ISOLE nel mondo

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  1. gheagabry
     
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    L'ISOLA DI OKUNOSHIMA



    Okunoshima è una piccola isola situata nel Mare Interno del Giappone tra Hiroshima e Shikoku. E' completamente invasa da simpatici, soffici coniglietti che sono i principali abitanti dell'isola.

    Nonostante il Giappone la firma del protocollo di Ginevra nel 1925 di vietare l'uso di gas velenosi, tra il 1929 e il 1945, l'isola di Okunoshima era un sito di produzione di armi chimiche per l'esercito imperiale giapponese che ha prodotto più di sei kilotoni di gas. L'isola è stata scelta per il suo isolamento, favorevole alla sicurezza, e perché era abbastanza lontano da Tokyo e in altre aree in caso di disastro. Il programma è stato avvolto nel mistero e durante i suoi 16 anni di attività, Okunoshima fu addirittura cancellata dalle mappe.
    I residenti e potenziali dipendenti non è stato detto nulla di tutto ciò che è stato tenuto segreto. Con la fine della guerra, i documenti riguardanti l'impianto sono stati bruciati.
    Secondo alcune fonti, i conigli sono stati portati Okunoshima per testare gli effetti del veleno e rilasciati dai lavoratori a fine guerra. Senza predatori naturali originari dell'isola si moltiplicarono rapidamente. Oggi i 700.000 metri quadrati dell' isola, chiamata col soprannome di Usagi Shima, o Isola dei Conigli, è abitata da più di 300 conigli che vagano liberamente. Per preservare la popolazione di conigli, cani e gatti non sono ammessi sull'isola.
    Nel 1988, l'impianto di gas è stata trasformato in museo "gas velenoso" aperto per educare il popolo giapponese sul ruolo dell'isola svolto durante la seconda guerra mondiale.
     
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  2. gheagabry
     
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    ISOLE DEI LAGHI

    LAGO DI COMO, ISOLA COMACINA



    L'unica formazione insulare del lago è l'Isola Comacina, di modeste dimensioni ma carica di storia. Nel Medioevo l'isola era una roccaforte indipendente che si alleò col comune di Milano durante la guerra decennale contro Como (1118-1127). Como ne uscì sconfitta ma, con l'aiuto dell'imperatore tedesco Federico Barbarossa e contro i comuni della Lega Lombarda, i comaschi riuscirono a vendicarsi distruggendo la roccaforte nel 1169. Da allora, l'isola è rimasta totalmente disabitata. Gli edifici superstiti sono la secentesca chiesetta di San Giovanni - unica rimasta delle nove presenti - la locanda e le piccole costruzioni razionaliste opera dell'architetto Pietro Lingeri. Le rovine dell'antica Basilica di Sant'Eufemia sono il simbolo della storia lariana, rievocata annualmente nella Sagra di San Giovanni.
    L'isola è delimitata da una baia detta "Zoca de l'oli" (luogo dell'olio), così chiamata per la tranquillità delle acque lacustri e per la crescita spontanea dell'ulivo.

    Tra i più importanti nuclei religiosi della diocesi comasca, l’Isola vide sorgere sulla sua terra numerose chiese, tra le quali una delle più notevoli basiliche dell’XI secolo, S. Eufemia. Secondo la tradizione quest’ultima fu fatta erigere da S. Abbondio, vescovo e patrono di Como che vi portò il culto della Santa e vi depose gli Abundi, le antiche reliquie dei Martiri. L’importanza religiosa dell’Isola fu tale da accogliere le spoglie mortali del vescovo Agrippino, di cui rimane l’epitaffio. Chiamata ancora adesso castello (castél), l’Isola fu una cittadella fortificata, con case e chiese cinte da alte mura. Fu sede per oltre 20 anni di un presidio bizantino comandato da Francione e addirittura una delle ultime fortezze dell’Impero Romano d’Occidente. Nell’annus horribilis, 1169, fu rasa al suolo dai comaschi alleati al Barbarossa. Niente più venne ricostruito per secoli. Il 1900 risultò il secolo della riscoperta: ceduta per testamento al re del Belgio nel 1919 e da questi donata al governo italiano, l’Isola finì sotto la responsabilità dell’Accademia di Brera, incaricata di tutelarne l’interesse archeologico e la bellezza del paesaggio.



    "...mi riempio letteralmente gli occhi osservando il piccolo golfo ricco di ulivi e immagino come possa essere questa zona durante la bella stagione. Prendiamo subito il sentiero che troviamo alla nostra sinistra, si chiama viale del poeta. E’ lungo due chilometri,quanto basta per condurci alla scoperta dell’isola e dei suoi tesori nascosti. I veri protagosti dell’isola sono i resti storici e archeologici, incredibilmente ricchi per un’isola così piccola. Durante il percorso i vari cartelli ci avvertono quando siamo in presenza di qualcuno di loro. Se non ci fossero i cartelli non sempre riusciremmo a distinguerli...L’isola è disabitata dal 1169, quando fu attaccata pesantemente dai comaschi per questioni di potere che non ho approfondito. Da allora è stata teatro di scavi archeologici e non è mai stata davvero ricostruita....Qualche abitazione c’è e risale agli anni ‘30 del secolo scorso, quando l’isola doveva diventare un resort per artisti e furono costruite tre case studio. Il progetto non si realizzò, ma le case sono rimaste e sono tra gli esempi più rappresentativi di architettura formale razionalistica...Oggi le ville sono in evidente stato d’abbandono..... la cosa bella dell’isola Comacina, secondo me, è il panorama che si gode e la pace assoluta ...l’unica altra nota negativa della gita è stato lo scoprire che la Locanda dell’isola è chiusa nei mesi invernali (dal 1° novembre al 1° marzo). Dicono che la cucina è molto semplice, ma ottima. Pare che il menù sia lo stesso dal 1947 e che a fine pasto, quando viene servito il caffé, il padrone della locanda entra in sala al suono di una campana, brucia il brandy nel pentolone, poi mentre narra la storia dell’isola, aggiunge al brandy zucchero e caffè e serve nelle tazze."
    -Comemafalda (dal web)-





    LA MALEDIZIONE


    La maledizione non è una leggenda di uomini paurosi, ma un fatto che risale all’ultimo giorno dell’Isola, nel 1169: ne parla l’Anonimo Cumano, che nella sua opera cita una scomunica del vescovo di Como, Vidulfo, per la quale
    «Non suoneranno più le campane, non si metterà pietra su pietra, nessuno vi farà mai più l’oste, pena la morte violenta».
    Le sinistre parole del vescovo sono l’ultimo atto di una vendetta furibonda che porta all’incendio e alla distruzione totale dell’Isola e della sua Pieve da parte dei comaschi alleati con il Barbarossa. Gli abitanti di Como non hanno dimenticato come quelli dell’Isola, nel 1127, abbiano volenterosamente partecipato al sacco della città con il quale si chiude la Guerra Decennale e, appena possibile, non esitano a pareggiare i conti. Non resta pietra su pietra delle fortificazioni e sopravvive una sola delle nove chiese che secondo lo storico Primo Tatti sorgevano in quel ristretto territorio. Le dimensioni della strage e delle distruzioni sono tali che esse restano indelebilmente incise nella memoria popolare e danno vita alla sagra che ogni anno, nella ricorrenza della festa di San Giovanni, ricorda appunto la distruzione dell’Isola con uno spettacolo di fuochi d’artificio che richiamano gli incendi di quella notte lontana.




    "E' nelle prime ore di certe giornate di primavera o d’autunno, quando la luce si fa strada faticosamente sulle acque immobili del lago, al di sopra delle quali galleggiano nell’aria lunghi lacerti di nebbia biancastra, che l’Isola Comacina appare come l’illustrazione di una fiaba antica, una terra misteriosa e piena di echi di vicende lontane. Non è necessario conoscerne la storia per subirne immediatamente il fascino fatto di richiami indecifrabili, di presenze indefinibili, di echi lontani. Un mondo a sé con la propria personalità e le proprie memorie, vuoto d’abitanti ma popolato di lievi fantasmi che vanno ripetendo all’infinito lontane vicende d’armi e di valore, di sangue, d’incendi e di stragi, di distruzioni e di anatemi. Sull’Isola Comacina non abita nessuno da otto secoli. Solo nel 1948 tre amici - Lino Nessi, Sandro De Col e Carlo Sacchi - hanno l’idea di mettervi in piedi una locanda. La storia è al centro di un libro, «L’Isola che c’era», pubblicato dalla figlia di Lino Nessi, Albertina. C’è una vecchia maledizione da superare, quella che
    impone di non tornare ad abitare l’Isola, ma i tre sono giovani, credono nella razionalità e non negli incantesimi. Poco dopo De Col, che è un campione di motonautica, muore in un terribile incidente sulle acque del lago. Il setaiolo Carlo Sacchi, invece, è vittima dei colpi di pistola della contessa Bellentani nelle sale di Villa d’Este, in uno dei delitti che segneranno il dopoguerra. Coincidenze? Forse."
    (lightstorage.laprovinciadicomo.it)

     
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  3. fasanotto
     
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    grazieee
     
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  4. gheagabry
     
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    "Sembrava un film di David Lynch visto attraverso un prisma. L’anti-Galápagos. L’esatto opposto di Darwin….I pescatori ci hanno raccontato storie su un presunto tesoro piazzato lì dai pirati. Altri hanno parlato di alieni. È terra bruciata. È dove manderei a vivere i miei peggiori nemici….La notte ci sono locuste blu e quintali di strani scarafaggi dall'aspetto preistorico.L'isola è accessibile soltanto in casi straordinari.”


    L’ISOLA DI QUEIMADA GRANDE



    L’Isola di Queimada Grande o l’Isola dei Serpenti, al largo della costa di Santos, a circa 150 km al largo della costa di San Paolo in Brasile, è un piccolo pezzo di terra rocciosa in cui si ha la più alta concentrazione di un genere di serpente più misterioso al mondo. E' l'unico posto dove si possono trovare 2.000 esemplari circa, di ferro di lancia dorato. Il suo veleno è particolarmente potente e per questioni evolutive ha anche l'azione più rapida all'interno del genere.

    Per l’ovvio pericolo, il governo brasiliano controlla rigorosamente le visite a Queimada Grande. Anche senza un divieto governativo, l'isola probabilmente non è una destinazione turistica: i serpenti vivono in una alta concentrazione tale che alcune stime sostengono che è presente un serpente per ogni metro quadrato. Un morso di un ferro di lancia dorato porta per il 7%­o alla morte. E' concessa una tappa annuale sull'isola per la manutenzione del faro, che, dal 1920, è stato automatizzato. Ma Snake Island è anche un importante laboratorio per biologi e ricercatori, che hanno ottenuto un permesso speciale per visitare l'isola, al fine di studiare il ferro di lancia dorato. A causa della domanda di mercato nero di scienziati e collezionisti di animali, l'isola è meta dei i contrabbandieri della fauna selvatica, noti come biopirati. Questi intrappolano i serpenti e li vendono attraverso canali illegali: un singolo ferro di lancia dorato può valere dai 10.000 ai 30.000 dollari.
    Il degrado dell'habitat (dalla rimozione della vegetazione ad opera della marina brasiliana) e la malattia hanno contribuito a danneggiare la popolazione dell'isola, che si è ridotta di quasi il 50 per cento negli ultimi 15 anni, secondo alcune stime. Il serpente è attualmente elencato come criticamente in pericolo dall'International Union for Conservation of Nature's Red List.

