PERCHE'.......

di tutto di più

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1. gheagabry
     
    .

    User deleted



    La punteggiatura è l'unico strumento che abbiamo per rendere nel testo scritto le sfumature espressive del discorso orale. Un'esitazione, una pausa, la sorpresa, il dubbio, la voglia di elencare o di troncare bruscamente. Con la voce e le espressioni del viso sappiamo come fare, ma quando scriviamo è tutto affidato a quei segnetti, che hanno il potere di rendere lo stesso testo leggibile oppure incomprensibile.

    ecco perchè...

    ... nacque il punto interrogativo


    Nella scrittura greco-antica per indicare una domanda si usava il punto e virgola. In seguito la convenzione decadde e per tutta l'età antica non si usarono segni particolari per esprimere un quesito.
    Il punto interrogativo vero e proprio nacque nel Medioevo, introdotto dai monaci copisti: essi infatti per indicare le domande aggiungevano alla fine delle frasi la sigla "qo" da quaestio ( in latino, domanda).Nella lingua latina era abitudine aggiungere il termine quaestiō in fondo ad una frase ogni volta fosse necessario esprimere una forma interrogativa. La scarsa eleganza e l’ingombro inutile di questa soluzione portò a contrarre l’espressione quaestiō in QO, ma l’abbreviazione poteva però dare luogo a fraintendimenti: le due lettere affiancate sembravano infatti indicare una parola incompleta. Per evitare questo problema, la O venne spostata sotto la Q — piuttosto che al suo fianco — dando così origine ad un segno diverso con un suo ben preciso significato. Per non confondere questa sigla con altre, in seguito si cominciò a scrivere le due lettere l'una sull'altra stilizzandole, di modo che la Q si trasformò col tempo in un ricciolo e la O in un punto, dando vita al punto di domanda a noi noto. Il segno disegnato a mano potrebbe essersi facilmente evoluto al punto interrogativo che conosciamo oggi.

    Anche in spagnolo il punto interrogativo era singolo e posto in fine di frase, finché, con la seconda edizione della Ortografía de la Real Academia, nel 1754, divenne regola iniziare le domande con il segno di apertura dell'interrogazione (¿) e terminarle con il segno di interrogazione che in spagnolo si considera invertito (?) - ad esempio: --¿Qué edad tienes?-- (Quanti anni hai?). La stessa regola fu adottata per il segno esclamativo - (¡) e (!). L'adozione di questa grafia fu lenta, e fino al XIX secolo si incontrano libri che non adottano il segno di apertura. Alla fine l'uso si generalizzò, anche grazie al fatto che in molti casi la sintassi spagnola - a differenza di altre lingue - non aiuta a capire dove comincia la frase interrogativa. Un ostacolo alla diffusione di questa pratica fu comunque il mancato utilizzo nelle frasi brevi o chiaramente interrogative, come Quién vive? (Chi è?), mentre era normale l'uso del doppio punto di domanda in frasi lunghe o con rischi di ambiguità.

    C’era una volta un punto interrogativo, un grande curiosone
    con un solo ricciolone, che faceva domande a tutte le persone,
    e se la risposta non era quella giusta
    sventolava il suo ricciolo come una frusta.
    Agli esami fu messo in fondo a un problema così complicato
    che nessuno trovò il risultato.
    Il poveretto, che di cuore non era cattivo,
    diventò per il rimorso un punto esclamativo.
    (Gianni Rodari)


    ... il punto esclamativo ...


    Il punto esclamativo (nel passato detto "ammirativo"), composto da un' asta al di sopra di un punto che dà una particolare enfasi alla frase che conclude, nacque nel Medioevo. I copisti medioevali, infatti, per indicare una forte emozione in una frase, scrivevano alla fine di essa l'esclamazione latina "io", ovvero evviva. Col tempo la maniera dei copisti sintetizzò la grafia sicchè la "i" si spostò al di sopra della "o" che andò rimpicciolendosi dando vita al simbolo che conosciamo. Tale simbolo fu poi introdotto nei caratteri di stampa inglese del XV secolo, come "segno di esclamazione" o "nota di ammirazione".
    Il corrispondente carattere tipografico è stato introdotto nella stampa fra XVI e XVII secolo, arrivando «molto lentamente a distinguersi dal punto interrogativo e a imporsi nell'uso». Aldo Manuzio lo descrisse chiaramente nel suo trattato di grammatica -
    «Et quoniam tam in distinctione finali, quam in Periodo, interrogatio etiam, aut affectus quispiam esse posset, ut indignatio, admiratio, commiseratio, et huiusmodi variis id distinctionibus ostendemus, puncto scilicet ad imam literam, supra posita linea si interrogatio fuerit, retorta si affectus, recta»
    "E poiché tanto nello stacco finale come nel periodo può esserci anche un'interrogazione o un qualche sentimento, come l'indignazione, l'ammirazione, la compassione, così similmente lo mostreremo con segnalazioni diverse, vale a dire con un punto accanto all'ultima lettera con sovrapposta una linea ritorta nel caso dell'interrogazione, retta nel caso del sentimento" - e tuttavia non lo usò mai nelle sue edizioni. Nella letteratura tedesca, se ne ha la prima testimonianza nell'edizione del 1797 della Bibbia di Lutero. Sulle macchine per scrivere il segno è stato introdotto dopo il 1970; fino ad allora si usava scrivere un punto e sovrascrivere un apostrofo.


    "La virgola è il segno di punteggiatura più elastico che abbiamo: separa, unisce, segue il senso della frase, lo determina, segnala pause, isola incisi, mette in evidenza parole, detta il tono a chi legge, si fa notare quando non c'è"
    (Dario Voltolini)


    ...la virgola ...



    La virgola è uno dei segni di interpunzione più adoperati dalle tipografie. Essa appare graficamente come un punto fermo allungato verso la direzione in basso a sinistra.
    Il suo nome viene dal latino virgula,-ae, che significa "bastoncino, piccola verga": la denominazione rimanda chiaramente alla forma che essa possiede anche nei testi attuali.
    Essendo il più breve segno di pausa, essa corrisponde nella lettura ad un minutissimo intervallo della voce.


    Tragedia di una virgola .. C’era una volta una povera virgola
    che per colpa di uno scolaro disattento
    capitò al posto di un punto dopo l’ultima parola del componimento.
    La poverina, da sola, doveva reggere il peso di cento paroloni, alcuni perfino con l’accento.
    Per la fatica atroce morì. Fu seppellita sotto una croce dalla matita blu del maestro,
    e al posto di crisantemi e sempreverdi s’ebbe un mazzetto di punti esclamativi.
    (Gianni Rodari)


    Non siate cinici. Avete mai visto un punto e virgola che piange?
    Un punto e virgola corpo 14 in Times New Roman che si dispera perché non lo usano più?
    Beh, io l'ho visto stanotte e non è stato un bel vedere.
    (Diego Cugia)


    il punto e virgola



    L'utilizzo del punto e virgola iniziò attorno ai primi del Cinquecento per opera del celebre stampatore italiano Aldo Manuzio, che si fregiò, inoltre, anche dell'invenzione del carattere corsivo.
    In seguito, esso espanse il suo utilizzo fino alla curia romana, dove, per volere dello stesso papa Pio IV, il figlio di Aldo Manuzio aprì una stamperia.
    Nel greco antico il punto e virgola aveva ben altro significato: poteva esprimere o due punti o (a seconda se la frase presentasse una interrogativa o esclamativa) un punto interrogativo o esclamativo. Nel greco moderno, invece, indica esclusivamente il punto interrogativo.


    La famiglia punto e virgola .. C’era una volta un punto e c’era anche una virgola:
    erano tanti amici, si sposarono e furono felici.
    Di notte e di giorno andavano intorno sempre a braccetto.
    ‘Che coppia modello - la gente diceva - che vera meraviglia la famiglia Punto-e-virgola’.
    Al loro passaggio in segno di omaggio perfino le maiuscole diventavano minuscole:
    e se qualcuna, poi, a inchinarsi non è lesta la matita del maestro le taglia la testa.
    (Gianni Rodari)


    ...e il punto.



    I primi esempi di segni grafici per indicare pause nel discorso compaiono nella stele di Mesha dei Moabiti (IX secolo avanti Cristo). Con lo stesso scopo i Greci usavano punti variamente disposti (spesso uno sopra l'altro, come l'attuale due punti).

    Il dittatore .. Un punto piccoletto, superbioso ed iracondo,
    ‘Dopo di me-gridava- verrà la fine del mondo’.
    Le parole protestarono:
    ‘Ma che grilli ha pel capo? Si crede un punto-e-basta, e non è che un punto-a-capo’.
    Tutto solo a mezza pagina lo piantarono in asso,
    e il mondo continuò una riga più in basso.
    (Gianni Rodari)

     
    Top
    .
  2. gheagabry
     
    .

    User deleted


    IL GENIUS LOCI
    di Alessandra Vinciguerra




    Il Genius loci nel mondo romano era lo spirito, la divinità protettrice di un posto, oggetto di culto in piccoli altari, che per esempio si trovavano agli incroci delle strade, ed erano legati al culto dei LARI.

    In età moderna fu un poeta inglese dell'inizio del '700, Alexander Pope, ad utilizzare per la prima volta questa locuzione riferita al paesaggio. Pope oltre che poeta era saggista e critico letterario ed ha avuto una notevole influenza sulle idee che sono alla base del giardino paesaggistico inglese. Nei suoi saggi esorta a tornare alla "semplicità amabile della natura disadorna", in contrasto con il giardino formale di gusto francese, allora in voga. In una famosa ode dedicata a Lord Burlington (suo vicino di casa che stava costruendo uno dei primi giardini paesaggisti) gli consiglia di seguire la natura, di creare paesaggi naturali, e gli dice proprio:
    "consulta sempre il genius loci, che dice alle acque di correre o cadere, e aiuta le colline a dare la scalata al cielo..." Seguendo lo "spirito del luogo" non si potrà sbagliare, perchè esso suggerisce gli interventi più in armonia con la natura.



