La CUCINA LOMBARDA

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    Ottimo, in verità già lo conoscevo, ma non sapevo la storia...grazie Giulia
     
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  2. gheagabry
     
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    LA SBRISOLONA


    a

    Un piatto che ha una storia che risale a tantissimo tempo fa è la torta sbrisolona. La conosciamo tutti, la torta mantovana per antonomasia, la vediamo ben esposta in tutti i bar del centro, è il dolce che ci rappresenta.

    E’ un dolce che trae le sue antiche origini nel mantovano, dove occupa tutt’ora un posto d’onore tra le varie specialita’ gastronomiche di questo territorio.Il suo nome varie da sbrisolina, sbrisolosa, sbrisolona, torta dura, etc.etc. poiche’ il composto tende a sbriciolarsi gia’ prima della cottura. Gli ingredienti base, farina gialla, farina bianca e zucchero sono utilizzati in dosi(tazze) uguali, in passato, infatti, era denominata la torta delle tre tazze. L’origine del dolce e’ contadina e lo testimonia l’uso della farina di mais, ingrediente base della ricetta originale; fu resa piu’ nobile nel ‘600 dai Gonzaga che arricchirono il piatto con spezie e mandorle.L’unicita’ di questo dolce e’ l’impossibilita’ di tagliarlo con un coltello per ricavarne fette uguali, ecco che vengono usate le mani per spezzettare le varie porzioni con le dita.

    Gli ingredienti di oggi sono molto più “raffinati”, la farina gialla è stata sostituita in parte da quella bianca, lo strutto ha lasciato il posto al più nobile burro, le nocciole alle mandorle. Nasce nel 1600 ed era detta ”torta delle tre tazze” in quanto gli ingredienti principali vanno messi in parti uguali.
    Si racconta che una volta la si preparava durissima, per romperla serviva un pugno ben assestato nel mezzo. I bambini se ne tenevano in tasca un pezzo ed ogni tanto lo succhiavano un po’ per farlo diventare morbido, gli durava tantissimi giorni, era la loro caramella.

    Curiosità

    La ricetta tradizionalmente utilizzata nella campagne mantovane non prevede l’uso di mandorle. Nelle versioni più antiche, inoltre, non si usavano né burro o strutto, né uova che invece oggi sono diffusamente accolte in tutti i ricettati moderni per favorire la manipolazione dell’impasto e diminuire la friabilità del dolce e il suo eccessivo sbriciolamento. Le mandorle sono frutto di un albero chiamato Prunus communis o Prunus amygdalus, originario dell’Asia Minore. Se ne distinguono due varietà: una dolce, destinata all’alimentazione e una amara, per lo più ad uso farmaceutico. Le mandorle, onnipresenti sulle tavole dell’aristocrazia medievale e rinascimentale, erano le noci dei ricchi, almeno sino alla creazione degli amaretti, quando il profumo delle mandorle giunse anche su mense non proprio principesche.


    la ricetta:

    sbrisolona_int380m

    Ingredienti

    200 g farina bianca 00

    200 g farina gialla fioretto (quella fine come la farina bianca)

    200 g zucchero

    100 g burro

    100 g strutto

    150 g mandorle con la pellicina tagliate grossolanamente

    2 tuorli

    1 vanillina



    Procedimento:



    mescolare insieme le farine e lo zucchero, la vanillina e le mandorle.

    Aggiungere i tuorli, il burro e lo strutto entrambi a temperatura ambiente.

    Impastare fino ad ottenere un composto omogeneo ma leggermente sbricioloso.

    Cospargere una teglia unta di burro e leggermente infarinata con le briciole creando uno strato alto circa 1 cm e mezzo.

    Cuocere in forno caldo a 180° fino a doratura. Serviranno circa 25-30 minuti.

    Si può fare una variante aggiungendo qualche scaglietta di cioccolato.

    Con questa ricetta otterrete la sbrisolona classica, quella friabile, quella che si scioglie in bocca.






    dal web
     
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  3. gheagabry
     
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    LA BARBAJADA

    barbajada


    La Barbajada è un dessert facile e molto goloso che a Milano divenne di gran moda nell'800.

    Una bevanda dal nome intrigante, quasi misterioso: la “Barbajada” che richiama semplicemente il suo inventore, il napoletano Domenico Barbaja.
    La bevanda fu inventata presso il Caffè “Cambiasi”, che si trovava accanto al teatro Alla Scala (chiamato, perciò anche Caffè del Teatro) ed era ritrovo di cantanti, musicisti e spettatori. L’inventore Barbaja era infatti garzone del caffè, prima di diventare impresario di cantanti e spettacoli alla Scala.

    L’invenzione della bevanda risale all'800, quando probabilmente il freddo e la nebbia a Milano erano più intensi rispetto ad oggi ed ecco quindi l’affermarsi di questa bevanda con lo scopo di tonificare, scaldare e viziare il palato dei milanesi.

    La barbajada era una composizione ben assortita di panna, caffè e cioccolata. Rimase in voga fino agli anni trenta e sopravvisse fino qualche anno più tardi fino a declinare del tutto. Oggi però se chiedete ad un milanese “doc” che cos'è la Barbajada, lui certamente vi saprà rispondere.
    Inoltre la barbaja deve la sua celebrità anche al fatto di essere stata probabilmente un’idea dell’impresario e gourmet Gioacchino Rossini.



    barbajada

    Piu' che un dolce la Barbajada è un dessert, o meglio una bevanda dolce, che si può servire sia in estate che in inverno. Da sola o per accompagnare torte e biscotti.

    Ingredienti:

    Per preparare la Barbajada si utilizzano cioccolato, caffè e latte in proporzioni uguali. Le dosi si riferiscono ad 1 porzione.

    1 tazza di caffè forte
    1 tazza di latte
    1 tazza di cioccolato fondente fuso
    panna fresca montata q.b.
    cacao amaro in polvere q.b.
    zucchero q.b. secondo i gusti
    Attrezzi: Frusta, pentolino, tazza o bicchiere alto

    Procedimento:

    In un pentolino versate il caffè, zuccherando a piacere, il cioccolato e il latte. Lavorate a fiamma bassa con la frusta, finchè il composto è molto spumoso.
    Togliete dal fuoco e versate in tazza, decorando con panna montata e una spruzzata di cacao.
    Per la versione estiva, procedete nello stesso modo ma frullando a freddo con l'aggiunta di qualche cubetto di ghiaccio. Servite, in questo caso, la Barbajada in un bicchiere alto decorando con la panna e il cacao.

     
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  4. gheagabry
     
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    PAN DI MEJ

    Pan-de-mej1

    Il pan de mej è un dolce tipico della Lombardia ,la mia regione, è molto antico e in origine era fatto con il miglio (mej) da qui il nome, ora al posto del miglio viene usata la farina di mais che ha reso il dolce più friabile e digeribile ma essendo priva di glutine è poco adatta alla preparazione dei dolci, da sola non lieviterebbe ,ed infatti viene addizzionata di farina di frumento...

    A Milano è antica tradizione celebrare il giorno di San Giorgio (23 aprile) preparando il Pan de Mej, che si dice sia di buon auspicio per una stagione fertile. Due sono le origini di quest’usanza.
    La prima affonda le radici nel primo periodo della signoria viscontea e narra che nel XIV secolo il capitano Visconti (1339-1349) sconfisse i briganti che infestavano allora le campagne del milanese. A quel tempo il miglio era uno dei cereali più usati per la panificazione, nonché base dell’alimentazione dei ceti più poveri. I contadini festeggiarono la liberazione delle terre dai briganti con ciò che di buono avevano a disposizione, ossia pane di miglio e panna di latte. La seconda ragione, invece, risale al secolo XIX.
    San Giorgio, infatti, è il protettore non solo degli eserciti ma anche dei lattai: il 23 aprile a Milano era proprio il giorno del rinnovo dei contratti del latte. Per questo, era usanza che i lattai offrissero una tazza di panna a tutta la popolazione. Così nacque la tradizione di preparare dolci per accompagnare questa prelibatezza.


    ...la ricetta...

    Per produrre il Pan Meino , i diversi ingredienti sono miscelati e impastati fino a ottenere un composto omogeneo. La pasta è lasciata a lievitare e successivamente versata su una piastra avente diametro variabile tra 10 e 20 centimetri e, infine, messa in forno.

    Ingredienti

    150 grammi di farina gialla a grana grossa
    150 grammi di farina bianca
    150 grammi di farina gialla a grana fine
    150 grammi di burro
    100 grammi di zucchero
    15 grammi di lievito di birra
    200 grammi di panna liquida
    100 ml. di latte
    3 uova
    zucchero vanigliato
    1 cucchiaio di fiori di sambuco

    Preparazione

    Prendete un po’ di latte freddo e scioglietevi il lievito di birra.
    Ammorbidite il burro e setacciate le tre farine insieme, amalgamando le uova con le farine, lo zucchero, un pizzico di sale, il latte e i fiori di sambuco.
    Formate una palla di pasta e adagiatela in una terrina coperta e lasciatela riposare per un’ora.
    Accendete il forno a 200°, ungete la placca da forno e spolveratela con poca farina.
    Ricavate dei piccoli panini dalla pasta, schiacciandoli leggermente e disponeteli sulla placca. Spolverate con lo zucchero vanigliato e con i fiori di sambuco rimasti, poi mettete in forno per 30 minuti e servite con qualche cucchiaio di panna liquida.

