SICILIA PARTE 8^

IL CARRETTO..I PUPI..A STRUMMULA..IL MITO DEI GIGANTI..LA SFINCIA..LE PANELLE..

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    BUONGIORNO ISOLA FELICE ... BUON RISVEGLIO A TUTTI


    “ ... Mercoledì ... come si può non raccontare la storia e le tradizioni di una terra e delle sue genti che affondano le loro origini lontane nel tempo? Come si può omettere il racconto delle radici di una terra attraversata da popoli di ogni genere, da tiranni divenuti poi ospiti e ammiratori, da padri della storia che nella Sicilia hanno lasciato indelebili le proprie orme?Ignorare tutto questo sarebbe come leggere di un libro tutto tranne le prime e le ultime pagine ... perchè spesso l’origine indirizza, accompagna il presente, ma sopratutto il futuro ... e tutto quello che caratterizza un popolo e una terra è completamente derivato dal suo passato, dalle origini di quel popolo ... e così oggi ci divertiremo a raccontare, a carezzare il profilo della Sicilia e dei suoi abitanti narrando e osservando le origini, le tradizioni di questa incantevole terra ... La Sicilia .. Buon risveglio amici miei!!!

    (Claudio)



    IL CARRETTO SICILIANO..I PUPI..A STRUMMULA..IL MITO DEI GIGANTI..LA SFINCIA..LE PANELLE..ESSENZE DELLA SICILIA...



    “La storia dell’isola, con le sue dominazioni, le sue vittorie e le sue sconfitte, ha lasciato dentro ogni siciliano, i segni di un passato spesso doloroso, travagliato e qualche volta glorioso….Basta osservare l’architettura, la scultura, la pittura del nostro paese, per intuire, quanta storia c’è dentro……la vera storia di un paese non è solo quella che racconta di guerre, istituti giuridici e vicende, ma è soprattutto quella che ci racconta “delle credenze, delle costumanze”, che possiamo meglio definire con il termine di “Folklore”…………..”


    “Giocattoli molto diffusi in Sicilia erano: la Trottola,detta anche firrialoru o strummula; il lapuni, composto da un’assicella di legno di circa 30 cm alla quale era legata una corda che serviva a farlo girare; i Flauti di canna stretti parenti dei fischietti, compagni prediletti dei nostri pastori, che ci riportano in pieno nell’antica Grecia. …..In Grecia il flauto era considerato come lo strumento tipico dell’entusiasmo bacchico e dei misteri, celebre per gli effetti terapeutici e magici attribuiti ad esso. Da questo strumento il pastore siciliano sapeva trarre magnifiche melodie e chi lo ha ascoltato una volta difficilmente, dimentica la modulazione che riusciva ad imprimere ai nostalgici suoi canti.”



    “Il carretto siciliano… Il simbolo della Sicilia e della sua tradizione. Un'esplosione di colori…nelle sponde, nelle ruote, nella cassa, in ogni singolo pezzo che lo compone troviamo i colori del meraviglioso Sole Siciliano, delle angurie di fuoco, dello zolfo, delle arance e dei limoni, del cielo e del mare, della lava dell'Etna e dei fichidindia. Nel suo complesso rappresenta una sintesi delle civiltà mediterranee che posero piede nell'isola, il loro concentrato: i colori Arabi, gli arabesci Turco-Bizantini, i costumi Greci, le "cianciane", le "frange" Spagnole. Osservandolo da vicino sembra di guardare e di sentire tutta la Sicilia con i panorami aspri, i suoi profumi misteriosi, le sue lontananze. Il suo modellino in scala non manca mai nella casa degli emigranti, di coloro che il destino ha spinto lontano dalla loro terra.”



    “Si chiamano “pupi” le caratteristiche marionette armate di quel teatro epico-popolare che operò a Napoli e a Roma ma soprattutto, dalla prima metà del sec. XIX, in Sicilia, dove raggiunse il suo massimo sviluppo. Il burattino è animato dal basso, direttamente dalla mano o da asticelle….a marionetta è animata dall'alto, esclusivamente per mezzo di fili….il “pupo” è anch'esso animato dall'alto, ma, al posto dei fili, ha per muovere la testa e il braccio destro due sottili aste di metallo….. portano in scena l'epica dall'Iliade e dalla Bibbia alla Chanson de Roland e ai romanzi dell'epopea cavalleresca.. A Catania (il pupo della tradizione catanese è alto circa m. 1,30 e pesa dai 15 ai 35 chilogrammi)…Ogni "storia" veniva narrata con cicli rappresentativi che potevano prolungarsi, serata dopo serata, anche per mesi…..Ogni singola rappresentazione veniva preannunciata da un "cartello" con la scena principale della serata e con una sintetica descrizione del programma.”



    “I pupi non hanno fili come le marionette…Con le aste i pupari li muovono sullo sfondo di scenari ingenui e colorati….Li muovono al ritmo degli scudi e delle spade….ma i pupi non sono marionette…La parola ha anche questo significato amaro…"Pupi siamo, caro Signor Fifì! Lo spirito divino entra in noi e si fa pupo…Pupo io, pupo lei, pupi tutti"…(L. Pirandello, Il berretto a sonagli, a.I)..C’è tanta disperata amarezza in queste parole…Un’amarezza meridionale. I pupi e i pupari…Le parole possono avere significati amari….Ma il teatro dei pupi ha un altro significato…Il teatro dei pupi non è un teatro di marionette.,,I pupari che dietro i fondali li muovono, i pupari "di l’opra de’ pupi" hanno per i pupi il rispetto "che ogni pupo vuole portato"….Il rispetto che Ciampa, pupo strozzato dai fili, chiede per sé. Forse invano…Questi pupari non soffocano i pupi…..Questi pupari animano i pupi….Danno voce e sentimento alle loro "bambole" coperte di armature improbabili…In un tempo in cui le bambole non gracidavano suoni in falsetto, così i bambini davano voce e sentimento ai pupi regalati dai morti….I pupari raccontano le loro storie improvvisando e recitando….Raccontano come si raccontava una volta, quando il narratore parlava in un cerchio di occhi sgranati e credeva anche lui nella sua favola…I pupari raccontano storie di ribelli…Raccontano la favola di quelli che si battono contro un potere prepotente e incomprensibile e in qualche modo riescono a vincere…Una favola. Una favola siciliana…E i paladini ne sono i nobili protagonisti…..Nobili non perchè sono conti e baroni e indossano costumi colorati e luccicanti, ma perchè loro, almeno loro, non combattono per sè…I paladini combattono per la religione, per l’amore, per la gloria, per la fedeltà….Non combattono per diventare ricchi e potenti…Forse per questo oggi la loro favola appare una rivisitazione nostalgica di un passato teatrale, incerto tra folklore e cultura…..Ma il teatro dei pupi è ancora teatro…E in esso gli attori si confondono con i personaggi proprio perchè non ne indossano i panni e la maschera….Perchè non occupano la scena e non avanzano alla ribalta…L’opera dei pupi è ancora teatro….I pupari veri sono ancora gente di teatro…creano un linguaggio teatrale, fatto di parole, di movimenti, di immagini, di suoni…E sono autori e attori, scenografi e costumisti, tecnici delle luci e musicisti, impresari e macchinisti…..E sono protagonisti di uno spettacolo che nasce con spontanea immediatezza dal contatto con un pubblico partecipe e, insieme è frutto di un grande impegno professionale… I pupi dai loro volti espressivi e dai colori squillanti ne sono gli attori.” Anonimo



    “Ad Enna si usa intrecciare le spighe del primo raccolto a guisa di chiodi per farne dono al Cristo abbandonato; a questo rito pare ricollegarsene uno del periodo greco, in cui gli abitanti di Enna per meglio esprimere le operazioni dell’agricoltura, tributavano a Cerere alcune primizie della terra, come l’orzo e il frumento, per raccomandarsi per un successivo e fruttuoso raccolto. Gli ex voto oltre un’offerta in primizie potevano essere una scultura o una pittura, modellate in cera o in argento che venivano portate al tempio, affinché su di esse ricadesse la protezione divina: “Ma potevano essere una lucerna, la cui fiamma aveva lo scopo di cacciare i demoni oppure un fischietto, il cui suono serviva ad allontanare le influenze negative.” E’ sorprendente osservare come ancora oggi, in Sicilia, usi e riti pagani sopravvivono nelle tradizioni popolari e s’intrecciano con i riti cristiani in una strana mescolanza magica”