    Però mentre all'epoca di Pope questa locuzione indicava quindi soprattutto la qualità di naturalezza non contaminata, di un posto, con il tempo questa nozione si è evoluta ed arricchita anche di connotati più storici ed umani. Oggi quando si parla di "genius loci" di solito ci si riferisce ad una atmosfera particolare di un posto, che è fatta della sua, diciamo così, vocazione naturale, ma anche della sua storia, tradizione e cultura umana.

    Insomma, le cose si complicano, rispetto all'epoca di Pope, perchè la componente culturale, umana, a volte può essere predominante e andare anche in contrasto con l'ambiente naturale; e comunque segna indelebilmente i paesaggi. Se prendiamo le grandi ville storiche, con i loro tracciati lineari, le siepi squadrate e le fontane immaginifiche, non possiamo di certo affermare che sono in perfetta armonia con l'ambiente che le circonda - di volta in volta boschi, colline, vaste campagne. Ma sono perfettamente adeguate al modello storico e culturale della loro epoca, e nelle linee di base trasportano nel linguaggio umano- fatto di strade, viali, gradini e terrazze- le misure e le proporzioni del sito; con il tempo hanno acquistato "gravitas" e si sono inserite, in maniera armoniosa e necessaria, nel loro paesaggio. Anche una campagna coltivata, con le vigne, i filari di cipressi ed i casali, è opera della mano dell'uomo, che ha modellato la natura; eppure ha un evidente "genius loci".

    Questa locuzione insomma oggi indica più che altro "l'essenza poetica ed ambientale" di un posto - immaginate un castello, una vecchia villa, un paesino medievale arroccato su un poggio - una inconfondibile atmosfera che lo rende unico, perfettamente inserito nel luogo, lo fa sembrare quasi necessario: non poteva che stare proprio lì. E' fatta di elementi naturali ed umani, perfettamente fusi ed armonizzati.

     
    Top
    .
  3. gheagabry
     
    .

    User deleted


    Perché Facebook è blu?



    Come è stato scelto il colore di Facebook? Zuckelberg racconta che è frutto del caso (e di un suo difetto), ma le tonalità dei loghi più famosi ci raccontano un’altra storia. Esistono sfumature che ci fanno aumentare l'appetito, ridurre l'aggressività, apparire più sexy, e, soprattutto, svuotare il portafoglio. Gli esperti di marketing lo sanno e sfruttano questi meccanismi psicologici per trasmettere emozioni e vendere di più. In queste pagine vi raccontiamo il lato nascosto dei colori, come il blu di Facebook ha fatto scuola nei siti internet, perché le banche hanno certi colori e i marchi del lusso un altro. E anche perché le squadre con la maglietta rossa vincono di più.

    Se le scatole di matite colorate contenessero un "blu Zuckerberg", gli oltre un miliardo di utenti attivi mensilmente su Facebook lo riconoscerebbero al primo colpo. Il colore del logo del più popolare social network - rimasto invariato dall'inizio della sua storia, nel 2004 - ha avuto un tale successo che molte altre "piazze" del web, seguendone la strada, hanno adottato il blu o l'azzurro come cifre distintive (basti pensare a Twitter, Flickr o LinkedIn).

    Ma se credete che la scelta di questo sfondo sia stata lunga e sofferta siete fuori strada: qualche anno prima di fondare Facebook, Mark Zuckerberg scoprì di avere una forma di daltonismo che lo rende cieco al verde e al rosso. «Il blu è il colore più ricco per me» dichiarò tre anni fa in un'intervista al New York Times «riesco a vederlo bene, nella sua interezza». La scelta del "papà" di Facebook si è rivelata un colpo di fortuna, ma solitamente il processo di selezione dei colori per il lancio di un nuovo prodotto, online o sugli scaffali dei supermercati, richiede analisi più complesse. I consumatori impiegano circa 90 secondi per elaborare un giudizio su un marchio e poiché la vista è il senso più sviluppato negli esseri umani, il 90% dell’attenzione che riserviamo a un logo è catturata dal suo colore.

    Rilevazioni elettroencefalografiche (EEG) effettuate su persone intente a esprimere una preferenza di colore hanno mostrato come l'attivazione cerebrale in risposta al proprio colore preferito (o a quello che attira di più lo sguardo) avvenga ancora prima che rivolgiamo consciamente la nostra attenzione su un marchio o un oggetto. La tonalità di un prodotto in commercio, in altre parole, colpisce il nostro cervello prima ancora che decidiamo di guardare quella merce.



    di: Elisabetta Intini,focus
     
    Top
    .
  4. gheagabry
     
    .

    User deleted


    Una tavolozza di emozioni



    Nel 1999 alcune zone di Glasgow, in Scozia, furono abbellite con file di lampioni a luce blu per l'illuminazione notturna. Da allora, i crimini nelle aree illuminate a nuovo sarebbero, secondo fonti locali, sensibilmente calati. Lo stesso esperimento fu tentato, nel 2005, in alcuni quartieri della prefettura di Nara, Giappone: il risultato? Furti, rapine e aggressioni sono diminuite del 9% nelle strade illuminate di blu, tanto che dal 2009 LED di questo colore sono stati sistemati anche in molte stazioni ferroviarie nipponiche, con l'intento di ridurre i tentativi di suicidio.

    Il blu, spiegano gli esperti, evoca sicurezza, affidabilità, serenità: l'effetto benefico sulla vita notturna potrebbe essere spiegato così (o con il naturale senso di disagio che si prova a stare sotto a una luce dai colori insoliti). Sono blu le luci notturne all'interno di molti aerei e i corridoi di numerose corsie d'ospedale; qui possiamo trovare anche il verde, che evoca calma, salute, freschezza (ma anche l'idea di natura e rispetto per l'ambiente).

    Giallo e arancione stimolano vitalità, positività, gioco e allegria; il viola è legato al concetto di spiritualità e mistero, mentre il nero comunica valore, prestigio, durevolezza e sofisticatezza di una merce: sono neri, o neri e bianchi, molti dei marchi delle eccellenze italiane della moda, come Armani, Gucci, Versace, Dolce e Gabbana.

    Sarà più facile fermarsi - e acquistare - in un negozio arredato con toni freddi piuttosto che in uno spazio con le pareti rosse. Questo, infatti, è il colore che più di tutti cattura l'attenzione: il colore dei segnali di stop, del sangue, che accelera il metabolismo, fa aumentare pressione e battito cardiaco e ci mette sul "chi va là": per questo motivo farebbe crescere anche l'appetito, spingendoci a mangiare più velocemente. Vi siete mai chiesti perché il packaging e l'arredo interno di molti fast food e ristoranti cinesi sia di questo colore?

    Le divise rosse sembrano dare agli atleti che le indossano maggiori chance di vittoria: alle Olimpiadi di Atene del 2004, chi ha gareggiato nel taekwondo, nella lotta libera e nella lotta greco-romana fasciato in una tuta rossa ha vinto il 55% dei match. Secondo i biologi evoluzionisti questo colore comunicherebbe salute (il bianco sarebbe, di contro, il colore degli anemici) e abbondanza di testosterone: quanto basta per intimorire l'avversario vestito di blu.

    Indossato dalle donne, ne aumenta esponenzialmente il sex appeal. Una ricerca effettuata lo scorso anno su 272 consumatori di ristoranti ha evidenziato come gli uomini tendano a elargire tra il 14,6% e il 26,1% di mance in più alle cameriere di rosso vestite. Del resto, anche il colore del piatto non è da trascurare: una cioccolata calda servita in una tazza arancione o color crema - l'ha dimostrato a gennaio una ricerca del Politecnico di Valencia, Spagna - sembrerà più dolce, una bibita servita in una lattina azzurra, più fresca, e un espresso in tazza scura risulterà probabilmente più amaro.



    Elisabetta Intini, focus
     
    Top
    .
  5. gheagabry
     
    .

    User deleted


    I colori per vendere, on e offline



    Sapevate che gran parte delle scelte cromatiche dei siti web è ideata per farci spendere di più? Perché le nuove banche optano spesso per il colore arancione? Quali sono i colori utilizzati dai più popolari brand al mondo e come cultura e genere sessuale influenzano le nostre preferenze cromatiche?

    Queste conoscenze vengono sfruttate tutti i giorni per farci visualizzare pagine, condividere contenuti e prosciugare le nostre carte di credito online. Il senso di urgenza che comunica il colore rosso, per esempio, cattura subito la nostra attenzione e ci spinge a fare in fretta. Non c'è da stupirsi, quindi, se le icone rosse saranno utilizzate nei web store che stanno vendendo prodotti in saldo.

    Il blu, che trasmette affidabilità, sarà spesso utilizzato per le operazioni online sui siti delle banche (dove si usa anche l'arancione, che comunica un senso di svecchiamento e di nuovo), mentre il verde sarà l'ideale per attrarre consumatori attenti all'aspetto ambientale.

    Il rosa svuoterà i portafogli delle giovani donne, il nero quello di chi acquista merce elegante e di valore. Icone gialle e arancioni sono spesso utilizzate per richiamare l'attenzione sulle vetrine (reali) e sul web per le icone che invitano a comprare, sottoscrivere un abbonamento o vendere online.

    Il colore determina per l'80% la riconoscibilità di un marchio: pensate al rosso e vi verranno probabilmente in mente la "C" di Coca Cola e l'etichetta delle scatole di Lego, ma anche, per rimanere su marchi nazionali, il cavallino della Ferrari, la sigla della Coop o la "S" dell'Esselunga. Se si vuole lanciare un prodotto, un sito o una start-up totalmente innovativa e originale, è preferibile optare per una tonalità di colore poco usata o non immediatamente associabile a un altro brand.