     
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  5. gheagabry
     
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    UN PO' DI STORIA


    Jacob Fopsen van Es

    Un'influenza decisiva per lo sviluppo dei popoli lombardi proviene sicuramente da quella grande migrazione celtica verso la Padania avvenuta tra il V e il IV secolo a.C. da parte degli Insubri che fondarono Milano; così come agli Orobi si deve la fondazione di Bergamo e ai Cenòmani l'importanza conquistata da Brescia che divenne il centro più potente del territorio.
    Due secoli più tardi le milizie di Roma estesero il loro dominio in tutta la pianura del Po che verrà poi collegata alla via Emilia.
    Alla fine del V secolo d.C., con la sconfitta del re barbarico Odoacre, la Padania passa sotto il controllo di Teodorico finché con la calata in Italia dei Longobardi (568-72) Pavia diviene la sede centrale del nuovo regno. Il dominio longobardo durò per due secoli che furono determinanti per l'elaborazione di una cultura in cui nuovi elementi nelle varie attività umane e religiose si innestarono nel mondo romano d'occidente che doveva risalire la china dalla totale decadenza in cui era caduto con l'ultimo imperatore Romolo Augustolo (476).
    Ai longobardi successero i Franchi che - come canta il Manzoni nella tragedia Adelchi - con la cattura di Desiderio a Pavia da parte di Carlo Magno fondarono il Regnum Italicum, con sede centrale a Pavia. Fu con l'imperatore Ottone I che la Lombardia entrò a far parte del sacro romano impero e fu nel 1155 che divenne re d'Italia l'imperatore Federico I il Barbarossa, quel Barbarossa cantato da Carducci nell'ode "Il giuramento di Pontida" contro il quale si costituì la prima Lega Lombarda in funzione anti-imperiale fra le città di Milano, Bergamo, Lecco, Cremona, Mantova e Brescia; sconfitto il Barbarossa a Legnano le città della Lega ottennero diritti e autonomie comunali che consentirono un notevole sviluppo economico e culturale di tutto il territorio. Basterà ricordare l'evento di importanza epocale per la formazione di un nuovo mondo costituito dall'apertura della strada del San Gottardo, da Milano alla Renania per Lucerna e Basilea.
    Ma il 1278 segna il declino delle autonomie perché Ottone Visconti, arcivescovo di Milano e capo del partito nobiliare viene proclamato signore di Milano: ha così inizio la signoria viscontea che con alterne vicende durò fino al 1450 quando Francesco Sforza, genero di Filippo Maria Visconti morto senza eredi diviene duca di Milano.
    La signoria dei Visconti segnò un periodo di grande fermento culturale: negli ultimi decenni del XIV secolo Galeazzo Visconti fece costruire lo splendido castello di Pavia dove amò circondarsi di letterati e artisti tra i quali il Petrarca che a lungo visse presso la signoria viscontea.
    A Galeazzo Visconti si deve la fondazione della Biblioteca del castello destinata a diventare ricca e famosa e dell'Università di Pavia.
    Gli successe il figlio Giangaleazzo grande principe, grande mecenate alla cui corte lavorarono i più grandi cuochi dell'epoca preparando banchetti suntuosi nei quali primeggiavano le carni di selvaggina e di bovini.
    La regione tutta vive un momento di grande fermento culturale testimoniato dalle opere realizzate nelle varie città dai più grandi artisti del tempo: fra tutti ricordiamo Leonardo da Vinci che giunse a Milano nel 1483 per eseguire la Vergine delle Rocce, commissionatagli dalla Confraternita dell'Immacolata Concezione e che per molti anni lavorò in tutta la regione.
    Sono anni anche di grandi attività commerciali che il novellista Matteo Bandello testimonia scrivendo "a Bergamo e nella sua campagna gli uomini hanno per costume di trafficare assai, quasi come i Genovesi".
    Ma la ricchezza economica che consentiva tanto fervore culturale e una sfarzosa vita di corte fu funestata dalle lotte fra Francia e Spagna che si contendevano il ducato finché il pretendente sostenuto dalla Francia, Carlo di Gonzaga-Nevers, ottenne il ducato. La peste scoppiata a Milano proprio nel 1628 e descritta dal Manzoni ne I Promessi Sposi porta l'intera Lombardia alla povertà che attraversò tutto il secolo.
    Con alterne e complesse vicende storiche in seguito alle quali molte furono le influenze sia spagnole che francesi sulle città della Lombardia, alla metà del 1700 la regione viene divisa fra Maria Teresa d'Austria a cui toccò il possesso della Lombardia occidentale (le province di Bergamo e Brescia) e meridionale e Carlo Emanuele III di Savoia che ebbe l'Oltrepò pavese, la Lomellina e l'Alto Novarese.
    Milano diviene un centro importante a livello europeo per i rapporti che intrattiene con Austria, Svizzera e Francia e tutta la Lombardia si sviluppa anche demograficamente tanto che alla fine del secolo conta ben 2.150.000 abitanti.
    L'affacciarsi di Napoleone sulla scena politica italiana stravolge il quadro geopolitico del nord Italia. Nel 1797 viene costituita la Repubblica Cisalpina comprendente la Lombardia, Bologna, Ferrara, Modena, Reggio e il Polesine con capitale Milano che nel 1801 fu trasformata in Repubblica Italiana. Ma l'astro di Napoleone dura poco: con la sua caduta Lombardia e Veneto vengono aggregati all'impero asburgico e ancora la regione gode della ripresa economica-culturale di cui scrive Stendhal quando in viaggio da Milano a Pavia scrive: "La campagna è la più ricca d'Europa. Ad ogni istante si scoprono i canali irrigui che la rendono tanto fertile; si costeggia un canale navigabile con il quale da Milano si può andare sino a Venezia, o addirittura in America".
    Ma i lombardi non accettano il giogo austriaco che, se assicura una buona gestione amministrativa ed economica della regione, reprime severamente ogni moto di indipendenza e di italianità. Per fare un esempio ricordiamo che se è vero che già dal 1818 viene introdotta nel Lombardo-Veneto l'istruzione elementare obbligatoria è altrettanto vero che nello stesso anno esce a Milano il primo numero de "Il Conciliatore", periodico scientifico-letterario e organo di battaglia del movimento romantico che l'anno seguente fu soppresso dalla censura austriaca.
    La ribellione alla mancanza di libertà di espressione è alla base dei primi moti antiaustriaci che hanno come protagonisti nobili e borghesi; sarà lungo il cammino che porterà all'esigenza di riscatto anche le classi lavoratrici e alla liberazione dal giogo austriaco con l'azione dei Savoia: sarà il 1859 l'anno in cui la Lombardia fu ceduta a Vittorio Emanuele II di Savoia che nel 1861 fu proclamato re d'Italia.
    La Lombardia, con una popolazione di 3.104.838 residenti, è tra le regioni più progredite e attive del nuovo stato; il lavoro agricolo impiega 1.086.028 persone, l'industria e le attività artigianali 459.044.
    Grande è il fervore culturale che anima l'intera regione: ricordiamo che è del 1876 l'uscita del primo numero del "Corriere della Sera", fondato da Eugenio Torelli Viollier a sostegno della tradizione politica della destra liberale cavouriana.
    L'apertura al traffico (1882) della galleria ferroviaria del San Gottardo favorisce l'inserimento di Milano e della Lombardia nel circuito commerciale del Nord-Europa, lo sviluppo sempre in atto del processo di industrializzazione del paese nonché il primato milanese e dell'intera regione nel campo produttivo italiano.
    La Lombardia è però anche una regione agricola (la seconda d'Italia dopo l'Emilia Romagna) con la sua produzione di riso nella Lomellina, con le colture di foraggio nelle pianure per alimentare migliaia di allevamenti di bovini e suini, con un'agricoltura che è stata definita eroica nella Valtellina dove i frutteti s'interrompono ai piedi delle montagne tappezzate di viti, con le coltivazioni pregiate dell'Oltrepò Pavese, della Bergamasca e del Bresciano.
    La fertilità del suolo e il lavoro umano consentono un'agricoltura fiorente che rende possibile una ricca rete di lavorazioni artigiane e industriali di prodotti alimentari, alcuni dei quali di consumo locale (come il formaggio "bagoss") o legati a specifiche tradizioni (come ad esempio il "pan de mei", il pane di miglio che si deve mangiare il giorno di San Giorgio auspicando una stagione propizia), altri che si sono imposti a livello nazionale come il formaggio Bel Paese che risale al 1906 quando Egidio Galbani, ispirandosi ai formaggi francesi, volle creare un formaggio di gusto più leggero e di profumo meno intenso da proporre agli italiani e lo denominò Bel Paese ispirandosi al titolo del libro dell'abate Antonio Stoppani, un libro edito nel 1875 che ebbe grande successo presso la borghesia italiana perché l'autore fu molto abile nel piegare all'esigenza politica di stimolare una coscienza unitaria la descrizione delle bellezze italiane.





    F.Boselli

    Milano e il suo territorio

    Milano, sede di potenti signorie fin dal 1278 quando Ottone Visconti arcivescovo della città ne fu proclamato Signore dando appunto inizio alla signoria viscontea che durò fino al 1450 anno in cui passò - per vie matrimoniali - agli Sforza che la tennero fino al XVII secolo, possiede una gastronomia ricca in cui spiccano piatti caratteristici alcuni dei quali sono presenti nella grande cuisine internazionale.
    Il risotto, la costoletta, il panettone, ne sono i massimi simboli, ma anche l'ossobuco è un classico del menù "all'italiana". La genialità del risotto sta, più che negli ingredienti (ma eccezionale è la presenza dello zafferano di provenienza arabo-sicula), nella cottura. Il risotto, dal punto di vista tecnico, è solo ed esclusivamente meneghino: il riso viene messo a crogiolare nel soffritto di burro e midollo di bue, olio e cipolla e da questi primi minuti di fuoco assume il suo peculiare carattere. I chicchi assorbono il condimento ma si tostano in modo da mantenere intatti, nella successiva cottura nel brodo, elasticità e nerbo. Fare il risotto è un'arte, un rito, coi suoi segreti. Tegame di alluminio o di coccio? Rimescolare continuamente o dare un'unica energica girata iniziale e lasciar cuocere sorvegliando, senza intervenire? Quando aggiungere il formaggio? Insaporire col vino prima di mettere il brodo o astenersi da qualsiasi sacrilega aggiunta? Per pochi piatti come questo si è discusso, in passato, fra veri milanesi. Una cosa è certa: il vero risotto è all'onda, e nelle vecchie famiglie si mangiava col cucchiaio.
    La costoletta (di vitello e con l'osso) sembra essere nata nel secolo XVI, nella Milano degli Sforza, quando venne di moda dare alle vivande una coloritura d'oro. I medici medioevali credevano che l'oro facesse bene al cuore, perciò nelle famiglie più facoltose si cominciò a preparare le carni rivestendole di lamine dorate. Poi ci si accorse che il rimedio era solo empirico, ma l'uso dei cibi dorati - gradevoli e preziosi anche a vedersi - rimase. L'uovo sbattuto e il pangrattato, che costituiscono l'involucro della costoletta, sono visivamente un ottimo surrogato dell'oro e anche il risotto giallo allo zafferano potrebbe essere stato inventato da un cuoco impegnato in ricerche auree.
    Lunga diatriba si è svolta sulla costoletta: se la si debba considerare filiazione oppure madre della wienerschnitzel viennese, alla quale somiglia, ma non del tutto. Perché la nostra è con l'osso mentre l'austriaca no e perché l'impanatura, nel caso della milanese, è in perfetta adesione alla superficie della carne, mentre nella viennese la carne resta libera sotto il rivestimento di farina e uovo.
    Esiste un documento in cui l'aiutante di campo dell'imperatore Francesco Giuseppe (1830-1916) avrebbe fatto un riferimento preciso a una specialità mangiata a Milano a base di carne intinta nell'uovo e fritta nel burro, ma nonostante le ricerche, tale prova della primogenitura milanese non si è mai vista. E il dubbio resta; sta di fatto che la vera milanese è con l'osso, piuttosto alta e spumeggiante di burro e che richiede una preparazione difficilissima.
    Caratteristici della zona sono i «mondeghili», polpettine di avanzi di manzo fritte nel burro che vengono spesso serviti con l'aperitivo. L'abbondanza di carne di questa terra (insieme con quella di cereali e di vini) è stata cantata già nel 739 d.C. in un carme anonimo in lode di Milano.
    Soprattutto negli anni Cinquanta, Milano ha richiamato da altre zone d'Italia, in particolare dalla Toscana, legioni di ristoratori che hanno portato all'ombra della Madonnina, usanze, ingredienti, prodotti, specialità e trucchi.
    Un piatto tosco-milanese di enorme successo ancora oggi è la tagliata: è carne di manzo, la bistecca tipo fiorentina, che viene tagliata nel senso dell'altezza e passata in forno per pochi minuti. Fra gli anni Sessanta e Ottanta Milano è diventata, anche dal punto di vista enogastronomico, internazionale: ristoranti e locali di ogni tipo, cucine di ogni paese, ricerche, innovazioni, conferme.
    In tanto fervore l'antica cucina milanese dapprima è stata un po' soffocata, ma si è ripresa abbastanza bene soprattutto in alcuni locali specializzati, che la perseguono con amorosa devozione, conservando piatti come il «risotto al salto», che si fa con l'avanzo del risotto, allargato a disco nella padella e fatto saltare nel burro, fino a che diventa dorato e croccante.
    Quella milanese è dunque una tavola ricca nella quale è molto curata anche la decorazione e dove spesso campeggiano trionfi di frutta e verdura che ricordano la pittura di Arcimboldo, pittore milanese (1527-1593).
    L'attività casearia è fiorente in tutto il territorio: i formaggi più famosi sono il gorgonzola (oggi prodotto in varie zone della Lombardia ma anche del Piemonte) e il grana lodigiano. Il gorgonzola è un formaggio a pasta cruda, ottenuto da latte vaccino intero, salato a secco che nel tipo dolce stagiona due mesi, nel tipo naturale o piccante tre mesi o poco più. La forma è cilindrica, del diametro di venticinque o trenta centimetri. Nel tipo dolce viene posta in commercio tagliata a metà e ancora a metà orizzontalmente. Il gorgonzola naturale ha invece forma cilindrica intera. È un formaggio detto erborinato, per le caratteristiche venature bluastre dovute alle muffe che si formano durante la stagionatura. Il termine viene dal dialetto milanese erborin per prezzemolo: il gorgonzola sembra effettivamente avere frammenti di foglie di prezzemolo nell'impasto. Sia nella versione dolce sia in quella naturale il gorgonzola è prima di tutto considerato un grande formaggio da tavola. Se è particolarmente piccante si sposa molto bene con un poco di miele e accompagna assaggi di vini dolci come il picolit, il verduzzo di Ramandolo, il vinsanto o i sauternes. In cucina gli impieghi del gorgonzola sono numerosi, per esempio per condire gnocchi, per insaporire lumache e altro. La leggenda fa risalire le origini di questo formaggio nel XII secolo, quando le mandrie della Pianura Padana facevano soste intermedie nella lunga transumanza verso i pascoli estivi della Valsassina. Un mandriano avrebbe dimenticato una forma in una delle stalle. Vi sono a questo punto due tesi: chi sostiene che quel formaggio sarebbe stato recuperato il giorno dopo e unito a una nuova cagliata, chi invece è sicuro che il recupero sarebbe avvenuto a fine stagione, sulla strada del ritorno. Non si sa quale sia la verità.
    Il grana lodigiano ha una preparazione base che è quella di tutti i formaggi grana della Valle del Po: è a pasta cotta, ottenuto dal latte vaccino parzialmente scremato proveniente dalle mungiture serale e mattutina. Viene salato a secco e subisce un processo di maturazione che va da un minimo di due anni a un massimo di quattro, quando viene detto stravecchione. La forma è grande, di diametro da quaranta a cinquanta centimetri, alta da sedici a venticinque centimetri e di peso fra i trenta e i quaranta chilogrammi. In passato si producevano forme di grana lodigiano del peso anche di ottanta chilogrammi. Estremamente raro, viene prodotto soltanto nella zona di Lodi in due versioni che dipendono dal periodo dell'anno: il maggengo si produce dal 23 aprile al 29 settembre, cioè dal giorno di San Giorgio a quello di San Michele; il vernengo viene fatto, come indica il nome, nei mesi invernali. L'elemento caratterizzante che fa distinguere un lodigiano da un altro grana è la lievissima venatura verdognola e, soprattutto, la goccia che esce dalle occhiature. Il sapore, pieno e fragrante, diventa più deciso con l'invecchiamento. Una particolare lavorazione del grana lodigiano, comune anche alla zona di Pavia, è la preparazione in forme più piccole, stagionate solo tre o quattro mesi, dalle quali si ricava la raspadura: espertissimi artigiani, nelle salumerie della regione e, ancor più, sulle bancarelle dei frequentatissimi mercati settimanali dei paesi, maneggiando appositi coltelli con grande abilità ottengono fettucce quasi trasparenti di morbido formaggio, considerato una vera ghiottoneria. Per quanto appartenente alla grande famiglia dei formaggi da grattugia, il lodigiano ha dignità assoluta di straordinario formaggio da tavola.
    Il dolce milanese che con il tempo si è diffuso ovunque è il panettone del quale ci sono notizie antichissime: era un dolce natalizio a base di pane, che diventò più ricco e più simile all'attuale al tempo di Ludovico il Moro (1452-1508). Su questo dolce è stata inventata una storiella che ne fa risalire l'origine al garzone di fornaio di nome Toni che arricchì con canditi un semplice pane nel tentativo di risollevare le precarie sorti della bottega in cui lavorava. Sarebbe stato un successo con lieto fine e il nuovo prodotto sarebbe diventato famoso come «pan del Toni», poi trasformato in panettone. Si tratta di un dolce quasi impossibile da preparare in casa, è sempre stato appannaggio dei panettieri e, più tardi, dell'industria, perché per la sua riuscita è indispensabile lavorare quantità considerevoli di impasto. È nato come frutto di una spontanea ricerca di un dolce più ricco per celebrare convenientemente il Natale, utilizzando ingredienti che i nascenti mercati del tempo mettevano a disposizione degli artigiani. A Milano i panettieri e i pasticcieri ripropongono il panettone il 3 febbraio, festa di San Biagio, in omaggio alla tradizione di mangiarne quel giorno un pezzo raffermo che allontanerebbe il rischio di mal di gola.
    Legato a un'antica tradizione è il «pan de mei», il pane di miglio che si deve mangiare il giorno di San Giorgio auspicando una stagione propizia: si narra che il giorno di San Giorgio un gruppo di armigeri mandato da Luchino Visconti vinse i briganti che infestavano le campagne milanesi. La gente festeggiò con l'unica cosa che aveva, pane di miglio e crema di latte.



