e nonostante i prodigi di valore di coraggiosi uomini, come il miliardario Vanderbilt,che sacrificò la sua vita per salvarne alcuni. La nave affondò in pochi minuti,portandosi dietro 1200 persone, fra cui oltre 120 americani e 200 bambini.I superstiti furono 765, di cui almeno 300 erano marinai.... tra le vittime si registrano numerosi cittadini americani fra cui lo scrittore Elbert Hubbard. Le operazioni di soccorso, scattate subito dopo l’Sos, permisero di recuperare molte persone, e si svolsero con l’ausilio di mezzi da guerra, che però non intercettarono l’U boot responsabile dell’eccidio.


    La notizia dell’agguato sconvolse l’Europa e gli Usa; un’ondata di orrore percorse l’America, che protestò duramente, senza però entrare in guerra, come si paventava in Europa. Il ministero della guerra inglese avviò un inchiesta, ma, nonostante le dichiarazioni di molti superstiti che riferirono di aver udito due distinte esplosioni,si giunse alla conclusione che la responsabilità di tutto era da attribuire al siluro che aveva provocato uno squarcio tale da mettere in crisi l’assetto della nave. La seconda esplosione venne giustificata come il risultato di una miscela di gas esplosivi prodottisi nei locali delle caldaie. Reazioni opposte in Germania, dove si inneggiò, con un incredibile cattivo gusto, “all’azione eroica” dell’U boot; venne coniata anche una medaglia commemorativa dell’evento, quasi che nell’azione fossero morti dei militari, invece degli inermi civili che facevano parte del Lusitania.
    Va detto che i tedeschi sostennero da subito la tesi che a far esplodere il Lusitania, e a dargli quindi il colpo di grazia,fossero state munizioni imbarcate illegalmente sulla nave. Ipotesi che potrebbe avere fondamenti di verità, vista la dinamica delle due distinte esplosioni.


    Nel 1993 l'equipe scientifica di Robert Ballard ha identificato ed indagato il relitto del Lusitania nelle gelide acque a sud dell'Irlanda. L'obiettivo delle indagini scientifiche condotte sui resti del transatlantico miravano a recuperare dati sulle cause e le modalità dell'affondamento, avvenuto in circa 18 minuti. Il relitto, adagiato ad una profondità di 90 metri, è in cattivo stato di conservazione, avvolto da grandi reti da pesca che hanno reso praticamente impossibile un' esaustiva ispezione.
    Allo stato attuale non è possibile confermare la tesi secondo la quale, il veloce affondamento del Lusitania sarebbe dovuto alla presenza di munizioni illegali presenti nelle stive colpite dal siluro tedesco.
    (Valentina Pascali e web)


    Corriere della Sera, 16 maggio 1996 - Dopo 81 anni, verra' forse svelato il segreto del Lusitania, il lussuoso transatlantico inglese affondato dai tedeschi nel 1915 davanti alla costa dell' Irlanda, una tragedia in cui persero la vita 1201 persone. Un miliardario americano ha ieri ottenuto dalla Corte Suprema irlandese il permesso di riportarne tutto il contenuto in superficie . per quanto possibile . e intende "mettersi subito al lavoro". Il miliardario e' Gregg Bemis, 67 anni, studioso di storia militare: e' convinto che il Lusitania nasconda un tesoro e un carico di armi e munizioni.
    Se Bemis, finanziere di origine irlandese, ha ragione, il sanguinario attacco tedesco al transatlantico verra' visto sotto nuova luce. Nel 1915, in piena guerra mondiale, denunciando la strage dei passeggeri, la Gran Bretagna accuso' la Germania di crimini di guerra; ma Berlino rispose che il Lusitania era "un bersaglio legittimo" perche' celava armi e munizioni, e la responsabilita' andava a Londra che aveva esposto dei civili a un attacco. A suo tempo, l' affondamento del transatlantico suscito' maggiore scandalo e cordoglio di quello del Titanic pochi anni prima. Mentre la sciagura del Titanic, in cui peri' quasi lo stesso numero di persone, venne attribuita alla fatalita' . lo scontro con un iceberg . quella del Lusitania fu addossata alla follia degli uomini. La strage degli innocenti, come venne chiamata, desto' orrore universale, e l' immagine della Germania ne usci' irrimediabilmente danneggiata: due anni piu' tardi gli Stati Uniti entrarono in guerra al fianco dell' Inghilterra contro di essa. Soltanto gli anglofobi sostennero che era stato "un trucco della perfida Albione" per mobilitare l' opinione pubblica. La controversia non fu mai risolta perche' l' Irlanda vieto' l' esplorazione del Lusitania. Gregg Bemis ha accertato che il transatlantico lascio' New York alla volta di Liverpool con un duplice carico: un grosso contenitore colmo di preziosi dipinti, tra cui un Monet e un Rubens; e parecchie casse non identificate, forse le armi e le munizioni per gli inglesi. In vista della costa irlandese, dopo un viaggio sereno, il Lusitania venne improvvisamente attaccato da un sommergibile tedesco. Alcuni sopravvissuti riferirono che una torpedine apri' una falla nello scafo, ma che non avrebbe affondato il transatlantico se qualcosa non fosse esploso al suo interno. Stando alle autorita' inglesi, si tratto' o dei depositi di carburante o delle caldaie; stando ad alcuni storici, la causa furono gli esplosivi a bordo. La presenza a bordo di un tesoro artistico e' certa. Lo scortava il direttore della Galleria nazionale irlandese Sir Hugh Lane, che aveva acquistato i dipinti a New York: uomo di grande coraggio, scomparve col Lusitania dopo avere aiutato donne e bambini a salire sulle scialuppe di salvataggio. I dipinti dovrebbero essere ben preservati, perche' avvolti in cilindri di piombo e di zinco sigillati. "Quanto agli esplosivi . ha dichiarato Bemis . la verita' saltera' fuori solo dopo un duro lavoro, il recupero non sara' facile". Bemis considera l' impresa un buon investimento: i collezionisti d' antiquariato sono pronti a pagare qualsiasi somma per un pezzo del Lusitania. Ma appena saputo della sua vittoria in tribunale, societa' americane, inglesi e irlandesi hanno rivendicato a vario titolo la proprieta' del tesoro affondato.
     
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  7. gheagabry
     
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    ll BARON GAUTSCH



    Trieste nei primi anni del ‘900, rappresenta il principale porto dell’Impero Austro-Ungarico per quanto riguarda i collegamenti con gli avamposti della Dalmazia quali Cattaro (Kotor) e Ragusa (Dubrovnik), importanti sia dal punto di vista economico che militare. Per garantire un maggior sviluppo della regione, il Lloyd Austriaco, principale compagnia di navigazione dell’Impero, guidata dal Dr. Derschatta, propone l’ampliamento della flotta con nuovi traghetti veloci e nuove navi da guerra. Da una parte viene contattato il cantiere navale di Trieste “Stabilimento tecnico triestino” che provvede alla costruzione della Drednought “Szent Istvan” per conto della parte ungherese dell’Impero; dall’altra l’ufficio dei Lloyd commissiona ai cantieri navali Gourlay Brothers & Co. Ltd. Di Dundee in Scozia due dei tre traghetti veloci che avrebbero collegato i porti della Dalmazia con Trieste: il Baron Gautsch e il Prinz Hohenlohe (ribattezzata come “Friuli” dopo la Prima Guerra Mondiale). La terza nave gemella, il Baron Bruck (ribattezzata Palatino dopo la Prima Guerra, venduta alla società di navigazione S. Marco nel 1926, affondò nel 1941), viene invece costruita presso il cantiere navale S. Rocco di Muggia. Insoddisfatti del lavoro svolto presso i cantieri Gourlay (tempi di consegna troppo lunghi e potenza dei motori troppo bassa), i Lloyd decidono di apportare delle modifiche al piroscafo presso i cantieri di Trieste a spese del cantiere scozzese che si trova costretto a dichiarare la bancarotta il 23 ottobre 1910.
    Immediatamente dopo lo scoppio del conflitto mondiale, il 17 luglio 1914, il Baron Gautsch (Il nome venne dato in onore del Barone Paul Gautsch von Frankethurn, che fu dapprima Ministro dell’Educazione e in seguito Ministro degli Affari Interni dell’Impero Austro-Ungarico) viene ceduto alla Imperial Regia Marina da Guerra Austriaca per il trasporto delle truppe verso Cattaro (Kotor) e l’evacuazione dei civili verso le regioni del nord Adriatico.
    Una volta assolti i suoi obblighi verso la Marina, il piroscafo rientra in possesso dei Lloyd l’11 agosto 1914 a Cattaro.