    Quando invece si vuole strappare la stessa fetta di pubblico alla concorrenza, si scelgono di solito colori analoghi, magari di sfumature leggermente diverse: pensate al pulsante "share" di Twitter e di Facebook, o alla scelta - ma in questo caso si è trattato di un pesce d'aprile ben architettato - di cambiare l'intero design di Gmail tingendolo di blu (lo scherzetto è stato poi trasformato in un'estensione dedicata al browser Chorme, scaricabile gratuitamente dal Chrome Web Store).

    I colori più usati dai 100 brand più popolari al mondo sono blu (nel 33% dei casi), rosso (29%), grigio o nero (28%) e giallo o oro (13%); il 95% delle grandi marche utilizza solo uno o due colori nel proprio logo.

    Prima di stabilire quali colori scegliere per la propria app, o per un nuovo prodotto da lanciare, è bene individuare il target a cui ci si rivolge. Secondo una ricerca commissionata da KISSmetrics, una piattaforma web americana che si occupa di marketing e analisi statistiche, le donne sul web amano il blu, il viola e il verde, mentre non gradiscono l'arancione, il marrone e il grigio; gli uomini preferiscono il blu, il verde e il nero, ma non amano il marrone, l'arancione e il viola.

    Anche la cultura di provenienza influenzerà la percezione del colore: il bianco, il rosso e il giallo, per noi simboli di purezza, passione e vitalità, sono i colori del lutto rispettivamente in Cina, Sudafrica ed Egitto.



    Elisabetta Intini, focus
     
    Top
    .
  6. gheagabry
     
    .

    User deleted


    PERCHE' SI DICE......


    "POVERO IN CANNA"



    Tz3wVm5
    Riguardo l'origine dell'espressione povero in canna 'poverissimo' sono state formulate diverse ipotesi. Per alcuni l'immagine rimanda ai miserabili che, in tempi antichi e premoderni, si aggiravano per le vie mendicando e si sostenevano appoggiandosi a una canna. Giuseppe Manuzzi, nel suo Vocabolario del 1833 (che rivedeva le bucce alla Crusca, rieditandone l'opera) pensava viceversa ad un'identificazione analogica tra la povertà della persona e la povertà della canna, vuota di materia.
    Altri si sono rivolti al dettato biblico, in particolare alla descrizione che Matteo (27, 27-29) dà di Cristo: «Quindi i soldati del governatore condussero Gesù nel pretorio e convocarono intorno a lui tutta la coorte. Toltegli le vesti, gli gettarono addosso un manto scarlatto e, intrecciata una corona di spine, la posero sulla sua testa con una canna nella destra». A partire dalla rappresentazione di Cristo denudato e vilipeso, la canna sarebbe stata associata alla povertà assoluta. Di certo, in numerosi significati figurati canna ha relazione con i campi semantici di fragilità, esilità, debolezza, inconsistenza, arrendevolezza. La prima attestazione nota nell'italiano scritto di povero in canna ci riporta alla più salda tradizione novellistica trecentesca, con Franco Sacchetti: «Tutti quelli che vanno tralunando ('osservando gli astri, strologando'), stanno la notte su' tetti come le gatte, hanno tanto gli occhi al cielo che perdono la terra, essendo sempre poveri in canna». (Francesco Masi)

    Nel dialetto di Manfredonia, ma anche in diverse altre località della Puglia, si incontra l’espressione nganna mérë ‘in riva al mare, sulla battigia’. La locuzione prepositiva nganna < *in canna , a volte raddoppiata, significa anche ‘al limite, all’ultimo istante’ oltre che, come abbiamo visto, ‘vicino, presso, a ridosso, vicinissimo’ con applicazione sia al tempo che allo spazio, come avviene normalmente in molte lingue per i complementi di tempo assimilati a quelli di spazio. Di conseguenza, proprio il concetto di “limite, punto estremo, orlo, termine, bordo” si colloca alla perfezione accanto alla parola povero dell’espressione idiomatica in questione, significando questa esattamente ‘poverissimo’ e cioè ‘povero al massimo grado’ o ‘povero al limite estremo’. (terremarsicane.it)


    "SCENDERE DAL LETTO COL PIEDE SINISTRO"



    R8WqUpll
    Quando qualcuno durante la giornata si dimostra particolarmente nervoso e di cattivo umore, la domanda classica che si sente rivolgere è: “Stamattina sei sceso dal letto col piede sinistro?”.
    Gli antichi Romani, negli atri (vestiboli) delle loro case, avevano un servo il cui compito era esclusivamente quello di avvisare sulla porta d’ingresso gli ospiti dicendo “Entra pure col piede destro”, ossia “Vai tranquillo, in questa casa oggi tutto va bene”. Infatti si entrava col piede sinistro solo in case in cui erano accaduti lutti, sventure o grane varie.

    Il modo di dire si ricollega alle molte antiche credenze relative alla parte destra e a quella sinistra, la prima benefica e dei giusti, la seconda malefica e riservata ai malvagi. Esser mancini, fino a tre secoli fa, poteva essere considerato indizio di stregoneria.(dal web)
     
    Top
    .
  7. gheagabry
     
    .

    User deleted


    PERCHE' SI DICE..


    ACQUA IN BOCCA


    E' la tipica esortazione a mantenere il segreto, a non lasciarsi sfuggire una parola di quanto si è detto in stretta confidenza.
    All'origine del detto sarebbe un aneddoto raccontato dal lessicografo fiorentino PietroGiacchi: secondo tale aneddoto, una donnetta maldicente ma devota prego il suo confessore di darle un rimedio contro quel peccato. Un giorno il prete le diede una boccetta d'acqua di pozzo,raccomandandole di tenerla sempre con se' e di versarne qualche goccia in bocca, tenendo questa ben chiusa, ogni volta che fosse assalita dalla tentazione di sparlare del prossimo. Cosi' fece la donna, e ne trasse tanto giovamento da ritenere che quell'acqua avesse virtu' miracolose.


    TOGLIERE LE CASTANE DAL FUOCO



    Il detto togliere le castagne dal fuoco ha il significato di procurare un vantaggio ad altri, affrontando una situazione problematica, assumendosi quindi il rischio. Oppure, al contrario, far correre ad altri i pericoli di un’impresa, per poi trarre proprio vantaggio dal risultato.
    Il detto completo è “togliere le castagne dal fuoco con la zampa del gatto” e deriva da una favola di Jean De La Fontaine, scrittore e poeta francese, (Fables, IX,17) che narra le vicende di una scimmia che, mentre riposava insieme al gatto vicino al focolare, vide sotto la cenere alcune castagne molto gustose ma difficili da prendere a causa del calore della brace. Con furbizia, la scimmia solleticò la vanità del gatto, lodandone le qualità, e lo convinse così a togliere le castagne dal fuoco. Il gatto si bruciacchiò le zampe, anche se non era interessato a cibarsi delle castagne. A sua volta pare che Jean De La Fontaine abbia preso spunto da versioni precedenti, scritte da altri autori come Maioli, Noel du Fail e Régnier, dove però la scimmia afferra direttamente la zampa del gatto per togliere le castagne dal fuoco.

    LA SPADA DI DAMOCLE



    Spada di Damocle ha il significato di “minaccia incombente”
    Utilizzata nel linguaggio comune con il significato di minaccia incombente, la locuzione “spada di Damocle” si è diffusa a partire dal diciannovesimo secolo, pur avendo origini molto antiche. Si dice infatti che “pende sul capo di qualcuno la spada di Damocle”, per riferirsi ad un pericolo che potrebbe realizzarsi da un momento all’altro.
    Damocle è un personaggio della mitologia classica greca. L’aneddoto da cui ha origine l’espressione di uso comune “spada di Damocle” viene riferito per la prima volta dallo storico Timeo di Tauromenio nella “Storia di Sicilia”, poi ripreso da Cicerone nelle “Tusculanae Disputationes”. La leggenda narra del principe Damocle, che si trovava presso la corte del tiranno Dionigi I il Vecchio, nel IV secolo a.C. Damocle era un grande adulatore, e non perdeva occasione nel ricordare a Dionigi quanto fosse fortunato a godere di tanta autorità e prestigio per il suo ruolo di tiranno. Dionigi gli rispose allora di prendere il suo posto per un giorno per capire se davvero lui fosse così fortunato come la maggior parte delle persone credeva. Lo invitò quindi a partecipare al banchetto, pieno di tantissimi cibi buonissimi, e lo fece sedere al suo posto. Solo alla fine della fastosissima cena, alzando il capo, il cortigiano Damocle si accorse che su di lui pendeva una spada sorretta soltanto da un crine di cavallo, messa in modo così precario che poteva cadergli da un momento all’altro. Impaurito, Damocle pregò il tiranno di andare via e tornare nei suoi panni di umile cortigiano. Dionigi aveva posizionato la spada sulla testa di Damocle per fargli capire quanto sia in realtà insicura ed esposta a mille pericoli la posizione di un uomo potente.
    Il messaggio è chiaro: non si può invidiare la posizione o lo status di qualcuno che vive costantemente nel pericolo di perdere tutto. I potenti della terra, che tanta invidia suscitano, di certo hanno mille e più spade di Damocle che penzolano quotidianamente sulle loro teste, impegnati come sono a difendere il potere spesso faticosamente raggiunto, il più delle volte ottenuto eliminando gli avversari dal loro cammino.
     
    Top
    .
  8. gheagabry
     
    .

    User deleted


    I PERCHE'....



