RACCONTI sul RICICLO

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    Le scarpe sono piene di plastica


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    La plastica è uno dei materiali più usati al mondo ma è anche uno dei più complicati da riciclare, e per questo motivo il suo impatto sull’ambiente negli ultimi anni è diventato un problema sempre più sentito da tante persone in tutto il mondo. Gli sforzi per utilizzare meno plastica possono andare da piccoli gesti come non acquistare prodotti in plastica monouso o utilizzare prodotti realizzati con plastica riciclata, ma ci sono alcuni prodotti in cui la plastica, anche se a prima vista non si direbbe, è presente in grande quantità, e farne a meno non è facile: le scarpe. Dalla tomaia alla suola, dall’intersuola ai lacci, in particolare nelle sneakers, la plastica è presente in varie forme in molti componenti delle scarpe. A causa del modo in cui le scarpe vengono fabbricate, poi, sono quasi impossibili da riciclare: i pezzi che le compongono sono incollati e saldati l’un l’altro.
    Come ha spiegato di recente un articolo del National Geographic, non è sempre stato così. Un tempo infatti le scarpe erano fatte esclusivamente di materiali naturali, e solo di recente la plastica è diventata un componente fondamentale per la loro realizzazione. Fino alla prima metà dell’Ottocento le scarpe erano fatte essenzialmente con una tomaia in pelle, una suola in gomma o sughero e i tacchi in legno, ma verso la fine del secolo l’evoluzione della società portò alla necessità di un nuovo tipo di scarpa, più pratica, leggera e comoda. L’industrializzazione e la diffusione del lavoro in fabbrica, inoltre, avevano creato un concetto fino ad allora sconosciuto: le vacanze estive. D’estate le fabbriche chiudevano per i lavori di riparazione dei macchinari, così moltissimi operai avevano del tempo libero da utilizzare per viaggiare o andare in villeggiatura al mare. Sempre nello stesso periodo, inoltre, iniziò a diffondersi l’idea di praticare sport per divertimento.
    Sia per andare in vacanza che per praticare sport, però, le pesanti scarpe da lavoro non andavano bene: si cominciò così a utilizzare la gomma naturale (anche detta caucciù), ricavata fin dall’antichità dal lattice di alcune piante ma fino a quel momento inutilizzata in abbigliamento perché troppo morbida. Nel 1839, poi, Charles Goodyear inventò la vulcanizzazione della gomma, un processo chimico che permetteva di rendere più stabile il caucciù. La gomma divenne così il materiale principale per la realizzazione delle suole delle scarpe sportive, che risultavano più pratiche da indossare in contesti informali, e comode per fare sport.
    La gomma naturale, per quanto vulcanizzata, aveva il grosso difetto di essere poco resistente agli agenti atmosferici e alle alte temperature, motivo per cui nel corso del Ventesimo secolo venne rapidamente sostituita dalla gomma sintetica, realizzata tramite polimerizzazione di idrocarburi. All’inizio del Ventesimo secolo, inoltre, sempre più donne lasciarono gli ambienti domestici per entrare nel mondo del lavoro, iniziando a diventare economicamente indipendenti: la plastica si rivelò un prodotto perfetto per fare scarpe poco costose, e in particolare per realizzare tacchi che fossero allo stesso tempo leggeri e resistenti.
    L’utilizzo della plastica nelle scarpe continuò ad aumentare negli anni Sessanta e Settanta, perché quel materiale permetteva di creare forme e colori stravaganti che si adattavano bene alle nuove mode giovanili. Alla fine degli anni Settanta, poi, arrivò la cultura del jogging: le aziende iniziarono a produrre scarpe adatte a correre su lunghe distanze, con un’ammortizzazione maggiore data dall’utilizzo di nuovi materiali sintetici nell’intersuola. Alcune inoltre iniziarono a utilizzare materiali sintetici anche per le tomaie, che risultavano più versatili della pelle o della tela, ma che si deformavano meno con il tempo. Questo permise ai designer di potersi sbizzarrire nelle forme e nei colori da dare alle proprie scarpe.
    Questa tendenza è diventata sempre più attuale negli ultimi anni.