    Siamo nel periodo della prima guerra mondiale e il barone era stato requisito dalla Marina Militare austriaca per il trasporto delle truppe dalla Dalmazia a trieste. Quel suo ultimo viaggio era il primo dopo che era tornato ad essere un Piroscafo passeggeri e il commandante era stato sostituito da uno militare a uno civile. Alle ore 11.00 del 13 agosto 1914, il "Baron Gautsch" salpava dal porto di Lussingrande, diretta verso Trieste dove era previsto l'arrivo per le ore 18.00. Prima di salpare le autorità militari convocano una riunione presso il k.u.k. Seebezirkskommando, quartier generale della Marina, durante il quale il secondo ufficiale, Tenze, inviato dal capitano del Baron Gautsch, Paul Winter, viene informato della rotta da seguire per evitare un campo minato che era stato allestito in difesa del porto di Pola. Le autorità militari, per ragioni di segretezza, non avevano comunque fornito la posizione esatta delle mine.
    Alle ore 11.00 del 13 agosto 1914, il “Baron Gautsch” salpava dal porto di Lussin Grande, diretta verso Trieste dove è previsto l’arrivo per le ore 18.00. Il comando viene assunto dal primo ufficiale Luppis. Le condizioni meteo erano ottime, il mare era calmo, tutto procedeva regolarmente. Alle 13.45 Luppis, senza autorizzazione da parte del capitano, cede il comando al secondo ufficiale Tenze per potersi recare a pranzo nella sala di prima classe. Fiducioso della sua esperienza, verificate le mire a terra, Tenze procede tranquillo nella navigazione. Alle 14.50 circa il Baron Gautsch viene avvistato a circa 7 miglia a nord dell’isola di Brioni mentre procede a tutta forza all’interno del campo minato appena allestito in difesa del porto di Pola dalla posamine Basislisk. Un attimo prima della collisione Tenze corregge la rotta verso ovest, convinto di avere ormai superato il campo minato, ma rimaneva purtroppo un ultima mina....quella fatale.
    Così racconta Carmen Rubini (una superstite): “Un cameriere aveva appena aperto la porta della cabina per portarci il caffè, quando una violenta esplosione scosse la nave. Tutto quello che aveva in mano cadde ed una traccia di caffè segnò il pavimento della cabina. […] Siamo corsi fuori dalla cabina, verso il ponte superiore ed ho visto il capitano che invano tentava di organizzare l’evacuazione. Mia madre aveva i miei due fratelli in braccio. La vidi per l’ultima volta vicino alla scala a chiocciola del ponte promenade”. Il piroscafo urta una mina ancorata sul fondo sul lato di sinistra, proprio sotto la linea di galleggiamento, all’altezza delle caldaie tra la cucina e la dispensa di prima classe. Il tutto avviene in una manciata di minuti, il Baron Gautsch si inclina sul lato di sinistra e ciò rende impossibile l’alaggio di tutte le scialuppe. Dopo 6 minuti circa rimane solo un enorme gorgo. La sagoma dell’elegante piroscafo è completamente inghiottita dal mare....delle 300 persone a bordo 130 morirono.


    Non c’è termine migliore per commentare l’accaduto se non quello di incompetenza umana. E i fatti lo dimostrano: al momento dell’esplosione il capitano era nella sua cabina a dormire, il primo ufficiale era a pranzo in prima classe, l’ufficiale in seconda venne colto dal panico una volta realizzato quanto era accaduto, da testimonianze dell’epoca pare che l’equipaggio si preoccupò di mettere in salvo se stesso senza preoccuparsi della sorte dei passeggeri. Pesanti accuse caddero sull'equipaggio, che si salvò quasi integralmente: molte scialuppe non furono calate in mare a causa della loro cattiva manutenzione e i salvagente erano chiusi a chiave negli armadietti poiché si voleva evitare che i passeggeri di terza classe li utilizzassero come cuscini durante il viaggio.
    Tenze venne ritrovato morto suicida a Pola qualche giorno dopo la tragedia, non aveva retto ai sensi di colpa. Il capitano ed il primo ufficiale, tratti in salvo, vennero immediatamente posti agli arresti, accusati dal Comando della Marina di incauta condotta, ma vennero assolti al processo (ironia della sorte, questo episodio non danneggiò in alcun modo la carriera dei due ufficiali che divennero comandanti di navi della flotta del Lloyd Adriatico). Il Lloyd, che imputava la responsabilità dell’accaduto al Comando dell’Imperial Regia Marina Austriaca per non avere inviato una nave a segnalare i limiti del campo minato, affrontò circa ottanta cause di risarcimento danni, vincendole tutte per assenza di colpa.
    Il processo fu comunque lungo e gli archivi di guerra dovettero prestare i documenti relativi all’incidente alla corte distrettuale, ma, nel maggio del 1925, in seguito a delle sommosse che culminarono con l’incendio del tribunale, tutti questi documenti andarono perduti. Si salvò un solo documento, custodito nell’ufficio di uno degli avvocati di parte civile, il Dr. Schapiro, ma essendo ebreo, il suo ufficio venne incendiato durante le persecuzioni naziste nel 1939. Non esiste più alcun documento dunque, tranne quello della procura di Rovigno contro il Cap. Winter ed il primo ufficiale Luppis.


    Dopo la prima guerra mondiale, il suo relitto, affiorante venne usato come bersaglio dalla marina jugoslava, oggi si trova su di un fondale a circa 40 metri di profondità e, completamente colonizzato dalla fauna marina... viene ritrovato nel 1951 dal palombaro triestino Giacomo Stocca, su indicazioni di un altro palombaro, Libero Giurassici, socio, assieme a Ferruccio Torcello e Bartolo Prioglio, della Compagnia Industriale Mercantile di Trieste che aveva acquistato il relitto. Unico problema: per lavorare in territorio jugoslavo occorreva un corrispondente locale, con il quale si creano subito forti conflitti di interesse. Da allora, fino al 1992, del relitto si persero le tracce. Solo i pescatori croati ne conoscevano l’ubicazione (o meglio, conoscevano l’ubicazione di un relitto) in quanto perdevano sempre le loro reti quando pescavano in questa zona.
    Del ponte superiore sono rimaste le strutture e parte del legno, i fumaioli non ci sono più, al loro posto degli enormi fori che sprofondano nelle viscere della nave. La nave è maestosa in perfetto stile liberty, la sala da pranzo della prima classe era un elegante elegante salone addobbato con velluti e broccati, le colonne ricoperte di stucchi ed adornate da capitelli ionici, ora è rimasta solo la struttura esterna perchè essendo tutto legno e rimasto ben poco. Alcuni ponti in legno ancora presenti sono infatti pericolosi perchè possono crollare anche solo da un violento movimento di pinne. La sala macchine è accessibile e si possona ammirare le caldaie che costituivano il cuore della nave. Le eliche in bronzo invece vennero recuperate nel 1920. Particolarmente interessante è il timone, rivolto in una posizione veramente insolita che lascia pensare che la nave sia affondata di poppa.
    (Flavio Favero, aiam.info)


    Edited by gheagabry - 6/11/2013, 01:12
     
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    La Wilhelm Gustloff



    Tutto ebbe inizio il 31 gennaio 1936 nella fredda Berna…In una Svizzera ancora poco coinvolta nella morsa delle leggi razziali che di lì a poco cambieranno con forza dirompente il tessuto sociale europeo, uno studente ebreo, David Frankfurter, medita la sua vendetta. Obiettivo principale della sua furia incontrollata, un’icona dell’antisemitismo, il gerarca Wilhelm Gustloff, leader del NSDAP, il partito nazista svizzero. Lo scopo di Frankfurter è quello di eliminare quell’uomo e ciò che rappresenta: si illude in questo modo di scuotere la scena europea, di cambiare il corso della storia. Decide così di recarsi a Davos e, la mattina del 4 febbraio 1936, di presenta a casa di Gustloff, per portare a termine la sua missione. Mantiene fede al suo intento. Con tre colpi di pistola la vita di Wilhelm Gustloff finisce in quell’istante, nel suo elegante studio, dinnanzi al ritratto austero del venerato Führer. Per la prima volta un gerarca nazista muore per mano di un ebreo.