    Ad usum Delphini



    La locuzione nasce in Francia, dove veniva stampigliata sulla copertina dei testi classici (greci e latini) destinati all'istruzione del figlio del Re Luigi XIV e di Maria Teresa d'Austria, l'erede al trono Luigi, il Gran Delfino. I testi venivano epurati dei passaggi ritenuti più scabrosi o comunque inadatti alla giovane età del Delfino. La collezione di libri ad usum Delphini comprende 64 volumi stampati tra il 1670 e il 1698 per ordine del precettore del Gran Delfino, Charles de Sainte-Maure, duca de Montausier e sotto la supervisione di Jacques Bénigne Bossuet e di Pierre-Daniel Huet. Ma la frase in usum Delphini appare anche nelle edizioni successive che non avevano alcun collegamento con la casa reale di Francia. In tali edizioni questa frase "in usum Delphini" indica semplicemente che la versione è progettata per i lettori più giovani o a chi non è ancora abituato alla lettura dei testi di scrittori antichi. Questo testi, stampati a Parigi, vennero anche usati in parecchie scuole, soprattutto in quelle gestite da religiosi. Oggi la frase viene usata in senso spregiativo, riferendola a una cosa, a una verità manipolata e adattata al solo scopo di compiacere una data persona o parte, e in genere a notizia "addomesticata", che cela parte della verità, travisandola.

    Gettare polvere negli occhi



    Produrre un annebbiamento della vista con illusioni e falsità, fare in modo che altri non s'accorgano di qualcosa che conviene tenergli nascosto.
    C'è il detto latino: "Pulverem oculis offundere". Nell'antichità, nella corsa a piedi, il corridore che nello stadio precedeva gli altri, con la polvere che sollevava offuscava la vista di quelli che lo seguivano, mentre lui vedeva nettamente la distanza che lo separava dalla meta.


    Cherchez la femme



    Cercate la donna. Questa frase è stata resa popolare da A. Dumas padre, che la fa pronunciare ad un poliziotto parigino. L'espressione viene dal libro del 1854 I Mohicani di Parigi. Il passaggio originale è:

    Il y a une femme dans toute les affaires; aussitôt qu'on me fait un rapport, je dis: 'Cherchez la femme'.

    Il poliziotto, ad un certo punto dice: "In ogni affare c'è sempre una donna; quando i miei subordinati mi presentano un rapporto su un certo reato, io dico loro: Cherchez la femme! E infatti una volta trovata la donna, non si tarda a scoprire il colpevole: l'uomo".
    Oggi, la frase ha semplicemente assunto il significato di "Cerca la causa che sta alla radice del problema."
     
    Top
    .
  9. gheagabry
     
    .

    User deleted


    PERCHE' SI DICE....



    “REPUBBLICA DELLE BANANE”?



    La prima volta che venne utilizzata l’espressione “repubblica delle banane” fu in un racconto dell’americano O. Henry (Williams Sydney Porter), uno scrittore nato nel 1862 che ebbe una vita molto avventurosa. Nel 1904 pubblicò una raccolta di racconti brevi dal titolo Kings and Cabbages (“Re e cavoli”).
    Uno dei racconti, “L’ammiraglio”, era ambientato in una stato di fantasia, la repubblica di Anchuria. Porter descriveva Anchuria come un piccolo stato indipendente la cui economia era completamente basata sulle esportazioni di banane. Nel racconto questa situazione attira sul piccolo paese l’interesse di alcune grandi società americane che ottengono il monopolio delle banane, corrompendo la classe politica, finanziando colpi di stato e, in poche parole, fanno il bello e il cattivo tempo.
    Queste società possedevano i porti e le ferrovie, che aveva costruito in cambio di concessioni sulla terra, controllavano immense piantagioni e, di fatto, gestivano l’economia del paese che a quel punto era tutta basata sulla monocultura della banana. Interferirono più volte nel governo di quei paesi, favorendo quelle fazioni e quei gruppi che si dimostravano più pronti ad assecondare i loro interessi. Erano spesso stati fantoccio, dove gli interessi del paese erano subordinati a quelli delle multinazionali che esportavano la monocultura locale (banane, caffé, canna da zucchero) e alle élite locali che guadagnavano da questa situazione.
    Con il passare degli anni e l’inizio della decolonizzazione in Africa, il termine si è ampliato ed è iniziato ad apparire anche nei manuali di dottrine politiche e di storia. La definizione di repubblica delle banane oggi è quella di un paese largamente dipendente dall’esportazione di un unico prodotto o materia prima (banane o caffè, ma anche risorse naturali come petrolio, oro o diamanti).
    Il termine “repubblica delle banane” nell’ultimo secolo ha avuto una grande fortuna, tanto da essere adottato in ambito scientifico, e ha avuto anche la sua diffusione letteraria. Nel 1950 venne utilizzato nel poema Canto General di Pablo Neruda. Nel romanzo Cent’anni di solitudine, la città immaginaria di Macondo diventa ad un certo punto dominata dai grandi coltivatori di banane.
    Il termine è diventato probabilmente di uso comune grazie una commedia. Nel 1971 uscì al cinema Il dittatore dello stato libero di Bananas di Woody Allen. Nel film si racconta la storia di un immaginario paese dell’America Latina che attraversa tutte le varie fasi tipiche delle “repubbliche delle banane”: assassini politici, colpo di stato militare sponsorizzato da gruppi economici e dalla CIA e una rivolta armata di ispirazione socialista.
     
    Top
    .
  10. gheagabry
     
    .

    User deleted


    “Che cosa c’è in un nome?”
    (Shakespeare)


    I MARCHI PIU' FAMOSI

    L'Origine dei nomi


    Adobe


    La Adobe, azienda produttrice dei software più amati dai designer, è stata chiamata così dal co-fondatore John Warnock dal fiume “Adobe Creek” che scorreva dietro la sua casa.

    APPLE


    Il logo fu disegnato nel 1977 da Rob Janoff, che lo creò per fare un favore a Regis McKenna, suo datore di lavoro e amico di Steve Jobs. Janoff per aver l’ispirazione andò al supermercato dove acquistò un sacchetto di mele, poi tornò a casa, le tagliò, le dispose sul tavolo e iniziò a osservarle. Dalle mele tagliate Janoff estrasse una semplice mela monocromatica con un morso. Il logo venne presentato a Jobs ma questo richiese un logo con più colore. Janoff rispose alle obiezioni di Jobs dicendo che un logo monocromatico era più semplice e economico da stampare ma Jobs rispose che il colore avrebbe permesso di “umanizzare” la società. Il grafico quindi prese il logo e aggiunse le bande colorate secondo la sua ispirazione del momento.
    Questo logo è spesso erroneamente considerato un tributo ad Alan Turing, con la mela morsicata che fu, molto probabilmente, il modo in cui egli s’uccise. Sia Janoff che la apple negano ogni forma d’omaggio a Alan Turing nel design del logo.
    Il logo Apple venne immediatamente abbinato con lo slogan “BITE THAT APPLE” quando furono in commercio Apple I e Apple II

    CHUPA CHUPA


    Il logo della Chupa Chups fu creato dal pittore surrealista Salvador Dalí. Quando fu lanciato per la prima volta, esso era accompagnato dallo slogan “És rodó i dura molt, Chupa Chups”, che in catalano significa “È rotondo e dura molto, Chupa Chups.” Si dice che lo avrebbe disegnato in un’ora, scarabocchiandolo furiosamente sul foglio di un giornale mentre era seduto ad un bar con Enric Bernard, fondatore dell’azienda

    COCA-COLA


    Il celebre logo della Coca-Cola fu creato con scarsa attenzione nel 1886 dal contabile dell’azienda, Frank Mason Robinson, che fece solo alcuni piccoli ritocchi alla scritta, utilizzando come base il carattere Spencerian Script, che in quel tempo, negli Stati Uniti era fra i più comuni e utilizzati. Si lega a questo logo una leggenda metropolitana che si è diffusa piuttosto rapidamente nel mondo: sembra che osservando la scritta Coca-Cola allo specchio sia possibile interpretare l’immagine come una frase in lingua araba che recherebbe un messaggio contro la cultura islamica, “No a Maometto, No alla Mecca”, no alle preghiere. In realtà è improbabile che al momento della creazione di questo logo, quando ancora non esisteva la multinazionale The Coca-Cola Company e nessuno si sarebbe aspettato il successo a livello mondiale che la bevanda avrebbe riscosso, si pensasse di inserire un simile messaggio all’interno del celebre logo. Anche il Grand Mufti Sheik Nasser Farid Wassel, importante figura religiosa egiziana, ha commentato questi fatti facendo notare come questo marchio fu scritto in caratteri latini e non arabici più di un secolo fa; è dunque una voce che ha soltanto danneggiato la multinazionale, con un forte calo delle vendite registrato in alcuni paesi islamici.
    Per il 100º anniversario della Coca-Cola, nel 1986 è stato creato in Cile, sul fianco di una montagna, il più grande logo Coca-Cola del mondo. Sono state utilizzate circa 70 000 bottiglie di Coca-Cola e la scritta risulta di circa 30 per 120 metri.

    GOOGLE


    Il nome del motore di ricerca più famoso del mondo deriva dalla parola del gergo matematico googol che indica la cifra formata da un 1 seguito da 100 zeri (10100) : chiaro il riferimento all'obbiettivo di indicizzare un numero di pagine web enorme. Da notare che il termine venne "coniato" dal nipote (di 9 anni) del matematico che introdusse l'uso del googol.