    “L'epoca favolosa dei giganti…..Sull'origine di tale mito, esiste una versione leggendaria radicata nella tradizione e un'altra storica…La leggenda vuole che, verso il 965, un gigantesco moro di nome Hassam-Ibn-Hammer sbarcasse alla testa di numerosi pirati nelle vicinanze della città iniziando a depredarla…..Durante le sue scorrerie, vide a Camaro (un quartiere di Messina) la bella Marta (dialettalmente "Mata") che era figlia di un non meglio identificato Cosimo II di Castellaccio e se ne innamorò perdutamente….I due avevano una diversa religione e, ottenuto un secco diniego dai genitori alla sua richiesta di matrimonio, Hassam decise di rapirla. Inutilmente cercò tutti i modi di essere ricambiato del suo amore… Mata cedette soltanto quando il saraceno ricevette il battesimo e cambiò nome in Grifone….Abbandonata la spada, si dedicò eclusivamente all'agricoltura, sposò la bella cammarota e fondò con lei, la città di Messina…………Secondo la versione storica, invece, i giganti sono figure allegoriche che ricordano un importante episodio avvenuto a Messina al tempo di Riccardo I duca di Normandia e re d'Inghilterra, meglio noto col soprannome di "Cuor di Leone"….Il sovrano si trovava nella città in occasione della III Crociata in un periodo in cui i greci erano potentissimi e angariavano i messinesi (latini)….Malvisti da Riccardo, furono osteggiati e durante il suo soggiorno messinese egli riuscì fiaccarne l'orgoglio facendo costruire sulle alture della città un'imponente fortezza, il Castello ebbe il nome di Matagrifone. L'allusione del nome evidentissima derivando, "Mata", dal latino "maetare" (ammazzare) mentre "griffoni" erano detti i greci….Se esaminiamo con attenzione le teste dei giganti si possono cogliere in quella di mata le espressioni di dominatrice e trionfatrice simboleggiate dal serto d'alloro fra i capelli e la "messinesità “ sottolineata dal castello a tre torri (Mata-griffone, Castellaccio e Gonzaga, i tre castelli messinesi)….. La testa di Grifone, invece, dai capelli incolti, la folta barba, lo sguardo truce e l'aspetto arcigno e selvaggio, la pelle scura, e quella di un greco vinto che portato da Mata trionfatrice in stato di servitù? …Per rievocare la storia, ogni anno in agosto, i due giganti percorrono le strade della citta' di Messina, accompagnati da majorettes e banda musicale in costume.Questa manifestazione viene chiamata la "passeggiata dei giganti".,,,Non si conosce la data della prima costruzione dei due Giganti, ma, dalle fonti scritte e dai documenti, si apprende che lo scultore fiorentino Martino Montanini le realizzò nel 1560… nel 1723, assunsero l'attuale posizione equestre. Ulteriormente danneggiati dal sisma del 1908, furono restaurati nel 1926 da alcuni palermitani con la consulenza del La Corte Cailler…I vestiti furono confezionati dal sarto messinese Salvatore Palombo…”



    “Da quanto risulta all'attuale stato delle ricerche, la città di Messina possiede il più alto numero di "macchine" festive in Italia e forse nell'intera Europa…….. veri e propri oggetti di culto, le splendide ed effimere "macchine" festive sei-settecentesche, i fuochi d'artificio col penetrante odore caratteristico della polvere da sparo, le litanie inframmezzate delle vivaci musiche barocche, gli scoppi di mortaretti e tutta la gamma cromatica offerta durante la festa, fatta di ori di argenti di broccati della festa”



    “A Comiso la devozione a Maria SS. Annunziata risale almeno al 16º secolo; infatti già nel 1527 esisteva una statua processionale di Maria SS. Annunziata e nel 1591 fu ultimata la Chiesa della SS…. Annunziata… La festa liturgica di Maria SS. Annunziata è preceduta da un solenne Novenario (Nuvena) di preparazione, che inizia il 16 marzo…La sera del giorno 24 marzo, dopo la conclusione della Novenario, la svelata del simulacro di Maria SS. Annunziata e la celebrazione eucaristica, si svolge la processione con la reliqua della Madonna”



    Il "Palio dei Normanni", in onore della Madonna delle Vittorie Patrona della città è una famosa attrazione turistica di Piazza Armerina. Dopo una caratteristica sfilata in costume che ricorda l'ingresso di re Ruggero il Normanno nella città, il giorno successivo, nello stadio cittadino, si sfidano in varie gare di abilità i cavalieri che rappresentano i quattro quartieri cittadini. Al quartiere vincitore viene assegnato il Palio, che è costituito da uno stendardo raffigurante l'immagine della Madonna delle Vittorie. “



    “San salvatore …Non si tratta di una sagra o di una festa religiosa o di una fiera di paese, come ce ne sono tante in tutta Italia …… quanto piuttosto di un insieme di feste che si svolgono durante l’intero arco di settembre….Protagoniste dei festeggiamenti le diverse contrade del paese: Contrada San Antonio Mallina, Contrada Sant’Adriano, Contrada Grazia e Contrada Bufana. Tutte fanno a gara per realizzare gli eventi più belli, che possono andare da una gara all’ultimo spaghetto, al torneo di briscola e tressette. L’aspetto che più di ogni altro contribuisce a creare quell’atmosfera di goliardico divertimento è quello relativo ai giochi. Giochi semplici come il tiro alla fune o il gioco di “pignateddi” che riportano indietro nel tempo, a un godimento genuino, pieno di disincanto, quando il divertimento era fatto di queste semplici cose e stare insieme agli amici era ciò che contava di più.”


    “Ormai da 109 anni, il Carnevale di Sciacca… festa popolare saccense (di Sciacca) tra le più espressive e rappresentative, è di derivazione pagana… carnem levare (da qui il siciliano carnalivari), prescrizione che fa divieto di mangiare carne durante la quaresima….. dal 1870 si iniziò a delineare la tradizione arrivata fino ai nostri giorni con l’adozione della maschera di Peppe Nappa: un personaggio popolare siciliano adottata dalla città come simbolo del suo Carnevale… sfilando per le vie cittadine, distribuisce vino e salsicce cucinate, rigorosamente, sul carro. Ma non è il solo, ad accompagnarlo vi sono numerosi altri carri realizzati da diverse associazioni che, ogni anno, concorrono nella gara di premiazione di quello più bello.”


    “….il presepe vivente di Custonaci… Non si tratta di un presepe vivente come ce ne sono tanti altri. Gli “attori” di questo speciale teatro, infatti, non si limitano a recitare, ma vivono realmente atmosfere e situazioni che caratterizzavano la vita di un tempo….C’è chi vende frutta e verdura, chi arrostisce la selvaggina sulla brace, chi prepara la ricotta, chi intreccia giunchi per ricavare dei canestri. Utensili, scodelle, tessuti sono tutti rigorosamente autentici…..si viene catapultati in un’altra epoca di cui, se lo desidera, può diventare protagonista, gustandone i sapori, vedendo nascere davanti ai suoi occhi “il pane di casa” o la “ricotta fresca” o il dolce tipico.”



    “Tra le feste più care alla tradizione popolare di Palermo ritroviamo senz’altro quella di Santa Lucia, celebrata il 13 dicembre. In questa giornata dalla tavola sono banditi pane, pasta e ogni altro derivato del frumento. Tale usanza, da sempre devotamente osservata dal popolo panormita, affonda le proprie radici nella leggenda secondo cui nel 1646 un grosso carico di frumento, proprio nella giornata dedicata alla santa, sarebbe miracolosamente approdato alla Cala - l’antico porto della città - salvando la popolazione dalla terribile carestia che si era abbattuta su Palermo.La gente estremamente provata dalla fame, di fronte al provvidenziale dono, non attese certo che il grano venisse macinato e ridotto in farina, ma lo mise a bollire e lo mangiò intero….Che si tratti di storia o di pura fantasia da quel momento, alla devozione della santa, si è affiancata l’usanza di mangiare la cuccìa: piatto a base di grano bollito, in origine unico ingrediente, condito con olio e sale….Il termine deriva da “cocciu“, che in dialetto siciliano vuol dire per chicco, o dal verbo “cuccìare” cioè sgranare. Il veto di mangiare pasta e pane, infatti, non deve erroneamente indurre a pensare a una giornata celebrata all’insegna della frugalità. Sformati, risotti, timballi e soprattutto le immancabili arancine rappresentano la vera essenza della festa di Santa Lucia nel capoluogo siciliano.”



    “….la festa di San Giuseppe diventa il trionfo della sfincia con la ricotta: una sorta di bignè gigantesco fritto e ripieno, oltre che di ricotta, di crema, pistacchi e scorzetta d’arancia.”



    “…il tradizionale cibo da strada palermitano: le panelle, piccole frittelle a base di farina di ceci; la focaccia con la milza, che qualcuno fa risalire addirittura agli arabi … la schietta condita con fresca ricotta di pecora fritta ricoperta da cacio cavallo tagliato a listarelle e la maritata…. lo sfincione ovvero una sorta di pane condito con sarde salate, cipolla, pecorino, origano, salsa di pomodoro e mollica di pane.”



    “I piatti tipici della tradizione siciliana che deliziano il palato, sono esaltati dai prodotti della terra dello Jato, come: le caserecce dello Jato, il prosciutto d’agnello, caponata, olive nere e bianche, formaggi stagionali, ricotta fresca, pane con olio d’oliva, salumi, bruschette varie con paté biologici. Ed ancora le conserve e il melone porceddu (melone verde scuro tipico di questa zona) per scoprire i più antichi gusti siciliani.”










    Alborata

    In Sicilia l'alborata è un breve sparo di petardi monobotto chiamati Masculi che viene eseguito alle prime luci dell'alba o comunque di mattina presto, generalmente in aperta campagna, che annuncia una festività rionale o patronale in una città o in un paese. I botti si susseguono con pause di 5/10 secondi e si concludono dopo circa mezz'ora con un brevissimo gioco d'artificio.



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    Antinna a mari

    o 'ntinna a mari, antenna a mare) è un gioco tradizionale, che attira numerosi turisti, che si svolge a Cefalù, in Sicilia, durante il mese di agosto, in particolare nell'ultimo giorno dei festeggiamenti della festa del Santissimo Salvatore della Trasfigurazione, dedicata al patrono della città, il S.S. Salvatore.

    Si tratta di una sorta di albero della cuccagna posto sul mare: un lungo tronco unto di sapone e sego viene sospeso quasi orizzontalmente sulle acque prospicienti il molo. Lo scopo della gara consiste nel cercare di raggiungere una bandierina posta all'estremità, appunto, della 'ntinna senza cadere in acqua. I partecipanti sono costretti ad innumerevoli tentativi (con conseguenti tuffi in acqua) prima di riuscire a raggiungere la bandiera. Secondo la tradizione, possono partecipare soltanto i figli maschi dei pescatori.