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    TORTIANA DI LODI




    La Tortionata è il dolce che più caratterizza il territorio di Lodi. E' una torta di mandorle che vanta antiche origini: la ricetta è stata codificata nel 1885 dal pasticcere lodigiano Alessandro Tacchinardi ma presumibilmente risale al tardo medioevo, avendo le caratteristiche tipiche dei dolci dell'epoca: la forma tonda, la presenza di mandorle, la mancanza di lievitazione che la mantiene bassa, la morbidezza nonostante sia una torta secca; con ogni probabilità all'epoca, per la scarsità di uova, gli ingredienti venivano legati col miele.

    Di certo la torta è già diffusa a Lodi nei primi dell'800, grazie all'opera di Carlo Tacchinardi, capostipite della famiglia di offellieri (l'offella era un focaccia dolce).
    La tradizione è portata avanti dai figli Giovanni e Gaetano e poi dal figlio di quest'ultimo Alessandro a cui, secondo la tradizione popolare, si deve il nome Tortionata. Alessandro l'avrebbe chiamata così perché era la "torta di quando io sono nato, ovvero torta io nata". Altra versione attribuisce il nome a tortijon, fil di ferro attorcigliato, al quale la torta veniva equiparata per la difficoltà ad essere tagliata a fette: inevitabilmente si rompe a pezzetti.

    La ricetta della Tortionata miscela in gran quantità del buon burro fresco, ingrediente di cui c'è sempre stata abbondanza grazie alla produzione delle stalle e delle casere lodigiane, con farina bianca e mandorle pelate provenienti dalla Puglia. L'origine di questo ingrediente è da attribuirsi, con ogni probabilità, alla presenza nel lodigiano di mercanti che importavano i vini marsalati, alquanto richiesti.

    La degustazione della Tortionata, imbiancata con una spruzzata di zucchero a velo, può essere accompagnata dal moscato o dal malvasia dolce ma anche dallo spumante, dal vino secco o passito.
    (Tratto da: L. De Benedetti, "Dolci & golosità")

    ...la ricetta...

    Ingredienti

    250g di farina
    125g di zucchero
    125g di burro a pomata
    100g di mandorle
    1 tuorlo d'uovo
    1/2 bacca di vaniglia
    1 cucchiaino raso di lievito
    un poco di scorza di limone

    Macinare o pestare al mortaio le mandorle (io le ho frullate con lo zucchero).
    Unire la farina al lievito e setacciarla in una ciotola, aggiungere tutti gli altri ingredienti e mescolare bene.
    Il composto risulta piuttosto sabbioso.
    Ungere una teglia da 22cm, mettere l'impasto, compattare molto bene schiacciando con le mani e poi con una forchetta fare la decorazione a righe.
    Cuocere a 190°C per 30 minuti. Lasciare raffreddare prima di sformare.

     
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    UN PO' DI STORIA



    Adriaen van Utrecht, Thomas Willeboirts, Scena di cucina, Kassel, Staatlichen Gemäldegalerie

    Il Mantovano


    Con la denominazione "Mantovano" si intende qui delimitare la zona della bassa pianura padana lombarda che gravita attorno alla città di Mantova. Questo territorio si estende nella parte sud-orientale della bassa pianura lombarda ed è diviso dal Po in due parti: la parte cispadana attraversata dal Mincio, la sezione transpadana bagnata dal fiume Secchia.
    Si tratta di una zona agricola molto fiorente con attività produttive legate oltre che alle coltivazioni, all'allevamento del bestiame e alle industrie alimentari.
    La tradizione culinaria di questa terra va riferita dunque da un lato alla sua alta produttività, e dall'altro alla sua storia legata a quella della città di Mantova che, fondata dagli Etruschi, conobbe il dominio di Roma durante il quale ci piace ricordare che diede i natali al grande poeta Virgilio che lasciò un epitaffio per la sua tomba che inizia con queste parole: "Mantua me genuit", Mantova mi diede i natali.

    Per quanto riguarda l'arte della cucina, due sono gli aspetti fondamentali di questa zona: la fertilità della terra e la sua ricca produzione da un lato e la grande tradizione delle corti dall'altro. Storia e realtà geografica concorrono dunque a formare anche nelle tradizioni culinarie una particolare fisionomia del territorio nel panorama della gastronomia italiana.

    I prodotti di questa terra compaiono già nella letteratura del nostro Rinascimento, certamente a partire dall'opera del mantovano Teofilo Folengo (1496-1544) che nelle pagine del Baldus offre un dovizioso repertorio di gastronomia cinquecentesca, in particolare se si considerano le venti ricette che il personaggio Cingar ci fornisce descrivendo la cucina di Giove. Nella descrizione del convito reale egli ricorda la "vernaccia di Volta", la borgata posta sulle colline moreniche dell'Alto Mantovano che già allora produceva un vino da re.

    La cucina mantovana viene definita la cucina dei "principi" e del "popolo". Infatti anche i piatti tipicamente popolari, come possono essere i famosi "bigoli con le sardelle", o l'uso della polenta (che si mangia spesso abbrustolita con salamella, salame, cotechino, ciccioli di maiale o gras pistà cioè lardo battuto finemente con prezzemolo e una punta d'aglio. Ottima anche la polenta fritta e spolverata di zucchero), risentono l'influenza dell'arte culinaria dei cuochi di corte Gonzaga: questa corte raggiunse il massimo splendore ai tempi del matrimonio di Francesco Gonzaga con Isabella d'Este (1490), donna di raffinata educazione umanistica, di grandi capacità diplomatiche, che assicurò grande fama ai Gonzaga perché la sua corte, i suoi splendidi banchetti erano frequentati dai più bei nomi delle lettere e delle corti del tempo come - tanto per ricordarne alcuni tra i più famosi - Baldassar Castiglione (autore de Il libro del cortegiano, un trattato in cui disegna l'ideale figura del cortigiano perfetto), l'Ariosto, Leonardo da Vinci e Tiziano che di Isabella d'Este Gonzaga ci ha lasciato uno splendido ritratto che attualmente si trova alla Gemälde Galerie di Vienna, quasi un simbolo della intensa vita culturale di questa corte che fa pensare a quella dei Medici a Firenze.
    Perciò mettersi a tavola oggi nel mantovano significa rivisitare la storia della città con i dovuti apporti internazionali derivanti dalle vicende storiche di questa terra che - decaduta la fortuna del ducato di Mantova - entrò a far parte dell'impero, conobbe la dominazione francese di Napoleone e fu governata dall'Austria.
    Da un'analisi attenta si possono individuare quelli che sono gli elementi base della tradizione culinaria mantovana: la pasta fresca, fatta con sfoglia e ripiena, gli insaccati di maiale, la predominanza dei primi piatti, il culto per il brodo, l'utilizzo di salse dai sapori dolce-forte, la raffinatezza dell'accostamento dei sapori, l'uso delle erbe aromatiche, e infine l'utilizzo massimo di qualsiasi risorsa della terra.
    Per gli insaccati ricordiamo la tipica salamella mantovana: è un prodotto rigorosamente artigianale reperibile nelle botteghe della città dei Gonzaga e dintorni. È ottenuta da un impasto di magro di spalla e grasso morbido della rifilatura della pancetta e del prosciutto, insaporiti con vino bianco, aglio e spezie variamente dosati e insaccato nel budello in pezzatura da duecento grammi circa.
    La salamella può essere bollita a parte e unita in un vassoio di bolliti misti alla lombarda, arrostita sulla griglia o sbriciolata in un risotto.
    In una gastronomia dominata da primi piatti, gli antipasti sono trascurati. Tuttavia i Signori mantovani solevano far precedere il pranzo dal "Sorbir d'agnoli" (agnolini in brodo serviti in una tazza con brodo rigorosamente di carne) a cui qualcuno aggiungeva il vino Lambrusco creando il "Bevr'in vin". La tradizione di aprire il pasto con il brodo servito in tazza è rimasta fino ai giorni nostri, sia che si consumi prima o dopo un antipasto di affettati, sia prima di una delle famose paste che caratterizzano la cucina mantovana. Ma il piatto-simbolo della ricchezza di questa gastronomia sono gli "agnolini".
    L'agnolino mantovano si distingue dal famoso tortellino bolognese non solo per i componenti del ripieno, ma anche per la forma.
    Viene servito preferibilmente i brodo, ma è possibile gustarlo anche asciutto con burro fuso e salvia.
    La ricchezza di questo piatto risulta evidente dagli ingredienti del ripieno che sono rigorosamente: polpa di manzo cotta in tegame con cipolla, olio e burro, vino bianco, salamella di suino e pancetta cotte nel burro, il tutto impastato con uovo, parmigiano, pepe e noce moscata. L'impasto deve riposare per dodici ore, dopo di che sarà pronto per essere suddiviso sui quadretti di sfoglia per la confezione degli agnolini, che prevede di ripiegare diagonalmente la sfoglia, premere sui bordi, girarli all'indietro e sovrapporli premendo, mentre la cupolina dell'agnolino non va schiacciata.
    Una volta preparati gli agnolini potranno essere cotti nel brodo e serviti, come antipasto in una tazza con l'aggiunta magari di buon Lambrusco, o come primo in un piatto con magari una spolverata di grana.
    Il piatto che forse più di ogni altro caratterizza la cucina mantovana sono i tortelli con la zucca, che si mangiano tutto l'anno anche nei ristoranti, ma che sono il piatto tradizionale della sera della vigilia di Natale. Terra fertile, quella del Mantovano, che produce un'enorme quantità di ortaggi fra cui varietà di zucche e di meloni, che sono una costante di questa gastronomia che - memore di influenze legate alla sua storia - utilizza con disinvoltura l'accostamento dolce/salato.
    Per il ripieno (che in loco viene chiamato genericamente pesto) sono necessari oltre alla zucca un'uguale quantità di amaretti sbriciolati e della mostarda senapata (una mostarda fatta con le mele tagliate a piccoli pezzi e mescolate con senape) e del parmigiano, il tutto insaporito con noce moscata.
    Il condimento consigliato è quello del burro fuso con un po' di salvia, ma possono essere serviti anche con salsa di pomodoro arricchita di salamella fresca oppure con pomodoro e basilico.
    Sempre fra i primi piatti ricordiamo il risotto alla villimpentese che si trova in tutta la zona e che è particolare non tanto per gli ingredienti (riso semifino Vialone Nano, carne di maiale non troppo magra macinata grossolanamente e condita con sale, pepe e due spicchi di aglio ridotto in poltiglia nel burro, grana grattugiato e vino bianco secco), quanto per la preparazione. Il riso infatti va cotto in abbondante acqua per circa sei minuti e tolto dall'acqua di cottura con l'aiuto di un mestolo. Va mescolato e coperto con un panno, che deve essere posto quasi a contatto del riso e con un coperchio. Il recipiente va lasciato coperto e lontano dal fuoco per dieci minuti. Nel frattempo il macinato di maiale sarà stato cotto nel burro per circa dieci minuti con l'aggiunta di mezzo bicchiere di vino. Va versato nel riso il condimento e il formaggio ed ecco pronto il prodigioso risotto. Il riso sarà riuscito a puntino se nel piatto si potranno, come si dice a Villimpenta, contare i grani. Si consiglia di accompagnare il risotto con buon Lambrusco spumeggiante e generoso.
    Per quanto riguarda i secondi piatti possiamo parlate del "lus in salsa" (luccio in salsa), un piatto molto gustoso e caratteristico dato dal luccio lessato con tutti i sapori e un po' di aceto, spolpato e distribuito a pezzi su un piatto di portata dove riposerà per circa dodici ore ricoperto della salsa fatta con capperi e peperoni sottaceto, prezzemolo, aglio, cipolla, acciughe, olio e aceto (si serve con fette di polenta abbrustolita), ma possiamo parlare anche dei pesci d'acqua dolce fritti (anguilla, pesce gatto, fritturina minuta di risaia). Ma se preferite mangiare carne vi consigliamo un antico piatto, lo stracotto d'asino accompagnato da polenta bollente con sugo di verdurine triturate e vino rosso, un piatto che si può mangiare solo in questa zona dove l'allevamento del bestiame per uso alimentare è ancora molto fiorente e comprende anche gli equini.
    Altro piatto tipico (ma non certo esclusivo) è quello dei bolliti che prevede: manzo, pollo, gallina, testina, cotechino, lingua, zampetto di maiale.
    Prima di gustare il dolce nel Mantovano si usa offrire una scaglia di grana a cui si attribuisce la funzione di staccare i sapori intensi dei secondi da quello dei dolci. Un'usanza antica che ricorda i lunghi banchetti rinascimentali in cui le portate si susseguivano a ritmi lenti, per lunghe ore e talvolta anche per giorni.
    Fra i dolci la sbrisolona è sicuramente il più conosciuto. Un dolce i cui ingredienti sono: farina bianca, farina gialla passata al setaccio, mandorle, zucchero, strutto, burro, tuorli d'uovo, buccia di limone grattugiata e vaniglia.
    La preparazione prevede di scottare in acqua bollente le mandorle, poi pelarle e tritarle finemente. Impastare assieme le mandorle, la farina bianca e gialla, i tuorli d'uovo, lo zucchero, la vaniglia e la buccia del limone grattugiato. Unire per ultimo lo strutto e il burro senza scioglierli. Impastare il tutto facendo sì che la pasta non risulti omogenea, ma a grumi, che si faranno cadere a pioggia in uno stampo imburrato. Cuocere in forno caldo per un'ora. Ancora tiepida, ma non calda, cospargerla con zucchero a velo.
    Ricordiamo inoltre l'anello di Monaco, simile ad un pandoro bucato e farcito, che è il tradizionale dolce di Natale di origine tedesca. Da non dimenticare poi la torta di tagliatelle.
    Questi sono i dolci facilmente reperibili in commercio, ma la tradizione più rigida segnala anche il chisoel, il mirtol, il bussolano, dolci che ancora oggi si fanno in casa, che sono molto asciutti, adatti più che altro ad essere inzuppati nel vino.