    Per rendere omaggio alla sua figura, Hitler in persona ordina che la nuova nave passeggeri della Società Kraft Durk Freude non fosse dedicata a lui ma a Gustloff, vero martire della causa nazista. L’inaugurazione della “Wilhelm Gustloff” ha luogo presso il cantiere 51 della Blohm & Voss: non si tratta di una nave da crociera particolarmente innovativa, ma rappresenta senza dubbio un ottimo strumento di propaganda, incarnando al tempo stesso l’ideale dell’unità razziale e quello del sogno tedesco, realizzabile attraverso l’affermazione dell’ideologia nazista. Il viaggio inaugurale risale al 24 marzo 1938: il capitano Carl Lübbe, solca le fredde acque del Mar del Nord nei mesi estivi, prediligendo di contro la rotta portoghese nei mesi più freddi. Ma l’Europa sta per divenire, inesorabilmente, teatro di guerra.
    Nel maggio del 1939, quattro mesi prima dell'inizio della seconda guerra mondiale, la Gustloff si affiancò ad altre quattro navi della KdF, la Robert Ley, la Der Deutsche, la Stuttgart e la Sierra Cordoba. Queste navi avevano il compito di ricondurre la Legione Condor dalla Spagna alla Germania. Arrivata nel porto di Vigo, scaricò materiale medico per le organizzazioni di volontariato e sanitarie spagnole. Poi caricò i 1.400 uomini della Legione e il 30 maggio del 1939 fece ritorno nelle acque tedesche. Una parata di navi la scortò sino al porto d'Amburgo, dove fu accolta da grandi manifestazioni di giubilo. Dal 22 settembre 1939, subito dopo l’invasione della Polonia, la Wilhelm Gustloff viene requisita per motivi bellici dalla Kriegsmarine ed adibita a Nave Ospedale (Lazerettschiff D) e svolge questa sua nuova funzione prevalentemente nel Golfo di Danzica. L'uso di questo tipo di nave era strettamente monitorato ed era sottoposto a un rigido protocollo di procedure internazionali. Completamente riverniciata di bianco, sfoggiava su entrambi i lati una banda verde lungo tutta la carena, oltre a numerose croci rosse sul ponte, sul fumaiolo e sui lati. Su queste navi era proibito trasportare materiale bellico.
    Il primo impiego della nave ospedale fu nella zona di Danzica, durante le operazioni contro la Polonia, dove la Gustloff rimase alla fonda nella baia per molte settimane accogliendo i soldati tedeschi feriti. Da maggio a luglio 1940 prese servizio come ospedale galleggiante durante la campagna di Norvegia, stazionando nei pressi di Oslo; quando levò l'ancora aveva a bordo 560 persone, tra feriti ed equipaggio. Prima dell'autunno del 1940 alla Gustloff fu ordinato di prepararsi per le operazioni in vista dell'invasione dell'Inghilterra, ma come sappiamo tale operazione non fu mai portata a termine. Dopo un successivo viaggio a Oslo, per recuperare altri 414 feriti, terminò il servizio di nave ospedale e puntò quindi in direzione di Gotenhafen, dove, sempre al servizio della Kriegsmarine, fu tramutata in nave caserma per gli U-boot tedeschi. La Gustloff iniziò questa nuova attività prima sotto la 1° Divisione Unterseeboots e poi sotto la 2° Divisione Unterseeboots, rimanendo all'ancora a Gotenhafen per quattro anni.


    Alla fine del 1944 riprese servizio, partecipando alla più grande evacuazione navale della storia, il recupero e il trasporto di milioni di rifugiati che dalla Prussia Orientale fuggivano verso il cuore della Germania. Tutte le più grandi navi della KdF furono utilizzate in questa imponente operazione. Nei porti di Danzica, Gotenhafen e Pilau partirono cariche di tedeschi in fuga le navi Capitano Arcona (t. 27.561), Robert Ley (t. 27.288), Hamburg (t. 22.117), Deutschland (t. 21.046), Potsdam (t. 17.528), Pretoria (t. 16.662), Berlin (t. 15.286), Goya e altre ancora. Fu la più imponente evacuazione della storia, con oltre due milioni di persone trasferite.
    Quando la Gustloff lasciò la protezione del porto di Gotenhafen il 30 gennaio 1945, con destinazione Kiel, le condizioni climatiche erano pessime: soffiava un vento forte, nevicava, la temperatura era di dieci gradi sotto lo zero e numerosi blocchi di ghiaccio galleggiavano nel mar Baltico. Le possibilità di sopravvivenza di un naufrago in un mare cosi freddo, e in condizioni atmosferiche simili, erano pressoché nulle. La lista dei passeggeri era formata da 918 ufficiali, 173 membri dell'equipaggio, 373 membri delle Unità Navali Ausiliarie (formata esclusivamente da donne), 162 feriti, e 4.424 rifugiati. Un totale di 6.050 persone. Ma questa lista non teneva conto delle centinaia di persone che all'ultimo momento avevano preso posto sul ponte della Gustloff. Secondo le più recenti stime il numero totale di persone a bordo era di 10.582, che Heinz Schon, attento studioso della vicenda, ha così suddiviso: rifugiati 8.956, ufficiali e membri della 2° Unterseeboot-Lehrdivision 918, donne delle Unità Ausiliari 373, uomini delle forze navali 173, soldati feriti 162.
    Mentre la Gustloff puntava verso Kiel, il sommergibile sovietico S-13 comandato da Alexander Marinesko individuò la nave. Dopo averla seguita brevemente, alle 21,08 di quel 30 gennaio 1945 la colpì con tre siluri. Il primo raggiunse la nave a prua, direttamente sotto la linea di galleggiamento, nei compartimenti 2 e 3. Il secondo l'area della piscina e il terzo la sala motori, devastando l'intero scafo. Immediatamente la Gustloff piegò a dritta e lanciò i razzi di segnalazione e SOS. Il castello di prua fu quasi sommerso mentre la poppa si alzò sopra il livello del mare. In meno di cinquanta minuti si consumò la più grande tragedia navale tedesca. La Gustloff affondò nelle gelide acque del mar Baltico portando con se 9.343 persone (7.700 secondo le stime ufficiali). I sopravvissuti furono solo 300.
    L'affondamento della Gustloff è ricordato oggi come il più grave e tragico evento di tutta la storia navale. Ma allora quella tragedia non ebbe la risonanza internazionale che avrebbe meritato. Trattandosi di una nave nemica il fatto passò come un semplice evento bellico, cioè il siluramento di una nave tedesca da 25.000 tonnellate. Oggi il relitto della Wilhelm Gustloff è considerato alla stregua di un cimitero di guerra: l’intera area è interdetta alle immersioni ed a qualsiasi altra attività ricreativa, in segno di doveroso rispetto verso la più grande tragedia del mare.
    (dal web)
     
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    Storie di relitti....

    il KENT, la nave dei Corani


    San Vito Lo Capo, celebre località turistica del trapanese, cela nelle sue profonde acque un patrimonio d’inestimabile valore, capace di suscitare molto interesse tra appassionati e semplici curiosi del mondo marino.
    In particolare, il relitto del Kent, un’imbarcazione identificata nello specchio di mare di fronte la vecchia Tonnara del Secco, rappresenta una meta di grande fascino per tutti i subacquei che in una sola immersione soddisfano interessi di tipo storico e naturalistico. Il Kent era un cargo battente bandiera cipriota costruito nel 1957, di lunghezza pari a 75 metri di circa 783 tonnellate, di proprietà del greco Tsourinakis Thomos. Il cargo ospitava un equipaggio composto da circa 10 persone di diverse nazionalità, posto sotto il comando del greco Liakos Hristos. Dopo aver lasciato il 30 giugno 1978 il porto di Siracusa ed aver effettuato uno scalo a Brindisi, il 7 luglio dello stesso anno il Kent iniziò ad imbarcare acqua a causa di un incendio scoppiato nella sala macchine. L’intero equipaggio fu costretto ad abbandonare la nave e le operazioni di soccorso furono estremamente complesse. Nel tentativo di spegnere l’incendio ben due rimorchiatori trainarono il Kent in un’ area nota con il nome di “il Firriato” tra Punta Spadillo e Punta Forbice. Nonostante i soccorsi il cargo si inabissò inesorabilmente, adagiandosi in perfetto assetto di navigazione su un fondale sabbioso compreso tra i –37 e i –51 metri. Non fu possibile salvare nulla del suo carico, eccezionalmente ricco: ben 20 tonnellate di sacchi di polietilene, 1400 kg di sigarette, 27 tonnellate di carburante, 32 tonnellate di zampironi e corani.
    È proprio il ritrovamento di numerosissime copie del Corano a suscitare grande interesse: i libri giacciono tutt’ora sul fondale sabbioso. Da un’analisi effettuata su un campione recuperato da un subacqueo alcamese si è potuti giungere alla conclusione che si tratta di una edizione di pregio sia per la qualità della carta che per la cura grafica e stilistica, caratterizzata da bellissimi decori policromi.
    Oltre a rappresentare una preziosa testimonianza di un passato non troppo lontano, il Kent è tutt’ora custode di un prezioso patrimonio faunistico, rappresentando in maniera pressoché esemplare un ottimo strumento per il ripopolamento ittico e la tutela delle biodiversità.
    L’importanza del relitto in chiave storica e biologica è stata inoltre sancita da un’ordinanza della Soprintendenza del Mare della Regione Siciliana che, attraverso la Capitaneria di Porto di Trapani, ha identificato un’area di rispetto intorno al relitto, al fine di evitare ulteriori danni. Grazie a cernie, murene, spirografi, saraghi, corvine, polpi, il Kenttorna dunque a nuova vita, una vita dominata dai silenti ritmi del popolo del mare
    (Valentina Pascali)

    .....l'immersione.....