    I LOVE NEW YORK


    I Love New York è un logo dell’artista e designer Milton Glaser creato nel 1976 e commissionato dal Department of Commerce di New York per promuovere il turismo nella città statunitense.
    È tra i più noti e prestigiosi simboli della città (e dello stato) di New York ed è un marchio divenuto un’icona degli anni settanta, riprodotto su un’infinità di poster, gadget e capi di abbigliamento.
    È costituito dalla lettera maiuscola I seguita dal simbolo del cuore ♥ e dalle lettere NY, acronimo di New York: il font usato è l’American Typewriter.
    Nel 2001, dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, Glaser creò un’altra campagna per la città di New York, ripetendo lo stesso marchio senza le due aste della N (simulando quindi visivamente la scomparsa delle due torri) e aggiungendo la scritta

    IKEA


    L'azienda venne fondata da Ingvar Kamprad nel 1943; a 17 anni, Kamprad ricevette un premio dal padre per il suo impegno nello studio e lo usò per dar vita alla sua attività. Il nome IKEA è l’acronimo delle iniziali del fondatore (I.K.) e di Elmtaryd e Agunnaryd, la fattoria e il villaggio dove Kamprad crebbe. Inizialmente IKEA vendeva penne, portafogli, cornici, orologi, gioielli, calze di nylon... tutto ciò di cui la gente aveva bisogno e che Ingvar riusciva a procurare a un prezzo ridotto.

    NUTELLA


    Il nome Nutella nasce nel 1964 per sostituire il precedente "Supercrema Giandujot" (una legge vietò l'uso del suffisso "super" nei nomi per alimenti). La radice del nome è formata dalla parola inglese nut (pronuncia : nàt) ovvero "nocciola", uno degli ingredienti della famosa crema spalmabile. Il suffisso -ella rendeva il nome facile da pronunciare e da ricordare ma soprattutto lo rendeva tipicamente italiano.

    NIKE


    La Nike Inc. nasce il 25 gennaio 1967, quando Bill Bowerman (allenatore della Oregon University) e Phil Knight (studente della facoltà di Economia) creano un marchio per importare scarpe sportive dal Giappone (Blue Ribbon, che importava le scarpe dalla giapponese Onitsuka Tiger, in seguito divenuta Asics). Scelsero il nome “Nike” fra le tante proposte fatte dai 45 collaboratori dell’epoca, perché nella mitologia greca l’omonima dea simboleggiava la vittoria. Il nome venne consigliato da Jake Johnson, uno dei collaboratori di Knight. Il logo dell’azienda è invece da sempre il cosiddetto Swoosh.
     
    Top
    .
  11. gheagabry
     
    .

    User deleted


    I PERCHE'......


    OCCHIO PER OCCHIO, DENTE PER DENTE



    La frase sulla giustizia esemplare risale a ben 4000 anni fa "La giustizia renda a ciascun colpevole lo stesso danno che ha commesso: Occhio per occhio, dente per dente”
    Richiama l’equivalenza fra il danno e la pena, la così detta “legge del taglione”. La prima testimonianza certa di questo modo di amministrare il diritto penale risale addirittura al Codice di Hammurabi, racconta di leggi emanate dal re di Babilonia nel 1700 avanti Cristo. Nel codice molte pene corrispondono, a meno che la vittima non sia uno schiavo, nel qual caso bastava pagare una multa. Lo stesso principio è applicato nella Bibbia, da cui proviene la formulazione esatta della frase: “Se uno farà una lesione al suo prossimo, si farà a lui come egli ha fatto all’altro: frattura per frattura, occhio per occhio, dente per dente” (Levitico 24, 19-20). Oggi la frase richiama la vendetta, mentre nell’antichità serviva piuttosto a circoscrivere i limiti del diritto di rivalsa e di faida.


    A CHI PAGANINI NON VOLLE RIPETERE?



    Un singolare “incidente diplomatico”,che vide protagonista l’acclamato compositore genovese, è l’origine della famosa frase “Paganini non ripete”. Nel febbraio 1818, al Teatro Carignano di Torino, questi si esibì in eccellente performance, che lasciò entusiasti gli spettatori, tra cui Carlo Felice di Savoia. Il futuro re di Sardegna, particolarmente ammaliato dalla bellezza della musica appena ascoltata chiese il bis. L’artista, però, era solito improvvisare le sue esecuzioni e, quindi, incapace di replicare, anche per colpa di una probabile ferita ai polpastrelli, causata dalla passionale dedizione che metteva in ogni suo concerto. Dovette, così, rifiutare la richiesta e inoltrare il celeberrimo messaggio a Carlo Felice: “Paganini non ripete”. Il Savoia rispose con sdegno alla notizia e al musicista fu annullato il successivo concerto programmato per la sua tournée.

    Perché il foglietto illustrativo dei farmaci
    viene chiamato bugiardino?



    «Il termine bugiardino, utilizzato per indicare il foglietto illustrativo che accompagna i farmaci, deriva dall'aggettivo bugiardo con il suffisso del diminutivo -ino, adatto sia in riferimento alle dimensioni dell'oggetto sia per attenuare, con una vena di ironia, l'appellativo di bugiardo. Ci sono alcune ipotesi che il nome sia nato da un uso nominale dell'aggettivo bugiardo: in Toscana, nell' area senese, gli anziani ricordano che il bugiardo era la locandina dei quotidiani esposta fuori dalle edicole e da qui, riducendo le dimensioni del foglio, si è forse potuti arrivare a chiamare bugiardino il foglietto dei medicinali. Nel libro di G. Gelati, "Parlare livornese "(Ugo Bastogi Editore, 1992) si trova la voce bugiardello così definita: "durante il fascismo era così chiamato dagli antifascisti il giornale «Il Telegrafo» che si diceva essere proprietà della famiglia Ciano".
    Il nome attrarre sulle prerogative de "istruzioni per l'uso" che, soprattutto negli anni di boom della farmacologia, tendevano a sorvolare su difetti ed effetti indesiderati del farmaco per esaltarne i pregi e l'efficacia. Non erano quindi vere e proprie "bugie" quelle che vi si potevano leggere, ma nell'insieme il foglietto risultava un "bugiardino" che diceva piccole bugie o, meglio, ometteva informazioni importanti ma che potevano essere compromettenti per il prodotto. Negli ultimi anni, grazie a restrizioni legislative che hanno imposto regole più rigide per la compilazione dei foglietti illustrativi e anche grazie ad una maggiore attenzione dei consumatori nell'assumere farmaci, siamo forse arrivati ad ottenere che siano riportate sul bugiardino tutte le notizie importanti riguardo al farmaco. La mancata trasmissione di informazioni dovuta e alla qualità e alla quantità delle indicazioni (non far capire è quasi come non dire), continua a giustificare l'appellativo di bugiardino.(accademiadellacrusca.it)
     
    Top
    .
  12. gheagabry
     
    .

    User deleted


    I PERCHE'


    INDORARE LA PILLOLA



    L’espressione viene usata per descrivere situazioni spiacevoli che vengono presentate in maniera positiva, per cercare di alleviarne la negatività. Si sa che inghiottire una pillola non è una operazione particolarmente piacevole, e di per sé le pillole non sono gustose. Per questo sono stati previsti nel processo di produzione del farmaco trattamenti tali da renderne il gusto più piacevole. Come diceva Mary Poppins, del resto, "basta un poco di zucchero e la pillola va giù".

    "Un tempo (e ancora oggi, in qualche parte del mondo) tutte le pillole venivano fabbricate a mano. Il farmacista, seguendo ricette scritte sui formulari di Farmacopea, prima pestava in un mortaio insieme ad agglutinanti (miele, glicerina ecc) erbe, succhi, polveri minerali, semi, droghe, insomma tutti i componenti adatti alla malattia da curare. Poi stendeva la pastetta ottenuta su un apposito strumento detto pilloliere. Infine la pressava con la parte superiore del pilloliere, formando dei tubicini che venivano poi tagliati in pillole. Però avevano alcuni difetti: soffrivano l’umidità, e non potevano essere conservate facilmente; non erano facili da inghiottire, essendo ruvide e “polverose”; una volta a contatto con la saliva si disfacevano sulla lingua, diffondendo il sapore spesso non piacevole negli ingredienti, solitamente amari e nauseanti.
    Così, per evitare tutti quegli inconvenienti, si prese l’abitudine sia rotolarle in povere di liquerizia, sia di “confettarle” nello zucchero, sia di ricoprirle con un leggerissimo velo di argento o d’oro, chiudendo le pillole in speciali bussolotti assieme a foglie d’argento o oro e scuotendole a lungo.
    Oggi si dice “indorare la pillola” quando, cercando di rendere meno amara e sgradevole a qualcuno una notizia o una decisione non bella che lo riguardi, si tenta di presentargliela “mascherata” nel modo il più piacevole possibile."©Mitì Vigliero


    Troppa grazia sant'Antonio!


    Vuol dire ottenere più di quanto si desidera, con risultati spesso non del tutto positivi.
    L’espressione nasce da una leggenda secondo la quale un contadino di Poggioreale, povero, stanco e con la schiena a pezzi per il troppo lavoro, aveva bisogno di un asino per poterlo aiutare a lavorare nei campi.
    Andò dal proprio “padrone” e gli chiese se potesse aiutarlo. Il “padrone”, persona molto sensibile e generosa, gli regalò un mulo. Il contadino gliene fu grato, lo portò nella sua terra e provò a cavalcarlo. Il mulo, però, era molto alto e il contadino non riuscì a salirci sopra, inoltre, la vecchiaia e il lavoro duro non gli permettevano di fare grandi sforzi. Iniziò a piangere davanti alla stalla e lo vide un prete che, dopo aver ascoltato la storia, gli disse che per ricevere la grazia avrebbe dovuto pregare Sant’Antonio. Il contadino iniziò a pregare il santo ma neanche le preghiere lo aiutavano, provava e riprovava ma il mulo non riusciva proprio a cavalcarlo.
    Pregò con lui anche la moglie ed i vicini e, giusto quando tutti erano attorno a lui congregati, il contadino prese la rincorsa per provare a salire sul mulo gridando: “Sant’Antonio fammi sta grazia”. Detto questo fece un salto altissimo, ma così alto, che superò il mulo e cadde dall’altra parte della bestia. A quel punto urlò: “Troppa grazia Sant’Antonio!!!!”