    David Tensiers il Giovane, Scena di cucina, L’Aja, Mauritshuis

    La Valtellina


    La Valtellina comprende l'alta valle dell'Adda e costituisce con la valle della Mera la provincia di Sondrio.
    la cucina valtellinese si basa soprattutto su carni e formaggi, arricchita da vini di indiscussa nobiltà che provengono dalla vinificazione di uve in prevalenza di Chiavennasca come è chiamato nella zona il vitigno Nebiolo cui si aggiungono uve di altri vitigni locali. Già nell'antichità questi vini ottennero l'elogio dei maggiori poeti e scrittori latini come Virgilio, Orazio, Plinio e Strabone e nel Rinascimento Leonardo da Vinci notò nel Codice Atlantico "Valtolina, come è detto valle circondata d'alti e terribili monti, fa vini potenti ed assai". I vini caratteristici della zona di questa terra sono tre: utilizzano le uve dei vitigni Nebiolo (detto sul luogo Chiavennasca), Brugnuola, Sassella (Sondrio), Grumello (Montagna), Inferno (Poggiridenti). Il Valtellina, un vino rosso rubino dall'odore delicato e sapore asciutto con una gradazione minima di 11; il Sforzato o Sfursàt dall'odore intenso con sentore di frutti maturi e dal sapore molto morbido, ha una gradazione minima di 14; il Valtellina superiore e le sottodenominazioni geografiche Sassella, Grumello, Inferno, Vagella, presentano colore rosso rubino, sapore asciutto, vellutato, armonico, gradazione minima 12. È richiesto un invecchiamento di almeno due anni di cui uno in botte di legno.
    Per quanto riguarda la cucina è bene tenere presenti le influenze che le complesse vicende storiche hanno avuto su usi, costumi e tradizioni di questa terra di confine che i Romani riuscirono a conquistare solo alla fine del I secolo a.C.. Nei secoli successero Goti e Ostrogoti, ma fu con la conquista operata da Carlo Magno che in Valtellina entrarono influenze franche con la donazione (775) al monastero di San Dionigi presso Parigi di alcune Pievi valtellinesi, donazione che destò un aperto dissidio con il vescovo di Como.
    Varie le vicende attraverso le quali la Valtellina entrò a far parte del Ducato di Milano (1335) al quale si ribellò in varie occasioni; passata agli Sforza prima e successivamente alla Francia nel 1512 fu occupata dalle truppe delle Tre Leghe. Propagatosi il protestantesimo buona parte della Valtellina seguì la nuova fede; ma i contrasti con i cattolici furono durissimi e sfociarono nel 1612 nel cosiddetto Sacro Macello, il massacro di molti riformati e di parecchi magistrati grigioni. La Valtellina fu dilaniata da varie conquiste fino all'epoca napoleonica in cui entrò a far parte della repubblica Cisalpina. Caduto Napoleone passò all'Austria che la tenne unita alla Lombardia e vi costruì due grandi strade militari, dello Spluga (1819-1821) e dello Stelvio (1820-25). Nel 1859 si ribellò agli Austriaci resistendo fino all'arrivo del battaglione Montanara e di Garibaldi che costrinsero gli Austriaci a ritirarsi verso lo Stelvio e la Valtellina seguì le sorti della Lombardia.
    Complesse dunque le vicende storiche che consentono influenze varie che vanno da quelle che derivano dal Cantone dei Grigioni, a quelle francesi, a quelle austriache, con una partecipazione agli eventi della Riforma e Controriforma che hanno trasformato buona parte dell'Europa in un teatro di dispute e di lotte anche sanguinose; ancora oggi le dottrine protestanti dominano l'ambito religioso della Valtellina che è terra di tradizioni molto radicate, come dimostra anche la cultura culinaria più diffusa che ancora oggi conserva i caratteri di quella povertà da cui è stata condizionata e che - grazie all'industrializzazione del paese soprattutto in ambito turistico - è quasi totalmente scomparsa.
    Nei secoli le carni sia bovine sia di selvaggina così come i pesci di torrente comparivano solo sulle poche tavole dei nobili e dei religiosi cotte direttamente sul fuoco per tutto il Medioevo e poi sugli spiedi aromatizzati da bacche di ginepro, alloro e rosmarino.
    Ma la maggior parte della popolazione non accedeva a tanta sontuosità e si dovette accontentare di cibi elaborati con le farine di frumento, segale, mais, derivanti dalle coltivazioni praticate nei terrazzi fluvio-glaciali, dei frutti del bosco come i funghi porcini e di altre varietà, di mirtilli e fragole e di castagne che sono consumate sia secche cotte nel latte, sia macinate in farina che mescolata a quella di frumento serve per fare i famosi "gnocchi di castagne" che vengono cotti in brodo di gallina sgrassato e conditi con burro e formaggio. Ma la lavorazione delle farine condite con il burro e il formaggio, che fino a pochi anni fa si faceva in ogni casa contadina, domina ancora oggi la scena culinaria valtellinese locale mentre nel resto del nostro paese la Valtellina è famosa per alcuni tipi di formaggi che sono ormai di Denominazione d'Origine Protetta come il bitto e il Valtellina casara e per la Bresaola, conosciuta fino agli anni Quaranta limitatamente alla provincia di Sondrio e solo dopo l'ultimo conflitto mondiale diffusa nelle sue varie tipologie dall'Italia settentrionale a tutto il nostro paese.
    Dei primi piatti che in realtà sono piatti unici ricordiamo innanzi tutto la polenta taragna, una polenta gialla cotta con abbondante latte, burro e formaggio e i pizzoccheri in varie versioni ma sostanzialmente un piatto di listelli di pasta di farina nera di grano saraceno cotta con la verza e condita in una terrina riscaldata con formaggio grattato e formaggio a fettine cosparsi con burro fuso profumato all'aglio.
    Con la farina di grano saraceno si fanno anche gli sciatt, frittelle di formaggio che presentano qualche variante fritte nello strutto (oggi nei ristoranti si preferisce l'olio), ma anche i chisciöi, frittelle ricoperte di formaggio fuso e le crespelle. Per i taiadìn nelle varie versioni si usa invece la farina bianca, come per i pìpi, gnocchetti allungati cotti con le patate. Molta la varietà di questi piatti conditi con abbondante formaggio e burro, che si tratti di gnocchi, di pasta o di polenta. Oltre alle tagliatelle ai funghi ricordiamo che queste paste vengono cotte con ortaggi vari come la verza, le patate, le rape, le cipolle, la zucca, i fagioli in preparazioni semplici ma gustose che segnano la cadenza delle stagioni.
    Nella cucina tipica ha un posto anche il maiale con cui si fanno ottimi insaccati e di cui si utilizza tutto dal sangue alle cotenne, orecchie, muso, coda, ossa con cui si fa la urgiàda o dumèga o orzàda, la minestra d'orzo che in passato preparavano i contadini benestanti, quelli che potevano permettersi di allevare e macellare il maiale e nella quale venivano cotti tutti gli scarti a riempire un grande pentolone che nel giorno stesso dell'abbattimento del maiale veniva offerta ad amici e vicini. La minestra che rimaneva veniva conservata in mastelli e consumata per venti e più giorni facendola ribollire giorno per giorno.
    Oggi questo piatto nella versione originaria è caduto in disuso per le mutate condizioni economiche, così come la panigada il cui nome deriva da panìco, cioè miglio che veniva liberato del guscio da ragazzi che lo pestavano a piedi nudi o calzando scarpe con le suole ben lavate nella soffitta dove era stato sparso nel pavimento, una volta essiccato. La panigada era una minestra di miglio cotto nell'acqua con l'aggiunta di castagne secche; a cottura ultimata il miglio cuoceva qualche altro minuto nel latte.
    Anche se con meno presenze fra questi piatti dobbiamo ricordare il riso che viene preparato sia con verze e fagioli sia con i revertis, cime tenere di luppolo selvatico che nasce spontaneo e si coglie nelle siepi in aprile o all'inizio di maggio.
    Queste sono le principali specialità valtellinesi che compaiono in una cucina caratterizzata dai latticini e da antichi sapori gelosamente conservati assieme a una certa frugalità, frutto di un particolare attaccamento alla propria storia e una realtà difesa da eccessive influenze esterne.
    In questi ultimi anni sono nati numerosi punti di ristoro agrituristici alcuni anche dediti alla bio-agricoltura. In una terra dove l'allevamento e la coltivazione di ortaggi e di frutta sono da sempre fonte di sostentamento ed attività economica importante, l'agriturismo non si è affermato certo come moda del momento.