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    La terribile isola di Thilafushi


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    Maldive, Thilafushi. Un luogo incontaminato fino a 25 anni fa, prima che questa splendida laguna venisse trasformata in una discarica e prima che i rifiuti iniziassero a vagare per il mare cristallino di questo splendido arcipelago.
    Thilafushi fa parte dell’atollo di Kaafu e dista appena 7 km dalla capitale Malè. Nacque per volere del governo locale nel 1992. La laguna venne trasformata in una discarica per affrontare il crescente problema dello smaltimento dei rifiuti prodotti dall’industria del turismo. Dopo circa un mese, iniziò ad arrivare la spazzatura.
    Furono scavati enormi pozzi nella sabbia e lì furono confinati i rifiuti provenienti da Male e dalle altre isole abitate dell’arcipelago della Maldive. Rispetto alle altre discariche, a Thilafushi la spazzatura viene relegata tra il mare e sottili strati di sabbia bianca, ricoperta da uno strato di detriti di costruzione e poi dalla sabbia.
    Sull’isola centinati di immigrati lavorano senza protezione nel trattamento e nella combustione dei rifiuti. Quantità che oggi arrivano fino a 330 tonnellate al giorno. Vengono stoccati sia i rifiuti prodotti dagli abitanti della capitale Malè che dai circa 100 resort delle Maldive.

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    Oggi, ci sono oltre 30 fabbriche a Thilafushi, una moschea e case per i circa 150 migranti del Bangladesh che lavorano alla discarica. Per Bluepeace, il principale movimento ecologico delle Maldive, l’isola è una “bomba tossica”.
    Ali Rilwan, ambientalista di Malé, ha rivelato che batterie esauste, amianto, piombo e altri rifiuti potenzialmente pericolosi vengono mescolati ai rifiuti solidi urbani.Anche se è una piccola frazione del totale, questi rifiuti sono una fonte di metalli pesanti tossici.
    A dicembre 2011 il Consiglio Comunale di Malé aveva temporaneamente vietato il trasporto di rifiuti a Thilafushi a causa di un aumento dei rifiuti galleggianti nella laguna dell’isola e alla deriva in mare.

     
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    Ecco un motivo eccellente
    per dare un taglio alla dipendenza da plastica


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    By Mark Kaufman

    Perfino nella fossa più profonda della Terra, a qualcosa come 11mila metri sotto il livello del mare, giace una busta di plastica bianca.
    L’inquinamento da plastica è ormai un fenomeno talmente diffuso sul pianeta ad ogni latitudine che intere città, contee e perfino Stati hanno messo al bando le buste di plastica monouso. New York si appresta a proibire questi sacchetti, che si rompono e sono praticamente inservibili.
    Eppure, oltre a questa piaga e al dramma del riciclo dovuta alla dipendenza della nostra società dalle buste di plastica, ci sono anche altre conseguenze che incombono pesantemente sul nostro futuro. Complessivamente, il consumo globale di plastica è quadruplicato negli ultimi 40 anni. E se il consumo di materie plastiche ricavate da combustibili fossili andrà di pari passo, l’industria della plastica si troverà ad essere responsabile di una quota enorme di emissioni di CO2 entro il 2050.
    Entrando nello specifico, se la civiltà moderna dovesse riuscire a limitare il riscaldamento globale del pianeta a 1,5 gradi Celsius sopra i livelli del 19esimo secolo – in modo da ridurre le conseguenze peggiori di un clima impazzito a livello globale – l’industria della plastica sarebbe comunque responsabile del 15 per cento di tutte le emissioni di anidride carbonica che la società riversa nell’atmosfera, una cifra esorbitante.
    In un mondo in cui macchine, aerei, navi, la produzione di energia elettrica e di cemento e il processo digestivo del bestiame concorrono tutti alle emissioni di anidride carbonica, il 15 per cento dell’industria della plastica è un contributo eccessivo, se non ridicolo.
    Gli scienziati hanno cercato di scoprire come, e se, la società avrebbe potuto evitare un simile scenario per il futuro. In uno studio pubblicato sulla rivista Nature Climate Change, hanno evidenziato che per arrivare a riportare ai livelli del 2015 le emissioni di cui è responsabile l’industria della plastica occorre un impegno enorme da parte di tutta la società, basato su quattro strategie: dimezzare l’aumento della domanda di materie plastiche, creare plastica dalle piante invece che dal petrolio e gas, produrre elettricità dalle energie rinnovabili e aumentare il riciclo.
    “È necessario un impegno di tutt’altro livello rispetto a quanto non sia stato fatto finora”, ha detto Sangwon Suh, coautore dello studio e professore di ecologia industriale alla University of California a Santa Barbara.