    …storia, miti e leggende….


    Quasi ogni brasiliano conosce l'isola infestata. Il Bothropoides insularis appartiene alla famiglia delle Viperidae ed è presente esclusivamente a Queimada Grande. Il veleno delle "vipere dorate" può uccidere una persona in meno di un'ora, e numerose leggende locali raccontano le sorti orribili che attendevano coloro che vagavano sulle rive della cosiddetta Snake Island. Si racconta che un pescatore sfortunato sbarcò sull'isola dei serpenti in cerca di banane solo per essere scoperto giorni più tardi nella sua barca, morto in una pozza di sangue, con i morsi di serpente sul suo corpo. Dal 1909 al 1920, poche persone hanno vissuto sull'isola, al fine di far funzionare il faro che inneggia sulle scogliere ma, secondo un altro racconto locale, l'ultimo guardiano del faro, insieme a tutta la sua famiglia, è morto quando i serpenti strisciarono nella sua casa attraverso le finestre.
    Anche se alcuni sostengono che i serpenti sono stati messi sull'isola dai pirati nella speranza di proteggere il loro oro, in realtà, la densa popolazione dell'isola di serpenti si è evoluto nel corso di migliaia di anni, senza intervento umano. Circa 11.000 anni fa, il livello del mare è salito abbastanza per isolare Queimada Grande dalla terraferma del Brasile, provocando una diversa evoluzione dei serpenti rispetto i loro fratelli continentali. I serpenti arenati sulll'isola di Queimada Grande non avevano predatori a livello del suolo, permettendo loro di riprodursi rapidamente. Ma c'è sempre un lato opposto della medaglia: anche loro non avevano prede. Per trovare il cibo, i serpenti hanno iniziato a strisciare verso l'alto, predando gli uccelli migratori che visitano l'isola stagionalmente durante i lunghi voli.
    Normalmente i serpenti studiano la preda, la mordono e attendono che il veleno faccia il suo lavoro prima di inseguire la vittima in fin di vita. Ma il ferro di lancia dorato non può seguire gli uccelli in volo dopo averli morsi. Così l'evoluzione gli ha donato un veleno incredibilmente potente ed effiicace, dalle tre alle cinque volte più forte di ogni serpente continentale, in grado di uccidere le prede quasi istantaneamente.


    L’ISOLA DEI BOA, Cina


    A 12 miglia marine a nord-ovest del porto Lushan, nel Liaoning, l’isola dei Serpenti un tempo si chiamava l’isola dei Boa o l’isola dei Piccoli Draghi. Si narra che negli anni ’30 qualcuno fosse andato sull’isola per scegliere l’ubicazione per la costruzione di un faro. Ma svenne immediatamente, terrorizzato dalle vipere che sbucavano da tutte le parti: dagli alberi, tra le pietre, tra le erbe, insomma non si poteva posare i piedi da nessuna parte. Da allora, si sparse ogni sorte di leggenda: secondo alcuni lo spirito del serpente avrebbe salvato l’umanità, secondo altri erano delle principesse metarmofizzate; alcuni credevano fermamente che là ci fosse stata una guerra tra i serpenti e i pesci e via dicendo. Con il trascorrere del tempo si avvolgeva di un velo di mistero. Le sue colline sono coperte d’erba, d’arbusti e di nascondigli naturali. Su quest’isola disabitata tutto è calmo, tranquillo e misterioso.
    Gli studiosi hanno stabilito che su tutta l’isola esiste soltanto un tipo di vipera, molto velenosa con una « V » sulla testa. Attacca solamente se viene aggredita e il suo veleno uccide in 24 ore. Nell’isola vivono non oltre 13 000 vipere; d’una lunghezza tra i 75 e i 100 cm, possono deporre più di 1 000 uova ogni anno. Secondo gli ecologisti, le vipere hanno invaso quest’isola grazie alla abbondanza di cibo che esse vi trovano. Questa varietà di vipere si nutre di preferenza di uccelli, e l’isola è un luogo di passaggio e di riposo per 217 specie di uccelli migratori. Inoltre, le numerose anfrattuosità naturali offrono dei rifugi temperati per andare in letargo. La vipera mangia solo due o tre uccelli e ha bisogno di qualche goccia d’acqua per sopravvivere per sei mesi.
    Ma le vipere non sono gli unici abitanti dell’isola. Un altro residente è il gabbiano dalla coda nera. Alcuni affermano di aver visto dei gabbiani attaccare delle vipere. Quando i gabbiani vanno alla ricerca di cibo, i serpenti scivolano nei loro nidi per mangiare uova e piccoli. La leggenda narra che al rientro, furiosi, i gabbiani vanno a cercare i loro compagni delle isole vicine e ritornano a nugoli ad attaccare i colpevoli. Li prendono per la coda, salgono alto in cielo e li lanciano contro le rocce. Ripetendo il tutto per tre volte, riescono a spezzare loro la spina dorsale. Da quel momento, vipere e gabbiani hanno deciso di applicare « i cinque principi della coesistenza pacifica » e di dividersi l’isola.
    I ricercatori che hanno campeggiato sull’isola in ripari di lamiera hanno raccontato un fenomeno interessante: per sei mesi l’anno, le vipere mangiano i topi, poi, sono i topi che mangiano le vipere. In origine, non esistevano topi sull’isola. Sono stati i pescatori a portarli nelle stive dei loro sampan. Quando i nuovi venuti, affamati dall’inverno, hanno individuato le vipere, le hanno attaccate in gruppo facendole soccombere anche perché intorpidite dal freddo. In primavera, una volta ritrovato il loro ardore combattivo, le vipere mordono i topi e li ingoiano tutti interi senza alcuna forma di processo.

    Tutto è buono nella vipera: la pelle, la bile, il veleno, la carne… Sono degli ingredienti preziosi impiegati in medicina. Il veleno di vipera comprende 18 tipi di proteasi di un valore superiore a quello dell’oro. È un fatto conosciuto fino dai tempi più remoti. Negli ultimi anni, l’Istituto di ricerche di Lushun che si occupa dell’isola dei Serpenti ha messo a punto dei medicinali a base di veleno per curare varie malattie. Visto il valore dei serpenti, gli abitanti dei dintorni vanno sovente sull’isola per catturarli.
    La leggenda voleva che i serpenti in grado di attraversare il mare e di raggiungere l’isola si trasformassero in draghi o in spiriti; colui che avesse toccato un serpente sarebbe morto vittima di un incidente. È per questo motivo che un tempo le persone non osavano catturarli…. Con lo svilupparsi delle scienze, si prese coscienza dell’effettivo valore delle vipere. Ecco allora che vengono cacciate sistematicamente. Nel 1937, i Giapponesi ne catturarono più di 7.000. La popolazione dello Shandong, della città di Dandong (Liaoning) e dei dintorni fecerono numerosi incursioni nell’isola. La popolazione viperina passò così dai circa 500 mila esemplari degli anni ’30 ai 10 000 dei nostri giorni.
    Oggi, l’isola dei Serpenti è stata dichiarata riserva naturale. Un istituto di ricerche ne studia i luoghi e un servizio amministrativo ne regolamenta la caccia: dei guardiani la sorvegliano notte e giorno. Si è, inoltre, fortemente limitata la raccolta di veleno: una o due gocce a volta per vipera.
    (Frammenti d'Oriente, dicembre 2000)


    “In virtù della convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, l'Isola dei Serpenti, la cui superficie ricopre un'area di diciassette ettari, è una scogliera e conserverà tale status finché una sentenza non stabilirà diversamente."


    L’ISOLA DEI SERPENTI, Ucraina


    L'isola dei Serpenti è la principale isola di un arcipelago di cinque isole del Mar Nero. Si trova a 45 km dalle coste della Romania e dell'Ucraina. Fa parte della provincia (raion) di Kiliya, Ucraina. La piattaforma continentale dell'isola è particolarmente ricca di petrolio e gas naturale, giacimenti scoperti negli anni ottanta. La popolazione residente nell'isola è costituita dagli addetti al faro.
    Si chiama Isola dei Serpenti, ma di serpenti nemmeno l'ombra. Il suo tesoro è nel mare che la circonda, ricco di greggio e gas, reclamati da Ucraina e Romania. Il 3 febbraio 2009 la Corte internazionale dell'Aja ha messo fine alla contesa, assegnando a Bucarest gran parte dei fondali. I fondali attribuiti alla Romania sono preziosi soprattutto perché ricchi di risorse energetiche.
    Secondo le stime dell'Agenzia nazionale romena per le risorse minerali (ANMR), nel mare intorno all'Isola dei Serpenti, il potenziale stimato degli idrocarburi sarebbe di 12 milioni di tonnellate di greggio e 70 miliardi di metri cubi di gas. Secondo le stime, gli idrocarburi nascosti nell'area varrebbero almeno 30 miliardi di dollari.
    L'Ucraina ha cercato di dimostrare a tutti i costi che la cosiddetta Isola dei Serpenti è un'isola vera e propria, mentre la Romania ha sempre sostenuto che si trattasse di un semplice scoglio. Per sostenere le proprie tesi gli ucraini hanno provato a rendere l'isola abitata, cercando senza successo acqua potabile e istallando, tra le altre cose, anche un bancomat.

    …storia, miti e leggende…


    Sull'isola, secondo il mito, sarebbe stato sepolto Achille, l'eroe dell'Iliade. L'Isola dei Serpenti era entrata a far parte del Regno di Romania nel 1878. Nel 1948 l'Unione Sovietica si impadronì dell'isola, la cui cessione non era stata prevista dal Trattato di Pace del 1947, grazie alla complicità del regime comunista appena giunto al potere in Romania e vi impiantò una base militare. Nel 1991, dopo la dissoluzione dell'URSS, l'Ucraina ereditò l'isola. La Romania post-Ceauşescu non avanzò alcuna rivendicazione territoriale e nel 1997 firmò un accordo nel quale riconosceva la sovranità ucraina sull'isola. Tuttavia, negli anni '90, l'Ucraina cominciò ad inviare dei militari sull'isolotto, con l'appoggio della Russia; la cosa creò tensioni, che chiese un accordo bilaterale, in particolare per la definizione delle acque territoriali e della zona economica esclusiva. Nel 2004, senza che si fosse arrivati a tale accordo, Bucarest si rivolse alla Corte Internazionale di Giustizia dell'Aia e, in seguito, al Consiglio dell'Unione europea, di cui la Romania è membro. La disputa è terminata il 3 febbraio 2009, quando, con una delibera, la Corte Internazionale di Giustizia dell'Aia ha assegnato definitivamente il 79,34% del triangolo sottomarino che circonda l'isola dei Serpenti alla Romania
     
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  5. gheagabry
     
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    "Con coda ondeggiante e criniera al vento,
    Le froge selvagge mai contratte dal dolore,
    E bocche non insanguinate da morso o redine,
    E piedi che il ferro mai calzò,
    E i fianchi intatti da sprone o frusta,
    Un migliaio di cavalli, selvaggi, liberi,
    Come onde che si inseguono nel mare,
    Giunsero fitti tuonando."
    (Lord Byron)

    SABLE ISLAND
    L'isola senza tempo


    Sable Island si trova a 300 km a sud-east di Halifax in Nova Scotia (Canada), è un isola di sola sabbia, a forma di mezzaluna, famosa per i suoi cavalli bradi ed il più grande cimitero del mondo di navi naufragate. E' un'isola selvaggia ed intatta che emerge dalla piattaforma nord americana. Qui si infrangono le grandi onde atlantiche che prendono origine dalle tempeste dette "nor'ester". Nell'oceano vi è lo scontro di tre correnti da Est, dal Labrador e dalla Corrente del Golfo. Anche se l'isola è tracciata sulla maggior parte delle mappe non è chiaramente definita, perché è sfuggente e costantemente mutevole. Oltre alla porzione visibile, banchi di sabbia si estendono circa 17 miglia su entrambe le estremità. Dove dune di sabbia, anche i 30 metri, sono visibili un giorno per poi scomparire il giorno dopo nel chiaro dell' oceano. Le correnti oceaniche spazzano tutta l'isola causando questo spostamento di sabbia che causa il cambiamento continuamente dei contorni. Di tanto in tanto i vecchi relitti emergono dal profondo durante una violenta tempesta, solo per affondare nell'oblio di nuovo. La spiaggia a nord è ripida e stretta, mentre la spiaggia a sud è ampia e piatta. Tra le dune vi sono numerose depressioni di solito piene di acqua dolce che da vita a una varietà di piante acquatiche. Per proteggere l'isola, il governo canadese ha recentemente designato Sable come Parco National Reserve. Si limita inoltre l'accesso all'isola attraverso un processo di approvazione per gli scienziati, ricercatori e artisti.