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    BUSSOLANO



    Il cugino mantovano del bensone modenese è il bussolano mantovano e come quasi sempre capita nelle ricette somiglianti tra le due sponde del Po, quella gonzaghesca è più ricca di grassi...l'antenato comune sia nato probabilmente a metà strada e si sia diffuso in tutte le campagne circostanti, seppure cambiando nome ad ogni sosta. Che parliamo di bensone, di bussolano o di pinza, sempre di un pane dolce a base di uova, farina e grasso si tratta, anche se le proporzioni variano.

    Nella sua fondamentale raccolta di formulazioni regionali, Anna Gosetti della Salda riporta una ricetta del bossolà nella quale si descrive una procedura davvero antica, che non prevede neppure l'impiego nello stampo e che rimanda alle elaborate tecniche di lievitazione proprie di altri dolci tradizionali, quali il panettone o il pandoro.
    In pratica, 1/6 degli ingredienti base (farina, burro, zucchero e uova) vengono impastati con lievito di birra e lasciati a lievitare per circa un'ora.
    Successivamente altri 2/6 degli ingredienti vengono impastati tra loro e quindi aggiunti al panetto già lievitato, per essere lasciati a lievitare altre due/tre ore.
    In ultimo si impastano i residui 3/6 degli ingredienti e si aggiungono al panetto lievitato. Dopo quindici minuti di energica manipolazione si forma con l'impasto un lungo salame che si pone direttamente sulla placca imburrata del forno, avvolto attorno ad una scodella capovolta.


    Ingredienti

    · 250gr di farina bianca
    · 90gr di zucchero
    · 70gr di burro fuso
    · 1 uova
    · Qualche (4 o 5) cucchiaio di latte
    · 1/2 bustina di lievito
    · 1 bustina di vanillina
    · Granella di zucchero


    In una ciotola mettere tutte le “polveri” (farina, zucchero, lievito vanillina), aggiungere le uova e il burro fuso e impastare gli ingredienti tra di loro, diluendo il composto con il latte.
    Mettere l’impasto così ottenuto in una teglia coperta con la carta da forno e la tipica forma ad “S” oppure una forma ovale.
    Spennellare la superficie con il latte e distribuire un’abbondante dose di granella di zucchero.
    Infornare per 20-25 minuti a 170° ventilato








    PAPASIN

    In piazza delle erbe a Mantova o nelle vicinanze, un tempo era facile trovare un banchetto dove vendevano i dolci a base di farina di castagne
    L'arte del papasín, se mai esiste, consiste nel farli della giusta consistenza, né troppo duri, né troppo molli. Ovviamente le versioni meno nobili non prevedevano né la presenza di uvetta, né di pinoli.


    Ingredienti per 16 papasin:

    500g di farina di castagne
    4 cucchiai di zucchero di canna grezzo
    acqua q.b. (circa 300ml)
    1 manciata di pinoli
    1 manciata di uvetta passa
    1 pizzico di sale


    Mettere a bagno l'uvetta in acqua tiepida, volendo aggiungete un po' di rhum al gusto e lasciate in ammollo una ventina di minuti.
    Mescolare bene la farina di castagne con lo zucchero, aggiungere un pizzico di sale e cominciare ad aggiungere acqua fino ad ottenere un impasto piuttosto modellabile, come nella foto.

    Aggiungere l'uvetta ammollata e i pinoli, quindi formare dei cilindri da sistemare sulla leccarda.
    Infornare per una ventina di minuti a 180 gradi, finché non vedrete imbiancare leggermente l'esterno.









    FIAPON

    Quando la povertà regnava sovrana nelle campagne mantovane (e non solo), si cercava di sopperire con la fantasia alla mancanza di ingredienti e il fiapón è una delle ricette tipiche di dolci di quei tempi di magra, a cavallo delle guerre mondiali, in cui si riciclavano obbligatoriamente anche gli avanzi di polenta, ammesso e non concesso che ce ne fossero.

    Nella versione più spartana non erano prevista neppure l'uvetta, figuriamoci i pinoli, però siccome viviamo in tempi meno grami di allora, è lecito ingentilire il dolce con qualche parsimoniosa manciata di ingredienti nobili, ottenendo così qualcosa che ricorda i caldidolci, di cui già parlai a suo tempo.

    Ingredienti:

    500g di polenta avanzata fredda o tiepida (circa)
    2 cucchiai di farina
    100g di zucchero
    un pizzico di sale
    scorza di limone grattugiata
    una manciata di uvetta (opzionale)
    qualche pinolo (opzionale)
    15g di strutto per soffriggere


    Ammollate per una mezzoretta l'uvetta e poi unitela al resto degli ingredienti, impastando fino ad ottenere una massa abbastanza omogenea. Scaldate lo strutto in una padella di 20-22cm circa, poi versate il composto distribuendolo uniformemente.
    Fatelo cuocere a fuoco moderato per almeno 20-25 minuti, poi occorre girare il fiapón sull'altro lato. Per fare ciò si può o agire tagliando il fiapón in 8 parti e girando ciascuna fetta, come dice di fare il Fraccalini, oppure fate come me, pigliate una seconda padella leggermente più larga della prima e girate il fiapón con un'abile manovra a 180 gradi, continuando la cottura per altri 20 minuti circa.
    Il fiapón deve risultare croccante esternamente e morbido all'interno e va mangiato tassativamente tiepido.



    tlazolcalli.it

    Edited by gheagabry - 24/9/2012, 22:55
     
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    "Cutizza" o "dolce dei poveri"



    Si tratta di un dolce, nato come merenda viene anche chiamato la “torta dei poveri”, in quanto, la poca farina che le persone più povere avevano a disposizione, veniva per l'appunto usata per la cutizza. Tempi addietro, la frittura veniva effettuata con poco olio in una larga ed alta padella di rame che veniva appesa alla catena del camino, in modo che, l'impasto versato, diventasse pronto e croccante in pochi minuti. La cutizza (o paradell e laciada) veniva quindi disposta in mezzo al tavolo e tutti se ne servivano.

    Ingredienti (dosi per 4 pers.):

    - 200 gr. farina bianca
    - 1 bicchiere di latte
    - 3 uova
    - 1 limone

    olio per friggere

    zucchero semolato

    sale


    Rompere in una ciotola le uova intere, sbatterle unendo prima la farina poi il latte, il sale e la scorza di limone grattugiata, lavorare molto bene il composto fino ad ottenere una pastella morbida e far riposare un attimo.Preparare una padella abbastanza larga con un pò di olio, quando è caldo versare l'impasto e cuocerlo da entrambe le parti. Voilà la cutizza è pronta per essere servita ben calda e zuccherata accompagnata da un bicchiere di buon vino bianco amabile. Le varianti: Nel territorio comasco esistono diverse versioni di questa focaccia tra cui il "Paradell" di Rogaro più alto (ca 1 cm.) e farcito di mele, uva sultanina e pinoli...







    LA SPONGARDA DI CREMA



    Spongarda" dal latino "spongia", spugna, per via della bella forma tondeggiante e rigonfia che il dolce assume a fine cottura. È un dolce di lunga conservazione tra i più antichi d’Italia. In Emilia, dove viene chiamato "spongata", era tradizionale per le feste natalizie fin dal Quattrocento a Brescello. Da lì si è diffuso nel resto della regione, a Busseto per esempio che ne contende l’origine. Ma anche più lontano, in Liguria ("Spungata di Sarzana") ed in Lombardia ("Spongarda di Crema"). Tra paese e paese ci sono varianti notevoli: le mele (Crema) possono essere sostituite con confetture (Piacentino), oppure con miele (Brescello) o con marzapane (Sarzana).

    La storia della Spongarda di Crema risale ad alcune centinaia di anni fa. Lo storico Pietro Terni descrive con grande dovizia di particolari la cena offerta a Crema nel 1526 da Malatesta Baglioni e accenna anche ai dolci: marzapane cum malvasia, torta bianca, torta de peri, torta de herbe, sfogliata de zucharo, butirro e cinamono, offelle, pigochate, mandorlate, torta de pistacchi e di zucharo. Nella torta bianca fatta con farina, zucchero, spezie e burro si identifica l’origine della Spongarda. Essa ha assunto lo spessore e la solidità attuali quando, a partire dalla seconda metà del ’700, la soffice focaccia fu arricchita con miele e mandorle tritate.
    La ricetta è di Tadini, Gran Maestro Pasticciere in Crema, contrada di Porta Ombriano, già sin dai primi dell’800.

    "La spongarda de Crèma"

    Ingredienti per 4 persone:

    per la pasta:
    350 gr. di farina bianca 00
    110 gr. di burro
    acqua bollente
    per il ripieno:
    100 gr. di mandorle toste
    100 gr. di nocciole
    100 gr. di noci
    50 gr. di pinoli
    50 gr di cedro candito
    1 pizzico di cannella
    3 gr. di macis
    350 gr. di mele
    350 gr. di uvetta
    una bella grattatina di noce moscata

    Preparazione

    Dopo aver tenuto in ammollo l’uvetta per almeno 12 ore, tagliare a fettine le mele, tritare grossolanamente tutti gli ingredienti, aggiungere i sapori e miscelare per bene il composto. a parte preparare la pasta per avvolgere il ripieno, lavorando a lungo i componenti finché ne risulti una palla dalla consistenza morbida ed elastica. Stenderla con il mattarello sino allo spessore di 1/2 cm. circa e posare su questa il ripieno preventivamente preparato, stendendolo uniformemente. Arrotolare come si fa con lo strüdel, spennellare con un poco di uovo sbattuto, se si vuole ottenere una bella doratura, infornare a temperatura media comportandosi come per un normale dolce.