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    Presa singolarmente, nessuna di queste strategie, anche se venisse implementata al massimo, sarebbe risolutiva per il problema delle emissioni dovute alla plastica, ha sottolineato Suh. Devono essere messe in atto tutte insieme – ecco perché dovremmo proprio evitare gli usi inutili e smetterla di farne crescere la domanda.
    “Tutto ruota attorno alla plastica”, ha commentato Mary Ellen Mallia, direttore della sostenibilità ambientale alla State University of New York, presso la University of Albany, che non ha partecipato allo studio.
    Non tutta la plastica è di per sé cattiva. La lista degli utilizzi buoni è troppo lunga da riportare in questa sede. Rende le macchine più leggere ed efficienti, permette di portare facilmente con noi strumenti tecnologici, viene usata per costruire apparecchiature mediche d’emergenza.
    “Non penso che si debba demonizzare la plastica”, sostiene Suh. “Più che altro il consumatore deve essere consapevole del suo ciclo di vita”.

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    Dalla sua nascita fino alla fine, che di solito si consuma in una discarica o ai lati della strada, la plastica richiede oggi un uso massiccio di combustibili fossili. L’inizio del suo ciclo vitale comporta la lavorazione ad alte temperature di petrolio e gas per ottenere una resina plastica che viene poi usata per la creazione di prodotti diversi. Tutta la plastica che usiamo – dal telefono al computer alle bottiglie per l’acqua – “passa attraverso diversi processi industriali” che portano al prodotto finale desiderato, spiega Suh. Tutto ciò si traduce in una quota pesante di emissioni di CO2, che aumenta in modo significativo se si considerano anche l’estrazione di combustibili fossili in profondità e il trasporto su camion del materiale plastico.
    “Solo alla fine, arriva in mano a noi”, continua Suh. “Di solito non pensiamo all’energia che è necessaria per creare ogni prodotto”, aggiunge Mallia.


    Ma per limitare le emissioni dovute alla plastica è necessario farlo, concretizzando, di concerto, altri sforzi significativi. Come ha descritto Suh nello studio, le altre tre strategie non possono da sole risolvere il problema.
    Una possibilità sarebbe quella di decarbonizzare completamente l’industria della plastica entro il 2050, il che significa ottenere pressoché tutta la nostra energia da fonti rinnovabili invece di ricorrere al gas naturale e ad altri combustibili fossili. È improbabile. Infatti, a quanto pare non raggiungeremo neppure il picco di emissioni di CO2 prima del 2030.
    “Incrementare le rinnovabili fino ad arrivare al 100 per cento entro il 2050 non è un obiettivo realistico, onestamente”, dice Suh.

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    “Un’altra possibilità è quella di spingere sul riciclo in modo da fare sì che la metà della plastica venga riutilizzata. Oggi, siamo attorno al 10 per cento”, fa notare Suh. Arrivare quindi al 50 per cento sembra piuttosto inverosimile, specialmente se si considera la recente fase di stallo. “Negli ultimi dieci anni circa, non è stato compiuto alcun progresso significativo”, spiega ancora Suh.
    E se sostituissimo la maggior parte delle materie plastiche ricavate dal petrolio con le bioplastiche ottenute da mais o canna da zucchero? Oggi questo tipo di plastica è molto raro. “Aumentarne la produzione è praticamente impossibile”, secondo Suh.
    La soluzione finale – e anche l’unica – è quella di “mettere in atto con determinazione” tutte queste strategie nell’arco dei prossimi 30 anni, sostiene Suh. Perché la plastica non scomparirà. E ciò è sempre più evidente nei Paesi in via di sviluppo, in cui la gente desidera, a pieno diritto, poter avere gli stessi arredi e la stessa tecnologia che abbondando nel mondo occidentale. La domanda di plastica allora aumenterà.
    “Non c’è alcun futuro alternativo, questo è sicuro”, ammette Suh.
    Eppure un’alternativa per il futuro c’è: il rifiuto dell’uso diffuso di plastica usa e getta tipico della cultura moderna, che satura i nostri mari e decora le nostre strade. Non dobbiamo per forza usarla.



    https://it.mashable.com/
     
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    BORDALO II

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    Artur Bordalo, al secolo Bordalo II, è uno street artist portoghese divenuto noto in tutto il mondo per i suoi animali fantastici fatti di rifiuti.

    Realizza giganteschi animali, pesci, uccelli, insetti, costruiti con immondizia e materiali di scarto, che campeggiano sui muri e nelle strade di tutto il mondo, dagli Stati Uniti, a Tahiti, alla Norvegia, all’Azerbaijan, alla Polonia.

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    Usa rifiuti presi dalle strade o dalle discariche. Partendo da un supporto di legno come base, vi aggiunge cumuli di spazzatura, oggetti abbandonati e materiali di scarto, come teli di plastica e vecchi pneumatici, cavi elettrici e pezzi di veicoli in disuso.