    La storia di Sable Island è piena di mistero, intrighi, i pirati, sabotatori, e tesori d'oro e d'argento. Fin dalla sua scoperta quasi 500 anni fa, si ritiene che questa duna di sabbia abbia tradito, intrappolato e distrutto più di 500 navi. Il primo uomo a mettere piede sull'isola è stato l'esploratore Joao Fagundes, nel 1520. Pochi anni dopo, i francesi fecero un breve tentativo di colonizzazione, trasferendo alcuni detenuti, con l'intenzione di trasformare l'isola in un carcere. Il tentativo fallì per le difficili condizioni ambientali. Si trova a destra nel percorso della maggior parte delle tempeste che si abbattono sul litorale atlantico dell'America del Nord. Le tempeste sono estremamente intense e pericolose per la navigazione delle navi in quanto le correnti contrarie e convergenti esaltano l'altezza delle onde. Molte delle imbarcazioni che cercavano di salvarsi dalla tempesta insabbiandosi sui bassi fondali di Sable, venivano distrutte dai terribili frangenti. La nebbia nasconde l'isola; quando d'estate l'aria temperata della corrente del golfo incontra la corrente del Labrador intorno a Sable, produce banchi di nebbia densi come burro. Dal 1583 sono stati registrati oltre 350 naufragi, dando l'isola la sua reputazione come "Cimitero dell'Atlantico del Nord". Si racconta dei corpi di naufraghi e relitti che giravano incessantemente per settimane intorno all'isola.
    Pochissimo rimane ora delle navi che sono state scaraventate sull'isola: un pezzo della poppa, alcune monete, bordi con i nomi delle navi, legnami sepolti nella sabbia.
    Sable si trova vicino ad una delle zone di pesca più ricche del mondo. I Grandi Banchi Di Terranova. Ed inoltre vicino ad uno delle rotte principali di navigazione fra Europa e l'America del Nord sulla rotta ortodromica. Ogni anno migliaia di navi mercantili e da pesca transitano sulle sue acque.
    Dal 1947 in poi la naviga-
    zione intorno a Sable è cambiata total-
    mente e ci sono stati pochi naufragi. Prima di allora si usava esclusivamente il sestante che pur essendo molto preciso diveniva inutile senza l'osservazione del sole e delle stelle, ma dato il tempo nebbioso e tempestoso, per settimane era impossibile fare delle buone osservazioni e pertanto erano sempre molto imprecisi. L'avvento del radar e di altre apparecchiature di navigazione avanzate ha reso sicura e precisa la rotta nave. Nessuna imbarcazione è stata persa dal 1947 al 1990. Dopo questa data però la climatologia nella zona è cambiata e sono aumentate di intensità le tempeste e gli uragani. Di conseguenza anche i naufragi. l'Andrea Gail affondò nel 1991, l'anno successivo il Terry-Lei, poi il piccolo yacht Merrimac il 27 luglio 1999.

    Prima dell'istitu-
    zione umani-
    taria, si narra di numerosi atti di sciacal-
    laggine alle navi naufra-
    gate anche con l'assas-
    sinio dei poveri naufraghi, che dopo essersi salvati dal mare venivano attaccati a terra dai predoni. Il Governo devette intervenire. Fu così che nacque la prima stazione lifesaving nel 1801. Questa "istituzione umanitaria„ fu rinforzata sull'isola dal 1858. Un vapore assicurava alcune volte all'anno i rifornimenti per gli addetti alle stazioni. L'intero litorale aveva 5 stazioni su la lunghezza di 44 chilometri dell'isola. Questi ripari per i superstiti di naufragio sono stati sparsi lungo l'isola. All'interno si trovava la legna da ardere, alimenti in scatola e poi arrivava l'assistenza della stazione lifesaving. Molte vittime di naufragio devono le loro vite all'abilità ed al coraggio della squadra lifesaving. Erano gente semplice, che faceva un lavoro duro su un'isola che era a volte molto bella, ma più spesso fredda, umida e scomoda.. nella più completa solitudine del Nord. Recentemente il Trust ha ripubblicato "Sable Island riviste", che narra la vita di James R. Morris, primo sovrintendente dell'isola; Morris ha vissuto sull'isola dal 1801 al 1804. Il libro fornisce un quadro chiaro della lotta che Morris a dovuto intraprendere per sopravvivere su Sable.

    I fari orientali ed ad ovest furono costruiti nel 1873. Poichè l'isola viene conti-
    nuamente corrosa, il faro ad ovest è stato spostato nel 1883, 1888, 1917 e nel 1951. L'istituzione umanitaria cessò nel 1958, dopo 11 anni senza un naufragio. Ora, i fari sono automatici, la stazione principale in rovina. Gli unici residenti annuali del Sable sono mezza dozzina di metereologi, a volte con le loro famiglie.


    Sable Islandè conosciuta soprattutto per la fauna selvatica. Sopravvivere qui non è facile, ma molte specie di uccelli e animali fanno. Vive una colonia, circa trecento, di pony selvaggi, alti al garrese cm 140. Essi sono stati introdotti dal Rev. Andrew Lemercier, un sacerdote ugonotto francese da Boston tentativo di colonizzare l'isola nel 1738. Un gruppo limitato di questi cavalli vive ancora allo stato brado, discendenti da cavalli importati nel XVIII secolo dalla Nuova Inghilterra, per lo più di origine francese. Frugale, forte e resistente, adatto al tiro leggero e alla sella di campagna Sono di carattere docile.
    Vi è una nutrita colonia di foche e uccelli migratori che popolano l'isola tra cui la sterna di Dougall. La popolazione aviaria, comprende anche gabbiani, e i Savannah Ipswich passeri. Altri uccelli migratori sono stati regolarmente visti sull'isola come i waxwings, anatre, aironi, ecc Questi attraggono gli squali alle spiagge, e contribuisce alla descrizione di acque infestate da squali.
     
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  6. gheagabry
     
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    "Sembra uscita da una storia di fantasia.
    Da uno di quei racconti in cui all'improvviso spuntano fuori
    creature sorprendenti in paesaggi quasi fatati."


    L'ISOLA DI AOGASHIMA


    L’isola si è formata da resti vulcanici di ben quattro caldere sottomarine, una di queste affiorata in superficie è andata a formare una grande caldera chiamata Ikenosawa 池之沢 con un diametro di 1,5 km e un cono minore chiamata Maruyama 丸山. Il punto più alto dell’isola con un’altezza di 423m è chiamato Otonbu 大凸部. Sembra un posto da favola, perfetto per allontanarsi dalle noie della vita quotidiana e isolarsi felicemente dal genere umano, se solo non fosse che il vulcano che si trova sotto l'isola di Aogashima è attivo, e il suo ultimo evento eruttivo, esteso nell'arco di quattro anni, risale solo a poco più di 200 anni fa.La popolazione locale, nell'arco di parecchi secoli, non sembra mai aver superato le 300-400 unità.
    Per raggiungere Aogashima ci sono solo due opzioni, o tramite elicottero o via mare partendo dall'isola di Hachijojima. Ma l'isola possiede un unico porto al cui molo, Sanbo, agibile soltanto durante le fasi di bassa marea ed in condizioni meteorologiche clementi. Il clima è nel complesso molto differente da quello di Tokyo, l'influenza della corrente Kuroshio, infatti, lo rende più caldo ed umido rispetto al centro della capitale.Possono attraccare soltanto navi di piccole dimensioni,. Le condizioni di attracco al porto sono ancora più difficili quando l'isola viene colpita da una tempesta tropicale, rimanendo totalmente isolata dal mondo esterno ad eccezione di un collegamento radio e satellitare. Durante il periodo delle tempeste, c'è il 50% di possibilità che l'unica barca che raggiunge ogni giorno Aogashima non riesca nemmeno a lasciare il porto per le cattive condizioni del mare.

    Come siano arrivati i primi abitanti sull’isola è tuttora un mistero. La maggior parte dei suoi abitanti storici sono stati giapponesi. Una leggenda sosteneva che fosse vietato l’ingresso sull'isola alle donne poichè la presenza di sesso maschile e femminile sullo stesso suolo avrebbe scatenato le ire degli dei. Le prime testimonianze scritte risalgono al XV secolo e sono per lo più racconti di naufragi quindi probabilmente i primi colonizzatori potrebbero essere marinai, i quali hanno fatto delle coste la loro casa.
    Grazie a i sui abitanti, durante il periodo Edo, fu possibile registrare le eruzioni del 1652 e del 1670-1680.Nel 1781, uno sciame sismico scatenò la prima vera eruzione; successivamente, una grande fuoriuscita di lava nel 1783 costrinse gli abitanti ad evacuare l'isola, ma le case vennero nuovamente ricostruite qualche mese dopo ignorando completamente che l'intera Aogashima si stava preparando per la futura enorme eruzione che avrebbe ucciso buona metà della popolazione locale. Durante l'evento vulcanico del 1785, l'eruzione fu innescata da un terremoto che fece aumentare la pressione del vapore accumulato all'interno della caldera Ikenosawa, la più grande delle due.Le eruzioni avvenute hanno causato disastri e distrutto le case dell’isola costringendo gli abitanti alla fuga, abbandonando tutto e cercando rifugio nell’isola più vicina, Hachijojima. Purtroppo la metà dei residenti non fece in tempo a salvarsi e più di un centinaio di persone morirono. I sopravvissuti furono costretti a intraprendere la loro nuova vita su Hachijojima e vi rimasero per circa 40 anni. Ma nessuno riuscì a dimenticarsi della propria casa: uno di questi aveva il nome di Jirodayu Sasaki. Dopo 18 anni di pianificamenti riuscì con successo a guidare una spedizione e a riabitare su Aogashima nell’anno 1835.Una storia travagliata che l'ha trasformata in un luogo incontaminato con una densità di popolazione incredibilmente bassa. I suoi abitanti vivono per lo più di caccia e di pesca, ed i ragazzi frequentano l'unica scuola presente sull'isola.
    A partire dal 1940 appartiene alla giurisdizione della sottoprefettura di Hachijo, ma alcuni documenti sembrano attestare che fosse già conosciuta nel primo periodo Edo.