    dal web
     
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    UN PO' DI STORIA


    Feeding the Young, 1850
    Jean-Francois Millet


    Pavia e il suo territorio


    La gastronomia di questa zona lombarda è molto legata al suo territorio: la pianura che occupa più di tre parti della sua estensione è intensivamente coltivata a foraggi e cereali, mentre nella parte collinosa prospera la vite. Viticoltura e allevamento del bestiame caratterizzano le attività agricole e anche la cucina di questa terra in cui onnipresente è il riso e, per chi non disdegna la loro prelibatezza, immancabili sono le rane. Fritte, adagiate sul risotto o in guazzetto, come ripieno di frittate, queste umili creature dell'acqua annegano gloriosamente nel celebre Riesling locale. Siamo in una zona di grandi vini: dalla robusta Bonarda al Buttafuoco e al Barbacarlo, per citare tre dei più tipici rossi, agli spumanti di Santa Maria alla Versa, ai vertici nazionali. In questa compagnia magnifica possiamo scegliere nel menù altri piatti più o meno famosi, come la «zuppa alla pavese», che sembra sia stata creata casualmente per Francesco I, sconfitto da Carlo V e affamato dopo la battaglia, che accoppia nel brodo un uovo. Ma non si può lasciare il Pavese senza assaggiare il salame e la coppa locali, entrambi superbi. E così gli stracotti, gli umidi, i formaggi. Piatto interessante è l'anguilla come la preparano a Borgo Ticino, rione di Pavia, e cioè con burro, cipolla, erbe, noce moscata, vino.
    Fra i salami celebre è quello di Varzi, protetto dalla denominazione di origine controllata, che arriva da una storica borgata della Valle Staffore in provincia di Pavia, sull'Appennino ai confini con l'Emilia, e può essere prodotto soltanto entro il territorio della Comunità Montana Oltrepo Pavese. È realizzato con carne grassa e magra di maiale, macinata a grana grossa, arricchita da pepe e aromatizzata con vino rosso che ha tenuto in infusione degli spicchi d'aglio. Insaccato in budello naturale e asciugato, il salame di Varzi viene stagionato per periodi variabili secondo le dimensioni. Si trovano salami da un minimo di cinquecento grammi fino a un massimo di due chilogrammi.
    Tutti gli anni, nei primi giorni di giugno, si svolge a Varzi una pittoresca sagra del salame nella quale vengono presentati e venduti i prodotti realizzati l'autunno precedente.
    Vi è poi il salame d'oca che ha le stesse radici storiche del prosciutto d'oca ed è confezionato in base alle regole del Consorzio produttori del Salame d'Oca di Mortara, che ha fissato precise caratteristiche di qualità. Deve essere fatto con carne magra d'oca unita a grasso di spalla e grasso di pancetta di maiale in proporzioni quasi uguali, miscelati con sale, pepe e aromi. L'impasto viene insaccato nella pelle dell'oca spianata e tenuta sotto sale, poi cucita a mano. Il salame d'oca viene prima asciugato per due o tre giorni, quindi messo in commercio. Va consumato rapidamente perché il periodo di conservazione non supera il mese. Può essere consumato crudo, come antipasto, oppure cotto. In questo caso diventa una pietanza. Va fatto cuocere lentamente per un'ora in acqua a temperatura non superiore agli 80°C e servito caldo con verdure cotte.
    Nell'ambito delle verdure una specialità pregiata è data dagli asparagi di Civalegna. La fortuna degli asparagi di Civalegna, borgata della Lomellina vicinissima a Vigevano, è data dalla qualità del terreno sabbioso e acido formatosi dalle stratificazioni alluvionali del Ticino, ideale per questo tipo di coltivazione. Esiste un Consorzio di produttori che contraddistingue con un marchio i veri asparagi di Civalegna. Ogni anno nella seconda domenica di maggio si celebra una sagra dell'asparago con degustazioni nei ristoranti e trattorie della zona. A seconda delle dimensioni gli asparagi vanno bolliti in apposite pentole dotate di supporti per mantenerli in piedi, da dieci a venticinque minuti. La tradizione lombarda li vuole con burro, uovo e formaggio grana.
    Fra i dolci oltre alla «torta sabbiosa» o «torta paradiso» diventata la bandiera gastronomica pavese, ricordiamo le «offelle di Parona», biscotti fatti con farina, burro, uova, zucchero e olio d'oliva, originari e tipici della borgata di Parona, nei pressi di Vigevano. Erano, nell'Ottocento, la specialità di un forno del paese appartenente a una famiglia che cedette la ricetta al Comune con l'impegno di continuarne la produzione senza modifiche. Oggi la produzione è controllata dalla Pro Loco ed eseguita da alcuni panifici che hanno ottenuto la ricetta. Il dolce viene celebrato ogni anno con una sagra primaverile. Di origine pavese è anche la colomba, che l'industria dolciaria ha ormai diffusa in tutta Italia: una leggenda la riporta ai Longobardi e racconta di una fanciulla che preservò la sua virtù servendo al re Alboino un prelibato dolce di sua invenzione a forma di colomba.
    Molte sono le sagre nella regione Lombardia: fra queste ricordiamo l'appuntamento settembrino denominato «Autunno pavese» che si svolge nel capoluogo e offre la produzione gastronomica dell'intera provincia. Fiore all'occhiello della kermesse è il torneo Quattro cuochi per quattro piatti, a cui partecipano sedici ristoratori locali, e da cui viene votato il Menù pavese dell'anno. Ogni sera, per tutta la durata della manifestazione, ci sono assaggi di risotti, su ricette di noti ristoranti pavesi, e degustazioni di formaggi e salumi abbinati ai vini dell'Oltrepo pavese.



    Job Berckheyde - "The Baker" - 1681

    Cremona e il suo territorio


    La città di Cremona situata presso la riva sinistra del Po ha una provincia che comprende centododici comuni e che si estende nella bassa pianura lombarda, limitata dai bassi corsi dei fiumi Adda e Oglio e da un breve tratto del corso del Po.
    Tutta la provincia è attraversata da canali di comunicazione o irrigazione che la rendono molto fertile: è infatti una zona agricola ricca anche di allevamenti di bestiame.
    I centri principali sono oltre, naturalmente, a Cremona che è il capoluogo, Crema, Casalmaggiore e Soresina, tutti famosi per le loro specialità gastronomiche.
    In questa zona ovunque troviamo una cucina ricca di carni (la zootecnia raggiunge qui primati di eccellenza): brasati, bolliti, rostisciade, busecche, cacciagione.
    Tipica specialità cremonese è la mostarda (che divide col torrone la proverbiale fama gastronomica della città). È una composta di frutta condita intera o a pezzi, drogata con senape: ha impareggiabile sapore dolce e piccante e si mangia col lesso o con la crescenza e il mascarpone. Purtroppo questo accostamento particolare tra il formaggio molle tipico lombardo, il mascarpone e la mostarda sta ormai scomparendo. Una volta era uno dei piatti tipici della Bassa Milanese e veniva servito tra le portate del cenone di Natale. Indispensabile accompagnamento di bolliti misti, la mostarda ha in Cremona (e per questo è definita ovunque e sempre "mostarda di Cremona") la sua capitale. Un tempo veniva preparata in casa ed era una semplice composta di frutta fresca cucinata in uno sciroppo zuccherino nel quale veniva disciolta della farina di senape bianca. Oggi è un prodotto industriale in cui la frutta fresca è stata sostituita da frutta candita. Il grado di piccantezza è dato dalla maggiore o minore quantità di senape aggiunta. Il nome viene dal francese moutarde, che sta per senape e che trova origine nella composizione delle due parole mout e ardent (mosto ardente) perché in origine la senape veniva incorporata al mosto d'uva.
    Stagione ideale di un viaggio che si ispiri alla tavola opulenta di questa zona è l'autunno inoltrato: la nebbia è un elemento fondamentale del fascino di questa terra di larghi orizzonti, la tavola tanto più invitante alle soste prolungate, alle robuste pacciade, come gli abitanti definiscono in dialetto le mangiate molto ricche e consumate con uno spirito particolarmente godereccio.
    Per i primi piatti la cucina del Cremonese propone quelli tipici di tutta la regione: risotti, tortelli e tortellini soprattutto. Ma nella stagione invernale si può ancora gustare l'antica gustosissima «zuppa di pane con animelle e fegatini» di cui forniamo la ricetta. Preparare un brodo molto ristretto di verdure. Scottare in acqua bollente le animelle e i fegatini, quindi raffreddarli e pulirli accuratamente. Tagliarli a cubetti e aggiungerli al brodo lasciando bollire per cinque minuti. Mettere in tazze da brodo 2/3 dei crostoni di pane tostati con poco burro in una padella, aggiungere alla zuppa uno sbattuto di uova, parmigiano, prezzemolo, cannella, noce moscata e zafferano. Far bollire due minuti e quindi versare nelle tazze spolverando la superficie con un pizzico di parmigiano. È una vera delizia del palato!
    La provincia di Cremona ospita da sempre grandi allevamenti di maiali le cui cosce partono, dopo la macellazione, alla volta dei prosciuttifici di Langhirano. L'umidità della pianura non consentirebbe, infatti, una corretta stagionatura del prodotto. È per questo, per la ricchezza della produzione di suini e perché abbisogna di una relativa stagionatura, che a Cremona è nato il cotechino, protagonista dei pranzi invernali. La composizione obbedisce a regole precise: carne magra, grasso e cotenne in tre parti uguali. Particolarmente importanti le cotenne, che vengono pestate e ridotte a poltiglia in modo da legare l'impasto in una morbida consistenza gelatinosa. Il cotechino viene insaccato nel budello, legato e messo ad asciugare al calore di bracieri per un paio di giorni, quindi a stagionare per un mese. Nella versione tradizionale, rispettata ancora da qualche salumaio, l'impasto del cotechino viene arricchito da profumo di vaniglia. Il cotechino va bollito lentamente per cinque o sei ore avvolto in un telo dopo essere rimasto per una notte in acqua fredda. Si serve caldo con accompagnamento di polenta grigliata o di purea di patate.
    Ma anche il salame ha un posto d'eccezione nella gastronomia di questa terra. Il salame di Cremona è uno dei salami più ricchi di Lombardia, confezionato con sola carne di maiale, compresi tagli pregiati come coscia e filetto, che solitamente vengono lavorati interi, e con l'aggiunta di circa il 37 per cento di grasso di pancetta. L'impasto è a grana media, miscelato con sale, aglio pestato, vino rosso di buona struttura, e viene insaccato nel budello grasso di bovino. Dopo un primo periodo di asciugatura di una settimana in sale riscaldate, il salame cremonese passa a stagionare per sei mesi. Il peso, nelle varie pezzature, va da poco più di un chilogrammo a tre o quattro chilogrammi ed è in questo caso molto lungo, anche più di un metro. Ideale antipasto o protagonista di merende e spuntini, va tagliato a mano, diagonalmente, per ottenere fette un po' spesse e lunghe.
    Fra i dolci oltre al «mandorlato di Cremona» famosissimo per la sua morbidezza ricordiamo il «bussolano» (diffuso in tutta la regione): una ciambella dolce con molto burro che la rende delicata e friabile e che si consuma con il vino dolce.




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    MOSTAZZIN



    Termine dialettale per mostacciuoli, da mosto, poiché anticamente si dolcificavano con mosto cotto.
    Bartolomeo Scappi (1570) li chiama, in alternativa, morselletti, cioè piccoli morsi, bocconcini nel senso moderno di pasticcini.

    Si tratta di biscotti di gusto antico (direttamente imparentati con i pani speziali del Medioevo e con i dulcia domestica dei Latini) preparati, in passato, con varie denominazioni, in tutte le regioni italiane.

    Il mosto. Alcune specialità della regione, come la mostarda e i mostazzitt conservano ancora nel nome la radice linguistica che le indica discendenti dal mosto.
    Era questo l'ingrediente più comune usato per la dolcificazione in ambiente contadino, dove, dopo il periodo aureo della Georgica virgiliana, non si è mai avuta troppa dimestichezza con le api e con il miele, né tanto meno con lo zucchero degli speziali. Il mosto d'uva, invece, era facilmente disponibile: sia quello ricavato da uva non ancora matura, con cui si produceva l'agresto (v. Maestro Martino, III), una sorta d'aceto non fermentato usato per fare salse e per insaporire pesci e carni alla brace; sia il mosto cotto vero e proprio, di cui si ha testimonianza negli antichi ricettari mantovani.
    Con questo vino cotto, come si chiamava comunemente, che si poteva conservare in vasi e bottiglie per molti e molti anni, a Mantova si preparavano dolci e biscotti, tra cui i turtei sguazzarott con zucca e fagioli. In generale si può ipotizzare un uso popolare di mosto cotto in tutte quelle specialità dolciarie che derivano dai pani speziali, come la torta spongarda del Cremasco, o che richiedano l'uso di miele in luogo dello zucchero. Il Dubini usa il mosto fresco per giulebbare, senza lo zucchero, delle pere.


    Tutte le ricette prese in esame derivano da quella della Cucina degli stomachi deboli, la quale, a sua volta, è debitrice a quella dell'Opera dello Scappi. Il cuoco rinascimentale profuma i suoi biscotti, oltre che con anice, con spezie di gusto cinquecentesco, quali il pitartamo e il muschio, e stende l'impasto in teglie larghe, per poi tagliarlo a losanghe tra la prima cottura e la biscottatura.
    Nessun altro ricettario indica con esattezza le spezie da usare, ma sulla scorta di formulazioni provenienti da altre regioni, possiamo indicare: semi di anice, cannella, chiodi di garofano, semi di coriandolo e noce moscata, da equilibrare tra loro a seconda dei gusti (ma sempre con estrema parsimonia, come richiede il gusto moderno).

    Nell'Ottocento si servivano a colazione, per farne zuppetta nel caffellatte; oggi paiono più congeniali al tè pomeridiano o ad un fine pranzo.
    Nel qual caso, in mancanza del vin del tecc, prodotto una volta con uve appassite e religiosamente conservato in solaio nell'apposito caratellino, può essere abbinato con un robusto Sfurzat della Valtellina.




    ..la ricetta..

    Preparazione per 6 porzioni:

    FARINA BIANCA 00: 400 g
    ZUCCHERO: 150 g
    ACQUA: 1/2 bicchiere
    SPEZIE A PIACERE: q.b.

    Incorporare tutti gli ingredienti con l'acqua, gramolando sul tagliere;
    distendere la pasta con il matterello e tagliarla a forma di mostacciuoli (rombi allungati);
    cuocere in forno moderato (160° C) per circa 15 minuti.




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    MIASCIA



    Questo dolce-pasto povero, detto anche Meascia o turta di paisan, deriva probabilmente da un antico nucleo di ricette, del tipo del migliaccio già descritto da Maestro Martino da Como, preparato fra l'altro con "una libbra di cacio del più fresco che possi havere" e con un'aspersione finale di "bono zucchero et di acqua rosata" e cotto nello stesso forno dove si faceva il pane.
    La ricetta proposta utilizza come ingrediente base il pane raffermo, ma ne esistono numerose varianti locali basate su un impasto di farina bianca e farina gialla.