    "...una della più belle immersioni di tutta la Sicilia settentrionale, quella sulla motonave Kent, meglio conosciuta come "Nave dei Corani". Si tratta di un cargo battente bandiera cipriota...Tre giorni più tardi mentre era alla fonda nel golfo della tonnara di San Vito, un incendio scoppiò ... Lentamente, e ancora legata alla sua catena, iniziò a sprofondare sempre più velocemente scivolando dentro l'acqua senza fare schiuma, finché l'ultimo pezzo di prua scomparve alla vista. Per prima, ad urtare sul fondo fu la zona di poppa; l'impatto smosse l'aria intrappolata negli ambienti sottocoperta e le enormi bolle raddrizzarono lo scafo facendolo adagiare sul fondo in perfetto assetto di navigazione. Col Kent affondava anche il suo carico: 20 tonnellate di sacchi di palline di polietilene, 1400 kg. di sigarette e 32 tonnellate tra zampironi e libri di corani. Questi ultimi, contenuti in due containers di legno, per la diversa velocità di discesa sul fondo, finirono per adagiarsi una ventina di metri più avanti dell'ancora e regalarono al relitto il poetico soprannome di "nave dei Corani". Il fondo su cui la motonave giace è composto da sabbia e rocce e oscilla tra i 45 e i 50 metri; le strutture iniziano a –38 e ci si mantiene agevolmente entro i 45 metri visitandone la maggior parte. Il relitto è veramente piacevole e interessante, pieno di angoli che stimolano la curiosità e l'osservazione. Gli interni, pur non essendo agevolissimi, almeno con la configurazione che si conosce, sono abbastanza accessibili con le ovvie e dovute attenzioni. Un camminatoio, raggiungibile da una porticina alla base del cassero di poppa, porta a diverse aperture che immettono nei locali di servizio della nave. Le stive contengono quel che rimane del carico e, fissate alla paratia dei locali equipaggio nel castello di prua, fanno bella mostra l'elica e l'ancora di rispetto....Il Kent è un relitto ingannevole che, a prima vista, sembra essere più facile di quello che è in realtà. Si crede di poterlo visitare tutto in un'unica immersione, e ci si trova ad aver pinneggiato ininterrottamente senza aver potuto fissare l'attenzione su niente e con la riserva d'aria in forte diminuzione per via della quota. Altra emozione è quella che va vissuta scendendo lungo la catena dell'ancora e pinneggiando poco più avanti per osservare i resti dei containers e quello che resta delle "pile" di corani che ancora vi risiedono all'interno e che in gran parte sono stati asportati dai tanti curiosi. Nessun rimorso comunque perché non si tratta che di copie di libri editi abbastanza recentemente (la copertina è in similpelle, le pagine con scritti colorati) e quindi di ben poco valore sul piano tipografico."
    (dal web)
     
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  10. gheagabry
     
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    Storie di relitti....

    ...il relitto del POZZINO


    Fra il 140 e il 120 avanti Cristo, Roma era in piena espansione in tutto il Mediterraneo. Poco tempo prima si era conclusa la terza guerra punica: sotto il comando del console Scipione Emiliano era stata distrutta Cartagine, nello stesso periodo la Grecia era diventata una provincia romana a tutti gli effetti. Erano gli anni dei due fratelli Gracchi, Tiberio e Gaio; la ricchezza pioveva su Roma, fulcro del mondo. Proprio in quel periodo un veliero, realizzato in legno di pino, rovere e noce, solcando il mar Tirreno di ritorno da un viaggio nel Mediterraneo, incappò in una tempesta e naufragò nel Golfo di Baratti, nei pressi di Piombino. Non è dato sapere che cosa successe all'equipaggio e ai passeggeri, ma di certo a bordo c'era un medico, con la sua "cassetta del pronto soccorso": lo hanno dimostrato gli studi di archeologi e biologi, duemila anni dopo il naufragio.
    Il relitto del Pozzino (dal nome della baia dove affondò il veliero) è rimasto a 18 metri di profondità fino al 1974, quando fu individuato sotto un intrico di posidonia e iniziarono le missioni subacquee per riportarne a galla i tesori e svelarne i misteri. La nave, lunga 15 metri e larga 3, trasportava anfore di vino da Rodi, tazze di vetro dall'area Siro-palestinese, lucerne dall'asia Minore, vasi da Cipro, ceramiche da Pergamo ed Atene, lucerne, tutte provenienti da Paesi del Mediterraneo orientale e dell'Asia Minore.
    Subito si capì che a bordo doveva esserci un medico, perché fra le altre cose vennero rinvenuti uno specillo (strumento lungo e sottile usato per esplorare le ferite), una ventosa in bronzo per i salassi, una brocchetta con filtro, un mortaio. Ma la parte più interessante del carico era una sorta di cassetta di pronto soccorso forse appartenente al medico...dentro, tra le altre cose, gli archeologi vi hanno recuperato diversi contenitori di stagno con all’interno delle pastiglie verdi – ciascuna di circa tre centimetri di lunghezza e mezzo centimetro di spessore. Poiché i contenitori erano sigillati, le pillole sono state all’asciutto nonostante i millenni sul fondo del mare. Perfettamente conservati grazie alla sigillatura ed esposti al Museo Archeologico del Territorio di Populonia a Piombino, hanno iniziato a svelare i loro segreti 20 anni dopo il ritrovamento. Si tratta di pastiglie a base di erbe, antesignane delle attuali pillole: lo hanno accertato Robert Fleischer e Alain Touwaide dello Smithsonian Conservation Biology Institute di Washington (Usa), in collaborazione con il Laboratorio di Analisi della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana, analizzandone con tecniche di biologia molecolare il contenuto. Luigi Campanella, direttore del Polo Museale della Sapienza di Roma, dove sono stati presentati gli ultimi risultati delle ricerche sul relitto del Pozzino, spiega:


    "In ogni pastiglia abbiamo trovato almeno dieci piante. Alcuni estratti sembrano essere più comuni di altri, come l'alfa alfa, la carota, la cipolla e la noce. Altri corrispondono a biancospino, achillea millefolium, canavalia ensiformis e ibisco, probabilmente importato dall'est dell'Asia o dalle odierne India ed Etiopia. "In molti casi - ha aggiunto il ricercatore - si tratta di sostanze le cui proprietà benefiche sono elencate nei libri chiave della medicina antica".



    I ricercatori hanno analizzato il Dna e identificato diverse specie vegetali utilizzate per curare infiammazioni, disturbi ai reni, tosse. Il medico, in pratica, aveva con sé l'armamentario per intervenire su piccoli, comuni malanni»... in ogni "pillola" pare ci fossero una decina di erbe diverse, fra cui cipolla, carota, noce, cavolo, sedano, prezzemolo, ravanello, biancospino, achillea, ibisco. Tutte erbe abbondantemente presenti nei testi medici dell'antichità; probabilmente il medico di bordo le metteva assieme aiutandosi con il mortaio e gli altri strumenti che aveva con sé sulla nave. Gli storici ritengono probabile che le pillole venissero disciolte in acqua o vino, per essere poi bevute o applicate sulla pelle. Capire quali fossero le erbe contenute nelle pastiglie ha richiesto anni di lavoro ed è stata un'impresa non da poco.

    Dioscoride, ad esempio, medico, botanico e farmacista greco, descriveva la carota come panacea a una serie di mali, dal morso dei rettili ai problemi di contraccezione. La sua opera in cinque libri, De Materia Medica, è considerata il primo erbario della medicina occidentale. Il lavoro venne copiato verso il 512 d. C. per la principessa bizantina Giuliana Anicia, che gli assicurò così lunga vita presso la comunità scientifica. Tra le piante descritte nel De Materia Medica e ritrovate sul relitto del Pozzino c'è anche l'achillea millefolium, il cui nome viene dalla leggenda secondo cui fu proprio la foglia di questa pianta a guarire il piede del prode Achille. In linea con il mito, sia Dioscoride che Galeno la raccomandavano come emostatico. Da qui deriverebbe la sua denominazione popolare di "erba dei tagli". Ma il ruolo del relitto dei farmacisti non è finito qui: nei prossimi mesi i ricercatori americani continueranno ad analizzare le pastiglie nella speranza di scoprire la teriaca, una medicina descritta da Galeno che dovrebbe contenere più di 80 estratti diversi.
    (dal web)
     
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  11. gheagabry
     
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    “E’ dall’oceano che nascerà il destino delle civiltà future”
    (Jacques Rougerie)

    Sea Orbiter, l'astronave degli oceani


    La Sea Orbiter, è una creatura di Jacques Rougerie, (l’architetto del mare, famoso per le sue navi avveniristiche e gli acquari straordinari), è un incrocio fra un sottomarino ed una nave e costituirà di certo una assoluta novità in fatto di esplorazione marina.
    La stazione - che verrà costruita grazie al contributo del famoso esploratore marino Jacques Picard in collaborazione con la Nasa e l’Agenzia Spaziale Europea - studierà le mutazioni climatiche, gli ecosistemi marini e gli effetti psicologici - fisiologici in ambiente pressurizzato.