    N'tinna a mari

    L’Antinna a mari è una delle più antiche tradizioni popolari marinare di Cefalù. Praticata durante i festeggiamenti in onore del SS. Salvatore ( 6 Agosto), questa gara ha selezionato nel tempo i migliori equilibristi tra i più abili marinai di Cefalù. Lo scopo dei partecipanti è quello di percorrere un lungo palo, che la tradizione vuole sia un albero di nave, sospeso sull’acqua dalla banchina del molo, per conquistare la bandiera posta alla sua estremità, raffigurante il SS. Salvatore. Per rendere l’impresa ancora più ardua, il palo viene cosparso di sego e sapone mentre dal basso vi è sempre qualcuno che, con una corda legata al medesimo albero, opera degli scuotimenti così da mettere a dura prova l’equilibrio del concorrente. I partecipanti sono discendenti delle più antiche famiglie di pescatori cefaludesi e a loro si deve la sopravvivenza di questa secolare tradizione che ancor oggi mantiene la stessa vivacità e vitalità del passato.



    Il Ballo dei Diavoli

    L'iconografia della festa si basa su dei costumi e delle maschere particolari, i personaggi sono tre: due rappresentano dei demoni “i diavoli”, ed una di statura più alta e snella, “morte”.I diavoli indossano un largo abito di tela di lana, tinto di un colore rosso quasi a riprendere il colore del fuoco e dell'inferno e sul viso un'ampia maschera di ferro con una larga bocca da dove fuoriescono una lingua e grossi denti, gli occhi sono rappresentatati da due piccoli fori che contrastano con un grande naso; due corna caprine sono trattenute da una pelle di caprone che ricopre le spalle di chi l'indossa; le due maschere si differenziano per il diverso colore del vello: uno nero e l'altro bianco; entrambi portano tranci di catene di ferro. Diverso il personaggio della morte: indossa anche un largo abito di tela di lana, tinta di un colore giallo ocra tipicamente chiamato “giallo morte di Pasqua”, la maschera di cuoio che simula un orrido teschio dalla cui bocca fuoriescono delle lunghe zanne.

    La morte con la mano agita uno strumento stilizzato che simula nella fattezza una balestra. I diavoli e la morte così abbigliati scorazzono per tutta la mattinata lungo le salite e le discese del paese. Nel pomeriggio si entra nella rappresentazione scenica principale “du ncontru” che si svolge in maniera sequenziale in vari punti del paese. Ad un capo all'altro della via si dispongono la statua dell'Addolorata e quella di Gesù Cristo. Accanto a quest'ultima, due angeli con la spada in mano. Ai piedi della Madonna e del Cristo si chinano a baciarli, i due diavoli e la morte “che prendono la pace prima du ncontru”. Al momento dell'incontro i tre cominciano ad agitarsi correndo da una statua all'altra saltando e ballando, i diavoli sbattendo la catena contro la maschera, la morte roteando la balestra. Questi movimenti che simulano il tentativo di impedire l'incontro tra Madre e Figlio, sono detti il ballo dei diavoli.

    Per tre volte le statue della Madonna e del Cristo, portate a spalla, si accostano precipitandosi l'una verso l'altra e rapidamente separandosi. La terza volta il manto nero cade di colpo dalle spalle dell'Addolorata e viene sostituito da quello azzurro. La Madonna ha incontrato il figlio, o come si dice, lo ha riconosciuto. Contemporaneamente gli angeli colpiscono i diavoli sconfiggendoli. Il significato profondo della manifestazione consiste nella vittoria del bene sulle forze del male.





    Cantastorie

    è una figura tradizionale della letteratura orale e della cultura popolare, che si spostava nelle piazze e raccontava con il canto una storia, sia antica, spesso in una nuova rielaborazione, sia riferita a fatti e avvenimenti contemporanei che entravano a far parte del bagaglio culturale collettivo di una comunità locale. I cantastorie spesso si aiutavano con la raffigurazione delle principali scene descritte. La loro opera veniva remunerata con le offerte degli spettatori oppure con la vendita di copie delle storie. La tradizione deriva da lontani precedenti, quali gli aedi e rapsodi greci e i giullari, menestrelli, trovatori o trovieri del Medioevo francese e nella scuola poetica siciliana. Simili figure sono presenti anche nella cultura islamica, indiana e africana. A partire dal XIV secolo si allontanarono dalla letteratura più colta e contribuirono a diffondere in dialetto le gesta dei paladini carolingi della chanson de geste, argomento anche dell'Opera dei Pupi. Ebbero la massima fioritura nella Sicilia del XVII secolo e furono appoggiati dalla Chiesa con lo scopo di diffondere presso il popolo le storie dei santi e della Bibbia. Nel 1661 a Palermo i Gesuiti avevano costituito la congregazione degli "Orbi", cantori ciechi, a cui veniva insegnato a suonare uno strumento e che erano legati a temi esclusivamente religiosi sotto il controllo ecclesiastico.



    Coppola (cappello)

    (anche coppula in siciliano) è un cappello tradizionale siciliano, solitamente in tweed. Il nome "coppola" è probabilmente un adattamento siciliano dell'inglese cap (cappello) e per estensione, in siculo, indica la testa; ma l'origine etimologica ha radici nostrane, e il latino "caput" - testa - è rimasto nell'italiano "capo" o in alcune regioni nel dialettale "capa". La parola "coppola" riferita al cappello divenne in seguito popolare anche nel resto d'Italia ed entrò rapidamente nei dizionari italiani.

    Inizialmente in uso presso la nobiltà inglese nel XVIII secolo, la coppola passò in Sicilia nei primi anni del 1900, venendo indossato da chi guidava un'auto. L'uso della coppola è bensì documentato sin da metà ottocento tra le classi più umili. Oggi è un simbolo della cultura siciliana.



    Cereo

    I cerei o candelore, sono delle opere d'arte lignee di varie dimensioni ed altezze, portate a spalla da alcuni portantini durante le festività dei santi patroni. Sono dei doni della cittadinanza al patrono/a della città in segno di devozione. Esse derivano dall'offerta della cera: con il passare dei secoli le grosse candele di cera offerte diventavano sempre più grandi e decorate, fino a far scomparire la cera stessa sostituita da una struttura barocca o rococò in legno riccamente decorato e dorato, ornata da angeli, statue e adornata di fiori. Sono solitamente 8 i portantini che ne reggono il grande peso, anche se ci sono delle eccezioni. Esse sono concentrate nella provincia di Catania, presenti in diversi comuni. Ogni candelora appartiene ad una categoria che ne cura l'adornamento e la sfilata.

    Catania

    I cerei, o cannalori, sono undici e rappresentano le corporazioni delle arti e dei mestieri della città. Si tratta di grosse costruzioni in legno riccamente scolpite e dorate in superficie, costruite, generalmente, nello stile del barocco siciliano, e contenenti al centro un grosso cereo. Queste macchine dal peso che oscilla fra 400 e 900 chili, vengono portate a spalla, a seconda del peso, da un gruppo costituito da 4 a 12 uomini, che le fa avanzare con una andatura caracollante molto caratteristica. Le cannalore, oltre a precedere la processione di sant'Agata nei giorni 4 e 5 febbraio, già 10 giorni prima iniziano a girare per la città portandosi presso le botteghe dei soci della corporazione a cui sono legate, scortate da una banda che suona allegre marcette. Gli undici cerei hanno una posizione ben codificata nell'ordine da tenere nel corso della processione alla quale partecipano:
    1. Cereo di Monsignor Ventimiglia o di sant'Aita. È il più piccolo e fu donato nel 1766 da Monsignor Ventimiglia allora arcivescovo di Catania.
    2. Cereo dei rinoti Questa è la prima delle grandi cannalore in processione, essendo la più antica, ed è costruita in stile barocco.
    3. Cereo dei giardinieri costruito in stile gotico, è sormontato da una corona ed è per questo motivo che è soprannominato la regina delle cannalore.
    4. Cereo dei pescivendoli (pisciari), in stile rococò, si distingue per una corona floreale, pendente dagli altorilievi del secondo ordine, che conferisce una sensazione di movimento durante le evoluzioni dell'annacata.
    5. Cereo dei fruttivendoli, detto 'a signurina per la sua semplice bellezza. Si distingue per essere realizzato su di una base costituita da quattro cigni.
    6. Cereo dei macellai o dei chianchieri, poggia su di una base costituita da quatrro leoni ed ha, nella parte alta, una statua di San Sebastiano patrono della corporazione.
    7. Cereo dei pastai o pastari, è il più antico di tutti, risale ai primi anni del settecento ed è costruito in stile barocco.
    8. Cereo dei salumieri; è costruito in stile art noveau o liberty ed è realizzato su di una base costituita da quattro cariatidi.
    9. Cereo degli osti o putiari, è realizzato in stile impero ed costruito su una base rappresentata da quattro leoni.
    10. Cereo dei panificatori o pannitteri è il più grande di tutti ed è trasportato da ben 12 portantini o vastasi. La prima sua costruzione risale al XVIII secolo ed è costruito su di una base costituita da quattro statue di Atlante.
    11. Cereo del Circolo sant'Agata, è il meno anziano degli undici ed è realizzato in stile neoclassico. In esso sono raffigurati, oltre a sant'Agata, l'altro martire catanese, sant'Euplio.

    Aci Platani

    Offerta alla Madonna del Carmelo.Qui vi è una sola piccola candelora del '90, con soli 6 portantini

    Acireale

    Offerte a Santa Venera.
    Le 4 candelore originarie rappresentano le categorie:
    * Calzolai
    * Pescivendoli
    * Panettieri e falegnami
    * Muratori
    A queste ve ne è stata aggiunta una quinta nel 2000: degli Artigiani della Cartapesta.

    Aci Sant'Antonio

    Offerte a Sant'Antonio abate
    Le 4 candelore rappresentano le categorie:
    * Agricoltori della Piana, oggi diventata degli Impiegati
    * Carrettieri/Commercianti
    * Contadini
    * Mastri Artigiani e Operai


    Gravina di Catania

    Offerta a Sant'Antonio di Padova;è presente una sola candelora, completata nel 2004.