    Un must tra i pochi turisti è la cottura di un uovo nel forno, che sfrutta il vapore originato dal vulcano. Che viene anche usato per produrre il sale hingya, specialità dell’isola, ottenuto scaldando l’acqua di mare con il vapore dei soffioni boraciferi.
     
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  7. gheagabry
     
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    Non si possiede mai un gatto.
    Semmai si è ammessi alla sua vita,
    il che è senz’altro un privilegio.
    (Beryl Reid)


    AOSHIMA e TASHIRO,
    LE ISOLE DEI GATTI


    Sull’isola di Aoshima, in Giappone, la popolazione di gatti è sei volte quella degli esseri umani. Aoshima fa parte della prefettura di Ehime, a sud del Paese, ed è un’isola lunga poco più di un chilometro. E' situata a circa 13 km dalla costa di Ozu.
    I primi abitanti a stabilirsi qui, circa 380 anni fa, furono alcuni pescatori giapponesi. Con loro portarono dei gatti, per sbarazzarsi dei topi che infestavano l’isola. Poi durante la Seconda Guerra Mondiale, l’isola veniva utilizzata come postazione per i rifugiati. La gente portava con sé anche i propri animali domestici. Col passare del tempo sempre più persone abbandonarono l’isola, lasciandovi case e gatti, che col tempo se ne sono “impadroniti”. Nel 1945 ad Aoshima si contavano 900 residenti. Oggi sono meno di 20, tutti pensionati tra i 50 e gli 80 anni.

    Una storia simile a quella di Aoshima la troviamo anche nell'isola di Tashiro, sempre in Giappone. Meglio conosciuta come “l’isola dei gatti”, questo lembo di terra conta circa 100 residenti (in maggioranza anziani) e centinaia, centinaia di gatti. Qui questi bellissimi micioni sono riusciti, infatti, a stringere amicizia con i pescatori già dal 1800, i primi per un po’ di cibo e i secondi per un po’ di compagnia. Successivamente il legame si è trasformato in vera e propria passione.

    I pescatori sono convinti, infatti, che nutrire i gatti porti loro fortuna e salute, una credenza che continua ancora oggi. Secondo la tradizione locale, un giorno un pescatore stava raccogliendo delle pietre da utilizzare per le sue reti, quando un masso è rotolato accidentalmente e ha ucciso uno dei gatti.
    Il profondo rispetto che il pescatore nutriva per questi animali lo ha portato a seppellire quel corpicino esanime e a creare un santuario in ricordo dello sfortunato felino e per proteggere gli altri.

    Oggi nell’isola si contano almeno 10 santuari simili, oltre a 51 statue raffiguranti mici e molti edifici a forma di gatto, con tanto di “orecchie”.

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  8. gheagabry
     
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    Mi sono unito alla fratellanza
    I miei libri erano tutti con me. Ho scritto le parole di Dio
    E molta della sua storia. Per molti anni io sono rimasto
    Arroccato in mozzo al mare. Le onde avrebbero lavato le mie lacrime
    Il vento, la memoria. Ho sentito il respiro dell'oceano ...
    E così gli anni trascorrevano.Sul mio eremo-scoglio
    Con solo un topo o un uccello, come amico. Li amavo comunque.
    (Skellig, Loreena McKennitt)


    LE ISOLE DI SKELLING



    Le Isole Skellig sono due piccoli isolotti impervi a largo delle coste del Kerry, contea sud-occidentale della Repubblica d'Irlanda.La parola "skellig" deriva dal gaelico irlandese Sceilig che significa "roccia".
    La prima che si incontra imbarcandosi dalla terraferma irlandese, è Little Skellig, disabitata e incontaminata, santuario per numerosissime specie di uccelli marini che vi nidificano.
    L'altra isola è Skellig Michael o Great Skellig, la più grande e la più importante. Sulle pendici degli speroni rocciosi vi è un monastero medievale protetto dal 1996 dall'UNESCO come Patrimonio dell'umanità.
    I ruderi dell’insediamento monastico è costituito da sei capanne ad alveare e due chiese, situate a 200 m sul livello del mare e raggiungibili tramite tre lunghe rampe di gradini che conducono verso il monastero. La scalinata che porta alle celle è impervia, costituita da 660 gradini che assecondano il profilo della roccia.

    « Un incredibile, impossibile, folle posto, che ancora induce devoti a fare "stazioni" ad ogni gradino, a strisciare in antri bui ad altitudini impensabili, e a baciare "pietre di panico" che si gettano a 700 piedi d'altezza sull'Atlantico. »
    (George Bernard Shaw, 18 settembre 1910)


    ...storia, miti e leggende...


    I primi riferimenti storici all'isola risalgono al 1400 a.C. Le prime notizie relative alle isole Skelligrisale al 600 d.C. quando erano conosciute come monastero di San Fionan. L'interno del monastero, spartano fino all'eccesso, è un'immagine dell'ascetismo e della vita rigorosa praticata dai monaci del primo Cristianesimo irlandese. Risalgano al VI secolo, gli insediamenti monastici, di cui sono testimonianza le capanne in pietra a forma di alveare, fatte di pietra viva asciutta incastrata, costruiti sulla sommità di scogliere a picco sul mare alte circa 60 metri,- chiamate "clochain" in irlandese; i tetti a mensola dei rifugi a forma di alveare furono costruiti talmente bene da non lasciar passare neanche una goccia di pioggia. Gli storici raccontano che i monaci che costruirono il sito, scendevano ogni giorno più di 600 scalini per raggiungere l'acqua da cui pescare il cibo per la colazione.
    I monaci condussero un'esistenza estrema e ascetica in questo luogo fino a quando, nel XIII secolo, il peggioramento del clima li indusse a trasferirsi sulla terraferma a Ballinskelligs. Fu riscoperto nel XVI secolo per pellegrinaggi annuali, ma senza residenti fissi. Nel 1826 fu costruito un faro.

    Racconti leggendari di Skellig indicano la sua importanza in tempi pagani. I mitici primi invasori d'Irlanda, i Tuatha de Danaan, raccontano di Milesius il cui figlio Irr è stato sepolto su Skellig intorno al 1400 aC. Un'altra leggenda parla di Daire Domhain, un 're del mondo', che ha soggiornato sull'isola, per prepararsi all'epica battaglia con il guerriero Fionn mac Cumhaill (Finn McCool) e l'esercito dei Fianna. Il riferimento storico in primo luogo conosciuto per l'isola viene dalla fine del 5 ° secolo quando il re di Munster, inseguito dal re di Cashel, fuggì a Skellig. Un'altra citazione iniziale di Skellig si trova negli Annali di Innisfallen da 823 dC, che dice: ". Skellig è stata saccheggiata dai pagani e Eitgal (l'abate) è stato portato via ed è morto di fame sulle loro mani" Dai primi del IX secolo i vichinghi saccheggiarono ripetutamente il monastero, uccidendo molti dei suoi abitanti. I monaci resistettero e le leggende narrano che nel 993 d.C, il vichingo Olav Trygvasson, che in seguito divenne il re di Norvegia e introdusse il cristianesimo in questo paese, fu battezzato da un eremita su Skellig Michael.

    Il rapporto tra santuari e mare nelle isole britanniche, e in particolare in Irlanda, è antico e profondo: la nuova religione cristiana, arrivata attraverso il mare, attecchì inizialmente nelle zone costiere e si diffuse poi nell’entroterra. La via marittima fu anche il mezzo attraverso cui giunse il culto per l’Arcangelo Michele. Emblema è il monastero di Skellig Michael, la“Roccia di Michele”. La leggenda vuole che l’Arcangelo, sia apparso su quest’isola a San Patrizio patrono del Paese per aiutarlo a liberare l’Irlanda da demoniache presenze.


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  9. gheagabry
     
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    L'ISOLA DI OL'CHON



    Ol'chon è un'isola situata nel lago Bajkal, Russia. È la più grande e l'unica isola abitata del lago, ed è la terza più grande isola lacustre del mondo dopo Manitoulin e l'isola René-Levasseur, in Canada.
    Il suo nome deriva dalla parola buriata oj-chon, "un po' boschiva" o "piccola foresta", dato che l'isola è composta da steppa per il 55% e foresta per il restante 45%. Ha una lunghezza di 71,7 km, e una larghezza di 15 km, la sua superficie è di 730 km². Sull'isola c'è una diversità di paesaggi: taiga, steppa, baie riparate, spiagge di sabbia con dune, colline, boschi di larici e abeti, massi ricoperti di muschio, paludi con piante acquatiche. L'isola è ventosa e soggetta a erosione e tende alla desertificazione. Sulle sue dune di sabbia, cresce una pianta endemica estremamente rara, l'Astragalus olchonensis, è perenne e appartiene alla famiglia delle leguminose, del genere Astragalus.
    La popolazione è di 1.500 persone, per la maggior parte buriati. Il villaggio di Chužir è il centro abitato più importante dell'isola, una volta zona di foresta, è già stato invaso dalla sabbia.



    Capo Burchan detto la "roccia dello sciamano", si trova sulla costa nord-ovest dell'isola e si protende nelle acque dello stretto Maloe More. La roccia è un luogo sacro, e non solo per lo sciamanesimo, ma anche per il lamaismo dei buriati. Monaci buddisti credevano che nella grotta vivesse una divinità mongola e venivano qui in pellegrinaggio. La roccia è alta 42 m e ha una tortuosa caverna vicino alla riva dove aveva accesso solo lo sciamano, mentre era vietata alle donne che dovevano tenersi a grande distanza. Era venerata dalla popolazione locale e luogo di sacrifici. Ai piedi della roccia è rimasto un misterioso disegno e una scritta in sanscrito.



    Il villaggio di Bugul’deyk e il Capo Krestovsky, una volta era abitato dall’antica popolazione dei Kurykany e vi sono le rocce di Sagan-Zaba con incisioni raffiguranti renne, cacciatori e sciamani. Kurbat Ivanov la raggiunse nel 1643 nel suo viaggio alla scoperta del lago Bajkal.




    "... evitava di rivelare la sua provenienza.
    Abitata dalla minoranza dei Buriati mongoli,
    la regione è punteggiata dagli appuntiti pali-totem
    coi loro festoni colorati svolazzanti al vento, che non manca mai.
    Nel tipico sincretismo sciamanico-buddista-lamaista-tibetano dei mongoli,
    l’azzurro allude al cielo, il giallo al Tibet ed il bianco alla felicità. "

    (Linee d’ombra, di Otto Toni)


     
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  10. gheagabry
     
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    Non hai forse sognato come me
    da bambino
    davanti all’atlante spalancato
    su quella pagina piena d’azzurro
    quelle lontane eppure nostre
    antartiche e francesi
    Kerguelen?

    “Spazzate senza tregua dai venti implacabili dell’ovest che soffiano tutto l’anno con la forza di una tempesta, isolate in mezzo a un mare in perenne burrasca, con le onde spietate che s’infrangono su nude rocce taglienti e scoscesi speroni in basalto, perse nella nebbia e nella gelida pioggia che cade insistente a crudeli intervalli.. Così si presentano, all’occhio di chi si avventura nell’oceano, le Kerguelen.”


    Isole Kerguelen



    Le Isole Kerguelen sono un arcipelago dell'Oceano Indiano meridionale. Appartengono alla Francia e costituiscono uno dei cinque distretti delle Terre australi e antartiche francesi (Terres Australes et Antarctiques Françaises - TAAF). L'arcipelago, frammento di Francia a 12.500 Km da Parigi, si trova nell’oceano Indiano meridionale. Le distanze dai continenti fanno quasi paura: 5.300 Km dal Sudafrica, 4.800 dall’Australia, 2.000 dall’Antartide. Lungo le rotte che separano l’arcipelago dai continenti è raro incontrare altre terre emerse.