    Segnerà una nuova era nello studio della fauna, della flora sottomarina, della biodiversità, e nel monitoraggio dell’inquinamento e del cambiamento climatico. Sorprendente ibrido tra una nave e un sottomarino, questa futurista stazione orbitale d’osservazione galleggiante, si presenta come un’aerodinamica struttura verticale d’alluminio di 51 metri d’altezza a forma di pinna, con una parte sommersa di 31 metri. Una parte centrale in cui saranno sistemati otto livelli di lavoro con sale e uffici dotati di ampie finestre sul mare e una parte sommersa - quella più importante - dove verranno collocati i laboratori.Una piattaforma di 24 metri di diametro a 12 metri di profondità funge da stabilizzatore, in caso di tempesta. Un ponte di controllo sospeso a 14 metri consente una visione del mare a 360°. SeaOrbiter ospiterà un equipaggio internazionale di 18 persone, di cui 10 in pressione atmosferica sopra, e 8 acquanauti in ambiente pressurizzato nella parte immersa. SeaOrbiter partirà alla conquista degli oceani nel 2014 per la missione Gulf Stream.Collaborano a questo progetto senza precedente la NASA e l’Agenzia spaziale europea, in quanto SeaOrbiter fungerà anche da simulatore spaziale, con lo studio della fisiologia e della psicologia degli equipaggi in ambienti estremi, per lunghi periodi, e attività sott’acqua similari a quelle da compiere nello spazio.
    (dal web)

    ...i segreti del mare...


    Una vera mostra d’orticoltura, una serra di piante preziose. Tutte queste volute colorate che sulla terra potrebbero chiamarsi azalee, ibisco, margherite di prato e felci, hanno qui un solo nome: coralli. Sono talmente stupito che mi immergo per toccare ogni efflorescenza. Voglio rendermi conto e accarezzo colle dita una massa rotonda, tocco il fusto cesellato di un corallo colonnare, sfioro il ventaglio spiegato di un polipaio scarlatto, schivo le forme più minacciose e scatenate. E’ una giungla, a cui non mancano le liane, sorgenti dal fondo come catene metalliche rugginose, che scambiamo lì per là con fili di ferro naufragati, e invece sono speciali gorgonie, le virgolarie. Non penso più ai rischi in questo universo pericoloso. Ho dimenticato di seguire i miei compagni e resto solo nell’acqua luminosa, tuffandomi verso queste strane forme di vita e resistendo fino al limite della mia respirazione, per risalire soltanto a riprender fiato. Per il momento sono incapace di riflettere, sono soltanto un occhio che registra senza legami col cervello. Osservo le forme: cornetti arricciati, ombrelli e piattaforme circolari, vallette, blocchi, colonne e vertici azzurri. Il bianco campeggia, il violetto palpita, il rosso esplode, il bruno riposa e il giallo rischiara. E’ una tavolozza insensata. Imparerò a poco a poco i nomi di queste forme strane. Cespugli di spine, le seriatopore folte, le madrepore sboccianti in corimbi, i nastri annodati a cocche gonfie delle eufille, le strane dita a salsicciotto degli stilofori ove luccicano migliaia di margherite rosate, le masse arrotondate delle galassee che la natura ha trapuntato di margherite radianti e piatte e di tulipani slanciati. Questi volanti increspati a meandri enormi sono i mussa e le ulofillie. Le fioriture d’ortensia si chiamano pavonie; le foglie serrate in forma di palla, e punteggiate da mille fori regolari, simili a tessuti martellati sono le turbinarie. La loro disposizione a rami, arbusti, ventagli, a fasci, varia all’infinito. Vi sono alberi a diramazioni mostruose, e gracili mazzolini. Le madrepore dei faraoni, le corna d’alce e coralli di fuoco che ci irriteranno dolorosamente il dorso e le gambe, sbocciano qui come gli alberi di nocciolo e di rose canine nei nostri sentieri.
    Potenti massi rotondi si staccano, punteggiando le strade delle nostre passeggiate subacquee di strani paracarri corallini. Sembra la superficie operata di un velluto o di una pelle, sono le porite e le goniopore. Il loro disegno ricorda pure, tratto per tratto, le circonvoluzioni tormentate del cervello, ed è facile riconoscere le meandrine e i famosi cervelli di Nettuno. E’ un palazzo orientale, animato da un mercato persiano in cui vanno e vengono i compratori, i pastori e i mendichi. I pesci pappagallo sembrano provinciali loquaci e riccamente vestiti. Prigioniere del loro canale di pietra, le murene si stirano con atteggiamenti languidi da schiave. Qual é il sultano abbastanza ricco da poter riunire tante odalische nel suo harem: donzelle di corallo dai toni caldi, pesci angelo dall’ali leggere come sciarpe? Di tanto in tanto, un gruppo serrato e cupo di balestra, poliziotti del mare, passano neri, con un solo punto bianco, all’inseguimento di una schiera di carangidi festosi e agili. Questi ultimi debbono avere un certo numero di pesciolini sulla coscienza e parecchi danni ai coralli. E’ un indescrivibile ribollire di vita silenziosa, da ogni vertice di madrepora sboccia e si ritrae un’infima forma d’esistenza, il polipo. Come una città dai quartieri ben separati, ogni massiccio ha qui la sua popolazione, abituale e consentita: in questa zona vi sono i pesci farfalla, dal becco aguzzo, e la livrea gialla a incrociature brune e nere; cento metri più lontano, l’angolo é riservato agli “angeli francesi” blu di Prussia intenso, illuminati da sottili tocchi color latte. Vi sono poi dei pesci chirurgo in così gran numero, che pare si siano riuniti per qualche congresso. Sotto un ombrello di corallo rutilante, un olocentro cardinale, pesce corallo, dall’occhio immenso, sembra assorto nell’attesa di un appuntamento con una bella svagata. Tre cernie scure fanno tranquille evoluzioni, a dieci metri di fondo, come i maestri di scuola, durante una ricreazione, passeggiano cautamente, discutendo. E’ tardi, e gli ultimi raggi di sole penetrano a stento nelle masse liquide, tingono l’acqua di un viola cupo. Tra qualche istante sarà notte, ma non riusciamo a staccarci da questo luogo affascinante. Intravedo ancora un gruppo splendido di forme e di colori, e mi immergo un’altra volta per osservare da vicino questa sfera di piume e di pennacchi. Il colore base é il rosso rosato, vivacemente rigato a bande nere e bianche. Arrivo a rasentare lo strano gomitolo multicolore, tendo la mano ma la ritiro tosto, trattenuto da un oscuro presentimento. Ed ecco che la massa sorprendente si sposta lenta, e riconosco improvvisamente la testa di drago deforme, irta di punte e sormontata di un piumetto spinoso, le immense spine della dorsale raggiata, le pinne pettorali stese come le ali di un pappagallo, e le pelviche, formanti con le anali una vera e propria deriva a questo veliero di fuoco. E’ il “Pterois volitans” chiamato pure pesce pollo, pesce drago, pesce leone, pesce diavolo. Questo meraviglioso prodotto della natura tropicale così prodiga di colori e di forme, secerne e inietta un potente veleno dalle sue punte aguzze. Gli arabi ne hanno un terrore singolare. Dicono che le ferite prodotte da questo pesce sono atrocemente dolorose e spesso fatali e lo chiamano il pesce della morte. Sento mancare l’ossigeno e penso che non potrò resistere ancora a lungo. Ma il contrasto tra l’uomo fragile, dalle carni opache, e i toni violenti e folgoranti dell’animale velenoso, e così insolito, che prolungo l’immersione. Dove potremmo trovare sulla terra, nel regno animale, trappole cosi attraenti? Il serpente é velenoso, e nello stesso tempo produce un senso di repulsione. L’uccello del paradiso é un fiammeggiare di colori, ma non nasconde veleno. Soltanto il mondo dei fiori, con la dionea ammazzamosche e la nepente dalle ascidie carnivore, sa attrarre, e poi uccidere dopo aver sedotto.
    Nel mondo delle acque si scoprono, riuniti bizzarramente dalla natura, la bellezza stupenda e il rischio fatale. Ma non resisto più, le tempie mi battono e sento la gola serrata da un’angoscia insopportabile. Debbo risalire. Un ultimo colpo d’occhio mi rivela adesso il più straordinario spettacolo che si possa immaginare. Di sotto alle ali spiegate del pesce meraviglioso, escono a frotte dei minuscoli vermi alati che formano intorno all’animale una traslucida nube vivente. Fedeli riproduzioni della splendida caravella, mille piccole creature si staccano dai fianchi della madre, timorose come pulcini uscenti dalle piume arruffate delle galline di Bramaputra. Non manca loro nulla dell’abbozzo originale, ma il pittore dell’universo subacqueo non ha completato il suo lavoro, ed essi attendono i loro colori, come i fanciulli i primi pantaloni lunghi. Gli strani piccoli pesci sono diafani, e le ultime luci del giorno giocano attraverso il loro corpo di cellofane. Da grandi, saranno coloratissimi. Ora devono attendere come una ricompensa i toni magici allo schiudersi della pubertà . Risalgo alla superficie. Aspiro violentemente e vado quasi a cozzare contro Filippo, i cui occhi, dietro la maschera, riflettono lo stesso stupore dei miei.
    (Gilbert Doukan, 1957)