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    HAROSHI

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    L’artista Haroshi vive a Tokio ed è uno skater. Era naturale che la sua scultura e la sua passione finissero per congiungersi. Così, da più di dieci anni ormai, Haroshi, raccoglie vecchi skateboard e ne fa delle ironiche sculture multicolore. Che dietro la facciata pop nascondono l’anima di raffinati manufatti lignei.


    [color=green][size=7]<i>Quando si dice " street art" di solito si intende tutto un insieme di attività artistiche che derivano direttamente dalla cultura di strada. La “cultura di strada” non é tanto italiana, almeno non nel senso glam che ha preso negli ultimi tempi. Lo é diventata nel tempo esportata quasi come una moda ma, in effetti, nasce oltre oceano dove le condizioni di vita della gente nei grandi agglomerati urbani. Tra i tanti Haroshi é il figlio di questa cultura come artista e come skater..... fonde la sua passione per lo skateboard ad una sensibilità tutta giapponese per l’ambiente. A furia di fare a brandelli le proprie tavole e quelle degli amici si sviluppa una forma di interesse per la propria spazzatura quasi morboso. Meno male che qualcuno ci ha pensato e collezionando tavole su tavole ha trovato un modo per riutilizzare la propria caparbietà in forma di spazzatura in modo artistico e super colorato in pieno stile street inventandosi il mosaico tridimensionale con piccoli tasselli colorati provenienti proprio dalla tavole spezzate.

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    É interessante anche il fatto che non sempre si tratta di tasselli quadrati o rettangolari, ma come nel caso della mela, anche di strati sottili colorati provenienti da centinaia di tavole di tante marchi diversi anche tra i più famosi. É interessante il fatto che una volta ottenuta la tavola la spogli e la disintegri completamente per reinventare un oggetto nuovo. Toglie gli elementi che non lo interessano e recupera solo la tavola di legno e la sfoglia in diversi strati, poi la pulisce e la taglia secondo le sue esigenze per dare vita ad un progetto che ben poco ha a che spartire con la cultura di strada e che se non lo dicessero difficilmente qualcuno potrebbe capirene la provenienza. Un esempio? Screaming my foot è realizzato con fogli di diverse tavole colorate e si può intravedere l’effetto di sovrapposizione grazie a quel che rimane del tema grafico della tavola. Oltretutto il progetto si arricchisce di profonde radici storiche quando si scopre che il metodo utilizzato da Haroshi per le sue sculture non é nuovo ed è lo stesso che gli scultori utilizzavano per dare vita alle statue del Buddha. Come forse qualcuno saprà, quelle del Buddha millenario, sono statue pesanti e gigantesche e a quanto pare buona parte sono costruite proprio con il sistema del mosaico per alleggerirle sia nel peso che nel costo.
    (dal web)

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    Sayaka Ganz:
    sculture di oggetti buttati ‘con l’anima’


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    A volte ci riesce difficile gettare un maglione, una scatola, un foglio, perché ci sembra di buttare via qualcosa che, a modo suo, è vivo. Vabbe’, senza scivolare nell’estremo estremo, però ci capita di pensare che le cose abbiano un’anima e che, magari, nel buio di un cestino della carta straccia o di un secchio dell’immondizia siano tristi, sole e chissà, forse pure un po’ spaventate. Del resto, se avete visto Toys, in particolare l’ultimo, capite bene che cosa vogliamo dire.

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    L’artista giapponese Sayaka Ganz di sicuro sì. Anzi, per lui quella che per noi è una stranezza fa parte di una religione. Lo shintoismo, infatti, crede che tutti gli animali e gli oggetti abbiano uno spirito proprio e da bambino gli hanno insegnato che le cose buttate via prima della reale fine del loro ciclo vitale di utilità “piangono di notte dentro al bidone della spezzatura“. Che è davvero un’immagine molto poetica. Così, dopo avere vissuto tra Yokohama, in Giappone, Hong Kong e il Brasile, ora che vive e lavora a Fort Wayne, nell’Indiana, Sayaka ha deciso di rendere omaggio alle proprie radici con la sua arte, che è fatta di sculture che rappresentano animali ‘assemblati’ con oggetti buttati via ancora in buone condizioni.