    L'isola principale, chiamata Isola della Desolazione, ha una superficie di 6.675 km² ed è circondata da circa trecento scogli e isolotti per altri 540 km². L'arcipelago ha una superficie complessiva di 7.215 km², ed è collegato al Pianoro delle Kerguelen, un vasto altipiano sottomarino. L’altitudine media è di 500 metri, ma il cono vulcanico del monte Ross supera i 1.900. La parte meridionale dell'isola è coperta da una calotta permanente di ghiaccio detta cupola di Cook.

    Il clima è condizionato dalle irruzioni di venti antartici con foschie, piogge frequenti e possibilità di nevicate in tutte le stagioni. Il vento spira pressoché costantemente da Ovest verso Est (150–200 km/h). Il fatto che l'isola sia molto ventosa impedisce la crescita di alberi; il paesaggio è formato da modeste praterie nelle zone piane costiere, pareti rocciose e qualche laghetto o corso d'acqua a carattere torrentizio. Le coste sono scoscese e frastagliate, con la presenza di numerosi profondi fiordi. Le regioni costiere più o meno pianeggianti fino ad una quota di circa 50 m, se non totalmente rocciose possono essere coperte da un basso manto erboso, tundra; più in alto dove il suolo è prevalentemente roccioso la vegetazione è invece molto rara, limitata a ciuffi d'erba, muschi e licheni. In origine la vegetazione predominante a bassa altitudine era quasi esclusivamente composta dal “prato ad azorella” (Azorella selago, Apiaceae) in strato piuttosto spesso e continuo, all'interno del quale erano sparsi esemplari del famoso “Cavolo delle Kerguelen”, Pringlea antiscorbutica . Il prato ad Azorella era una vegetazione a tappeto, cioè continua e ricoprente, in strati, cresciuti anno dopo anno di notevole spessore. La Lyallia kerguelensis (Hectorellaceae), la sola specie botanica strettamente endemica dell'Arcipelago, ha un portamento ricoprente del tutto analogo. Con la colonizzazione umana però furono introdotti i conigli, che devastarono un’ampia parte la vegetazione erbacea, che fu sostituita da un prato mono-specie costituita da Acaena ascendens (Rosaceae). I tappeti ad Azorella ed a Lyallia sono ancora presenti sulle isole dell'arcipelago . Anche la presenza della Pringlea antiscorbutica, di certo il più noto vegetale delle Kerguelen, eè in pericolo per la presenza dei topi, anche loro introdotti dalla colonizzazione, che predano i semi.



    La colonizzazione umana ha danneggiato in modo gravissimo la biodiversità delle Kerguelen, specialmente con la caccia alle foche e la pesca di cetacei australi. La fauna endemica attuale è rappresentata essenzialmente da uccelli migratori, elefanti marini e varie specie di pinguini. Sono presenti tuttavia molti animali europei che, introdotti nel XIX secolo, hanno alterato profondamente l'ambiente, in particolare conigli, ratti e gatti. Questi ultimi, introdotti per cacciare i ratti, hanno finito per inselvatichirsi, arrecando gravi danni ai nidiacei degli uccelli marini. Sono state inoltre immesse renne, che si alimentano a carico delle estensioni di licheni, e trote nei ruscelli.

    L'isola ospita alcune decine di scienziati , soprattutto sismologi e meteorologi, che lavorano per spedizioni scientifiche attive sin dal 1949. La loro permanenza è normalmente stagionale, ma alcuni vi vivono stabilmente con le famiglie. La popolazione varia dalle 80 unità in inverno alle 150 unità in estate. La base scientifica principale Port-Aux-Français è situata all'estremità orientale del Golfo di Morbihan.




    Il prodotto più prezioso e peculiare dell’arcipelago, al di là delle aspettative dei pionieri, si rivelò una specie vegetale: il cavolo delle Kerguelen. Tuttora studiato da équipe specializzate di botanici, è una pianta strettamente endemica, particolarmente ricca di vitamina C. I marinai di passaggio, che nell’Ottocento potevano fare affidamento solo su scatolame e carne affumicata, presero l’abitudine di cibarsene per prevenire lo scorbuto. Il botanico che scoprì le virtù della pianta fu Joseph Dalton Hooker, che sbarcò su Grande Terre con la spedizione di Ross. L’equipaggio della nave inglese fu il primo a godere di un pasto arricchito dal prezioso nutriente. Lo scienziato annotò minuziosamente i dettagli su un diario con tanto di illustrazioni. Il cavolo delle Kerguelen è anche una delle poche piante locali che producono fiori.

    Nei pressi del monte Havergal (non lontano da Christmas Harbour) un altro scienziato della spedizione, Robert McCormick, rinvenne i resti di un tronco d’albero la cui circonferenza misurava più di due metri. La scoperta, sommata ai giacimenti di lignite trovati nell’interno, dimostrò che in epoche antiche gli alberi erano presenti alle Kerguelen e probabilmente le temperature erano più vicine a quelle di un clima sub-tropicale.

    “Era il 17 febbraio 1772. Due velieri su cui sventolano i colori del Regno di Francia si avvicinano cautamente alla massa di terra che emerge dal mare burrascoso. Sono la Fortune e il Gros-Ventre, comandati dal capitano di vascello de Kerguelen Trémarec, in viaggio in quelle lontane regioni meridionali del globo in cerca dell’allora Terra Incognita Australis; che poi si sarebbe scoperta essere l’Antartide, ma di cui allora si favoleggiava l’esistenza e se ne sognavano le ricchezze. C’è una grande eccitazione a bordo: potrebbe essere la tanto agognata terra, una scoperta tale da rendere immortale l’equipaggio. Gli occhi di tutti i marinai scrutano quella landa battuta dal vento, su cui non si vede nulla, se non rocce e distese erbose. Soprattutto il naturalista di bordo, Jean Guillaume Bruguière, è eccitato dall’idea di mettere piede su una terra mai visitata prima, e dove è sicuro di imbattersi in piante e animali sconosciuti. Ma il mare è troppo agitato per avvicinarsi: il rischio è di andare a sbattere a qualche scoglio e fare naufragio, che equivale a una condanna a morte in quelle terre lontane e inesplorate. Meglio non tentare la sorte. I due velieri restano a largo per la notte. Il giorno dopo ritentano l’approdo, ma il mare è ancora troppo infuriato per rischiare di avvicinarsi, e il vento non permette facili manovre sotto costa. Il capitano allora fa allestire una lancia e ordina al suo primo ufficiale Charles de Boisguehenneuc di prepararsi: basterà un gruppetto di uomini per prendere possesso di quel lembo di terra a nome del Regno di Francia. E’ il 13 febbraio 1772, per la prima volta nella storia gli uomini calcano il suolo dell’Isola della Desolazione.”

    ….Storia….

    Le isole Kerguelen furono avvistate per la prima volta nel 1772 dal navigatore bretone Yves Joseph de Kerguelen-Trémarec, partito alla ricerca della leggendaria Terra Australis. Lo stesso scopritore dovette rinunciare a mettere piede sulla terraferma a causa del fortissimo vento. Solo una scialuppa con alcuni volontari, tra cui il sottotenente di vascello Charles-Marc de Boisguehenneuc, fu inviata ad approdare simbolicamente sulla costa per prendere possesso delle isole in nome del re di Francia, Luigi XV. Nella sua relazione al re, l’esploratore sottolineò l’importanza dei territori appena scoperti, sovrastimandoli di molto dal punto di vista di un possibile sfruttamento, e ottenne il finanziamento per una nuova spedizione. Convinto di aver scoperto un intero continente, il capitano già sognava un glorioso futuro per la Francia australe. Il nuovo viaggio, tuttavia, servì solo a constatare quanto le isole fossero inospitali e improduttive, tant’è vero che al suo rientro in Francia il navigatore fu incarcerato dal re.



    Quando James Cook raggiunse le Kerguelen pochi anni dopo, approdò nello stesso punto dove l’imbarcazione francese aveva toccato terra, in corrispondenza del grande arco di pietra di Baie de l’Oisieu. Sulla sommità di un tumulo di pietre fu trovata una bottiglia con un foglio al suo interno. Si trattava di un messaggio in latino con il quale i marinai francesi rivendicavano la sovranità sull’arcipelago. Secondo la tradizione, Cook dichiarò semplicemente: “Queste isole della desolazione i francesi se le possono tenere.” Da quel giorno, il nuovo nomignolo dell’arcipelago divenne di uso comune, specie tra gli equipaggi inglesi e americani che faticavano a pronunciare correttamente il nome ufficiale. Oggi il luogo dell’approdo della flotta di Cook è noto come Christmas Harbour (lo sbarco era avvenuto il giorno di Natale del 1776). Il grande arco, alto 103 metri, è crollato; rimangono visibili le due massicce colonne di roccia nera che sostenevano l’architrave naturale.

    Tra i visitatori più celebri degli anni successivi va ricordato James Clark Ross che nel 1840 perlustrò le isole per 68 giorni. Le sue navi gemelle, la Erebus e la Terror, proseguirono in seguito per l’Antartide.

    Nel 1893 le isole furono ufficialmente riconosciute come possedimento francese. Nello stesso anno il governo concesse ai fratelli Henry e René-Émile Bossière lo sfruttamento dell'isola per cinquant'anni, ma tutto spirò prima per l’estinzione delle foche su cui si basava lo scopo della concessione. I due fratelli decisero, prudentemente, di procedere per gradi: una missione esplorativa. Stabilirono una base sulla penisola Bouquet de la Grye, in corrispondenza di una baia riparata già utilizzata come approdo da americani e tedeschi. Insieme agli uomini sbarcarono 20 pecore islandesi, 2 capre, 3 cavalli e qualche maiale: gli animali si ambientarono bene e in fretta. Dimostrarono di sopportare bene le avversità climatiche e di gradire il foraggio delle praterie, dove l’erba d’estate superava l’altezza delle ginocchia. La spedizione fu di breve durata; pecore, capre e maiali furono lasciati liberi sull’isola. Quando gli esploratori tornarono l’anno seguente, il numero degli ovini era più che raddoppiato, e gli agnelli nati poco prima dell’inverno erano in ottima salute. I maiali dimostrarono di gradire la vegetazione locale più del cibo portato appositamente via nave. Era lecito supporre che con un riparo a disposizione il bestiame avrebbe potuto sopportare un inverno più rigido senza problemi. Henry Bossiére manifestò il proprio entusiasmo con un articolo scritto per il settimanale L’Illustration dell’11 settembre 1909.

    I fratelli avevano già concesso in subappalto una parte di territorio ad una compagnia baleniera norvegese che voleva stabilire una base sulla terraferma. I norvegesi scelsero la regione già esplorata anni addietro dalle spedizioni scandinave, e in breve tempo fondarono Port Jeanne d’Arc, primo vero insediamento umano alle Kerguelen, nel 1908. La prima stagione fu decisamente proficua, con 232 balene catturate. I norvegesi iniziarono a cacciare anche i leoni marini sulla terraferma. All’apogeo della sua breve vita, la stazione baleniera ospitò 140 persone impiegate nella lavorazione e nella manifattura di prodotti.
    Ma ben presto il mantenimento del porticciolo fu considerato antieconomico e la lavorazione fu spostata direttamente a bordo della nave-appoggio. Dopo poche stagioni di pesca, appena giunsero notizie della Grande Guerra, i norvegesi lasciarono definitivamente l’arcipelago. Il minuscolo porticciolo, oggi abbandonato, è praticamente integro.