    De gustibus non est disputandum



    Sui gusti non si discute. Cesare Caio Giulio sembra che usasse temperanza nel consumo del cibo, ma già al suo tempo a Roma era stato realizzato il primo mercato di specialità gastronomiche. I nobili romani, amanti della vita gaudente, attribuivano al piacere della tavola una dei massimi valori, e credevano che i propri gusti fossero i soli da ritenersi “civili”. A questo proposito vogliamo raccontare un episodio su Giulio Cesare. Il fatto, riportato da Plutarco, sarebbe avvenuto mentre era governatore della Cisalpina dal 59 al 55 a.C. Una sera Cesare andò assieme ai più stretti collaboratori ospite nella domus milanese del ricco ed influente Valerio Leone. Tra le portate venne servita una magnifica preparazione di asparagi conditi con il burro. Ai generali la pietanza non piacque affatto (abituati all’olio d’oliva e non al burro, usato a Roma come unguento), così la indicarono come cibo “barbaro” non adatto al loro palato. Di fronte all’imbarazzante situazione Cesare, da uomo intelligente ed avveduto, placò gli animi con la frase: “de gustibus non disputandum est” (non si può discutere sui gusti personali). In poche parole aveva fatto capire ai suoi ufficiali, che non si obbietta quando si viene ospitati da qualcuno.

    Lanciare una sfida



    Lanciare una sfida significa proporre a qualcuno in maniera anche provocatoria di compiere una certa azione o di raggiungere un obiettivo. Trae origine dai duelli che si svolgevano nel tardo medioevo, che prevedevano che chi sfidava dovesse formalizzare la volontà di risolvere la contesa con uno scontro schiaffeggiando tramite un guanto l’avversario.

    Raccogliere la sfida



    Si usa questa espressione quando si vuole indicare il fatto che si accetta di partecipare ad una impresa, ad una proposta. Il riferimento è relativo alle regole dei duelli che si tenevano nel tardo medioevo. Queste infatti prevedevano che lo sfidante, per lanciare la sfida, schiaffeggiasse con un guanto il volto dello sfidato per poi lanciarlo per terra. Lo sfidato, per indicare che la sfida era stata accettata, doveva a quel punto raccogliere il guanto.

    ..IL DUELLO..



    Duello (dal latino arcaico duellum (= bellum), scontro fra due "campioni"). - Nella sua prima origine, risalente agli albori dell'umanità, è la forma embrionale, rudimentale di guerra, il mezzo brutale a cui ricorre l'individuo isolato contro il suo simile nella lotta per l'esistenza. Questo carattere primitivo del duello si mantiene tenacemente nel corso della civiltà, pur addolcito e temperato dalle mutate condizioni di vita, e trasformato, da lotta bruta per la reciproca sopraffazione, in gara di coraggio, di valore e destrezza guerresca. Menelao e Paride nel IV dell'Iliade, e meglio ancora gli Orazi e i Curiazî dell'antichissima tradizione romana, non combattono più per individuale prova di valore, ma come rappresentanti dei rispettivi eserciti in momentanea tregua, per troncare con la minima effusione di sangue la guerra in corso.[..] La pratica non cessava, confermata com'era ancora da Carlomagno e da Ludovico il Pio. D'altronde, sebbene la Chiesa avesse già assunto un atteggiamento ostile al duello giudiziario (esplicitamente condannato dal concilio di Valenza nell'855), non era raro il caso di vescovi e abati che, allo scopo di rivendicare diritti temporali, scegliessero proprio il duello, s'intende per mezzo di campioni. Ancora nel 1098, scendono in campo i campioni delle comunità religiose di Talmont e di Marmoutier, in Francia; e in Spagna, la questione del rito mozarabico, discussa nel concilio di Burgos del 1077, venne definita da un duello, che vide trionfare il campione della lex toletana, cioè mozarabica.
    Se dunque anche per la Chiesa è possibile trovare esempî di duelli giudiziarî in età abbastanza recente, non ci si deve meravigliare se la pratica continuasse ancor più tardi presso i laici, e se ottenesse ancora pieno riconoscimento nei testi legislativi. Fuori d'Italia infatti, il duello giudiziario continua ad avere il suo valore di prova; e la procedura di esso continua a essere fissata, anche da ordinanze regionali e sovrane (per es. in quella, celebre, di Filippo il Bello del 1306). E anzi, mentre prima al duello erano ammessi soltanto i liberi e i nobili, ora, col sec. XII, in Francia si cominciano ad ammettere anche i servi, che possono combattere contro l'uomo libero, anche con notevole differenza: i nobili combattevano fra loro a cavallo, con le armi solite da guerra; i servi - e così pure i campioni, quando le parti contendenti dovessero ricorrere a essi - combattevano invece con uno scudo e un bastone.
    L'influsso del diritto romano sulla legislazione doveva tuttavia condurre alla scomparsa del duello giudiziario. Nelle nuove formazioni statali del basso Medioevo, mutate le condizioni di vita, divenuta più forte l'autorità centrale, e quindi più sicura l'amministrazione della giustizia; con l'avvento del nuovo diritto, che conosceva ben altri mezzi di prova e si fondava su una ben diversa coscienza giuridica, il duello doveva sempre più apparire come un mezzo troppo barbaro per assicurare il trionfo della giustizia. D'altra parte la Chiesa, che nell'alto Medioevo non sempre aveva assunto una posizione decisa né coerente, ora condannò risolutamente la pratica, la quale andò così declinando, per scomparire poi del tutto con l'età moderna.
    Ma allo scomparire del duello, come mezzo di prova giudiziaria, si andava contrapponendo lo sviluppo assunto dal duello per il cosiddetto punto d'onore. Il nuovo duello si riallacciava ai tornei, che erano in realtà null'altro che una serie di combattimenti fra due cavalieri. Lo spirito cavalleresco medievale prendeva nuova forma. Vi sono, si dice, offese che la legge non può colpire, ma che un uomo di onore, un cavaliere, non può lasciar impunite: ed ecco allora la necessità, per lui, di ricorrere alla sfida. Il duello doveva facilmente degenerare; e il più insignificante pretesto bastava, a chi fosse di spirito litigioso, per chiedere spiegazione sul terreno all'avversario. S'inizia così un nuovo periodo che ha una delle sue manifestazioni più celebri nel duello tra due gentiluomini francesi, La Châteigneraie e Guy Chabot, sire di Jarnac, nel 1547. E poiché la consuetudine è diffusa, si palesa la necessità di elaborare anche le norme che al duello devono presiedere.
    La sfida deve essere lanciata pubblicamente; i due avversari scendono sul terreno a torso nudo, senz'altra arma che la spada. Li assistono due o tre amici; ma in breve questi non si limitano più a osservare i loro primi, e incrociano pure il ferro tra di loro sposando la questione dei loro primi. Successe così che, per una questione concernente due gentiluomini, sei e anche otto persone combattessero, trasformando il duello in una cruenta piccola battaglia. Celebre restò il combattimento del 27 aprile 1578 fra tre dei mignons di Enrico III di Francia e tre favoriti della casa di Guisa.
    Né, a infrenare la mania duellistica, bastò la condanna della Chiesa, in una celebre dichiarazione del concilio di Trento: scomunica per re, principi e signori che a qualunque titolo abbiano concesso il terreno per battersi; scomunica e proscrizione dei beni per duellanti e padrini; agli uccisi in duello negata la sepoltura in terra consacrata; anche per gli spettatori la scomunica. Né valse l'intervento di sovrani come Enrico IV, che, impressionato dalla mania duellistica, richiamò in vigore nel 1602 l'ordinanza del 1599, che affidava ai marescialli di Francia e ai governatori delle provincie di comporre le questioni d'onore. Influenza maggiore ebbero le pene stabilite da Luigi XIII su proposta di Richelieu, che giungevano, come in Spagna, fino all'esecuzione capitale, alla confisca dei beni, alla cessazione delle funzioni esercitate, al bando; queste pene ebbero talvolta applicazione, come nel caso del conte di Boutteville. Ma dopo la morte di Richelieu la smania del duello riprese: sorse anzi il duello alla pistola. E il contrasto fra la legislazione, avversa al duello, e la pratica, continua sino a tempi recentissimi. Un momento diminuiti durante il consolato e l'impero di Napoleone, i duelli ricominciarono in fitta serie con l'inizio della Restaurazione; la quale proibì bensì il duello nel nome della Chiesa, ma con risultato modesto. Ricordiamo tra i duelli celebri quello tra A. Carrel ed Émile de Girardin, e quello tra C. T. Floquet e il generale Boulanger. Politica e giornalismo originarono sfide e duelli in Inghilterra e in Italia, ove la ripresa delle armi determinata dall'invasione francese rinnovò lo spirito bellicoso. Non può essere dimenticato il duello tra il generale Pepe e il Lamartine per un'infelice espressione di questo sull'Italia; e nel 1897 il conte di Torino sfidava e feriva in duello Filippo d'Orléans per le sciocchezze scritte, a proposito della battaglia di Adua, contro gl'Italiani.
    Specialmente nei paesi germanici il duello aveva la sua massima fortuna, nonostante che Federico il Grande avesse emanato leggi contro il duello, applicate poi senza molto rigore. Il duello era all'ordine del giorno specialmente tra gli studenti universitari; esso non era uno scontro attenuato come divenne poi, ma un duello vero e proprio; per altro, in caso di morte, il duellante superstite veniva escluso dall'università alla quale apparteneva, e se recidivo, da tutte le università. A poco a poco tuttavia si passò tra gli studenti delle università e dei politecnici, al duello con la Mensur, tuttora frequente. La tradizione vuole che lo studente per essere ammesso nelle associazioni debba fornire una prova del suo coraggio battendosi almeno una volta con un compagno; nello scontro si deve mirare solo al viso e colpire di taglio; gli occhi sono protetti con occhiali. Questi duelli, in generale, hanno per risultato uno sfregio.
    Sulla fine del sec. XIX tuttavia s'iniziava una forte reazione contro il duello nata dalla convinzione ormai diffusa che il duello non fosse né prova di coraggio, né proporzionato nella sua gravità alle offese, vere o presunte, che si volevano con esso vendicare. Era la coscienza moderna stessa che protestava contro l'usanza duellistica. S'iniziò così il movimento antiduellistico che in Italia cominciò verso il 1902 per iniziativa del marchese Crispolti. Il 21 dicembre si costituì in Roma la Lega nazionale antiduellistica. Nel 1903 se ne fondò a Milano una lombarda. Nel 1906 accettò la presidenza delle leghe antiduellistiche l'on. Zanardelli, allora presidente del Consiglio dei ministri. Nel 1905 si stabilirono le norme per la costituzione dei giurì d'onore, e nell'anno seguente il congresso degli ex ufficiali votò un ordine del giorno per chiedere la soppressione del duello nell'esercito. E il movimento si allargò in tutti i campi: il generale Viganò, ministro della Guerra, si dichiarò avverso al duello; e nel 1908, in un'ordinanza diretta all'esercito e alla marina, disponeva perché le querele di non grave entità fossero risolte per mezzo del giurì d'onore. Nel 1908 fu anche presentato alla Camera un disegno di legge contro il duello. Vittorio Emanuele III accettò l'alto patrocinio della lega antiduellistica.
    In Francia, dove il duello aveva avuto una diffusione molto maggiore che non in Italia, nel 1900 J. De Boury, per delega di don Alfonso di Borbone (v. sotto), iniziò il movimento antiduellistico moderno e nell'anno seguente costituì a Parigi il primo comitato. Nel 1902 fu istituito il primo tribunale d'onore; nel 1903 fu fatta presentare al Senato una legge contro il duello, e nel 1907 il ministro della Guerra esonerò gli ufficiali dall'obbligo di battersi.
    In Spagna, nei tempi più vicini a noi, politica e giornalismo furono come altrove grandi sorgenti duellistiche. In una riunione tenuta dai giornalisti in Madrid (1885) si stabilì la formazione dei giurì d'onore. Il movimento antiduellistico cominciò nel 1904. La lega antiduellistica si costituì in Madrid sotto la presidenza del marchese di Heredia: nel 1908 si contavano già 32 leghe con ventimila aderenti.
    In Germania, la prima assemblea contro il duello si riunì a Lipsia nel 1902. Nel 1907 contava 20 comitati locali e tremila soci. In Austria il movimento antiduellistico s'iniziò nel 1901. Il comitato compilò un regolamento che ottenne l'approvazione del governo; la lega generale si costituì nel 1904 e procedette alla formazione di leghe antiduellistiche universitarie. Nel 1908 il ministro della Guerra emanò un decreto per abolire il duello e organizzare i tribunali d'onore.
    In Ungheria (dove il duello infieriva, soprattutto quello alla pistola) la prima lega si costituì nel 1902 e l'anno dopo con la formazione della lega nazionale si procedette alla formazione dei tribunali d'onore anche per i duelli tra studenti.
    In Inghilterra, dove pure il duello era stato molto in voga specialmente al tempo degli Stuart, la reazione avvenne anche prima che negli altri paesi. L'ultimo dei duelli celebri avvenne nel 1835 tra B. Disraeli e Morgan O' Connell, ma già nel 1842 venne fondata l'Association for the discouragement of duelling, i cui aderenti s'impegnavano solennemente a non accettare sfide e a dimostrare l'immoralità e l'ingiustizia dei duelli. L'idea prese piede e si svolse tre anni dopo; ma il duello era già stato frenato dalla legge del 1844.
    La procedura del duello. - Nei tempi moderni il duello, tranne casi eccezionali, avviene per il punto d'onore, cioè per l'offesa portata all'onore di una persona: offesa che non si può tollerare e deve essere quindi ritrattata o "lavata col sangue". Fino a qualche tempo fa l'offesa - anche se prevista e punita dal codice penale - determinava il duello; ora se l'offesa rientra nelle disposizioni delle leggi, il duello generalmente non avviene e il tribunale s'incarica della riparazione. Se nonostante tutto si esige la riparazione per le armi, i padrini fanno una speciale riserva; rimane fermo che in ogni caso la riparazione deve essere unica: o legale o per le armi. L'offesa può essere fatta personalmente o in assenza delle parti, come avviene nelle polemiche giornalistiche, in discorsi ecc. Nel primo caso l'offesa è determinata da parole o da gesti, e l'offeso può reagire. Se intende dar seguito alla vertenza, l'offeso si ritira dicendo "me ne renderà ragione", o si scambiano le carte di visita; l'offeso può anche sfiorare il volto dell'offensore con un guanto (il guanto della sfida). L'offesa arrecata con articoli, disegni, ecc. deve essere rilevata entro le 24 ore dalla pubblicazione.
    A offesa raccolta, l'offeso sceglie due padrini (uno si chiama secondo e l'altro testimone) e li incarica di ottenere soddisfazione, e cioè scuse o riparazione per le armi. Chi è l'offeso,veniva riservata la scelta delle armi; di qual grado è l'offesa, per determinare la scelta Stessa. Lo Scontro poeteva avvenire: nel caso di offese atroci, alla pistola, o iniziarsi alla pistola con prosecuzione alla spada o alla sciabola nel caso di esito negativo; alla spada nel caso di offese gravi (in Francia anche per le semplici); alla sciabola per le offese semplici. Il verbale precisa anche le condizioni, e cioè: se il duello è alla pistola fissa la distanza, il numero dei colpi, se si deve tirare marciando o da fermo; se il duello è alla spada stabilisce se essa debba essere sciolta o legata al pugno; se infine il duello è alla sciabola stabilisce se essa debba essere arrotata in punta e bitagliente o smussata, e se sono ammessi o esclusi i colpi di punta; data l'arma bianca, il verbale precisa quale guanto si debba usare, ecc.