    Misterbianco

    Offerte a Sant'Antonio abate
    Le 4 candelore rappresentano le categorie:
    * Carrettieri
    * Vigneri
    * Maestri
    * Pastori


    Motta Sant'Anastasia
    Paternò

    Offerte a Santa Barbara

    Pedara

    Offerte a Maria SS. Annunziata.
    Sono presenti 3 candelore, più una piccola portata da bambini

    San Giovanni la Punta

    Offerta a S. Giovanni Evangelista.È presente una sola candelora, senza categoria, completata nel 1997 e che ha sfilato solo per due anni.


    Trecastagni

    Offerte ai Santi Alfio, Filadelfo e Cirino.Sono presenti due candelore recentemente restaurate, che rappresentano i circoli religiosi del paese, entrambe gestite dall’Associazione cattolica e culturale “Cereo SS. MM. Alfio Filadelfo Cirino”. Ogni candelora viene trasportata da 8 portantini di "chiumma":
    * Circolo dell'Immacolata, è il cereo più antico della città, in stile Barocco, sormontato da una corona floreale, su base costituita da quattro Angeli. Restaurato nel 1997 grazie alle offerte dei fedeli.
    * Circolo SS. Fratelli Martiri, in stile Barocco, sormontato da una corona floreale, su base costituita da quattro Angeli. Restaurato nel 1999, anche grazie al contributo di alcuni emigrati in Australia.





    Leggenda di Colapesce

    è una leggenda siciliana con molte varianti, le cui prime attestazioni risalgono al 1300.

    La leggenda di Colapesce è un racconto dalle molte varianti di cui alcune risalgono al 1300. La leggenda narra di un certo Nicola con il diminutivo di "Cola" di Messina, figlio di un pescatore, soprannominato Colapesce per la sua abilità di muoversi in acqua. Quando tornò dalle sue numerose immersioni in mare raccontò le meraviglie che vide, e addirittura una volta portò un tesoro. La sua fama arrivò al re di Sicilia ed imperatore Federico II che decise di metterlo alla prova.
    Il re e la sua corte si recarono pertanto al largo a bordo di un'imbarcazione. Per prima cosa buttò in acqua una coppa, e subito Colapesce la recuperò. Il re gettò allora la sua corona in un luogo più profondo, e Colapesce riuscì nuovamente nell'impresa. Per la terza volta il re mise alla prova Cola gettando un anello in un posto ancora più profondo, ma passò il tempo e Colaspesce non riemerse più.
    Secondo la leggenda, scendendo ancora più in profondità Colapesce aveva visto che che la Sicilia posava su 3 colonne delle quali una consumata dal fuoco dell'Etna, e aveva deciso di restare sott'acqua, sorreggendo la colonna per evitare che l'isola sprofondasse, e ancora oggi si trova a reggere l'isola. Molti cantanti e cantastorie hanno dedicato a questo personaggio una canzone, fra i quali: Otello Profazio, cantante folcloristico calabrese, appunto intitolata Colapesce, Tobia Rinaldo, (siciliano) che assieme al gruppo musicale folk I Cariddi ha inciso "La leggenda di Colapesce" ed il gruppo vocale (campano) dei Baraonna che inciso la canzone "Cola" che fa parte dell'album "Baraonna".


    Ho trovato questa favola che non conoscevo, è veramente bella ... spero vi piaccia ...

    Claudio



    La leggenda di Gammazita

    Nel cuore della parte vecchia della città, a sud delle mura di Carlo V, nella strada (via San Calogero) che collega via Zurria con piazza Federico di Svevia, si apre il cortile Gammazita con i resti del pozzo nel quale si lanciò a capofitto. Durante i vespri siciliani (1282), al tempo della dominazione francese vive a Catania, nei pressi del castello Ursino, la giovane Gammazita, bella e virtuosa. Di lei si innamora un soldato francese che la corteggia insistentemente, nonostante Gammazita sia fidanzata e promessa sposa. Il corteggiamento é così pressante che Gammazita non esce mai da sola. Un giorno però, forse per necessità, dimentica la prudenza e si reca al pozzo. Qui la coglie il soldato (il posto é solitario). Gammazita grida e cerca aiuto, ma nessuno la può sentire. In un attimo compie la sua scelta. Al disonore preferisce la morte, gettandosi nel pozzo. Il fonte fu sommerso in gran parte dalla colata del 1669 ma nell'Ottocento era ancora ricco di acqua, che veniva analizzata dai tecnici dell'università, forse per accertarne la potabilità. Poi inaridì. Delle strutture esterne è rimasta ben poca cosa; inoltre il tempo "ha cancellato l'illusione delle macchie di sangue, visibili sul fondo fino a una settantina di anni or sono (fin quando cioè il fonte non venne inesorabilmente murato):incrostazioni di magnesio di ferro, certamente,che il popolino riteneva autentico sangue, attribuendolo alla fanciulla che vi si lanciò dall'alto per difendere il proprio onore". Nel 1982 il comune annunziò l'imminente restauro di questo antico monumento e la sua valorizzazione sotto il profilo storico, culturale e turistico: ma fino ad oggi l'iniziativa non è stata realizzata. In Piazza Università è presente una statua alla base di uno dei quattro lampioni Rappresentante la leggenda di Gammazita.

    Statua presente in Piazza Università. Gruppo alla base di uno dei quattro lampioni Rappresentante la leggenda di Gammazita.



    Giufà

    chiamato a volte anche Giucà, è un personaggio della tradizione orale popolare della Sicilia. Nella letteratura scritta egli compare per la prima volta nell'opera di Giuseppe Pitrè, celebre studioso di tradizioni popolari e di folclore siciliano tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, che ne riprese le storie popolari diffuse in varie parti della Sicilia.

    « Secondo alcuni Giufà non è mai morto,
    è riuscito a scappare alla morte talmente tante volte
    che ancora sta scappando e ancora gira per il mondo.
    [...] Qualcun altro invece racconta 'sta storia.
    Che un bel giorno Giufà vide l'angelo della morte.
    L'angelo della morte lo guardava strano... »

    (da Ascanio Celestini. Cecafumo. 2004)

    Il personaggio

    Giufà è un bambino del sud, molto ignorante, che si esprime per frasi fatte e che conosce soltanto una certa tradizione orale impartitagli dalla madre. Nelle sue avventure egli si caccia spesso nei guai, ma riesce quasi sempre a uscirne illeso, spesso involontariamente. Giufà vive alla giornata, in maniera candida e spensierata, incurante di un mondo esterno che pare sempre sul punto di crollargli addosso. Il ciclo delle avventure di Giufà è di chiara derivazione araba (o meglio, nordafricana), come dimostra lo stesso nome del ragazzino (che nel dialetto palermitano divenne l'abbreviativo di Giovanni). Ancora oggi nei paesi del Maghreb esistono cicli di racconti che hanno come protagonista Djehà (pron. giuhà), che, con il siciliano Giufà, sicuramente condivide una medesima radice popolare. Secondo alcuni, Giufà/Jehà deriverebbe da un personaggio storico realmente esistito agli inizi dell'XI secolo d.C. nella penisola anatolica (l'attuale Turchia). Si tratterebbe della personalità piuttosto eccentrica di Nasreddin Khoja (Il Maestro Nasreddin),[1] che nell'area culturale araba si sarebbe poi diffuso con il nome di Djeha o Jusuf, innestandosi poi nella tradizione siciliana come Giufà. (Da notare che nella scrittura araba le parole khoja (turco hoca) e djuha si scrivono in maniera molto simile: solo dei punti diacritici le tengono distinte). Personaggio creato in chiave comica, caricatura di tutti i bambini siciliani, Giufà ci fa sorridere, con le sue incredibili storie di sfortuna, sciocchezza e saggezza, ma ha anche il gran merito di farci conoscere meglio la cultura dominante in Sicilia tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento.

    L'assoluta ingenuità

    Giufà è un personaggio assolutamente privo di ogni malizia e furberia, credulone, facile preda di malandrini e truffatori di ogni genere. Nella sua vita gli saranno rubati con estrema facilità una pentola, un maiale, un pollo arrosto, un asino, una gallina ed un tacchino. L'iperbolica trama descritta dal Pitrè prende spunto da fatti realmente ricorrenti nelle campagne del palermitano, quando ladri e imbroglioni erano soliti fare ai ragazzi promesse allettanti (che mai avrebbero mantenuto) per ottenerne in cambio prelibatezze sottratte alla campagna dei loro genitori. Un esempio della tipica stoltezza del nostro eroe si ha nell'episodio "Giufà tirati la porta" nel quale sua madre gli ricorda: "Quando esci, tirati dietro la porta", nel senso di "accosta, chiudi, la porta". Ma il giovane prende alla lettera l'invito e, anziché chiudere la porta, la scardina e se la porta a messa.