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    “Seleziono solo oggetti che sono stati utilizzati e scartati. Il mio obiettivo è che ogni oggetto trascenda la propria origine e diventi parte integrante di un animale o di una forma organica viva e in movimento. Per me, come artista, questo processo di recupero e di rigenerazione è liberatorio. Costruire queste sculture mi aiuta a capire ciò che mi circonda. Mi ricorda che anche se subito vi è un conflitto, c’è anche una soluzione in cui tutti i pezzi possono coesistere pacificamente. Benché in alcune zone ci siano ampie lacune e in altrie piccoli buchi, se la guardiamo da lontano nella nostra comunità c’è una grande bellezza e armonia. Attraverso le mie sculture trasmetto un messaggio di speranza“.

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    Edited by gheagabry1 - 12/2/2023, 22:37
     
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    KIRSTY WHITLOCK

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    Kirsty Whitlock è un artista tessile a tecnica mista che utilizza materiali riciclati e rigenerati come risposta alla cultura del consumismo usa e getta.
    "I sacchetti di plastica biodegradabili sono stati scelti in risposta alla cultura del consumismo usa e getta. Il concetto di lavoro e le qualità trascurate mi hanno portato a lavorare con questo materiale..."

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    “In un mondo in cui la nostra stessa pelle in cui siamo tutti nati, è uno strumento per la discriminazione, il denim, crea un senso costante di tolleranza. Essendo il simbolo di uguaglianza e democrazia, rappresenta i valori più “umani” ancor più della stessa pelle umana”

    Deniz Sağdıç

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    Gli splendidi tableau realizzati da Deniz Sağdıç, una talentuosa artista turca che crea ritratti di personaggi famosi e non, utilizzando unicamente i jeans.

    Per realizzare le sue incredibili opere, Deniz utilizza pezzi di tessuto o jeans interi recuperati che piega, taglia, attorciglia, rotola e ricama, dando così vita a composizioni multistrato che raffigurano dei ritratti estremamente realistici e pieni di dettagli. A prima vista sembrano ritratti eseguiti a olio, ma basta aguzzare la vista per scorgere come l’artista turca utilizzi il tessuto di jeans.

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    “Una bottiglia piena di storie.
    Il riciclo raccontato dai bambini e disegnato dai grandi”

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    edita da Giunti

    I brani contenuti nel volume rappresentano i contributi più originali proposti dagli alunni delle scuole primarie nazionali nell’ambito del concorso “Storia di una bottiglia”, promosso dal Gruppo Sanpellegrino in collaborazione con Giunti Progetti Educatici e Corepla (Consorzio Nazionale per la Raccolta, il Riciclaggio e il Recupero dei Rifiuti di Imballaggi in Plastica).

    Il compito assegnato ai piccoli era narrare una storia che avesse come protagonista una bottiglia di acqua minerale. Un personaggio insolito che ha stimolato la creatività dei piccoli dando vita a una serie di racconti dedicati alle avventure della bottiglia in giro per il mondo.Ii bambini hanno raccontato storie in cui le bottiglie vanno alla scoperta del mondo, vengono trasportate dalle onde del mare, mangiate da uno squalo, si trasformano magicamente in un bambino e vengono utilizzate dai pescatori come galleggianti per le barche… E dopo favolose avventure e avvincenti peripezie vengono finalmente depositate nel contenitore giusto per la raccolta differenziata, dove felici fanno “amicizia” con le altre bottiglie di plastica e sono pronte per rivivere in tanti nuovi oggetti e altre bottiglie.

    I venti racconti che sono stati pubblicati nel libro hanno titoli pieni di poesia (I ricilotti, La plastica fantastica, Una bottiglia su Marte, Un goal nel cassonetto, Bottiglie alla riscossa…) e sono stati illustrati da venti famosi illustratori del calibro di Annalaura Cantone, Agostino Traini, Giulia Orecchia, e Roberto Luciani, che li hanno trasformati in simpatici fumetti.
     
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    LA TERRA SI È AMMALATA:
    MISSIONE 20.20. SULLA LUNA!


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    In principio nello Spazio c’è il Sole che manda i suoi raggi tutt’intorno nell’atmosfera

    «e poi finisce dove esiste il buio perché di sera arriva sempre la Luna che è bianca e rotonda. Lì vicino si trova la Terra che è un pianeta speciale perché fa crescere i fiori e le piante. Ci sono alberi con cortecce grandi che proteggono dalla pioggia e dal calore del Sole. Tutt’intorno ci sono semini che fanno radici come zampine ed escono fiorellini bellissimi. Un giorno la Terra si prese un brutto raffreddore, così brutto che non poteva riabbracciare la sua famiglia perché la sabbia è la sua mamma, il mare il suo papà e suo fratello l’erba. Le piante avevano il vomito e la febbre, le foglie si indebolivano, andava via la loro forza, e gli alberi addirittura erano con tanti buchi». Bisognava andare in missione! Dove? Sulla Luna, ovvio!
    «Per prendere le POLVERI LUNARI, solo lì ci sono le cose che fanno guarire la Terra!».