    I dolci poveri, come la miascia, sono sovente preparati con frutta secca o fresca, per ottenere una base zuccherina naturale: un tempo infatti lo zucchero era molto raro e lo si trovava solo sulla mensa dei ceti più abbienti.
    Ne risultano razioni estremamente energizzanti, ma anche piuttosto complete sul piano nutrizionale: la frutta apporta sali minerali e vitamine e nobilita le "calorie vuote" dello zucchero.
    In passato, il dolce non era come oggi consumato a fine pasto, ma in alcuni casi in sostituzione del pasto, piuttosto che come merenda, e comunque in occasioni particolari: feste, ricorrenze, doveri di ospitalità.




    ..la ricetta...

    Preparazione per 6 porzioni:

    PANE RAFFERMO: 500 g
    LATTE INTERO: 1/2 litro
    UOVA: 2
    AMARETTI: 3
    MELA: 1
    PERA: 1
    PINOLI: 20 g
    UVETTE: 50 g
    LIQUORE AMARETTO: 1 bicchiere
    BURRO: 30 g
    FARINA BIANCA: 1 cucchiaio
    CIOCCOLATO AMARO: 50 g, in scaglie
    ZUCCHERO: 75 g

    Tagliare il pane a fettine e ammollarlo col latte in una zuppiera per circa 2 ore;
    stemperare il pane ammollato con un cucchiaio;
    aggiungere le uova, le uvette precedentemente ammollate in aqua tipieda, i pinoli, la mela e la pera tagliate a fettine, lo zucchero, gli amaretti sbriciolati e il liquore;
    lavorare l'impasto con il cucchiaio e versare in una tortiera imburrata e infarinata;
    spolverare l'impasto con lo zucchero e il cioccolato in scaglie e guarnire con il burro a fiocchi;
    cuocere in forno a 200°C per 15 minuti, quindi a 150°C per altri 15 minuti;
    sfornare e servire tiepida o a temperatura ambiente.

    Varianti:
    la sostituzione del pane raffermo con un impasto di farina bianca e gialla è ampiamente utilizzata in alcune località del comasco e riportata nei ricettari brianzoli.
    Ma la composizione dell'impasto può variare notevolmente in base agli ingredienti disponibili.



    Il pane raffermo.."Pan poss, vin brusch e legna verda fan l'ecunumia d'una ca": così recita un detto popolare lecchese a testimoniare il valore di sussistenza legato all'impiego completo delle povere risorse.
    Che il giudizio sul pane raffermo fosse comunque negativo si desume dall'uso dell'espressione "l'è un pan poss", riferita ad una persona insulsa o di poco valore.
    Il pane raffermo (poss) era un tempo piuttosto utilizzato in cucina, sopratutto nelle zuppe (dal pumia o pan muja, al pancotto o panada).
    Non va d'altronde dimenticato che il pane era una volta molto diverso da quello di oggi: era preparato con miscele di farine diverse (farina di mais: pangiallo; farina di miglio: pan de mej; farina di segale, ecc.), cotto in grandi pezzature nei forni comunitari e consumato in una-due settimane, conservandolo in un armadio apposito (la panadura).
    Quantunque il pane raffermo fosse più duro e un po' inacidito, non bisogna dimenticare che la sua digeribilità rimaneva piuttosto elevata, sovente superiore a quella del pane fresco.
    Il raffermimento, infatti, comporta una serie di trasformazioni fisico-chimiche che inducono una parziale retrogradazione dell'amido, cioè la formazione di un reticolo cristallino organizzato, aggredito più lentamente dai succhi gastrici che così regolano l'assorbimento dell'amido e la sua digestione a glucosio.



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  13. gheagabry
     
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    OFFELLE di PARONA



    Le offelle sono un dolce tipico della cittadina di Parona, nella Lomellina, la zona nord occidentale della provincia di Pavia.
    La specialità dolciaria vanta ormai più di un secolo di vita.
    Si tratta di un biscotto, dal gusto unico e dall'inconfondibile forma ovale, nato da un’indovinata miscela di ingredienti semplici e nutrienti.
    Pare che le inventrici dello squisito dolce siano state, sul finire dell'Ottocento, le sorelle Pasqualina e Linìn Colli.
    Il successo commerciale delle offelle arrivò nel 1969 con l’organizzazione della prima sagra di questo prodotto tipico.
    Da allora, la locale Pro Loco tutela la genuinità del biscotto attraverso un marchio di garanzia fornito ai produttori.Il dolce ha conquistato il palato di tanti consumatori italiani ed esteri.


    "...un'antichita' fatta di dolcezze..."
    Le massaie paronesi amavano confezionarle nell'imminenza della sagra del paese che coincideva, alla prima domenica di Ottobre, con la festa della Madonna del Rosario, per presentarle, al termine della colazione festaiola, ai commensali che, per l'occasione, raggiungevano il paese per trascorrere, fra parenti ed amici, ore di serena letizia.
    Furono due sorelle, una delle quali di nome Pasqualina (di cui il dolce si assimilò per lungo tempo il nome), a darne il primo carattere artigianale.
    Eravamo all'inizio del nostro secolo ed i mezzi pubblicitari non erano certo quelli di oggi, ciò nonostante il prodotto andava a ruba.
    La superlativa genuinità degli ingredienti che compongono l'Offella di Parona, il loro giusto dosaggio, la indovinata cottura, imprimevano al prodotto un indice di gradimento eccezionale.




    ..la ricetta..

    INGREDIENTI
    400 g. di farina 00
    175 g. di burro
    175 g. di zucchero a velo
    1 cucchiaio di olio extravergine di oliva
    1 uovo
    1 tuorlo
    la scorza di 1 limone grattugiata
    ½ cucchiaino di lievito
    1 pizzico di sale

    In una ciotola, mescolate la farina con lo zucchero, il lievito e il sale; unite il burro morbido, le uova e l’olio, aromatizzate con la scorza di limone. Impastate fino ad avere un composto omogeneo.

    Stendete la pasta dello spessore di 4mm. e ritagliate le offelle. Cuocete a 180° per 10-12 minuti.





    dal web
     
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  14. gheagabry
     
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    UN PO' DI STORIA




    Still-life with Herring 1636
    Oil on panel, 36 x 46 cm
    Museum Boijmans Van Beuningen, Rotterdam

    Bergamo e il Bergamasco


    La città di Bergamo è situata nella pianura pedemontana tra lo sbocco della Val Brembana e della Val Seriana. La sua provincia si stende dal crinale delle Alpi Orobie alla pianura padana, comprendendo la Val Brembana, la Val Seriana e i rilievi che la fiancheggiano; è per circa tre quarti montuosa. Il territorio ben coltivato nella pianura e nelle valli dà notevoli produzioni di cereali, frutta, vino, ortaggi e, nelle parti più elevate, boschi e pascoli.
    La realtà geografica della zona ha fatto elaborare una gastronomia che si basa soprattutto sulla polenta, sui formaggi e sulla carne.
    La polenta raggiunge qui il suo vertice: sapida, robusta, virile, ha tono e dignità di cibo vero. Perfetta con stracotti e brasati, magnifica pasticciata con ragù di carne e funghi, nel Bergamasco la servono (o, meglio, la servivano grazie alle restrizioni venatorie) soprattutto con gli uccelli: è forse il piatto ricco più classico di questa zona di verdi montagne e di valli silenziose.
    Ma può essere servita anche con gli uccellini "scappati" (detti anche "scapati", cioè senza testa, su questa denominazione la discussione è sempre aperta), tipici involtini di fesa di vitella sottilissima. Su ogni fettina di carne si stende una fettina di prosciutto crudo, cercando di tenerla un po' più stretta della carne. Si arrotola la carne con dentro il prosciutto ben stretto. Si infilano questi rotolini su uno stecco di legno mettendo una foglia di salvia tra l'uno e l'altro. Si versa in una padella larga e piatta olio d'oliva e si aggiunge un po' di burro, quindi vi si adagiano gli involtini aderenti gli uni agli altri; si fanno rosolare bene da una parte e dall'altra, a fuoco abbastanza alto, si salano, ma non troppo dato che all'interno c'è il prosciutto crudo, poi si abbassa la fiamma e si aggiunge al sugo un po' d'acqua. Si lasciano cuocere piano piano, aggiungendo poca acqua alla volta, per più di un'ora. Si fa asciugare e rapprendere un poco il sugo e si servono caldi su fette di polenta versando il sugo al centro, praticando una buca con il cucchiaio.
    Un piatto tipico di questa zona, esportato anche in altre parti dell'Italia settentrionale.
    Nella cucina più povera la polenta è mangiata soprattutto con il formaggio: basterà ricordare che Bergamo è la patria della polenta taragna, fatta con una miscela di mais e grano saraceno, il cui nome non ha nulla a che vedere con i saraceni, semmai con le invasioni mongole che avrebbero introdotto questa coltivazione in Europa. Questa polenta pasticciata con burro e formaggio deve essere mescolata a lungo con un bastone detto "tarain" (tarello) dal quale ha preso il nome.
    Grande è la varietà di preparazione della polenta che può essere consumata al posto del pane, appena fatta, ma anche rifatta al forno, pasticciata o a timballo con abbondante burro e vari formaggi.
    Fra i formaggi ricordiamo la «formaggella di monte» che si può trovare in tutte le zone di montagna. Si tratta di un formaggio a pasta semicotta da latte vaccino intero. Si tratta di una delle lavorazioni più tipiche delle baite di montagna, legata ancora alla tradizione artigianale. La salatura è a secco e la stagionatura delle forme, piuttosto piccole, del peso di circa due chilogrammi e con un diametro di venti centimetri o poco più, dura dai venti ai trenta giorni. La zona di produzione è la montagna bergamasca. L'origine di questo particolare formaggio, simile ad altri delle regioni alpine lombarde (per esempio lo scimudin valtellinese), è data dall'esigenza dei malgari di avere un prodotto facilmente realizzabile durante il periodo del pascolo estivo, ma pronto da vendere al ritorno delle mandrie in pianura. La crosta è gialla con sfumature grigie e leggermente rugosa, la pasta è bianca e morbida, con occhiatura minuta, il sapore molto delicato. La formaggella di monte viene consumata prevalentemente a tavola, a fine pasto o nelle merende montanare insieme a vassoi di affettati, polente fresche o crostoni di polenta abbrustoliti sulla griglia.
    Caratteristico della Val Brembana che l'ha denominato con termine dialettale è il «formai de mut»: dove mut significa al tempo stesso monte e alpeggio. Il formaggio deriva dalla tradizione del pascolo d'altura delle Alpi Orobiche ed è uno dei prodotti più tipici del Bergamasco. È realizzato con latte intero di mucca "bruna alpina", a pasta semicotta, con salatura a secco o in salamoia e una stagionatura minima di quarantacinque giorni. La forma, piuttosto grossa, è alta circa dieci centimetri, ha un diametro fra i trenta e i quaranta e un peso variabile tra gli otto e i dodici chilogrammi. Protetto dalla denominazione d'origine controllata, può essere prodotto nel territorio di ventidue comuni dell'Alta Val Brembana sotto il controllo di un Consorzio di tutela. La crosta si presenta sottile e compatta, di un colore giallo paglierino che con la stagionatura, facilmente protratta oltre i cinque o sei mesi, acquista sfumature grigie. La pasta è compatta ed elastica, con occhiatura minuta e diffusa, il sapore è molto morbido e delicato. Con l'età il sapore tende ad affinarsi e ad acquistare più personalità. Il formai de mut viene consumato a tavola, ma entra anche in preparazioni della cucina bergamasca, soprattutto la polenta al forno.
    Utilizzato in tutte le versioni di insalate estive e con varie verdure è il famoso «quartirolo». Il nome viene dal fatto che le mucche, al ritorno dai pascoli estivi, brucavano l'erba spuntata nei campi dopo il terzo taglio del fieno, che in Lombardia è detto erba quartirola. Il sapore particolare di questo tipo di foraggio si trasferiva nella produzione casearia e il formaggio derivato, prodotto nei mesi di settembre e ottobre, veniva detto appunto quartirolo. Oggi, protetto dal marchio DOC, viene lavorato tutto l'anno nei caseifici moderni, appartiene alla famiglia degli stracchini e ricorda abbastanza le caratteristiche del più famoso taleggio. Si tratta di un formaggio molle a pasta cruda dal latte vaccino intero o parzialmente scremato proveniente da più mungiture. La salatura avviene a secco o in salamoia e la maturazione va da cinque a trenta giorni. Le forme sono quadrangolari, alte da quattro a otto centimetri e con diciotto-venti centimetri di lato, del peso fra uno e mezzo e tre e mezzo chilogrammi. Il quartirolo ha crosta sottile, morbida, tendente al rosa, con sfumature grigie man mano che invecchia. La pasta è bianca, friabile, il sapore aromatico con una vena leggermente acidula.
    Fra i dolci, tipico di tutto il Bergamasco è la «polenta e osei». È un dolce tutelato dal marchio che controlla i prodotti della città, è la versione dolce, creata da un pasticciere, di uno dei più famosi piatti della cucina orobica, oggi caduto in disuso per il divieto di cattura della selvaggina di becco gentile. Si tratta di una pasta margherita con la quale viene riempito uno stampo semisferico. Capovolta, la torta così ottenuta viene prima tagliata orizzontalmente a metà e farcita con marmellata di albicocche e liquori, infine rivestita con una pasta di mandorle granulosa, colorata di giallo a imitazione della polenta. Sulla sommità vi si appoggiano alcuni uccellini modellati in cioccolato. Altra marmellata diluita e versata sugli uccelli dà l'impressione del sugo.