    “La missione che avrebbe dovuto cambiare le sorti dell’arcipelago iniziò nel 1913. Una nave della compagnia dei Bossiére, con a bordo René, salpò da Swansea e fece scalo alla isole Falkland, dove 1.503 pecore erano pronte per essere caricate. Una seconda nave avrebbe trasportato alle Kerguelen 4 pastori, rifornimenti e materie prime da Città del Capo alle Kerguelen.

    La prima nave fu ostacolata da condizioni meteorologiche avverse e la partenza dalle Falkland fu rimandata a luglio, in pieno inverno australe, con due mesi di ritardo rispetto alla tabella di marcia. Più di 400 capi di bestiame pagati a caro prezzo morirono durante il lungo viaggio attraverso l’oceano; l’equipaggio, stremato, sbarcò in agosto, constatando che l’altra nave, dopo una lunga attesa, aveva infine abbandonato l’arcipelago senza aspettare. Un accampamento di poche capanne provvisorie, edificate in corrispondenza della vecchia base degli esploratori, fu battezzato Port-Couvreux. Henry e René Bossiére riuscirono a reperire una nuova imbarcazione che in soli dieci giorni di navigazione raggiunse l’arcipelago da Città del Capo con gli uomini e i rifornimenti. Seppure con qualche difficoltà, l’avventura coloniale ebbe inizio. Il tempo, purtroppo, fu da subito inclemente: continue tempeste di neve iniziarono a spazzare la tundra. Altre pecore morirono per il gelo durante lo sbarco. Le mille sopravvissute, che avrebbero dovuto pascolare liberamente, furono stipate all’interno di baracche precarie costruite sul momento. Si scoprì addirittura che i conigli, introdotti dalla spedizione del Challenger del 1874, si erano moltiplicati ad un ritmo impressionante e avevano devastato la vegetazione delle praterie. La speranza degli uomini iniziò a vacillare quando fu chiaro che l’area scelta per l’allevamento non era tra le più adatte, in quanto troppo esposta ai venti perenni dell’arcipelago. I coloni affrontarono interminabili giorni di lavoro, freddo e smarrimento. A settembre, René proseguì a bordo della prima nave, con la quale raggiunse l’Australia. Da Bunbury riuscì a tornare a Città del Capo, dove era atteso per discutere dei problemi della società, legati anche allo scoppio della prima Guerra Mondiale. La dirigenza decise di noleggiare un’altra nave insieme alla compagnia norvegese che aveva lasciato due guardiani a Port Jeanne d’Arc. Era necessaria una completa evacuazione delle isole. Quando l’ultimo uomo abbandonò le Kerguelen, erano rimaste in vita circa 200 pecore. Dopo la prima Guerra Mondiale, nel 1920, ci fu un nuovo tentativo di insediamento. Una compagnia mista anglo-norvegese provò a ripristinare l’industria baleniera versando diritti di sfruttamento alla società dei Bossiére.
    Contemporaneamente, René decise di ritentare la via dell’allevamento a Port-Couvreux. Gli edifici furono restaurati, ma la spedizione abbandonò la base dopo pochi mesi perché non si riuscì a trovare traccia di pecore sopravvissute. Si provò a ripopolare la colonia iniziando con 50 pecore sudafricane e alcuni maiali, questa volta nutriti con un mangime ricavato dalle carcasse delle foche. René ingaggiò tre pastori che raggiunsero le Kerguelen a bordo di una baleniera. Tre famiglie di Le Havre, due delle quali con figli, si aggiunsero più tardi, nel 1927. I risultati sperati, tuttavia, non arrivarono; il clima, la solitudine e l’isolamento forzato ebbero la meglio sul morale e sulla sulla salute dei coloni. La carne dei maiali, per quanto nutriente, aveva un sapore pessimo. Alcuni uomini trovarono la morte in seguito ad incidenti. I superstiti, unici abitanti non stagionali della storia delle Kerguelen, abbandonarono definitivamente l’arcipelago nel 1931.”




    Durante la Seconda guerra mondiale, nel dicembre del 1940 l'incrociatore ausiliario tedesco Atlantis si rifugiò sulle Kerguelen per una sosta di manutenzione e per fare provvista d'acqua. La prima vittima di guerra della nave capitò proprio lì, quando il marinaio Bernhard Herrmann precipitò dal fumaiolo mentre lo stava dipingendo. Venne quindi sepolto in quella che venne definita "la più meridionale sepoltura militare tedesca" della seconda guerra mondiale. L’ultimo tentativo di sfruttamento economico delle Kerguelen con un impianto industriale risale agli anni ’50: il giovane imprenditore Marc Péchenart fece costruire un piccolo stabilimento per la lavorazione del grasso di foca. La piccola fabbrica, all’interno della quale fu celebrato l’unico matrimonio della storia delle Kerguelen, fu abbandonata nel 1960. Alcuni macchinari furono trasportati a Réunion, altri vennero semplicemente lasciati ad arrugginire sul posto, e sono tuttora visibili.

     
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  11. gheagabry
     
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    L’isola più lontana è quella che non conosci.. L’esistenza delle Kerguelen è la definizione di isolamento. Pochissimi ne hanno sentito parlare; quasi nessuno, probabilmente, saprebbe indicarle sull’atlante. Eppure non dovrebbero passare inosservate, visto che la loro superficie è pari a quella di una regione italiana. L’arcipelago, avvolto da un’atmosfera decadente di mistero, è testimonianza di una Terra primordiale non ancora intaccata dall’uomo. L’avventura dei suoi pionieri – esploratori e coloni delle terre australi – è una storia enigmatica e affascinante, che parla di tenacia e di una sfida alla fine del mondo.

    Il mistero delle isole Kerguélen



    Maggio 1839, emisfero Sud. Nel cuore del temibile inverno australe, alcuni uomini stanno avanzando sul terreno diseguale di una sperduta e deserta isola di origine vulcanica, là dove le acque azzurre dell'Oceano Indiano si confondono tumultuosamente con quelle verde scuro dell'Antartico, le cui onde spazzate dai venti dominanti dell'Ovest s'imbiancano di spuma. Mano a mano che si allontanano dalla riva, il fragore del mare si attenua e alla fine scompare e ogni cosa sembra stemperarsi in un'atmosfera strana ed arcana, sotto un cielo plumbeo e uniforme. Uno spesso strato di neve copre il terreno ed i suoni giungono attutiti dall'atmosfera umida e fredda e dal soffice mantello candido che ricopre ogni cosa, come se tutta la scena fosse per incanto scivolata in un'atmosfera senza tempo. Del resto, non vi sono altri rumori che quelli prodotti dagli insoliti visitatori: un gruppetto di ufficiali e marinai della nave di Sua Maestà britannica "Erebus", un veliero di sole 370 tonnellate e appena 26 uomini d'equipaggio, e della sua gemella, "Terror". Minuscole le navi ed esiguo il loro carico umano: ciò fa apparire ancor più opprimente, per contrasto, il grandioso ma triste spettacolo di quella natura selvaggia cui a suo tempo è stato imposto, non a caso, il nome eloquente di Isola della Desolazione. Nessuna fronda di verzura stormisce al soffio incessante dei venti australi, poiché gli alberi non allignano in quei luoghi inospitali e le uniche foreste esistenti sono quelle fossilizzate, estrema e patetica testimonianza di un tempo remotissimo in cui il clima dell'isola dovette essere ben più dolce e accogliente, probabilmente di tipo sub-tropicale. L'unica pianta che si avvicini in qualche misura alle dimensioni arboree era una curiosa specie di cavolo gigante, detto cavolo delle Kerguélen, che non era sfuggito alla vigile attenzione del medico di bordo, sir John Dalton Hooker , allora un giovane pressoché sconosciuto ma che più tardi sarebbe divenuto un botanico famoso, fra i più celebri del suo tempo. Allo stesso modo, il candido manto di neve non appare segnato dal passaggio di alcun essere vivente, poiché nessun mammifero terrestre vive in quelle remote latitudini, né tanto meno alcun rettile o anfibio, animali che abbisognano di un clima decisamente più mite.
    Mano a mano che i visitatori ardimentosi di quel luogo enigmatico si allontanano dalla riva del mare e si lasciano alle spalle il rumore della risacca e la rassicurante sagoma della loro nave alla fonda nel porto naturale, la ricognizione verso l'interno si trasforma in una marcia dai contorni vagamente surreali. Il profondissimo, millenario silenzio che avvolge ogni cosa, la quiete innaturale, indecifrabile che sembra tutto avvolgere, la consapevolezza che forse mai piede umano ha preceduto i loro passi danno veramente a quegli uomini la sensazione d'esser giunti agli estremi confini del mondo. Eppure, nonostante la intensa nota di malinconia che lo pervade, il paesaggio reca in sé una sottile sfumatura di fascino, difficile da definire ma nondimeno evidente; quasi una bellezza arcana e primigenia che la Natura possente ha voluto imprimere perfino in quelle lande desolate. Mentre alzano lo sguardo lungo le pendici del monte Ross, che spinge la sua vetta ghiacciata a duemila metri d'altitudine, sotto una densa coltre di nubi grigie, gli uomini si sentono terribilmente piccoli, fragili, in un certo senso - direbbe Lucrezio - casuali: come ospiti inattesi di uno spettacolo grandioso che non per essi era stato allestito.
    Ecco le parole con le quali, circa un secolo dopo, un ufficiale della Marina da guerra germanica descriverà quei luoghi e la loro strana atmosfera: "Un ruscello gorgogliava tra sassi e ciuffi d'erba lungo il sentiero. Intorno a noi le montagne si alzavano avvolte dalle nubi... Una squallida desolazione regnava sui monti e nelle valli. Eppure, per quanto triste e brullo, il paesaggio non era privo di fascino per chi non vedeva da tanto tempo né un monte né un pianoro e sicuramente non ne avrebbe più visti per molti mesi." Certo, le cose sarebbero state molto diverse se l'"Erebuse" la sua gemella, il "Terror" fossero approdate laggiù qualche mese prima: durante l'estate antartica, le pianure s'ingentiliscono grazie ai vivaci colori di numerose piante fiorite, come "Azorella", "Pringlea" e "Festuca", mentre l'aria risuona dei richiami incessanti di migliaia e migliaia di uccelli migratori venuti di lontano, primo fra tutti l'albatro gigante. Ma ora tutto appare deserto, abbandonato, come avvolto da un'atmosfera senza tempo: e sembra che l'aria fredda e umida, il cielo basso e la terra silenziosa siano sospesi, in attesa di qualcosa.
    Ed ecco che il comandante di quel piccolo drappello, il trentanovenne sir James Clark Ross, si arresta improvvisamente senza poter trattenere un fortissimo moto di stupore, mentre uno sguardo di meraviglia e d'incredulità passa dai suoi occhi a quelli dei suoi compagni, l'uno dopo l'altro. Perché hanno visto tutti, chiaramente, qualche cosa che supera la loro capacità di comprensione, qualche cosa che "assolutamente non avrebbe dovuto essere lì". Sul mantello di neve immacolata che copre ogni cosa si stagliano, nette, delle impronte di un qualche animale: più precisamente, delle orme di zoccoli. Si allontanano dalla regione costiera per spingersi verso l'interno e si perdono in direzione delle alture. Orme di zoccoli, laggiù, in capo al mondo! E tutto lascia pensare che siano anche recenti, poiché, diversamente, la neve le avrebbe rapidamente cancellate. I marinai britannici stentano a credere ai loro stessi occhi: come è possibile una cosa del genere?