    Giufà e lu canta-matinu

    Si cunta ca a tiempu di Giufà 'na matina nni I'arba mentri iddu era curcatu, senti sunari la fiscaliettu e spìjà' a sò matri:
    - Mà', cu' jè chissu chi passa?
    Sò matri cci dici:
    - Chissu è lu canta-matinu.
    Ogni matina passava stu canta-matinu; 'na matina si susi Giufà e va a'mmazza stu canta-matinu, ca era un omu chi sunava lu fiscaliettu; pùa si nni ij' nni sò matri e cci dissi:
    - Mà', l'ammazzavu lu canta-matinu.
    Sò matri sintìennu ch'ammazzà' l'omu chi sunava lu fiscaliettu lu va a piglia, lu porta jintra e lu jetta nni lu puzzu, ca era vacanti senza acqua.
    Quannu Giufà ammazzà' a l'omu, si nn' addunà unu, e lu ij' a dici a la sò famiglia; subbitu si pattinu e nni fannu stanza a la Ghiustizia comu Gi'ufà amnmazzau a lu canta-matinu.
    La matri di Giufà, ca era 'sperta, pinsà' ch'avía un crastu ; I' ammazza e lu jetta nni lu puzzu. La Ghiustizia si nni va nni Giufà pri fari la ' virifica di lu muortu; la famiglia di lu muortu cci ij' 'nzèmmula. Lu Jùdici cci dissi a Giufà:
    - Unni lu purtasti lu muortu?
    Rispunni Giufà, pricchì era babbu:
    - la lu jittavu nni lu puzzu.
    Attaccaru a Giufà cu 'na corda e lu calàru nni lu puzzu; arrivannu a lu funnu di lu puzzu, minti a circari, e trova e tocca lana e cci dici a li figli di lu muortu:
    - Nn'aví a lana tò pà' ?
    - Mà pà' 'un n'avia lana.
    - Chistu havi la lana; 'un è tò pà' -
    Pùa tocca la cuda: - Nn'avía cuda tò pà'?
    - Mà pà' 'un n'avia cuda.
    - 'Nquà un è tò pà' -
    Pùa tocca, chavia quattru piedi, e dici:
    - Quantu piedi avia tò pà'?
    - Mà pà' du' piedi avía.
    Rispunni Giufà:
    - Chistu havi quattru piedi; 'un é tò pà' -
    Pùa tocca la testa, e cci dici:
    - Nn'avia corna tò pà'?
    Rispunninu li figli:
    - Mà pà' 'un n'avia corna,
    Rispunni Giufà:
    - Chistu havi li corna ; 'un è tò pà'.
    Rispanni lu Judici:
    - Giufà, o cu li corna o cu la lana acchiànalu.
    Tiranu a Giufà cu lu crastu 'n cuoddu, la Ghitistizia vitti ca era veru cràstu, e lassà' liberu a Gìufà.



    sicilia

    giusto

    Sicilia

    Li furisteri ca 'nSicilia sunnu
    la guardanu ccu granni meraviglia
    dicinu ca nun c'è ne tuttu u munnu
    'nisula ca la nostra s'assumiglia
    La conca d'oru è chidda ca sparluci
    supra la nivi mungibbeddu ridi
    spanni lu faru la so janca luci
    l'anapu scurri mezzu a li papiri

    Rit. Sicilia Sicilia canta la pasturedda
    Sicilia Sicilia ioca la funtanedda
    l'aria e lu suli inchinu l'arma di puisia
    Sicilia Sicilia tu si la terra mia.

    L'aceddi pipitianu a matinata
    tra zagari d'aranci e minnuliddi
    cu la vaccuzza duci e 'nzuccarata
    cantanu comu parlanu li ziti
    Lu suli spunta e tutta la campagna
    d'oru zecchinu pari arracamata
    li picureddi supra la muntagna
    rusicanu l'irbuzza 'mbarsamata.

    Rit. Sicilia Sicilia canta la pasturedda
    Sicilia Sicilia ioca la funtanedda
    l'aria e lu suli inchinu l'arma di puisia
    Sicilia Sicilia tu si la terra mia.


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    MULINI SICILIA.VECCHIE TRADIZIONI

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    TRAPANI..

    Tramonto sul mulino
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    Un altro luogo colpo su mulino e salina ... ma io sono innamorato di questo posto .. sempre grandi passioni e nuove emozioni ... e poi un continuo cambiare di colori e sensazioni ... magia ..

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    Museo del Sale - Nubia (TP) .


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    PRODOTTI TIPICI.Il Pecorino e la ricotta di pecora.

    pecorino-siciliano .

    La Sicilia è una fonte inesauribile di tradizioni agricole ed enogastronomiche che
    oggi, a buon diritto, meritano di essere associati alla categoria dei slow food.
    Il formaggio pecorino, la ricotta di pecora e il caciocavallo sono alcuni di quei prodotti che rispecchiano lo scopo dei slow food, cioè di dare il diritto a vivere il pasto soprattutto come un piacere.
    Il pecorino e la ricotta di pecora sono prodotti ottenuti dalla lavorazione del latte di questi ovini. Il latte appena munto, riscaldato a 35° con l’aggiunta di caglio, sciolto in poco latte si divide in due parti: la cagliata e il siero.
    Il caglio, è in grado di scomporre il latte in caseina e siero. Cioè provoca la coagulazione della caseina. Quello più ricercato, e qualitativamente migliore, è quello ricavato dallo stomaco di ovini o bovini lattanti (tant’è che è l’unico permesso per la produzione di formaggi d.o.p. (denominazione di origine protetta), come ad esempio la ricotta, il pecorino e il caciocavallo.
    • La cagliata, cioè l’addensamento della caseina (che è una proteina del latte) rappresenta la prima fase di lavorazione del formaggio.
    • Il siero, è un liquido organico, usato per ottenere la ricotta.
    Il Pecorino
    Questo eccellente formaggio, comune in tutta la Sicilia, viene prodotto attraverso tre fasi di lavorazione:
    1. Tuma - Subito dopo la cagliata, e senza sale, la lavorazione viene interrotta. La massa granulosa, opportunamente filtrata viene messa nelle forme che poi vengono messe nel siero bollente per circa tre ore (è in questa fase che viene ricavato lo scaldato usato per confezionare lo sfoglio delle Madonie. Non è altro che il formaggio ancora in forma granulosa).


    CARRETTI SICILIANI...

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    Quando, nel 1820, scoppiarono a Napoli i primi moti, anche la Sicilia insorse e chiese l'indipendenza, riuscendo a cacciare le truppe borboniche.

    Presto, però, i Borboni tornarono e la rivolta fu domata nel sangue.

    Più tardi, nel 1848 (anno di rivoluzioni in tutta l'Europa), la Sicilia fu la prima a insorgere per la libertà.

    Cacciati di nuovo i Borboni, venne formato un Comitato Siciliano di Liberazione,

    composto da Giuseppe La Masa, Rosolino Pilo e Giacinto Carini.

    Da quel momento le sorti dell'isola sono legate per sempre alle sorti dell'Italia.





    ROSA DONATO

    La mattina del 12 gennaio 1848 la rivolta scoppiò ancora una volta a Palermo.

    Come hai visto, venne formato un Comitato Siciliano di Liberazione., composto da Giuseppe La Masa, Rosolino Pilo e Giacinto Carini.

    Le truppe borboniche furono, in breve tempo, costrette ad abbandonare la città.



    Alla notizia della sollevazione di Palermo insorsero anche Messina, Catania, Agrigento, Caltanissetta e Termini Imerese.

    In quell'occasione Giuseppe La Masa fece sventolare, per la prima volta, il tricolore italiano. ..

    Capo del governo provvisorio fu Ruggero Settimo.

    La sconfitta a Novara dell'esercito piemontese di Carlo Alberto, che poneva fine alla guerra per l'Indipendenza d'Italia,

    ebbe, però, gravi conseguenze anche per la Sicilia.

    Infatti il Re, domate le rivolte nel Napoletano, potè inviare nell'isola un forte esercito comandato dal generale Filangeri.

    In quell'occasione, tra i difensori di Messina, brillò il nome di una povera popolana' : Rosa Donato.



    Rosa Donato gettò la miccia accesa nella cassa delle munizioni che scoppiò con grande fragore.

    Ella era riuscita a trascinare un piccolo cannone presso una barricata dove ferveva furiosa la battaglia. La barricata, ad un certo punto, stava per cadere in mano nemica, ma Rosa non volle abbandonare il cannone. Rimase sola là con la miccia in mano. E allorché i Barboni furono a due passi da lei, gettò improvvisamente la miccia accesa nella cassa delle munizioni che scoppiò con orrendo fragore, facendo strage dei nemici. Rosa Donato, pur travolta dalle macerie, scampò per miracolo.

    Purtroppo, le truppe borboniche, nonostante l'eroismo dei difensori, riuscirono nuovamente a riconquistare l'isola commettendo atti di crudele barbarie. E così mentre gli Austriaci ritornavano in Lombardia, la Sicilia vedeva i Borboni nuovamente padroni.

    Seguirono dodici anni di cospirazioni e di insurrezioni, purtroppo senza esito. I Martiri di quel periodo furono: il barone Bentivegna, Salvatore Spinuzza e il giovanissimo Niccolo Garzilli.





    1860 FINALMENTE SI FA L’ITALIA

    Giungiamo, finalmente, al meraviglioso Maggio 1860, anno in cui s'incide nella storia dell'Italia il nome di due città siciliane : Marsala e Calatafimi.

    Garibaldi, giudicando ormai maturo il momento della liberazione, decise, infatti, la Spedizione dei Mille che aveva lo scopo di liberare dai Borboni tutta l'Italia Meridionale.

    I Mille erano giovani volontari, affluiti al richiamo dell'Eroe da ogni parte della Penisola.

    Partiti il 5 Maggio 1860 da Quarto, presso Genova, i Mille sbarcarono a Marsala sei giorni dopo.

    E subito dopo Marsala, ecco a Salèmi le squadre dei picciotti unirsi a Garibaldi.

    — Che entusiasmo, piccolo Siciliano, che entusiasmo! Ovunque si correva a Garibaldi; ovunque si gridava: Viva l'Italia !

    Le truppe borboniche, inviate contro il minuscolo esercito garibaldino, si disposero a battaglia sulla collina detta « Pianto Romano », nei pressi di Calata/imi.

    I Garibaldini, assai minori di numero, dovettero conquistare là collina palmo a palmo. Ad un certo momento il pericolo fu grande. Nino Bixio, allora, consigliò Garibaldi di ritirarsi, ma il generale rispose:

    — Bixio, qui si fa l'Italia o si muore!

    Finalmente i Borboni, molestati da ogni parte dai « picciotti », dovettero ritirarsi e Garibaldi, acclamato dal popolo, entrò trionfalmente in Calatafimi.

    Purtroppo, a San Martino, colpito da una fucilata morì il bravo Rosolino Pilo.

    Garibaldi, ingannando il nemico che lo aspettava a Monreale, condusse i suoi a Piana degli Albanesi, poi passò per Marineo e si l'ermo a Misilmeri.