    Una squadra di bambini si preparò per salire sulla Luna e, a dirla tutta, non era neanche la prima volta. Nel giardino della scuola quasi ogni giorno qualcuno di loro organizzava un’esplorazione all’insaputa degli altri ignari del fatto che proprio dietro la siepe, dove i cespugli si fanno più fitti e servono le galosce per passarci in mezzo, si trovava un’apertura e lì era stato nascosto un razzo con addirittura una cabina di comando!
    Come funziona? In men che non si dica basta salire a cavalcioni sul ramo più basso o arrampicarsi su quelli più alti e viaaa!... I motori si accendono e in un nano secondo si arriva in orbita.
    Quel giorno insomma partirono e fecero scorta di tantissima polvere ed erano già pronti per tornare sulla Terra, quando si accorsero di strane tracce sul suolo. Alcuni più attenti affermarono che dovevano per forza appartenere a un esemplare di Mostro Lunare. I bambini, si sa, sono esperti di tutto e infatti descrissero il mostro in ogni suo particolare: ossa nodose e simili a bastoncini, bulbi oculari di varie dimensioni,

    «artigli con unghie verdi che cadono mentre cammina»,
    un piede gigante quanto una foglia di Dieffenbachia «e attaccate alle braccia tante piccole ali»

    grandi quanto foglie giallognole di Acero (come quelle che si raccolgono in autunno), la pelle fessurata in placche di colore marrone quasi come una corteccia (anzi, è fatto proprio di corteccia).
    Un essere cioè molto strano da cui tenersi alla larga se non ché, essendo proprio lui il guardiano della polvere lunare, dovevano proprio correre il rischio di imbattersi in questa creatura spaziale.
    Non è dato sapere veramente come andò, ma sta di fatto che i bambini tornarono dalla missione pienamente soddisfatti, con tanta polvere lunare in tasca e con molta fame nella pancia!
    Nei giorni seguenti le maestre chiesero più volte ai bambini come fossero riusciti a tornare sani e salvi con tutto quel bottino ma nessuno di loro svelò il segreto; si adoperarono però per ottenere da quella polvere miscugli speciali con cui medicarono foglie e rami spezzati, buchi nel terreno. Andarono ancora altre volte nello Spazio ma tornavano sempre per l’ora di pranzo.
    Per mano dei bambini la Terra quel giorno si salvò e non stentiamo a crederci che anche in futuro dovremo ricorrere alla loro fantasia per trovare altri rimedi fantascientifici!

    SEZIONE VERDE - Scuola d’Infanzia Peter Pan, Carpi (MO)

    https://eduterranatura.events.unibz.it/wp-...r-il-futuro.pdf
     
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    “La riutilizzazione delle conchiglie è un esempio perfetto di un’economia circolare,
    in particolare perché i gusci sono un prezioso biomateriale”
    (James Morris, ricercatore di Calcium in a Changing Environment)



    RICICLARE I GUSCI DELLE OSTRICHE


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    I gusci dei molluschi bivalvi, però, possono avere anche una seconda vita e quindi non essere considerati come rifiuti o scarti. Innanzitutto, i gusci delle ostriche sono i più facili da riciclare, poiché le ostriche più piccole usano i gusci di quelle più grandi. Quindi possono servire per ricostruire i banchi di ostriche o avviarne l’allevamento. Inoltre si usano anche per mantenere sciogliere già esistenti, rispristinare gli ecosistemi degradati e creare habitat per pesci e crostacei per la pesca commerciale (per maggiori informazioni: oysterrecycling.org). Inoltre, grazie alla loro composizione, possono essere utilizzati per il controllo dell’acidità del suolo in agricoltura, come integratori per mangimi di galline e come ingrediente per la produzione di cemento. Nel 2014, infatti, in Italia era stato fatto, sotto un profilo normativo e giuridico, uno studio per l’utilizzo di gusci di bivalvi per contrastare l’erosione nella laguna di Venezia. In particolare, si è cercato di dimostrare che non sono classificabili come rifiuti, ma come sottoprodotti: infatti, dopo una desalinizzazione ed essiccatura, possono essere utilizzati per la produzione di cemento o il riempimento delle burghe, cioè dei “salsicciotti” utilizzati contro l’erosione.