     
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  12. gheagabry
     
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    walking-on-the-beach-871297516032sFP

    "Camminavo sulla spiaggia deserta. Non ero solito farlo alle 7.30 di mattino, ma quel giorno mi ero svegliato presto e non riuscendo più a stare a letto avevo deciso per una passegiata mattutina.
    La spiaggia a quell'ora aveva un'immagine completamente diversa .... Ma era bello cosi, una quiete apparente che di li a poco sarebbe stata rotta dall'insostenibile pesantezza della società moderna.
    I piedi scalzi trovavano insolito piacere nel farsi bagnare dall'andare e venire delle onde del mare. I bagnini dei lidi erano già a lavoro a rendere bello il loro spazio di mondo. C'era il vecchio Elvis alla ricerca, con il suo inseparabile Metal Detector, di piccoli tesori sommersi persi dalle signore. C'era anche il vecchio Benino, si dice che un suo avo abbia ispirato l'omonimo personaggio presepesco, che in compagnia della sua inseparabile bottiglia di vino paesano insapore, si era addormentato per l'ennesima notte vicino le barche dello storico lido Aurora, un lido aperto nel lontano 1963 dai genitori della giovane Aurora scomparsa senza lasciare traccia nel mese di maggio del 1961.
    Andava li perchè a 20 anni era stato innamorato della ragazza e, stando ai suoi racconti, la statua della bellissima sirena che vegliava sul pezzo di spiaggia era la sua Aurora, trasformata in pietra dalla magia di una megera, gelosa del loro amore. La speranza di poterla un giorno riabbracciare lo spingeva li ogni sera. Faceva quasi pena e il suo amare con tanta passione quella statua, quasi mi faceva credere alla sua storia.
    Giunsi agli scogli che tagliavano in due i 3 km di spiaggia e andai a sedermi sull'ultimo. Una piccola colonia di granchi viveva nella parte inferiore e più nascosta degli enormi massi marini....Sin da piccolo avevo una passione, quella di infilarmi nei posti più disparati, per scoprire cose che normalmente non si vedevano. Ispirato dai piccoli granchi che vivevano quegli scogli, iniziai ad infilarmi tra quei sassi un pò troppo cresciuti, fin dove mi era possibile. Col senno di poi mi resi conto che non era stata una grande idea, fino a quando la mia attenzione non fu colpita dal luccichio di un qualcosa incastrato tra gli scogli....cercai di raggiungere l'oggetto misterioso. La delusione si dipinse sul mio viso quando arrivato li mi accorsi che era una banale bottiglia, ma ormai già che ero li andai a raccoglierla per gettarla nell'apposito raccoglitore per il vetro. Ma una volta ripulito il vetro era ben visibile al suo interno, una lettera. La lettera arrotolata a mo di pergamena era legata da un nastrino rosa. A quel punto non rimaneva altro che recuperarla e leggerla. Ruppi la bottiglia e presi la lettera, e rimasi allibito quando aprendola lessi la data:

    mano-che-scrive-lettera

    10/05/1961

    Possibile che quella bottiglia era rimasta custodita dagli scogli per 46 anni, senza che nessuno la trovasse?

    "Amore, una semplice parola che non potrò più dirti.
    Amore, un sentimento che ci ha reso schiavi
    Amore, constrastato da tutto e da tutti, dall'invidia e dalla gelosia
    Amore, quello che proverò in eterno per te,
    nessuno potrà mettere fine alla nostra magia,
    nessun incantesimo potrà mai separarci.
    Resterò per sempre la tua Aurora.
    Ti Amo.
    Non so dove arriverà questa bottiglia, chi la raccoglierà, chi leggerà la lettera.
    Vorrei solo che queste parole potessero arrivare nel cuore di chi le può capire."


    Un pensiero si fece largo nella mia testa: e se la storia del vecchio Benino fosse vera?"
    (AndyilMatto81. dal web)

    mare_pensieri


     
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  13. gheagabry
     
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    Storie di relitti.......

    La NOVA SCOTIA


    15/16 novembre 1942


    Da qualche giorno, nel porto di Massaua in Eritrea, era alla fonda il piroscafo britannico Nova Scotia. La nave, di 6976 tonnellate, costruita per il trasporto passeggeri, era stata varata nel 1926 e convertita a trasporto truppe nel 1941. Ora eseguiva la tratta Aden – Sudafrica per il trasporto, oltre che delle truppe britanniche, anche di prigionieri di guerra, ed aveva già effettuato, a questo scopo, diversi viaggi al largo delle coste dell’africa sud orientale. In quei giorni stava imbarcando soldati italiani e tedeschi, rastrellati in Etiopia ed Eritrea, assieme a prigionieri civili, fra i quali, sembra, anche alcune donne, e diverse centinaia di soldati sudafricani ed inglesi. Gli italiani, che erano in numero di 769, in massima parte erano reduci degli equipaggi delle navi come la Tevere, la Colombo, la Mazzini che erano state autoaffondate prima dell’occupazione della colonia italiana. Gli altri erano civili che venivano deportati, per motivi diversi, nei campi di concentramento in Sudafrica. In tutto, compreso l’equipaggio, si contavano circa 1200 persone. Il 16 novembre la Nova Scotia salpò verso Port Elizabeth nel Sudafrica.


    28 novembre 1942


    La mattina presto di quel giorno la Nova Scotia stava transitando al largo della costa del Natal, e per sera avrebbe avvistato la città di Durban, dalla quale distava circa 244 chilometri.. Procedeva prudentemente a zig-zag per il fatto che era stata segnalata, in quelle acque, la presenza di sommergibili tedeschi. Ed infatti l’U-Boat 177 tedesco, comandato dal capitano di corvetta Robert Gysae, avvistandola al proprio periscopio si propose di intercettala, probabilmente credendola un cargo mercantile, per affondarla. Il sommergibile lanciò tre siluri alla distanza di 380 metri, due dei quali andarono a segno. Qualche secondo dopo con boato tremendo sul lato sinistro della nave si aprì una voragine, sotto il pelo dell’acqua, all’altezza delle macchine. Erano le 7.07. La tragedia ebbe inizio. Le fiamme dalle stive si propagarono nei corridoi, nei boccaporti, sui ponti di prua. Le esplosioni si susseguivano....Era il si salvi chi può.
    La nave con la fiancata squarciata cominciò ad inabissarsi di prua. Fu dato l’ordine di abbandonare la nave. Furono freneticamente scese in mare grosse zattere, ferendo ed uccidendo altre persone. Molti riuscirono così ad allontanarsi dal piroscafo che affondava. Dopo appena sette minuti la poppa della nave luccicava al sole, fortemente inclinata, inabissandosi di prua. Il comandante tedesco diede l’ordine di emergere e con stupore si accorse della moltitudine di naufraghi che chiedevano aiuto tra i flutti ed allora colse l’evidenza di non aver colpito un cargo ma una nave passeggeri. Comprese anche che molti di loro erano italiani. Riuscì a far salire, sul sommergibile, due di loro e sentendo, in quel momento, la necessità di giustificarsi per quanto aveva fatto, ribadì di aver creduto di colpire una nave inglese e non una nave piena di prigionieri suoi alleati. Immediatamente quindi, contrariamente a quanto disponevano gli ordini della marina tedesca in quei frangenti, lanciò un dispaccio radio a Berlino perché invitasse forze navali neutrali presenti in zona (portoghesi) a soccorrere i naufraghi. Poi diede l’ordine di allontanarsi ............- l’U-Boat 177 finirà la sua missione il 6 febbraio 1944, colpito da bombe di profondità da un aero USA; morirono 50 membri dell’equipaggio e 15 furono i sopravvissuti -....... Il mare era pieno dei resti del naufragio: casse, travi, derrate alimentari, e persone. Fra tanta rovina galleggiavano quattro grandi zatteroni colmi di superstiti e una moltitudine di uomini immersi nell’oceano, con la testa a pelo d’acqua, aggrappati a qualsiasi cosa. Tutti erano unti di nafta... Piano piano il moto ondoso allontanò gli uni dagli altri disseminandoli nell’immensità dell’oceano. Il mare era tranquillo e la giornata volse a sera rapidamente. Scesa la notte, improvvisamente il mare si fece grosso..I naufraghi aggrappati alle loro zattere con la forza della disperazione, erano violentemente costretti dal moto del mare a salire e scendere, investiti da onde poderose, che facevano perdere la presa ai più deboli ed ai più stanchi. Continuò così per tutta la notte del 28 e per l’intero giorno successivo senza che alcun soccorso si facesse avanti.
    Intanto alla richiesta di aiuto sollecitata dal comandante dell’U-Boat tedesco rispose il cacciatorpediniere portoghese Alfonso de Albuquerque, al comando del capitano Josè Augusto Guerriero de Brito. Il capitano si adoperò immediatamente per giungere al più presto sul luogo del disastro, dando la posizione anche ad una nave da guerra britannica che però proseguì imperterrita sulla sua rotta. Il 30 novembre, alle 5,45 della mattina, finalmente, i naufraghi furono avvistati e cominciò la frenetica ricerca dei superstiti che si prolungò per tutta la notte. Riuscirono a far salire sul cacciatorpediniere portoghese 117 italiani e 64 fra sudafricani ed inglesi. In tutto, quindi, furono 181 i superstiti dei 1200 di partenza. Il cacciatorpediniere Alfonso de Albuquerque, carico dei superstiti, attraccò nel porto della città di Lourenco Marquez (ora Maputo) nel Mozambico portoghese dove il comandante, nonostante le pressioni del comando britannico, tratterrà i reduci italiani che saranno curati negli ospedali di quella città neutrale, mentre i soldati inglesi e boeri saranno avviati verso il Sudafrica. I naufraghi italiani saranno peraltro aiutati in maniera significativa anche dal locale Vice Consolato d’Italia. Alcuni di loro, avranno così l’aiuto indispensabile per ottenere il rimpatrio, superando tutte le difficoltà contingenti. Molti altri si integrarono nella nuova situazione trovando anche la possibilità di lavorare.