    LA CORNICE



    Sir James Clark Ross, nato a Londra il 15 aprile del 1800, aveva già una discreta fama come esploratore polare. Compagno di sir William Edward Parry nelle sue spedizioni artiche, il 31 maggio 1831 aveva localizzato l'esatta posizione del Polo Nord magnetico nella Penisola di Boothia (Canada settentrionale). Nel 1835-36 era stato inviato nello Stretto di Davis, con la nave Cove, per soccorrere un certo numero di baleniere inglesi provenienti dal porto di Hull, rimaste intrappolate nei ghiacci. Infine, il 18 aprile 1839 aveva assunto il comando della spedizione antartica formata dall'"Erebus", come si è detto, e dal "Terror", quest'ultimo di 340 tonnellate e con un equipaggio, anch'esso, di 26 uomini, al comando del suo amico Francis Crozier. Ross aveva avuto istruzioni di salpare per la Tasmania allo scopo di stabilire una stazione permanente per eseguire osservazioni magnetiche. Lungo la traversata doveva compiere analoghe osservazioni all'isola di S. Elena, nell'Atlantico meridionale, e al Capo di Buona Speranza.
    L'"Erebus" e il "Terror" giunsero in vista delle Kerguélen nel giugno e vi stazionarono per due mesi, in attesa di compiere il balzo successivo verso la Tasmania e, di lì, per le isole Auckland, fino all'Antartide. Quei due mesi furono impiegati da un gruppo di ufficiali per fare rilievi magnetometrici e da Ross, personalmente, per compiere osservazioni astronomiche e nautiche.
    L'arcipelago delle Kerguélen deve il nome al suo scopritore, il bretone Yves I. de Kerguèlen-Tremarec, che le avvistò il 13 febbraio 1772 e le credette parte, tanto per cambiare, del supposto continente australe o Terra Australis Incognita - la grande ossessione geografica del Settecento, nonché dei due secoli precedenti. In Francia, infatti, "il presidente Charles de Brosses, convinto che nel Sud esistesse un continente grande quanto Europa, Asia e Africa messe insieme, riunì materiale di ogni genere e in tutte le lingue, per prepararne l'esplorazione. Tutti gli elementi raccolti formano il tema della sua "Storia delle navigazioni verso le Terre Australi", che l'autore teneva aggiornata, senza tuttavia che la seconda edizione fosse mai pubblicata; l'opera, che spinse più di un navigatore verso la Magellania, la Polinesia e l'Australasia, si trova attualmente presso la Biblioteca Nazionale di Parigi."
    Si direbbe che quella ossessione arrivasse a offuscare le idee anche di esperti navigatori, se è vero che, tornato in patria senza averne riconosciuta la natura insulare, contro il parere del proprio equipaggio descrisse la terra da lui scoperta come una specie di Paradiso Terrestre. Deciso a sostenere la veridicità del suo racconto, nel 1774 Kerguélen si rimise in mare con due navi e volle tornare alla Francia Australe (così aveva denominato inizialmente quelle terre), ma una furiosa tempesta impedì nuovamente lo sbarco e rese impossibile un preciso rilevamento delle coordinate geografiche.
    Quel che è certo, questa volta anche l'ostinato ottimismo del navigatore francese dovette ricevere un duro colpo visto che all'affascinante descrizione fatta dopo il primo viaggio subentrò una diversa valutazione dei fatti. Probabilmente non era un'appendice della vasta Terra Australe e, comunque, la sua posizione e il suo clima non erano poi tanto favorevoli, dato che questa volta fu lo stesso Kerguélen-Tremaréc a ribattezzare l'arcipelago Terra della Desolazione.
    Così - conclude Silvio Zavatti - il nuovo viaggio non portò a nessun risultato positivo, anzi riaccese polemiche e accuse, per le quali il navigatore subì gravi punizioni e condanne." Difficile perdonargli, in ogni caso, di aver infranto un sogno plurisecolare come quello di una edenica Terra Australe Incognita, un mito che lui stesso aveva alimentato entusiasticamente due soli anni prima e sul quale, due anni dopo (nel 1776), il capitano James Cook, giunto con le due navi "Resolution" e "Discovery" alle isole Kerguélen e riconosciutane definitivamente la natura insulare, chiuderà per sempre la pietra tombale.
    Come si è detto, i primi esploratori non trovarono traccia di una fauna indigena superiore, a parte numerosi uccelli e tre distinte specie di pinguini: reale, papua e gorgua. La fauna inferiore è rappresentata da un certo numero di insetti senza ali, perché i forti venti dominanti dell'Ovest renderebbero impossibile qualsiasi tentativo di volo; da un lepidottero parassita del cavolo, ossia una mosca essa pure priva di ali; da alcuni acari e da due o tre Protozoi che vivono nel muschio, un tipo di vegetazione molto diffusa a causa della persistente umidità del clima.
    Furono i Francesi, molto più tardi, che tentarono d'introdurre una fauna superiore per motivi economici (l'arcipelago era stato annesso alla Francia nel 1893). Nel 1908-11 e poi ancora nel1927-28 essi tentarono l'allevamento delle pecore, ma anche se l'esperimento non fallì del tutto, una serie di ragioni, prima fra tutte la difficoltà di rifornimenti, indussero i colonizzatori a ritirarsi dalle isole, rinunciando a persistere nel tentativo.

    LE IPOTESI



    Sorpresa e affascinazione sono, dunque, i sentimenti che James Clark Ross e i suoi compagni provano, in quel maggio del 1840, davanti alle impronte di zoccoli sulla neve dell'isola Kerguélen. Dopo un comprensibile momento di stupore e quasi d'incredulità, si decide di tentare di andare a fondo nell'enigma così inaspettatamente presentatosi in quella remota terra dell'emisfero australe. Il gruppo si mette a seguire le impronte, ma ben presto è costretto a fermarsi, deluso: esse scompaiono improvvisamente su un terreno roccioso, non c'è più niente da fare. Bisogna tornare indietro senza aver potuto dare una risposta alla domanda: qual è l'origine di quelle impronte, dal momento che sull'isola non vi sono né ponies né altri animali in grado di lasciare orme simili?
    James Clark Ross scrive subito un rapporto sullo strano episodio, ma esso passa praticamente inosservato. La relazione del viaggio antartico di Ross, qualche anno dopo, viene bensì letta e apprezzata da un selezionato pubblico di specialisti, ma non diviene mai quel che si dice, oggi, un best-seller. E così, quasi certamente, il mistero delle impronte dell'isola Kerguélen sarebbe stato del tutto dimenticato se quindici anni dopo, quando il pubblico inglese è travolto dall'"affaire" delle cosiddette "impronte del diavolo del Devonshire" (febbraio 1855), qualcuno non si ricordasse di quella vecchia e strana storia. È un corrispondente del "London Illustrated News" a rispolverare il rapporto dell'esploratore James Clark Ross e a richiamare su di esso l'attenzione sovreccitata dei lettori del Regno Unito : ma di questo parleremo fra breve.
    Dobbiamo ora tentare di dare una qualche risposta agli interrogativi che il "mistero delle Isole Kerguélen" sollecita, e cercheremo di farlo con mente sgombra, per quanto possibile, da pregiudizi, senza per questo esser disposti a cadere nella credulità.
    Un fatto naturale richiede, fino a prova contraria, una interpretazione di tipo naturale: questa è una ovvia premessa di carattere metodologico. E tuttavia il concetto di "evento naturale", dopo le scoperte di fisici come Einstein ed Heisenberg, si è enormemente arricchito di valenze ignorate all'epoca della Rivoluzione scientifica del XVII secolo. Il problema è che, mentre gli specialisti delle varie scienze (matematica, fisica, scienze naturali e scienze della psiche) sono perfettamente consapevoli di non poter studiare i fatti del mondo naturale con lo stesso punto di vista di Francesco Bacone, Galilei, Cartesio o Newton, gran parte dei divulgatori scientifici e, attraverso di essi, del pubblico dei non-specialisti, sono rimasti ancorati a una visione scientifica alquanto datata: quella, in sostanza, impostasi in Occidente, verso la fine del XIX secolo, con la filosofia del Positivismo.