    Il duello era ammesso tra persone che avevano non meno di 20 e non più di 60 anni; non era ammesso tra parenti prossimi, tra parentí o amici del morto o ferito e il suo avversario; tra gli stessi avversarî senza una nuova causa, tra debitori e creditori se la pendenza finanziaria non è composta; tra minori.
    Il codice cavalleresco -Un tentativo di legislazione del duello fu fatto in Spagna con la deliberazione delle Cortes di Nájera, accolta da altri parlamenti del regno e inserita in seguito nel Código de las partidas. Nella partida 7ª s'indica in qual modo determinare l'offesa, la sfida, il duello: chi si può battere, dinnanzi a chi, in quale luogo e per quali ragioni e con quali formalità. Naturalmente vi sono sanzioni gravi per chi contravviene al codice. In Francia le autorità tentarono di arginarlo con l'istituzione dei tribunali d'onore sotto il regno di Carlo IX di Francia e vennero organizzati sotto Luigi XIV. A questi tribunali dovevano essere deferite le questioni cavalleresche, che venivano esaminate e discusse. Se il componimento pacifico falliva, e il motivo della questione risultava fondato e grave, il tribunale autorizzava il duello. Ma, forse, le pene gravi valsero a paralizzare l'azione attesa dall'istituzione, perché si ricorse, con fortuna, alla domanda di grazia al re. Naturalmente l'azione dei tribunali d'onore aveva determinato norme cavalleresche di carattere generale, le quali vennero raccolte e discusse anche da giureconsulti. Tra i primi e tra i maggiori è un italiano, il Muzio, che nel 1550 pubblicò il suo Duello. L'importanza dell'opera del Muzio nella parte che costituisce il codice cavalleresco risultò tale, che a lui si ricorse per l'esame e la decisione di gravi vertenze in materia d'onore cavalleresco. Vediamo sorgere così in questo periodo, il tribunale d'onore e il codice cavalleresco: il primo per volere della suprema autorità dello stato francese, l'altro per virtù di uno schermitore. Sono pure di questo periodo e dei seguenti le opere dell'Alciato, del Maffei e di parecchi altri, italiani o di altri paesi.(di Alberto Manzi)
     
    Top
    .
  13. gheagabry
     
    .

    User deleted


    PERCHE' si dice..



    L'oro apre tutte le porte


    E' un modo di dire di origine proverbiale, il detto afferma che con il denaro si riesce a ottenere qualsiasi cosa.
    È contrazione del detto di Menandro “l'oro apre tutto, anche le porte di bronzo”, divenuto proverbiale già in epoca antica e ripreso da vari autori classici. L'espressione fu spesso riferita all'ambito bellico, da cui un altro detto secondo il quale “il denaro è il signore della guerra”, per dire che la corruzione è il primo modo di vincere. Cicerone (Epistulae ad Atticum, 1,16,12) e Plutarco (Vita di Paolo Emilio, 12,6), riportano un'affermazione di Filippo di Macedonia secondo il quale “non esistono fortezze inespugnabili, se solo vi può salire un asinello carico d'oro”, e questo perché, secondo la tradizione, Filippo avrebbe un giorno consultato un Oracolo ricevendone come risposta il consiglio: “combatti con lance d'argento e conquisterai tutto”. Il concetto dell'onnipotenza dell'oro e quindi del denaro è diffuso in tutte le epoche e in tutte le culture, e ha dato luogo a molti detti; se ne attribuiscono a Enrico V, a proposito delle proprie ricchezze e a Guglielmo I a proposito delle industrie. Il maresciallo Trivulzio avrebbe detto al re di Francia Luigi XII che voleva invadere Milano: “Per vincere una guerra ci vogliono tre cose: primo, il denaro; secondo, il denaro; terzo, il denaro”; mentre è del cardinale Richelieu l'affermazione per cui “Se il denaro è, come si dice, il nerbo della guerra, è anche il lubrificante della pace”.(corriere.it)

    "Hai l'argento vivo addosso"


    ll mercurio dal latino Hydrargirium (Hg) è anche chiamato argento vivo. Infatti è un metallo e quindi di colore argenteo, molto lucido, ma liquido. Il mercurio scappa da tutte le parti, prova ad afferrare la goccia di argento, non ci riesci. Da lì nasce il detto chi ha l' argento vivo addosso si comporta come il mercurio, è sempre in agitazione, non sta mai fermo.