    Nel 1982, a cura dei superstiti viventi dell’affondamento della Nova Scotia, che vivevano ancora nel Mozambico, è stata donata una nuova grande tomba comune di forma circolare sormontata da una stele con una colonna spezzata, che riporta una iscrizione in italiano ed inglese che dice:

    "Alla memoria dei figli dell’Italia che sono periti nell’affondamento della SS Nuova Scozia XXVIII-
    XIMCMXLII."
    I superstiti riparati in Mozambico.


    Nei primi di novembre di ogni anno, il Consolato D’Italia a Durban, a Hillary, organizza la celebrazione di una Messa a ricordo di quei caduti affinché non venga perduta la memoria.
    (navenovascotia.com)


    "....Dei prigionieri italiani, la maggior parte proveniva dagli equipaggi di navi che la guerra aveva bloccato in Eritrea, come il “Tevere, il “Colombo”, il “Mazzini”, poi autoaffondati prima della occupazione. Altri, come civili che per un motivo o l’altro non erano graditi agli occupanti. Al tramonto saremo a Durban – disse subito il comandante Romney. – Date disposizioni perché lo sbarco avvenga nel massimo ordine.... Mi raccomando marciate come vi ha insegnato a fare Mussolini…...Non terminò la frase; l’esplosione ci scaraventò a terra. Ecco l’U Boot
    Tre siluri, un solo schianto come se un gigantesco maglio fosse calato sulla nave; una voragine a sinistra all’altezza delle macchine; torrenti di nafta che dilagano sull’oceano, fiamme che esplodono dal basso, serpeggiano per le stive, i corridoi, dai boccaporti, avvolgono i ponti a prua......Cercavo anch’io una lancia. Correvo in salita: il “Nova Scotia” era tutta inclinata a sinistra, l’acqua raggiungeva la prima passeggiata. Udii una voce che mi chiamava. Era Butturini. - Carlo qui c’è un posto. Stavano calando la prima lancia di dritta; c’era ancora un posticino all’estrema poppa. M’accucciai accanto all’amico. I paranchi erano in fuori, le carrucole cigolarono per un’ istante, poi uno strappo e il cavo poppiero si ruppe; la grossa imbarcazione volò con il suo carico trattenuta dal cavo di poppa. Non esitai, mi volsi di scatto gridando “Butturini lanciati” e mi tuffai. Un’onda mi prese di sbieco, gettandomi contro la carena; la nafta mi aveva accecato, alzai un braccio e m’aggrappai ad una cima che pendeva inerte. In quell’istante, mentre tentavo di pulirmi gli occhi col dorso della mano libera, lo zatterino entrò nella mia vita di naufrago.....Con quattro bracciate raggiunsi lo zatterino...
    Quando mi volsi ansando; il “Nova Scotia” era a cento metri da me; la poppa alta con le eliche scintillanti al sole: affondava di prua e la murata di poppa era un groviglio di uomini. Poi un gorgoglio forte, un sibilo rauco e anche quell’ultimo ridotto sparì. Sul primo atto del dramma era sceso il sipario liquido dell’oceano. Erano le 7.14. Sette minuti erano trascorsi e cominciavano le ore dell’agonia. Altri mi raggiunsero, tra cui il tenente Gallard, un rodesiano che parlava italiano. Ben presto fummo in dieci attaccati alle maniglie dello zatterino. C’era anche Bruno Trebbi. A venti metri da noi, l’”U-Boot” affondatore. Un ufficiale stava cinematografando l’affondamento. Sulla torretta il comandante, il volto incorniciato da una folta barba nera. Si udiva il ronzio degli accumulatori che si ricaricavano. Poi il comandante portò un fischietto alle labbra: due sibili ed un ordine ad alta voce. Fu Trebbi a capirne il significato: “Ragazzi – urlò – ci mitragliano”. Due marinai s’erano diretti alla mitragliatrice di prua, per scappucciarla. Fu un attimo: e il grido “Italia! Italia!” si levò da quelle poche centinaia di superstiti. Vicino a me Gallard si unì al coro, cantando “ La donna è mobile..”. Trebbi urlò qualcosa in tedesco. Il comandante gridò un ordine: dal sottomarino vennero lanciate delle gomene e tirati a bordo due di noi. I minuti trascorsero lenti, in gran silenzio: poi il tedesco gridò qualcosa, che Trebbi..Tradusse: “Dice di aver lanciato l’S.O.S. dobbiamo cercare di restare uniti il più possibile. Verranno a salvarci.".....
    (Carlo Dominione, superstite - “Domenica del Corriere” n. 47 del 25 novembre 1962)
     
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  14. gheagabry
     
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    Il FLOR DE LA MAR


    Il galeone Flor de la Mar era una nave ammiraglia di una piccola flotta del sedicesimo secolo comandata da Alfonso de Albuquerque, un soldato portoghese inviato nelle Indie orientali nel 1506 per fondare delle colonie portoghesi. Nel 1509 era già Governatore di tutti i possedimenti portoghesi in India.
    Nel 1511 conquistò Malacca (ora chiamata Melaka) sulla penisola malese e si appropriò di grandi tesori, che caricò sulla sua nave. Albuquerque la caricò con 20 tonnellate di statue di elefantini, scimmie e tigri di oro massiccio a grandezza naturale, nonché tonnellate di monete, diamanti, rubini ed altre pietre preziose. Nel 1512 la flotta partì per ritornare in Spagna con questi tesori, ma nello Stretto di Malacca si imbatté in una forte tempesta che spinse la Flor de la Mar su una scogliera al largo del promontorio nord.orientale dell'isola di Sumatra. Albuquerque si salvò, ma la nave colò a picco con tutte le sue ricchezze in un fondale profondo 36,5 metri. Dei 400 uomini dell'equipaggio, ne sopravvissero solo 3.
    Nel XX secolo, grazie alla tecnologia moderna, ci furono dei tentativi di recupero del tesoro, condotti da Bruno de Vincentiis, ricco cercatore di diamanti italiano, e Robert Marx. Ma ci furono problemi durante i negoziati coi governi malesi e indonesiani, che reclamavano il tesoro per intero senza scendere a compromessi. Il primo cercò il relitto, ma fu un insuccesso. Il secondo, invece, lo trovò, sotto uno strato di 15 metri di fango. Ma non ebbe molta più fortuna del primo, in quanto riuscì a recuperare solo qualche oggetto, statuette in oro e porcellana risalenti al periodo della dinastia Ming. Le condizioni per il recupero non sono delle migliori. Così, si può tranquillamente affermare che il tesoro della Flor de la Mar, dal valore approssimativo di 9 milioni di dollari, giace ancora in quei fondali a circa quaranta metri di profondità.
    (Dott. Giorgio Pastore)
     
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  15. gheagabry
     
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    Storie di relitti.....