    Nel 2013, alcuni ricercatori del Dipartimento di Ingegneria Chimica dell’Università di Bath (Inghilterra), avevano scoperto che i gusci delle cozze (in particolare l’ossido di calcio) potevano essere utilizzati nel trattamento dei reflui. Quest’ultimo è composto da tre fasi: nella prima di rimuovono i rifiuti solidi e gli oli, nella seconda si filtra l’acqua e nella terza si migliora la qualità dell’acqua rimuovendo i contaminanti finali come i fertilizzanti e i farmaci. I gusci possono essere utilizzati nell’ultima fase come fotocatalizzatore alternativi per il biossido di titanio.
    by Luna Lorito 2 Gennaio 2019, www.pesceinrete.com/

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    Un catena di ristoranti di Dubai ha lanciato un progetto innovativo per restituire al mare i gusci delle ostriche con la collaborazione di una scuola locale e un gruppo marino. I gusci vengono usati per creare una barriera naturale e aumentare la biodiversità al largo della costa di Dubai.

    La Maine New England Brasserie Company ha tre filiali a Dubai ed è il più grande fornitore di ostriche della regione. Prima che avviasse il progetto buttava nella spazzatura oltre 50mila gusci di ostriche ogni mese. Da quando ha istituito l'Oyster Project, il ristorante ora informa i clienti che i gusci delle ostriche saranno utilizzati per un'iniziativa del ristorante guidata dalla comunità.

    Un catena di ristoranti di Dubai ha lanciato un progetto innovativo per restituire al mare i gusci delle ostriche con la collaborazione di una scuola locale e un gruppo marino. I gusci vengono usati per creare una barriera naturale e aumentare la biodiversità al largo della costa di Dubai.

    La Maine New England Brasserie Company ha tre filiali a Dubai ed è il più grande fornitore di ostriche della regione. Prima che avviasse il progetto buttava nella spazzatura oltre 50mila gusci di ostriche ogni mese. Da quando ha istituito l'Oyster Project, il ristorante ora informa i clienti che i gusci delle ostriche saranno utilizzati per un'iniziativa del ristorante guidata dalla comunità.

    Con il supporto del Gruppo ambientale marino degli Emirati, gli alunni della scuola hanno posizionato e monitorato lo sviluppo delle strutture. Le trappole vengono trasformate in blocchi biologici e collocate al largo. È un processo chiamato restauro ecologico. Se il progetto si rivelerà un successo, potrà poi essere esteso a diverse aree al di fuori della riserva, contribuendo al miglioramento dell'ecosistema marino degli Emirati Arabi. Si stima che negli ultimi sei mesi il ristorante abbia donato alla Arbor School 250mila gusci di ostriche. L'obiettivo è arrivare a un milione entro la fine dell'anno.

    articolo del 27.2.22, https://it.euronews.com/

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    Una spiaggia fatta di ostriche, dove i gusci dei molluschi recuperati dai rifiuti dei ristoranti, tornano al loro “habitat” naturale e ripopolano prima la costa, poi l’Oceano Atlantico.

    Il progetto di tutela della biodiversità è della Coalition to Restore Coastal Louisiana, la ong che ha spezzato una lancia a favore di ambientalisti e produttori locali, e che ha già raccolto tonnellate di gusci dopo averli recuperati dai ristoranti della costa.

    800 sono le tonnellate di gusci di ostriche previste dagli esperti della ong, per “restaurare” parte del litorale della Louisiana e che verranno redistribuite, per oltre un chilometro, davanti alla spiaggia di Biloxi Marsh, messa a dura prova dall’erosione procurata dall’avanzamento dell’Oceano.

    L’obiettivo è creare un’area ad hoc per la riproduzione dei molluschi e ricostruire in parte la barriera corallina, lungo la fascia costiera. Contenere il fenomeno dell’innalzamento delle acque è infatti, tra le priorità stabilite dai promotori dell’iniziativa.
    www.tgtourism.tv/2016

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    Il consumo dei molluschi è sempre più diffuso in tutto il mondo, ma avete mai pensato a dove vanno finire le loro conchiglie dopo che i prelibati abitanti sono finiti nei vostri piatti? Solo in Francia vengono scartate ogni anno 150.000 tonnellate di gusci di ostriche, ma anche in Italia il consumo è assai imponente e di conseguenza i prodotti di scarto.