    "Cercavamo con l’aiuto delle torce le macchie rosse quando ci accorgiamo di un certo luccichio argenteo. Puntiamo meglio il fascio di luce e…lo vediamo! Non il cinabro, ma proprio il mercurio - l’elemento - a gocce, sulla roccia! Una miniera di… mercurio, per davvero! Il piacere è di entrambi, lo sorpresa è mia: Roberto non me lo aveva detto che si racconta, nella letteratura dell'800, che una volta, in quella miniera, aprendo una cavità, il mercurio sgorgò così copioso che i minatori lo raccolsero nei cappelli" (naturalmentescienza.it)


    "fare il bastian contrario"


    Avere sempre da obiettare, dire o fare regolarmente il contrario di quello che dicono o fanno gli altri.
    L'espressione è un meccanismo di coniazione popolare basato sulla trasformazione da nome proprio a nome comune: il punto di partenza è certamente il nome di un uomo (Bastiano, nella forma derivata da Sebastiano con caduta della sillaba iniziale) che, per la sua attitudine ostinata ad essere contrario a tutto, diviene proverbialmente il simbolo di questo atteggiamento. La derivazione dal nome proprio è dimostrata anche dalla sporadica presenza della maiuscola iniziale, riscontrabile nell'uso e registrata in alcuni dizionari.
    La prima attestazione dell'espressione bastian contrario risale al 28 febbraio 1819, in un intervento di Ludovico di Breme apparso sul numero 52 del giornale «Il Conciliatore» con il significativo titolo "Ai Signori associati al Conciliatore il compilatore Bastian-Contrario"
    Nel suo Dizionario moderno del 1905, Alfredo Panzini ricorda la leggenda di un Bastiano Contrari "malfattore e morto impiccato, il quale solamente in virtù del cognome diede origine al motto.Nel 1918 Alfredo Panzini, nella terza edizione del suo Dizionario moderno, cita l'espressione popolare e dialettale Bastiàn contrari come «detto di persona che contraddice per sistema»; e, a partire dalla settima edizione (del 1935), integra: «Bastiàn cuntrari: pop. detto nelle terre subalpine di persona che contraddice per sistema. Fu in fatti un Bastiano Contrario, malfattore e morto impiccato, il quale solamente in virtù del cognome diede origine al motto».

    La concomitanza dell'uso dello pseudonimo-personaggio da parte di Ludovico di Breme e l'aggiunta di Panzini spingono a collocare la nascita dell'espressione nell'Italia nord-occidentale, in particolar modo in Piemonte: lo suggeriscono anche i vocabolari del piemontese che registrano in modo pressoché costante l'espressione fin dagli inizi dell'Ottocento a fronte del silenzio riscontrato negli altri dizionari dialettali e di lingua; e lo confermano anche alcuni esempi dell'uso di bastiano citati da Bruno Migliorini nella sua monografia. Ma bastian contrario si è diffuso nell'italiano in modo così ampio da aver perso qualunque connotazione locale e da essere anzi sottoposto a vari tentativi di appropriazione regionale che hanno finito per rendere ancora più difficile la ricostruzione esatta della sua origine. Sull'identificazione del personaggio si sono fatte poi infinite ipotesi: c'è chi ha proposto il brigante sabaudo Bastian Contrario, che su incarico del Duca Carlo Emanuele di Savoia avrebbe condotto dal 1671 un'azione di disturbo nelle zone di confine con la Repubblica di Genova . A Castelvecchio di Rocca Barbena (SV) si ricorda un mercenario chiamato Bastian Contrario, ivi morto in battaglia. A Torino il Bastian Contrario per antonomasia è considerato il Conte di San Sebastiano, che nella battaglia dell'Assietta (1747) fu il solo a disobbedire all'ordine di ripiegare sulla seconda linea. Il gesto del Conte e dei pochi fedeli granatieri da Ilui comandati determinò l'esito favorevole di tutta la battaglia contro l'esercito franco-ispanico. Ipotesi che valorizzano l'origine piemontese. Altri invece, all'interno del processo di "fiorentinizzazione" dell'espressione, pensano al pittore fiorentino Bastiano da San Gallo, a causa del suo peculiare carattere...»(tratto da accademiadellacrusca.it)
     
    Top
    .
  14. gheagabry
     
    .

    User deleted


    .

    PERCHE' SI DICE...


    AD OVO


    Ab ovo è una frase latina che letteral-
    mente significa "dall'uovo", e quindi "da molto lontano", "dalle più remote origini".
    La frase risale ad Orazio, che nella sua Ars poetica avvisava di non mettersi a parlare della guerra di Troia cominciando appunto ab ovo, ossia di non prendere il discorso troppo alla lontana, ma di entrare subito in argomento. L'uovo in questione è quello generato da Leda dopo essere stata resa incinta da Giove sotto forma di cigno, dal quale nacquero da un lato i figli di Tindaro Castore e Polluce, e dall'altro Elena e Clitennestra.
    La frase nacque facendo riferimento anche ai pranzi degli antichi romani, che appunto iniziavano con le uova e terminavano con la frutta. L’espressione si ritrova anche nelle satire di Orazio, che parlando del sardo Tigellio incline a gorgheggiare,senza che vi fosse modo di farlo tacere, recita:
    "ab ovo usque ad mala"
    (dall’uovo fino alle mele, cioè dall’antipasto alla frutta)

    VOLI PINDARICI



    randyscottslavin
    Il volo pindarico è un modo di dire ricorrente nel linguaggio quotidiano.
    Trae spunto dalla letteratura greca ed in particolare da Pindaro il grande cantore greco nativo di Cinocefale, presso Tebe, nel 518 a.C., da una nobile ed agiata famiglia originaria della Beozia. Autore di importanti carmi epici, viaggiò a lungo e visse e scrisse per sovrani e famiglie importanti. Cantò, come negli Epinici i modelli di un ideale umano in cui si coniugavano bellezza e bontà, prestanza fisica e sviluppo intellettuale.
    I voli pindarici non sono che arditi passaggi, da un’idea che si va sviluppando ad un’altra completamente estranea al filo logico fino allora seguito.
    E’ difficile da spiegare, ma se ne può avere un’idea rileggendo i Sepolcri di Foscolo: là dove il poeta celebra le tombe dei grandi in Santa Croce a Firenze, e subito dopo, da un verso all’altro, “vola” altrove evocando la battaglia fra Greci e Persiani a Maratona.
    Può assumere un duplice senso negativo cioè divagare e "saltare da un argomento ad un altro senza logica. Viene attribuita a persone che tendono a proiettarsi in un mondo irreale, creativo, dunque a sé stante. Di base è un distacco dalla realtà contemporanea e il conseguente ingresso in un mondo ad essa parallelo, spesso dai contorni allucinogeni e fiabeschi dove regna una “sana” alterazione. È una sorta di “droga autofinanziata” dal nostro cervello, un viaggio nel subconscio. La missione del “volo” è quella di annientare gli influssi catastrofici e nefasti del mondo circostante. Un distacco dai propri doveri per approdare in un mondo fatto di ricordi, emozioni, sogni e aspirazioni.

    BACUCCO


    Le origini di “bacucco” sono due.
    Bacucco è una parola spregiativa con cui si intende una persona vecchia, che ha perso il lume della ragione e della sensatezza, di senilità balorda.
    La prima lo fa derivare da Hăbaqqūq (Abacuc), ottavo dei profeti minori della Bibbia vissuto prima del 606 a.C., che scrisse un libro (libro di Abacuc) in cui sono affrontati vari temi, trattando della giustizia divina e della fedeltà dell’alleanza che conduce alla salvezza ed alla teofania. I profeti sono figure tipicamente religiose, ispirate da Dio che parlano in suo nome, annunciandone la volontà e talvolta predicendo il futuro. In realtà nella Bibbia poco si dice su Abacuc - e in particolare non risulta che sia vissuto quanto i patriarchi millenari, né che con l'età fosse particolarmente "rincitrullito"; ma nell'iconografia, attraverso i secoli, Abacuc fu spesso raffigurato come un vecchione dalla lunga barba bianca, severo e pensoso come si addice ai profeti.
    Abacuc nella tradizione popolare è lo zuccone che è stato immortalato in una mirabile statua di Donatello, in marmo bianco conservata nel Museo dell’Opera del Duomo di Firenze.

    Per altri invece “bacucco” deriva dal latino tardo “bacucei”, che significa “riparo” di frasche o altro, ma sempre in senso di riparo provvisorio. I francesi chiamano bache una tenda grossolana atta a riparare dalla pioggia; gli arabi definiscono bakok un panno da avvolgersi in testa, e anche nell’italiano antico “bacucco” definiva un panno messo in testa in modo da nascondere anche il volto.

    .
     
    Top
    .
  15. gheagabry
     
    .

    User deleted


     
    Top
    .
29 replies since 11/8/2011, 00:14   3515 views
  Share  
.