    Still-Life 1636
    Oil on canvas
    Museo Thyssen-Bornemisza, Madrid

    Brescia e il Bresciano


    Città antichissima che può vantare non poche glorie storiche è situata nella pianura pedemontana alla destra del fiume Mella, allo sbocco della Val Trompia. La sua provincia è la maggiore della Lombardia, si estende fra il bacino del fiume Oglio e dell'Adda. Oltre metà della sua superficie è montuosa comprendendo la Val Camonica (Oglio), la Val Trompia (Mella) e la bassa Valle del Chiese, con rilievi interposti culminanti nel massiccio dell'Adamello.
    È un territorio molto fertile e ben coltivato sia nella pianura sia nelle valli e sulle basse pendici dei monti, mentre nelle parti più elevate è ricco di boschi e di pascoli.
    La cucina povera di questa terra è dominata dalla polenta, da sempre uno dei cardini dell'alimentazione. Particolarmente saporita per l'alta qualità del mais che qui viene coltivato, sostituisce in parte il pane e viene consumata prevalentemente con il latte e tutti i latticini fra i quali ricordiamo il formaggio bagoss invecchiato; tagliato a fettine viene messo per qualche minuto sulla griglia.
    L'origine di questo formaggio è del centro bresciano di Bagolino, a ottocento metri di quota nella Valle del Caffaro, ma la produzione si estende anche alla zona compresa tra Valcamonica, Val Sabbia, Val Trompia e in buona parte dell'Alta Valle del Chiese, in particolare nei dintorni della borgata di Storo, tanto da farlo considerare anche un formaggio trentino. Il centro più importante di produzione è comunque Bagolino. Il formaggio è a pasta semicotta, prodotto con latte di mucca parzialmente scremato per affioramento ed esige una qualità di latte eccellente derivata dall'alimentazione delle mandrie al pascolo estivo ricco di fiori ed erbe aromatiche. L'aroma del bagoss è in effetti assolutamente unico. La salatura avviene a secco e le forme cilindriche, alte circa quindici centimetri con un diametro attorno ai quaranta centimetri e un peso variabile da dodici a quindici chilogrammi, rimangono a stagionare da un minimo di tre mesi a un massimo di due anni. La pasta, compatta, con occhiatura minuta o del tutto assente, ha un iniziale colore paglierino che con l'età tende ad assumere tonalità più ambrate con lievi venature verdastre. La produzione è limitata a non più di diecimila forme l'anno da una popolazione di circa seicentocinquanta mucche di razza "bruna alpina", che localmente sono chiamate vacche bagosse. Per difendere il prodotto e incrementarlo è stata avanzata la richiesta di denominazione di origine protetta e si è costituita a tale scopo la Cooperativa Valle di Bagolino.
    Caratteristico della Valcamonica è il formaggio silter. I silter sono, in Valcamonica e attorno al Lago d'Iseo, le costruzioni in pietra che accolgono animali e mandriani durante i pascoli estivi nelle malghe montane. Lo stesso nome è attribuito a questo formaggio a pasta semicotta, da latte vaccino parzialmente scremato. Salato a secco o in salamoia, il silter rimane a stagionare sei mesi ed è un formaggio da tavola; con una stagionatura prolungata ai dodici mesi e anche oltre diventa un formaggio da grattugia. Le forme sono abbastanza consistenti, alte dieci o quindici centimetri, con un diametro da venticinque a quaranta centimetri e un peso compreso tra i dieci e i venti chilogrammi. Ha qualche analogia con il montasio veneto. Formaggio tipico da tavola, quando ha sei mesi di stagionatura, trova anche varie applicazioni di cucina soprattutto nella preparazione di timballi di polenta al forno e piatti analoghi. Dopo lunga maturazione è un ricercato formaggio da grattugia per tutti i primi piatti della gastronomia della zona d'origine.
    Ma la polenta si mangia con ogni cibo, dall'aringa agli stufati, dai salumi alla cacciagione. In questo caso entra a far parte dell'alimentazione ricca che nella città di Brescia come nella provincia è sempre più diffusa. Molti piatti sono simili a quelli di altre zone: così le «mariconde», palline ottenute con burro, formaggio, pane grattugiato e noce moscata, che si cuociono nel brodo di carne e sono tipiche anche del Mantovano. I ravioli locali si chiamano «casonsèi», come nella vicina Bergamo.
    Il termine «casonsèi» deriva dall'antico «cassoncelle» che probabilmente significava «piccoli scrigni». Sono in genere grossi ravioli ripieni di carne, salame, spinaci, uova, una sultanina, amaretti, formaggio grana e pane grattugiato che si condiscono con burro fuso alla salvia. Questa specialità aveva un tempo, al posto del salame, pere di tipo spadone tritate. Le notizie sui casonsei risalgono al XIV secolo; essi sono citati nella Cronaca scritta da Castello Castelli intorno al 1390. In Valcamonica, specie a Breno, si usano ancora i «caicc», ravioli giganti farciti con uno speciale ripieno a base di carne stufata e formaggio grana.
    È importante ricordare che i casoncelli forse non derivano dai ravioli perché, a quanto ci dice l'Artusi, i veri ravioli non si fanno con la carne e non si avvolgono nella sfoglia; sarebbero pertanto gli equivalenti degli «Strangolapreti».
    Fra i salumi ricordiamo lo strinù della Valcamonica. Il nome dialettale ha origine dal modo di cucinare questo insaccato, tagliato a metà e messo sulla griglia, appunto, a strinare. L'impasto è di carni suina e bovina insaporito da vino, aglio, pepe, cannella, noce moscata e chiodi di garofano. La pezzatura è di circa duecento grammi. Pietanza o merenda montanara, si cucina alla griglia, come suggerisce il nome, oppure bollita o in umido, accompagnata da patate o verdura cotta.
    Particolarissima è la salsiccia di castrato. Tipico insaccato della Valcamonica, prodotto in genere da giugno a settembre, quando la carne dei castrati, nutriti ai pascoli estivi, è più ricca e saporita. La lavorazione è abbastanza complessa: la carne magra viene tritata e aggiunta a un brodo ottenuto dalle ossa dell'animale e poi sgrassato. Si insaporisce l'impasto con sale, droghe e aglio e si insacca in budello di manzo in pezzi lunghi circa mezzo metro, che vengono piegati a metà per formare coppie di porzioni. Il peso totale è di circa settecento grammi. La salsiccia di castrato si serve bollita o rosolata nel burro, accompagnata da polenta fresca o patate. È buona anche fredda, insieme con verdure in insalata.
    La vicinanza del Lago di Garda fornisce a questa zona l'olio d'oliva pregiato perché tutti i laghi lombardi offrono un habitat particolare che consente la produzione di un olio d'oliva extravergine di altissima qualità, molto basso d'acidità e di sapore fine. Si tratta di quantitativi minimi che bisogna andare a cercare direttamente nelle zone di produzione.
    Il lago offre inoltre varie qualità di pesce, primo fra tutti la trota salmonata che viene spesso cucinata in forno farcita di erbe aromatiche e burro. Ma ricordiamo anche il pesce persico, la tinca, gli agoni e i lavarelli che vengono per lo più cucinati in umido, spesso senza pomodoro.
    Quella del Bresciano è dunque un'alimentazione molto varia, legata alla vastità e varietà del territorio: essa infatti comprende prodotti della montagna (cacciagione e funghi), della pianura (allevamenti di bestiame e cereali) e del lago che offre anche pregiati agrumi. Limoni e cedri sono sempre stati un elemento del paesaggio gardesano. I secondi, addirittura, hanno generato la produzione di una nota bevanda, la cedrata, che ha avuto in passato buona diffusione. La zona di produzione merita di essere vista: è il territorio più settentrionale d' Europa dove gli agrumi riescono a crescere e a fruttificare. La struttura delle limonaie ancora presenti sulla costa da Salò verso Riva del Garda racconta un passato ricco, quando le difficoltà di trasporto dal sud facevano di queste terre il punto preferito di approvvigionamento dei mercati centroeuropei. Oggi le limonaie sono ancora in attività, ma in misura minore e per opera di pochi appassionati. Nei paesi del Garda è possibile trovare sia limoni sia cedri di grande qualità.
    Fra i dolci ecco il «Bossolà», una morbida ciambella un tempo preparata in famiglia in occasione di particolari ricorrenze, oggi quasi esclusivamente nelle pasticcerie: si tratta di tre impasti dolci a base di farina, zucchero e uova, il primo dei quali ha anche lievito di birra e viene lasciato lievitare. La ciambella è infine spennellata con albume d'uovo e decorata con zucchero e mandorle.




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  15. gheagabry
     
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    TORTA SABBIOSA o TORTA PARADISO



    La torta sabbiosa è un dolce le cui origini risalirebbero al 1700 e viene conteso da Veneto e Lombardia. Secondo alcuni le origini sarebbero delle provincie di Vicenza e Verona ma se ne hanno tracce storiche anche nell'Oltrepo Pavese e nel mantovano.

    La leggenda tramandata da generazioni sull’origine del nome: quel frate erborista della Certosa che per cercare tarassaco e angelica arcangelica violava la Regola, varcando il recinto. Pare addirittura che il fraticello incontrasse una sposina di Parona che generosamente gli fece assaggiare quella torta. Trovatala eccellente, il frate tornò ad incontrare la sposa per avere la ricetta: ma il Priore insospettito dalle frequenti assenze lo rinchiuse entro le mura del monastero. In ricordo della soave fanciulla, il frate costretto in cattività si dedicò alla preparazione della torta, che tanto piacque ai confratelli e tosto fu battezzata “Torta Paradiso”.La Torta è fatta di sole uova, burro, farina, fecola di patate, zucchero e lievito. E’ morbida e soffice, e leggermente aromatizzata al limone. Un boccone antico: semplice e diretto ma anche denso e ordinato.
    (dal web)



    INGREDIENTI

    250 g. di fecola di patate (oppure maizena)
    250 g. di zucchero
    250 g. di burro pomata
    3 uova
    1 bacca di vaniglia
    1/2 bustina di lievito vanigliato

    PREPARAZIONE

    Mettere nella planetaria il burro (tenuto a temperatura ambiente dalla sera prima per renderlo a pomata) e lo zucchero, e fare amalgamare fino ad ottenere un composto spumoso.
    Separare gli albumi dai tuorli.
    Aggiungere al composto i tuorli uno per volta; è importante che il primo sia perfettamente amalgamato con l'impasto prima di aggiungere il successivo.
    Terminato di amalgamare i tuorli aggiungere la fecola a pioggia ed il lievito con la vaniglia. Mescolare fino a quando l'impasto non assumerà l'aspetto di sabbia bagnata.
    Montare a neve ben ferma gli albumi.
    Incorporarli nel composto, facendo molta attenzione, mischiando a mano dal basso verso l'alto.
    Ne risulterà un impasto molto spumoso e solido.
    Imburrare ed infarinare una teglia per torte di circa 30 cm di diametro, quindi versare il composto cercando di distribuirlo in modo uniforme
    Infornare a 160 gradi nel forno preriscaldato e fare cuocere per circa 45/50 minuti.
    Non aprire mai il forno e lasciare il dolce all'interno del forno fino a quando non si è raffreddato.
    Togliere il dolce dalla teglia e metterlo su un vassoio
    Spolverare con lo zucchero a velo e servire.

    VINO CONSIGLIATO

    Recioto della Valpolicella

     
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