    La mattina del 27 Maggio, dopo breve e furiosa lotta a Porta Termini, Garibaldi, con i suoi e con i bravi picciotti, entrava trionfalmente in Palermo.

    Le truppe borboniche vennero inesorabilmente chiuse in un cerchio di ferro al Palazzo Reale, al Molo e al Castello. Infine, furono costrette a chiedere l'armistizio.

    Intanto, inviati da Camillo Cavour, arrivarono a Garibaldi altri aiuti: da Trapani, da Agrigento, da Catania, da Messina e da altre località dell'isola. ~Il 20 Luglio, a Milazzo, i Garibaldini attaccarono nuovamente i Borboni, li sbaragliarono completamente e li costrinsero a lasciare definitivamente la Sicilia.

    Il 24 Luglio Garibaldi entrava in Messina fra il tripudio della popolazione.

    In Ottobre un plebiscito (votazione popolare) univa l'isola al resto d'Italia, sotto il governo di Vittorio Emanuele II,

    che sarà proclamato Re nel Marzo 1861.




    Il mito delle Arance: dalla dote di Giunone al simbolo della purezza ... e altro ancora


    La mitologia greca narra che Giunone, sposa di Giove, portò in dote alcuni alberelli dai frutti d'oro, simbolo di fecondità ed amore, e che Giove, per paura che i ladri sottraessero questo dono prezioso, li custodì in un giardino sorvegliato dalle ninfe Esperidi, fanciulle dal canto dolcissimo.
    Giunone, dea greca che portò in dote degli alberi di arance

    La dea Giunone portò in dote un alberello dai frutti d'oro. Era un alberello di arance

    Tra le fatiche di Ercole, esattamente l'undicesima, ci fu quella di portare agli uomini questi frutti, sconfiggendo il drago che Giunone aveva messo a guardia del giardino.

    Sempre a proposito di mitologia, l'arancio, inteso come pianta, è conosciuto anche come melarancio; i suoi fiori sono considerati simbolo di castità e infatti vengono utilizzati come addobbi floreali per i matrimoni per indicare la purezza della sposa.
    Aranceti della Piana di Catania

    Agrumeto siciliano con arance rosse siciliane Rosaria

    Il profumo dei fiori d'arancio, che in passato evocava immagini sensuali, nel tempo si trasformò in simbolo di generosità, poiché dai fiori nascevano i gustosi frutti, ed infine in simbolo di purezza.

    Tra le varie leggende e secondo il mito, l'Etna sarebbe la "casa" di illustri personaggi storici, o quantomeno dei loro fantasmi. La regina d'Inghilterra Elisabetta I, ad esempio, la cui anima sarebbe rinchiusa da secoli nel vulcano siciliano a causa di un patto che la sovrana stipulò col diavolo in cambio di aiuto per il suo regno.

    Nel 1603 i diavoli gettarono la regina dentro il cratere dell'Etna e le cadde una pantofola.

    Molto tempo dopo, un pastorello ritrova tale pantofola, la tocca e si brucia.

    Chiamato un frate esorcista, la pantofola volò su una torre del castello di Maniace, a Bronte.

    Nel 1799 il castello fu donato dai Borbone all'ammiraglio inglese Orazio Nelson, durante una festa da ballo a Palermo.

    In quell'occasione una dama misteriosa, si dice il fantasma della regina Elisabetta, donò a Nelson un cofanetto contenente la fatidica pantofola e gli raccomandò di non farla mai vedere a nessuno; ma l'amante dell'ammiraglio, Emma Hamilton, riesce a trafugarla. La stessa notte l'ammiraglio vede in sogno la misteriosa dama che gli ricorda che ha perso tutta la sua fortuna e pochi giorni dopo Nelson muore nella battaglia di Trafalgar, il 21 ottobre 1805.

    O ancora Re Artù che, gravemente ferito in battaglia, si rifugiò dentro l'Etna, dove vivrebbe tuttora.

    Eolo, per esempio, si narra che tenesse imprigionati i suoi venti sotto le caverne dell'Etna.
    Le Arance Rosse Rosaria sono uniche per il loro gusto fresco e succoso



    La Piana di Catania è particolarmente vocata alla coltivazione di agrumi, soprattutto arance

    Tifone fu confinato nell'Etna e fu motivo di eruzioni continue.

    Un altro gigante, Encelado, si ribellò contro gli Olimpi e per questo motivo venne ucciso e bruciato nell'Etna.

    Efesto, Vulcano per i Romani, figlio di Giove e di Giunone, fratello di Marte, e dio del fuoco, veniva invocato, nelle cerimonie del suo culto, sotto l'epiteto di Mùlciber, fonditore di metalli. La leggenda, che lo raffigurava deforme racconta che, quando Giove lo vide così brutto, con un calcio lo scaraventò giù dal cielo, nell'isola di Lenno, dove egli impiantò la sua fucina e cominciò a fabbricare fulmini per il padre, nonostante lo avesse azzoppato.

    Siccome la fornitura dei fulmini comportava molto lavoro, Vulcano impiantò altre fucine, la più importante sull'Etna, lavorando a servizio di tutti gli dei. Dopo essere stato cacciato dal cielo, Vulcano vi sarebbe tornato solo per donare un trono alla madre Giunone che, per non essersi mai curata di lui e della disgrazia in cui era caduto, appena si sedette, non riuscì più ad alzarsi. Giove allora fece chiamare il figlio che però non si mosse finché Bacco, andato a riprenderlo, lo ricondusse stabilmente in cielo. Solo allora Giunone riuscì a rimettersi in piedi.

    Gli antichi collocavano anche il Tartaro sotto la montagna.

    Di Empedocle, si disse che si era gettato nel cratere del vulcano, anche se, in realtà, sembra sia morto in Grecia.



    Fata Morgana



    Dopo aver condotto Re Artù, suo fratello, ai piedi dell'Etna, Morgana non se ne andò più dalla Sicilia, dove era giunta con il suo vascello. Stabilì la sua dimora tra l'Etna e lo stretto di Messina, dove i marinai non osavano avvicinarsi a causa di forti tempeste, e sì costruì un palazzo di cristallo. Morgana abita qua da più di mille anni e di tanto in tanto richiama alla memoria Camelot, i castelli, le foreste incontaminate ed altri ricordi felici. La fata certe volte si diverte a scoprire la gente con immagini ingannevoli. Si dice che Morgana esca dall'acqua con un cocchio tirato da sette cavalli, per quanto abbia anche un vascello d'argento. Quando Morgana esce dal mare getta nell'acqua tre sassi e traccia dei segni nel cielo: allora il mare si gonfia, dopo diventa come un cristallo; su di esso compaiono immagini di uomini e di città.

    Padre Ingnazio Angelucci ci dice di aver assistito ai prodigi della fata Morgana nel giorno dell' Assunta del 1643: egli racconta di aver visto dalla sua finestra il mare gonfiarsi, e poi diventare come un cristallo e su questa "piazza di cristallo" si riflettevano immagini di città bellissime, pilastri, arcate, castelli e si trasformavano in una fuga di finestre che si trasformava a loro volta in selve, pini, cipressi e grandi teatri.

    Padre Ignazio dice che aveva sentito parlare di questo fenomeno ma non ci aveva creduto, però dopo averlo osservato con i propri occhi poté affermare che era più stupefacente di quanto si potesse immaginare. La leggenda trae spunto da un fenomeno che realmente si verifica nello stretto di Messina in particolari condizioni atmosferiche.



    L'isola che non c'è



    Seconda stella a destra
    questo è il cammino,
    e poi dritto fino al mattino
    non ti puoi sbagliare perché
    quella è l'isola che non c'è!

    E ti prendono in giro
    se continui a cercarla,
    ma non darti per vinto perché
    chi ci ha già rinunciato
    e ti ride alle spalle
    forse è ancora più pazzo di te! Edoardo Bennato





    L'isola che non c'è esiste davvero. Non è solo una leggenda, come si narra. L'isola Ferdinandea, chiamata anche "Banco Graham" o Julia, si è formata durante una breve eruzione sottomarina nel 1831 nel Canale di Sicilia. L'eruzione con caratteri idromagmatici, ha portato alla rapida costruzione di un rilievo vulcanico esclusivamente piroclastico alto poche decine di metri sopra il livello del mare. La mancanza di una adeguata copertura lavica ha privato l'isola di una protezione dai flutti che, in effetti, l'hanno smantellata completamente nel giro di pochissimi mesi.
    Dalla fine dell'eruzione, varie crociere oceanografiche si sono succedute con l'intento di cartografare il fondale di quella zona e di monitorare una eventuale ripresa dell'attività vulcanica.
    Attualmente, ciò che rimane dell'isola vulcanica è un banco vulcanico ubicato a 37°09'48",95 di latitudine N e 12°43'06",85 di longitudine E, con la sommità che occupa un'area di circa 30 m2, con profondità variabile dagli 8 ai 12 metri e fondali circostanti molto irregolari che, a circa 200 metri dall'apice del banco, precipitano considerevolmente


    Un pò di storia

    Nella notte fra il 10 e l'11 luglio 1831, a 26 miglia circa dalla spiaggia di Sciacca, a metà strada da Pantelleria, nella cosiddetta Secca del Corallo, in seguito ad una scossa tellurica, il vulcano sottomarino aprì la sua bocca eruttando scorie e lapilli, formando una piccola isola di circa quattro chilometri di circonferenza e sessanta metri d'altezza.

    Testimoni dell'evento furono i capitani Trafiletti e Corrao, naviganti in quel mare (latitudine 37,11 nord e longitudine 12,44 est) che osservarono un getto d'acqua a cui tennero dietro colonne di fiamme e di fumo che si elevavano ad un'altezza di 550 metri circa. Il 16 luglio si vide emergere la testa di un vulcano in piena eruzione e il 18 lo stesso capitano Corrao, di ritorno, osservò il cono del vulcano che sporgeva dal mare. Presto si vide emergere un'isoletta che crebbe sempre in eruzione e raggiunse, il 4 agosto, una base di tre miglia di circonferenza ed un'altezza di sessanta metri, con due preminenze, una da levante ed una da tramontana, a guisa di due montagne legate insieme; con due laghetti bollenti".