    L’azienda produttrice di abbigliamento per il surf Soöruz di Charente-Maritimes, presso la La Rochelle, in Francia, ha ottenuto dalla polvere di guscio d’ostrica una innovativa schiuma isolante da inserire tra il tessuto interno ed esterno delle mute da surf, per renderle impermeabili ed estremamente confortevoli. Consapevole dell’impatto ambientale del neoprene, da oltre un decennio Soöruz sta cercando di ridurre la sua impronta ambientale. Nel 2018, sono stati effettuati i primi test di frantumazione del guscio d’ostrica a La Rochelle, e i risultati della ricerca hanno permesso di creare due nuovi materiali, il Biöprene (un mix di polvere di ostrica, gomma naturale, canna da zucchero, olio vegetale non alimentare) e l’Oysterprene©. Il processo consiste nel sostituire il calcare con il prodotto naturale, riciclato e rinnovabile ottenuto dalla macinazione dei gusci di ostriche.

    Anche la società Ovive, sempre a Charente-Maritimes, è specializzata nel riciclo di gusci di ostriche che una volta ridotti in polvere vengono utilizzati per produrre oggetti da bagno e montature per occhiali alla moda.

    Il progetto P.ri.s.ma.Med., una collaborazione fra l’Italia-Francia, ha promosso un’azione sperimentale per il riutilizzo delle polveri da macinatura dei gusci. Presso l’Istituto Amsicora, in collaborazione con Flag e Coldiretti Nord Sardegna, i gusci triturati vengono mescolati a speciali resine e diventano la base per piastrelle, collane, orecchini e altri oggetti.

    La catena di ristoranti di Londra The Wright Brothers, specializzata in frutti di mare, ha lanciato un gin realizzato (tra gli altri ingredienti) con i gusci delle ostriche Carlingford, l’Half Shell Gin. Per l’oyster gin le ostriche vengono macerate a freddo in alcol neutro e poi distillate, bilanciando il sapore con alghe e altri ingredienti, come il ginepro e il limone di Amalfi.

    23.3.21, tratto da https://ambiente.tiscali.it/
     
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    Brian Mock


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    Lo scultore statunitense Brian Mock trasforma i ferrivecchi in sculture di uomini e animali a grandezza naturale, esposte nelle gallerie di varie parti del mondo da New York a Maui (Oceania).

    Mock si è affacciato nel mondo artistico intagliando e dipingendo il legno. Alla fine degli anni Novanta ha iniziato a scolpire usando il metallo riciclato ed è a questo punto della ricerca della sua espressione artistica che “si è accesa” la sua “passione creativa”. Con il tempo, sperimentando da autodidatta, ha affinato la capacità nella saldatura facendone l’elemento caratteristico del suo lavoro.

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    Mohsen Heydari Yeganeh

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    Utilizzando catene per il piumaggio o una lunga lama d'acciaio per il becco, Yeganeh forma assemblaggi animaleschi stilizzati di materiali di scarto, che definisce "spazzatura volante". Trasmettendo le posture goffe e sporgenti degli uccelli, le vivaci sculture combinano componenti astratte in personaggi vivaci ed espressivi. Queste vivaci sculture di uccelli potrebbero non essere le più belle, ma sono sicuramente uniche. Usando diverse combinazioni di oggetti di scarto, abbiamo un'intera collezione di questi "rifiuti volanti".

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    "Ho viaggiato attraverso l'Asia, l'America Latina e l'Africa orientale e sono stato abbastanza fortunato da avere degli incredibili incontri con la fauna selvatica. Tuttavia, durante i miei viaggi, anche nei luoghi più remoti, sono rimasto scioccato dalle enormi quantità di rifiuti di plastica...Ricordo di essere andato alle Isole Galapagos e di aver visitato una spiaggia famosa per una numerosa popolazione di leoni marini. Era davvero incredibile vederli allo stato brado, ma su ogni centimetro di sabbia non coperta dai leoni marini c'erano bottiglie e lattine di plastica. È stato uno spettacolo straziante. Sapevo di voler creare opere d'arte che non creassero rifiuti e danneggiassero il nostro pianeta"


    Josh Gluckstein


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    Gluckstein crea ritratti realistici di elefanti, primati, pangolini e grandi felini dal cartone strappando, tagliando e incollando pezzi insieme in volti espressivi, a volte applicando sottili lavaggi di vernice per aggiungere profondità e dettagli. Lavora spesso su più sculture alla volta e il completamento di un pezzo può richiedere da una settimana a diversi mesi a seconda della scala o della quantità di dettagli. "In isolamento, a casa e fuori dal mio studio, ero molto ansioso di mettermi al lavoro, ma non avevo accesso ai materiali che usavo di solito", dice. "È stato allora che ho scoperto il cartone, che era facilmente reperibile, e l'ho trovato un supporto incredibilmente versatile."

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