    "La notte del 24/25 luglio 1943 sulla Viminale erano imbarcati 22 persone di cui: 17 salvati, 1 salvato ferito e quattro dispersi. Il S. Tenente di Vascello Giorgio Bagnasco organizzò e condusse personalmente le operazioni di salvataggio....."

    la MOTONAVE VIMINALE


    La motonave Viminale è un relitto affondato durante la seconda guerra mondiale al largo della costa di Palmi, in provincia di Reggio Calabria. Appassionati ed addetti al settore considerano questo relitto il Titanic italiano, per la straordinaria ricchezza del suo carico, conservato sino ad i giorni nostri in maniera pressoché intatta. Costruita nei cantieri San Rocco di Trieste e varata nel lontano 1925 dalla Loyd Triestino, la Viminale rappresentava un vanto per tutta la cantieristica italiana del tempo: la sua portata è di circa 8657 tonnellate, per una lunghezza di 140 metri ed una larghezza di circa 18 metri. Al suo interno vi erano ampie stive per la merce, cabine di I II e III classe, saloni immensi, sale dedicate ai fumatori, sale lettura e studio. In particolare le cabine di I classe erano molto ampie, con finestre rettangolari e la possibilità di disporre di acqua corrente, un vero lusso per l’epoca.
    Sul ponte erano presenti inoltre due imbarcazioni di salvataggio ed altri due mezzi utilizzati per i servizi in porto. La motonave attesta un cambiamento nei modelli e nelle tecniche cantieristiche sino ad allora largamente diffuse: dotata di due alberi con una poppa ellittica ed una prora dritta, presenta un fumaiolo di dimensioni particolarmente ridotte, quasi a voler soddisfare esigenze di tipo estetico e non solo funzionale.
    Tra le sue traversate più note ricordiamo quella che la portò ad approdare sulle coste giapponesi, in un’epoca in cui il paese del sol levante era ritenuto lontano ed inaccessibile. Dopo il suo varo viene impiegata spesso per il trasporto di passeggeri ed emigranti italiani per l’Australia. Ed è proprio in questo lontanissimo continente che prende parte all’inaugurazione del nuovo ponte di Sidney nel 1932 rappresentando in quell’occasione la flotta mercantile italiana. Successivamente viene utilizzata per il trasporto di soldati e di materiale bellico all’inizio della seconda guerra mondiale in Somalia, Eritrea, Albania, Grecia.
    La Viminale viene silurata il 25 luglio 1943 da un’unità alleata (la Pt 216 ovvero una delle Patrol Torpedo americane dislocate in Sicilia) mentre era trainata dal porto di Palermo a quello di Napoli per alcune riparazioni. Dopo anni passati nell’oblio, la motonave è stata riscoperta nel 2000, da un gruppo di esperti subacquei italiani: oggi il relitto giace in assetto di navigazione ad una profondità massima di 105 metri, adagiandosi su un fondale fangoso, solo leggermente inclinato sul lato sinistro.
    (Valentina Pascali)

    .......un libro.......


    Storia della motonave Viminale
    di Maria Pia Pezzali e Achille Rastelli


    "La Viminale non ha passato giorno della sua vita senza lottare. Ha gareggiato quando era la motonave più innovativa e moderna del Lloyd Triestino, ha sofferto quando partiva per viaggi lontani, con il suo carico di emigranti, ha combattuto insieme alle truppe che instancabilmente trasportava verso fronti ostili. La M/N Viminale giace negli abissi di Palmi, in prossimità dello Stretto di Messina. E' lì, da oltre sessanta anni, immobile nella sua gigantesca mole in perfetto assetto di navigazione, con le vetrate ancora integre, gli strumenti, i lunghi ponti e le poche suppellettili fisse al loro posto.
    Questo libro è un viaggio lungo vent'anni, raccontato attraverso le voci di coloro che respirarono il vento del suo mare, emigrarono con lei verso terre lontanissime, la sentirono tremare sotto la violenza delle bombe nemiche. Una storia raccontata anche da chi, quella fatidica notte del 25 luglio 1943 , affondò insieme ad essa e si salvò. Una storia-incontro, quella della Viminale, che ha ascoltato anche le voci del nemico di allora, di coloro che la silurarono, minarono, affondarono."


    Una nave italiana affondata durante l' ultima guerra davanti alle coste calabresi e poi dimenticata per oltre sessant' anni. Un diario nascosto nella soffitta di un anziano marinaio americano, compagno di stanza di John Kennedy negli anni Quaranta nella scuola addestramento per motosiluranti vicino New Orleans.
    La passione di una sub romana, Maria Pia Pezzali, capace di ricostruire, pezzo dopo pezzo, la storia della Viminale , colata a picco alle due di notte del 25 luglio ' 43 mentre un rimorchiatore la stava trainando verso il porto di Napoli. Quasi un film. È la scoperta del relitto della motonave che per anni rappresentò l' Italia in Estremo Oriente e poi finì i suoi giorni venti minuti prima delle dimissioni Mussolini. Quella notte in mare morirono 4 uomini, i superstiti furono 18. « Tutto è nato quasi per scommessa con due amici, seduti al tavolino di un bar di Palmi racconta Maria Pia, subacquea e giornalista, appassionata di storia navale all' inizio quando mi dissero che i pescatori della zona si davano appuntamento ogni giorno sui resti di una nave della II Guerra Mondiale non ci credetti. Poi mi vinse la curiosità che, alla fine, è stata premiata » . Alla prima immersione a meno 107 metri, e ad appena un miglio dalla spiaggia, le forme della Viminale comparvero subito sul fondo in tutta la loro grandezza. « La motonave era lunga quasi 140 metri e così è rimasta fino ad oggi, praticamente intatta, in assetto di navigazione continua la sub il mare l'ha ricoperta con una seconda pelle.
    Lo scafo è avvolto da alghe, micro organismi, incrostazioni, ma è integro. Sui pavimenti abbiamo recuperato piatti e taz ze con il logo del Lloyd Triestino, la società armatrice » . Grazie ad un meticoloso lavoro di ricerca, con la collaborazione della Marina Militare, e a numerose testimonianze di marinai oggi ultraottantenni, italiani e americani, la sub romana ha trovato le conferme a quanto osservato durante decine di immersioni con 20 fra i migliori specialisti italiani. Ne è nato un libro, Storia della motonave Viminale , scritto insieme allo storico milanese Achille Rastelli, che la settimana scorsa a Ostia ha ricevuto il Premio Anco Marzio. La Viminale, varata la mattina del 9 maggio 1925 a Trieste, viaggiò moltissimo trasportando passeggeri ed emigranti dall' Italia all' Australia, dove rappresentò la nostra flotta mercantile alla cerimonia per il nuovo ponte di Sydney nel 1932. « Po i i suoi compiti cambiaro no come il colore dello scafo che divenne mimetico aggiunge Pezzali la Viminale cominciò a portare soldati e materiale bellico, prima in Somalia e in Eritrea, quindi in Albania e in Grecia. Subì diversi attacchi dagli alleati nel corso della II Guerra Mondiale. L' ultimo, prima dell' affondamento, il 23 gennaio ' 43 a Capo delle Armi, vicino Messina » . Ma chi lanciò il siluro fatale? « Si chiama Cecil C. Sanders rivela la sub e all' epoca comandava la Pt 216, una delle Patrol Torpedo americane dislocate in Sicilia. Oggi vive nel Kentucky. Aveva rimosso il ricordo di quella notte, di quell' attacco. L' ho rintracciato a casa. La sua sorpresa è stata enorme, ma poi dalla soffitta ha tirato fuori il suo diario di bordo. C' era scritto tutto, anche la fine della Viminale » .
    (Frignani Rinaldo)

    ....il rimorchiatore "COLOSSO".....


    Il 14 Marzo 2008 un comunicato stampa diceva: IDENTIFICATO IL RELITTO DEL RIMORCHIATORE DI FRAMURA: È IL COLOSSO ... Il Colosso fu costruito nei Cantieri del Quarnaro a Fiume, per volere della Marina Militare Italiana, la costruzione del propulsore a vapore del tipo a duplice espansione ed alimentata a carbone, che sviluppava 1000 c.v. spettò ai Cantieri Navali Riuniti di Ancona, il rimorchiatore misurava 32,9 metri di lunghezza e 7,9 metri di larghezza e fu varato il 12 febbraio 1942. Nella sua breve carriera c'è da ricordare il rimorchio della MN Viminale, in quella missione il Colosso rischiò di affondare tirato sul fondo dalla stessa motonave che trainava, dopo che quest'ultima fu colpita a morte. Dopo l'armistizio fu requisito dai tedeschi che lo riarmarono con due postazioni, una a prua e una poppa. Infine nel 1945, probabilmente, sotto attacco aereo Alleato il relitto colò a picco probabilmente trainato sul fondo dalle chiatte che rimorchiava che, dicono, trasportavano rame.
    (dal web)


    Edited by gheagabry - 1/2/2013, 15:35
     
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