    Non appena venne diffusa la notizia dell'apparizione di questo piccolo lembo di terra, il primo studioso a giungere sul posto fu Karl Hoffman, docente di geologia presso l'Università di Berlino, che si trovava casualmente in Sicilia. Il tedesco, dopo aver fatto un'accurata ricognizione, riferì i risultati in una lettera indirizzata al duca di Serradifalco. Il governo borbonico, intanto, inviava subito sul posto il fisico Domenico Scinà, il quale compilava un "breve ragguaglio al novello vulcano apparso nel mare di Sciacca". Il prof. Carlo Gemmellaro, docente di Storia Naturale presso l'Università di Catania, provvedeva invece a stilare una relazione circostanziata che suscitava l'interesse di molti illustri uomini di cultura scientifica, soprattutto stranieri.

    L'isoletta suscitò subito l'interesse di alcune potenze straniere, che nei mari cercavano punti strategici per gli approdi delle loro flotte, sia mercantili che militari. L'Inghilterra, che col suo ammiraglio sir Percival Otham si trovava nelle acque dell'isola, dopo un'accurata ricognizione, prendeva possesso dell'isola in nome di Sua Maestà Britannica. Il 24 agosto giungeva sul posto il capitano Jenhouse e vi piantava la bandiera britannica, chiamando l'isola "Graham".

    Le proteste del popolo siciliano, insieme a quelle del capitano Corrao, arrivarono alla casa borbonica, proponendo di nominare l'isola "Corrao", chiedendo inoltre al re provvedimenti contro il sopruso inglese.

    Il 26 settembre dello stesso anno la Francia, per non essere da meno, inviava il brigantino "La Fleche", comandato dal capitano di corvetta Jean La Pierre, il quale recava con sé una missione diretta dal geologo Constant Prévost insieme al pittore Edmond Joinville, al quale si devono i disegni di quel fenomeno eccezionale. Furono fatti dai francesi approfonditi rilievi e ricognizioni accurate fino al 29 settembre, e il materiale raccolto venne inviato al viceammiraglio della flotta francese De Rigny. Il contenuto di queste relazioni stabilivano che l'isola, sotto l'azione delle onde, aveva subito diverse frane, che a loro volta avevano provocato grandi erosioni sui fianchi; quindi i crolli avevano trascinato con sé una grande quantità detriti. Pertanto l'isola, non avendo una base consistente, si poteva inabissare bruscamente. Come gli inglesi, anche i francesi non avevano chiesto alcun permesso al re Ferdinando II di Borbone, quale legittimo proprietario dell'isola, essendo questa sorta nella acque siciliane. Anzi i francesi la ribattezzarono "Iulia" in riferimento alla sua comparsa avvenuta nel mese di luglio, poi posero una targa a futura memoria con la seguente iscrizione: "Isola Iulia – i sigg. Constant Prévost, professore di geologia all'Università di Parigi – Edmond Joinville, pittore 27, 28, 29 settembre 1831". In segno di possesso venne innalzata sul punto più alto la bandiera francese.

    Il re Ferdinando II, constatando l'interesse internazionale che l'isoletta aveva suscitato, inviò sul posto la corvetta bombardiera "Etna" al comando del capitano Corrao il quale, sceso sull'isola, piantò la bandiera borbonica battezzando l'isola "Ferdinandea" in onore del sovrano.
    Sembrava che l'evento non suscitasse altro clamore, invece giunse sul posto il capitano Jenhouse con una potente fregate inglese e il Corrao con i suoi marinai, grazie alla mediazione del capitano Douglas, ottenne di rimettere la questione ai rispettivi governi.Non passò molto tempo che il pronostico francese cominciò ad avverarsi. Le persone che viaggiavano sul vaporetto "Francesco I" riferivano che l'isola aveva un perimetro di mezzo miglio e l'altezza si era abbassata.

    Verso la fine d'ottobre del 1831 il governo borbonico prendeva posizione ufficiale ed inviava ai governi di Gran Bretagna e Francia una memoria con la quale gli dava notizia dell'evento, ricordandogli che a norma del diritto internazionale la nuova terra apparteneva alla Sicilia. A quanto sembra però i due governi non risposero, e iniziarono le rivalità fra le due nazioni, entrambe interessate a favorire le loro posizioni strategiche nel Mediterraneo.

    Il 7 novembre di quell'anno, l'inglese Walker, capitano dell'Alban, la misurava e l'isola risultava ridotta ad un quarto di miglio con un'altezza di venti metri. Il 16 novembre si scorgevano soltanto piccole porzioni e l'8 dicembre il capitano Allotta, del brigantino Achille, ne costatava la scomparsa, mentre alcune colonne d'acqua si alzavano e si abbassavano. Dell'isola rimaneva un vasto banco di roccia lavica, che attualmente viene indicato nelle carte nautiche come "il banco Graham", a 24 miglia a nord-est di Pantelleria.

    Nel 1846 e nel 1863 l'isoletta è riapparsa ancora in superficie, per poi scomparire nuovamente dopo pochi giorni. Di essa rimanevano solo i molti nomi avuti in seguito alla disputa internazionale: Giulia, Nerita, Corrao, Hotham, Graham, Sciacca, Ferdinandea.

    Col terremoto del 1968 nella Valle del Belice, le acque circostanti il Banco di Graham furono viste intorpidirsi e ribollire. Forse era un segnale che l'isola Ferdinandea stava per riemergere. Così non fu, ma si segnalò un movimento nelle acque internazionali di alcune navi britanniche della flotta del Mediterraneo. A scanso di equivoci i siciliani posero sulla superficie del banco Graham una targa in pietra tra le cui righe si legge che "[...] l'Isola Ferdinandea era e resta dei Siciliani".

     
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  2. tomiva57
     
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    Wolfgang Goethe nel suo "Viaggio in Italia".........
    "l'Italia senza la Sicilia non lascia immagine nello spirito:
    soltanto qui è la chiave di tutto."


    Goethe quando ha toccato per la prima volta il suolo siciliano deve aver avuto delle emozioni grandisime; le sue sensazioni mentre la nave si approssimava al porto devono aver invaso tutto il suo corpo e il profumo dell'isola al suo rientro deve avergli ispirato la famosa frase: "l'Italia, senza la Sicilia, non lascia alcuna immagine nell'anima".

    In Sicilia i ritmi vengono ancora dettati dalla natura ed in questo sito si vuole approfondire la bellezza di alcune località dove il mare ha il colore dello zaffiro e la pietra, con le sue linee curve - maschere e putti, prende forma nell'espressione del Barocco siciliano.....e il vento diventa musica!!!

    Il nostro e' un invito a percorere e scoprire il cuore segreto ed incontaminato della Sicilia Orientale, la provincia babba (cioè semplice/naif come la chiamava Sciascia), attraverso località che per l'occasione vengono presentate al massimo delle loro bellezze e gustare totalmente lo splendore delle Costiere ancora oggi in gran parte incontaminate.

    Dal giugno del 2002, a Budapest durante i lavori della 26° sessione del Comitato Scientifico Internazionale, avviene il riconoscimento dell'UNESCO dell'area del "Val di Noto" nella "Lista del patrimonio dell'Umanita'". Il termine "Val di Noto" definisce un'area geografica nella Sicilia sud-orientale, estesa dalla riva sinistra del fiume Salso a Capo Passero, con confini segnati da Enna, San Filippo d'Agira, Catania e Noto. Tale denominazione deriva dal periodo di dominazione araba, quando l'isola venne divisa in tre aree amministrative chiamate Valli: il Val Demone con capoluogo Messina, il Vallo di Mazara, con capoluogo Mazzare e poi Palermo, ed infine il Vallo di Noto, con capoluogo Noto e poi Catania.

    I comuni del Val di Noto inseriti nella lista sono otto: Noto, Palazzolo Acreide, Scicli, Modica, Ragusa, Militello Val di Catania, Caltagirone, Catania.

    Ecco le tre motivazioni che hanno portato all'inserimento del Val di Noto tra i siti più importanti del mondo:
    * sono un'eccezionale testimonianza dell'arte e dell'architettura del tardo Barocco;
    * rappresentano il culmine e l'ultima fioritura del Barocco europeo;
    * la qualità di questo patrimonio è risaltata anche dall'omogeneità, causata dalla contemporanea ricostruzione delle città.


    da:costierabarocca.it








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    Villa del Tellaro


    La villa di epoca romana fu scoperta agli inizi degli anni settanta. Apre finalmente al pubblico il 12 marzo 2008 la Villa del Tellaro, il complesso di età tardo-romana imperiale scoperto in contrada Caddeddi nei pressi di Noto. Dopo un lungo lavoro di esplorazione protrattosi per oltre un ventennio la villa sarà, quindi, visitabile. Le complesse operazioni di scavo hanno portato alla scoperta di una grande villa che, per la parte finora 'emersa', copre una superficie di circa 3000 metri quadri. Gli scavi hanno riportato alla luce dei raffinati pavimenti a mosaico, risalenti al IV secolo d.C, che sono stati restaurati e oggi ricollocati nelle originarie sedi. La Villa del Tellaro appartiene alla stessa epoca della villa scoperta a Patti Marina (Messina) e della più famosa Villa del Casale di Piazza Armerina.
    La villa romana del Tellaro ricade in quell'angolo di Sicilia localmente definito "territorio ibleo", dal nome dell'altopiano calcareo che connota tutto il sud-est dell'isola. Percorrendo la Strada Provinciale 19 Noto-Pachino, verso la Riserva Naturale di Vendicari, i viaggiatori più attenti noteranno le segnalazioni della Villa Romana del Tellaro, per poi deviare a destra (distanza Km. 10). A circa 100 metri, in contrada Caddeddi (come segnala il cartello), si trova la Villa Romana del Tellaro (IV secolo), pregevole per i mosaici pavimentali (forse appartenuta ad un latifondista o ad un senatore romano).
    Per gli esperti sono i pavimenti musivi più belli e artistici d’Italia e sono divisi in vari registri musivi, che rappresentano scene di caccia, il riscatto del corpo di Ettore ed altri temi. La datazione della Villa è legata al rinvenimento di monete di Imperatori Romani del IV sec. d.C. La Villa probabilmente aveva una superficie di circa 5 mila mq. Fu distrutta da un incendio, com’è stato possibile arguire dall’esame delle assise di base del fabbricato ottocentesco.



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    SALVATORE QUASIMODO

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    La biografia.

    Salvatore Quasimodo nacque a Modica (Ragusa) il 20 agosto del 1901. Il padre del poeta era capostazione e doveva spostarsi spesso da una città all’altra della Sicilia orientale (Gela, Cumitini, Licata, ecc.). Dopo il terremoto del 1908 la famiglia Quasimodo si trasferisce a Messina dove Salvatore compie gli studi fino al diploma di Geometra.
    All'epoca in cui frequentava lo "Jaci" risale un evento di fondamentale importanza per la sua formazione umana e artistica: l'inizio del sodalizio con Salvatore Pugliatti e Giorgio La Pira, che sarebbe poi durato tutta la vita. Negli anni messinesi Quasimodo cominciò a scrivere versi, che pubblicava su riviste simboliste locali.
    La casa di Quasimodo
    All’età di diciotto anni lascia la Sicilia per trasferirsi a Roma. Dopo un primo periodo trascorso a Roma impiegato presso il Genio Civile si trasferisce a Reggio Calabria. Nel 1929 si reca a Firenze e il cognato Elio Vittorini lo introduce nell’ambiente della rivista Solaria. Per le Edizioni Solaria esce nel 1930 Acque e Terre, primo libro della carriera poetica di Quasimodo che con Oboe Sommerso, raccolta pubblicata nel 1932, e Erato e Apollion, uscita nel 1936 si afferma come rappresentante della poesia ermetica.
    Nel 1934 Quasimodo si trasferì a Milano, che segnò una svolta particolarmente significativa nella sua vita e non solo artistica. Accolto nel gruppo di "corrente" si ritrovò al centro di una sorta di società letteraria, di cui facevano parte poeti, musicisti, pittori, scultori.
    Nel frattempo era cominciata l’attivita di Quasimodo come traduttore e nel 1940 viene pubblicata la traduzione in italiano dei Lirici Greci alla quale segue nel 1942 la nota raccolta di poesie dal titolo Ed è subito sera.Durante la guerra Quasimodo lavora alacremente scrivendo versi e traducendo Omero, Catullo, Virgilio, Shakespeare, Neruda con esiti altissimi.Con la raccolta Giorno dopo Giorno la sua poesia ha una svolta, dai temi della Sicilia del mito, affrontati nella raccolte precedenti, Quasimodo si volge a quelli della guerra, della questione sociale e dell’impegno. In questo periodo il poeta lavora anche come critico teatrale.
    Nel 1954 con Il Falso e Vero Verde inizia per Quasimodo una terza fase poetica in cui si affermano tematiche legate al consumismo, alla tecnologia, al neocapitalismo tipiche di quella “civiltà dell’atomo” che il poeta denuncia con un linguaggio cronachistico e scabro.Il 10 dicembre del 1959 Quasimodo riceve a Stoccolma il Premio Nobel per la letteratura. Nel 1966 pubblica il suo ultimo libro Dare e Avere e , appena due anni dopo, muore colpito da ictus.
    Oggi, il poeta, tradotto in quaranta lingue, è conosciuto e studiato in tutti i Paesi del mondo.



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    Il castello di Donnafugata


    Il nome Donnafugata deriva dall'arabo "Ain-jafat" e significa "Fonte di salute". Una leggenda narra comunque, di una donna che prigioniera nel Castello riuscì a scappare. Si tratterebbe della regina Bianca di Navarra che venne rinchiusa, dal perfido conte Bernardo Cabrera, signore della Contea di Modica, in una stanza dalla quale riuscì a fuggire attraverso le gallerie che conducevano nella campagna che circondava il palazzo. Da qui il nome dialettale "Ronnafugata", cioè "donna fuggita". Abile stratega, scaltro, crudele, potente come nessun altro sull’isola il Conte Berardo Cabrera era temuto persino dai sovrani di Palermo che non fecero nulla per ridimensionare il suo potere.




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    particolari mura d’accesso



    Entrato nella leggenda divenne oggetto di una serie di storie popolari. Si diceva, ad esempio, che nascondesse un tesoro consistente in una capra tutta d’oro, la quale sarebbe saltata fuori dal luogo in cui era nascosta dopo un complicato incantesimo. Si raccontava inoltre, che facesse fare una brutta fine a tutti coloro che lo ostacolavano e soprattutto ai suoi nemici tra i quali ci furono i Chiaramonte e la principessa Bianca di Navarra. In realtà è documentato che la principessa non mise mai piede nel Castello dato che ai suoi tempi (XIV secolo) il palazzo non era ancora stato edificato. L'edificio occupa un'area di circa 2500 metri quadrati e si snoda in circa 122 stanze che meriterebbero tutte di essere visitate ed ammirate, anche in base allo stupendo restauro effettuato.



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    vaso viale d’accesso


    L'ingresso è costituito da un ampio cortile di campagna fiancheggiato da due file di casette. Attraversandolo è possibile scorgere la facciata gotica orlata di merli al di sotto dei quali si trova un'elegante galleria con coppie di colonnine ricche di capitelli. La facciata inoltre è caratterizzata da finestre in stile gotico. Nella parte sottostante alla galleria si ammirano otto finestroni bifori a sesto acuto che danno in un'ampia terrazza delimitata da una balaustra coronata da otto vasi. Due modeste torrette circolari completano la prospettiva.



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    Castello+di+Donnafugata
    Castello Donnafugata Ragusa


    Il fascino ottocentesco del Castello di Donnafugata nell'entroterra di Ragusa

    Quanti luoghi e quante meraviglie offre la Sicilia a un visitatore in cerca di bellezza! Nell'ideale itinerario alla scoperta di questa meravigliosa regione, traendo spunto da una interessante guida turistica di viaggio, stavolta mi soffermo nella provincia più meridionale dell'isola, quella iblea, dal nome del nucleo storico (Ragusa Iblea) di Raùsa, città nota nel resto d'Italia come Ragusa.
    Un paesaggio naturale incontaminato fa da cornice alle splendide architetture barocche, incluse nel Patrimonio dell'Umanità dell'Unesco insieme a quelle della Val di Noto. Le chiese di San Giacomo, delle SS Anime del Purgatorio, dei Cappuccuni, di San Giovanni Battista, e soprattutto Santa Maria dell'Itria ed il duomo di San Giorgio impongono una sosta di qualche giorno in uno dei residence della zona, per godersele nei tempi giusti, scanditi secondo il ritmo di queste terre.
    A pochi chilometri dalla costa e ad una decina da Ragusa, sorge il CASTELLO DI DONNAFUGATA.





    Castello+di+Donnafugata
    [la Loggia]




    Nonostante una leggenda che vorrebbe legare il suo nome a quello della regina Bianca di Navarra (vedova del re Martino I d'Aragona e reggente del regno di Sicilia) imprigionata tra le sue mura (da qui donna fugata cioè rapita), l'ipotesi più plausibile rimane quella legata ad una sorgente (Ayn as Jafat in lingua araba, cioè "fonte di salute" la cui trascrizione in siciliano diventa ronnafuata) che si trova nei dintorni.
    Le prime notizie di questa grande villa si hanno nel XIV secolo, ma è nel 1648 con l'acquisto da parte di Vincenzo Arezzo La Rocca e soprattutto nella seconda metà dell'800 con i lavori di ampliamento eseguiti dal suo discendente, il barone Corrado Arezzo di Spuches, che la dimora patrizia assunse l'aspetto attuale.



    Castello+di+Donnafugata+-+sala+degli+specchi
    [il Salone degli specchi]



    Dall'ampia loggia in stile gotico-veneziano, protetta ai lati da due grandi torri, si accede agli interni, altrettanto belli ma ben più sfarzosi. Nel labirinto delle 122 stanze distribuite su 3 piani solo una ventina sono aperte al pubblico, tra queste le principali si trovano al piano nobile: il salone degli stemmmi delle più importanti famiglie siciliane, la splendida pinacoteca con opere neoclassiche di assoluto valore ()tra cui un'opera di Caravaggio, una di Antonello da Messina ed una di Spagnoletto), il salone degli specchi decorato con stucchi, la stanza della musica, l'appartamento del vescovo, la sala del biliardo, la foresteria, il salotto dei fumatori e la biblioteca. Tutte con i mobili e gli arredi originali dell'epoca,
    Gattopardo


    Gattopardo



    Un viaggio indietro nel tempo che inevitabilmente fa venire alla mente il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa (ed infatti alcune scene della trasposizione cinematografica di Luchino Visconti sono state girate in queste sale).
    Seguendo il percorso inverso di Corrado Arezzo, che in 20 minuti raggiungeva dal suo castello la città, potete alloggiare in un hotel di Ragusa e tornare anche più volte a Donnafugata per passeggiare in uno degli ultimi giardini storici ancora esistenti in Sicilia. Intorno al maniero si estende un parco di 8 ettari dove una volta regnavano oltre 1500 specie vegetali, ed adesso tra statue, vasi di terracotta e grotte artificiali ospita la cosidetta Coffee House, il tempietto circolare ed un piccolo labirinto.


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