    Questa premessa era necessaria perché il campo del possibile, nella scienza contemporanea, si è molto allargato rispetto a quanto comunemente ammesso prima della "scoperta" delle matematiche non euclidee, delle particelle sub-atomiche e della dimensione inconscia della psiche. La teoria dei quanti, nel campo della fisica, o il riconoscimento dei casi di personalità multipla, in quello della psicologia, per fare solo due esempi, hanno letteralmente rivoluzionato la nostra visione del mondo naturale. Non solo: passata (almeno fra gli specialisti) la stagione dell'ubriacatura positivistica e neopositivistica, cioè di una visione rozzamente scientista della realtà, torna con forza crescente la vecchia domanda: è possibile esplorare "tutto" il campo delle realtà naturali, servendosi "esclusivamente" degli strumenti d'indagine, materiali e concettuali, forniti da quella facoltà che quasi tutte le filosofie dell'Occidente (ma solo dell'Occidente, anzi dell'Occidente "moderno") definiscono genericamente la "ragione" ma che è, a ben guardare, solo una parte di essa, e cioè "la ragione strumentale e calcolante"?
    Problemi difficili, certo, e la cui trattazione - anche sommaria - esulerebbe di gran lunga dai limiti della presente indagine. Tuttavia era giusto, crediamo, almeno accennarvi, prima di tentare una modesta indagine sulla questione che ci eravamo proposta. Ora, se è giusto - in una ricerca scientifica - partire dalla spiegazione più semplice di un determinato fenomeno naturale, la prima ipotesi cui si è tentati di ricorrere per spiegare il mistero delle impronte viste dagli uomini della spedizione antartica di J.C. Ross è che esse siano state lasciate sulla neve da un animale introdotto dall'uomo. Abbiamo ragioni per ritenere verosimile una tale ipotesi?
    In linea di massima, saremmo portati a rispondere affermativamente a questa domanda, nonostante il parere negativo espresso da James Cook circa le possibilità di sopravvivenza di animali introdotti dall'Europa.
    Dopo la visita del capitano Cook, nel 1776, l'arcipelago delle Kerguélen divenne il punto d'incontro di cacciatori di foche e di balene, che le usarono - come molte altre isole sub-antartiche - quale base provvisoria durante le loro spedizioni di caccia, che potevano durare anche tre anni. Erano i tempi d'oro di quel genere di battute, immortalati, fra l'altro, da romanzi famosi come "Moby Dick" di Herman Melville. Gli studiosi di botanica, e particolarmente di fitogeografia, sanno bene quali danni irreparabili quei cacciatori di foche e di balene portarono agli ecosistemi delle isole oceaniche perché, oltre a compiere stragi indiscriminate di cetacei e di pinnipedi, spesso fino alla totale estinzione, essi avevano preso l'abitudine di sbarcare a terra, in quelle isole, animali domestici destinati all'alimentazione degli equipaggi, particolarmente ovini e suini. Le capre e, in misura minore, le pecore e i maiali, si arrampicavano dappertutto, sterminando (ove ce n'erano) i piccoli mammiferi indigeni e gli uccelli più indifesi, com'era successo al "Dodo", uccello non volatore, dell'isola Mauritius, nel 1600. Ad essi si aggiungeva l'opera nefasta dei ratti, viaggiatori clandestini di tutte le navi europee e nemici implacabili delle faune indigene. Capre e pecore, poi, brucavano voracemente la vegetazione, sino a rendere brulle e spoglie delle isole un tempo ammantate di una ricca vegetazione: tale fu il caso, ad esempio, dell'isola di S: Elena e dell'isola di Pasqua fra quelle sub-tropicali, e, almeno in parte, della Nuova Zelanda, fra quelle di clima temperato. L'importazione casuale di piante infestanti di origine europea e quella volontaria di piante destinate ad uso agricolo dava poi il colpo di grazia a quei delicatissimi ecosistemi, che l'isolamento millenario aveva reso particolarmente vulnerabili rispetto ai competitori esterni. A tutto questo si aggiunga che gli Europei introducevano non solo animali da allevamento, ma anche selvaggina selvatica, come il cervo nella Nuova Zelanda o addirittura la renna nella Georgia Australe, che i Norvegesi avevano trasformato in una stazione baleniera permanente: con quali conseguenze sul mantello erboso originario, è facile immaginare.
    Dunque, non si può escludere del tutto che le impronte viste sull'isola Kerguélen da Ross nel 1840 fossero dovute a una pecora o a una capra (più difficile, anche se non impossibile, pensare a un maiale rinselvatichito) portata da qualche baleniere allo scopo di potersi rifornire di carne fresca nel corso delle lunghe battute di caccia nei mari australi, in un'epoca in cui l'unico sistema di conservazione della carne era quello di metterla sotto sale e non poteva, comunque, garantirne la commestibilità a tempo indefinito.
    Tutto chiarito, allora, e svelato il mistero? In realtà, le cose non sono proprio così facili.
    Infatti, questa spiegazione offre indubbiamente il vantaggio della semplicità, il che corrisponde a una nota formula della filosofia scolastica, secondo la quale non bisogna moltiplicare il numero degli enti quando è possibile spiegare la realtà con un numero più ristretto di cause. D'altra parte, essa presenta un inconveniente tutt'altro che trascurabile: è puramente congetturale e ha dalla sua il criterio della verosimiglianza "logica", ma non quello della verifica concreta.
    Ad esempio, noi possiamo sapere con certezza quando monsieur Brossière prese in affitto dal governo francese vasti appezzamenti di terreno per introdurre sull'isola l'allevamento delle pecore; ma non sappiamo nulla di quanto poté fare, di propria iniziativa e in via, diciamo così, non ufficiale, qualche sconosciuto capitano di baleniera nei primi decenni del XIX secolo, quando la sovranità su quei luoghi era peraltro ancora indefinita.
    Vogliamo dire che è "ragionevole" supporre che animali dotati di zoccoli siano stati introdotti senza che la cosa fosse noto a livello internazionale, e ciò spiegherebbe egregiamente la vivissima sorpresa provata dai membri della spedizione antartica britannica: è ragionevole appunto perché fornisce la spiegazione più semplice e naturale di un evento altrimenti difficilmente interpretabile. Ma ciò significa, d'altro canto, che le conclusioni sono già implicite nella premessa, com'è tipico del ragionamento deduttivo. Se tutti gli uomini sono mortali e se Socrate è un uomo, allora Socrate è mortale; se alcune specie di mammiferi hanno gli zoccoli e quelle trovate sulla neve sono impronte di zoccoli, allora a produrle "devono" essere stati degli ungulati (dal latino ungula = unghia, zoccolo), "anche se non risulta affatto che ve ne fossero, in quel momento, sull'isola".
    Qual è il limite intrinseco di un tal modo di studiare i fatti naturali? Quello di trattarli in maniera concettuale, cioè "teorica", come si fa con gli enti della logica e con quelli della matematica, ma come non si dovrebbe dare per scontato con gli enti empirici. Torna qui attuale il pregiudizio fondamentale di ogni concezione della realtà basata sullo scientismo: se esiste o se, comunque, è esperibile solo ciò che può essere studiato in termini logico-matematici (il "fenomeno" kantiano, radicalmente separato dalla cosa in sé o "noumeno"), "non può darsi altra realtà che quella fisica in senso stretto".
    Ma quali garanzie abbiamo che la realtà fisica "stricto sensu", cioè esperibile dai sensi ordinari, esaurisca l'intera gamma del reale? Che cosa ci autorizza a pensare che la Natura sia solo quella esperibile con i sensi ordinari e che inoltre, al di sopra (o al di sotto) di essa non vi siano "altri piani di realtà", che la ragione strumentale e calcolante è inadeguata a comprendere, anzi perfino ad immaginare?
    Del resto, la ragione umana è qualcosa di più nobile e complesso di un elaboratore elettronico; ma usandola in maniera esclusivamente strumentale, non le consentiamo di ottenere risultati diversi da quelli di un elaboratore. Il computer non ci dà operazioni diverse dai dati che vi abbiamo precedentemente inserito: e tale è anche la struttura della ragione calcolante. Se pretendiamo di ottenere da essa solo risposte implicite nelle informazioni di partenza, ci precludiamo di ampliare veramente il campo della conoscenza umana.
    L'albero di melo non può dare che mele; la ragione calcolante non può dare che quanto è implicito nelle sue premesse (o nei suoi pregiudizi), "tertius non datur", meglio ancora: "secundus non datur". Pertanto, sono ammesse solo quelle ipotesi scientifiche che non contrastano con le premesse del quadro generale di riferimento accettato, in un determinato momento storico, dalla comunità scientifica dominante (università, case editrici, sistema scolastico, ecc.). Ma un tale modo di procedere ostacola il reale progresso scientifico e, giusta l'ipotesi dell'epistemologo Thomas Kuhn, produce le rivoluzioni scientifiche che sono essenzialmente rivoluzioni "contro" il paradigma accettato appunto dalla comunità scientifica ufficiale.

    UNA FINESTRA SULL'IGNOTO



    Proviamo allora a capovolgere, per pura ipotesi, il nostro paradigma scientifico e ad ammettere che, se nelle isole Kerguélen non vi erano capre, pecore, maiali o addirittura cervi, "le impronte di zoccoli sulla neve non possono essere spiegate con la presenza di tali animali". Sul piano del ragionamento logico ristretto, questa è un'acquisizione concettuale non meno logica, anzi si direbbe molto più logica, della precedente. Quello che stride è il quadro di riferimento generale: i dati che abbiamo immesso, per così dire, nel computer; cioè che in quei luoghi non esistevano mammiferi di alcun tipo. E dunque? È giunto il momento di ritornare alla vicenda delle "impronte del diavolo del Devonshire", che indirettamente aveva riportato di attualità, e messo a conoscenza di un vasto pubblico, la misteriosa scoperta fatta da J. C. Ross nell'isola di Kerguélen. La mattina dell'8 febbraio 1855 gli abitanti del Devon scoprirono, uscendo di casa nel freddo intensissimo di quell'inverno eccezionale, una serie di impronte di zoccoli nella neve, disposte in linea retta e riconoscibili lungo una distanza totale di circa 80 miglia. Non assomigliavano alle impronte di alcun animale conosciuto, ma né questo fatto né la straordinaria lunghezza della traccia, che attraversava le campagne innevate in linea retta, rappresentavano la cosa più sconcertante.
    Quest'ultima era costituita dal fatto che le impronte si snodavano una dietro l'altra, tagliando diritto anche in presenza di ostacoli. Davanti ai muri dei giardini, per esempio, esse si fermavano per continuare dall'altra parte, come se lo sconosciuto animale li avesse saltati senza minimamente deviare, anzi, come se li avesse "attraversati". E la neve sulla cima dei muri era rimasta vergine! In alcuni villaggi, poi, le impronte a ferro di cavallo erano ben visibili sui tetti delle case, a parecchi metri d'altezza; oppure si fermavano davanti alla soglia di una capanna, per ricomparire sul retro; oppure ancora scomparivano davanti a un mucchio di fieno e poi riprendevano al di là di esso, sempre in linea retta, come se la creatura avesse compiuto un salto prodigioso. La popolazione ne fu terrorizzata: furono organizzate, ma invano, delle battute di caccia con fucili e forconi, e ben presto nacque fra il popolo la voce che il Diavolo, in quella buia e fredda notte d'inverno, avesse passeggiato sulla Terra con piedi di caprone, come ai tempi dei Sabba delle streghe.
    Naturalmente anche il mondo scientifico fu messo a rumore, e parecchi naturalisti, tra cui il celebre Richard Owen, vollero dire la loro. Si parlò di un tasso; ma quale animale selvatico poteva correre "in linea retta" per la bellezza di 80 miglia, coprendo una tale distanza in una sola notte? E saltare a quel modo al di là dei muri e dei covoni di fieno, per poi salire sui tetti delle case? Qualcun altro ipotizzò che un pallone sonda si fosse alzato, forse per disguido, dal porto militare di Devenport la sera del 7 febbraio, e che dei sacchetti pendenti da delle funi avessero lasciato le famose impronte. (34) Certo che il vento doveva esser stato un prodigio di costanza, per aver sospinto il pallone sonda così a lungo senza mai deviare né a destra né a sinistra!
    Si parlò anche di un uccello; di un canguro fuggito da uno zoo; di un buontempone in vena di scherzi fuori del comune. Tutte ipotesi praticamente insostenibili e tutte rispondenti a una medesima logica: il mistero non è una dimensione della realtà che va accostata con l'indagine razionale ma anche con umiltà e consapevolezza dei limiti umani, bensì un nemico da aggredire, una sfida intollerabile da rintuzzare, un'inquietudine che va rimossa ad ogni costo per riportare la percezione del reale entro i binari rassicuranti di ciò che è già conosciuto. In altre parole, per la mentalità scientista è preferibile cadere nell'assurdo (un tasso che copre 80 miglia in poche ore, saltando muri e scalando edifici) piuttosto che ammettere, anche solo per ipotesi, che si possa sollevare per un momento il velo della razionalità codificata dal paradigma scientifico dominante.
    E si badi che il caso delle impronte del Devonshire non è affatto un "unicum" nella storia recente (per non parlare di quella antica). Per fare un solo altro esempio, ma se ne potrebbero fare parecchi, ricordiamo che il "Times" di Londra del 14 marzo 1840 (dunque, due mesi prima della scoperta di James Clark Ross nei mari antartici) riferì di impronte identiche a quelle trovate poi nel 1855, questa volta sulla neve di Glenorchy, nelle Highlands scozzesi, con l'unica differenza che sembravano prodotte da una creatura che avesse proceduto a balzi piuttosto che al trotto. E ci siamo limitati alla sola Gran Bretagna; ma impronte strane, o mostruose, sono state segnalate in ogni parte d'Europa e nell'arco di vari secoli. E allora? Certo non saremo noi a tirare in ballo l'ufologia, o l'occulto, magari in chiave diabolica (per quanto rifiutiamo l'atteggiamento sprezzante di aprioristico rifiuto, proprio a molti divulgatori scientifici di formazione neopositivista). Tornando al caso delle isole Kerguélen, gli elementi in nostro possesso sono troppo scarsi per arrischiare una spiegazione del fenomeno, sia di tipo naturalistico sia d'altro genere. Mancano, ad esempio, i calchi o le riproduzioni delle impronte, mentre esistono nel caso del Devonshire di quindici anni dopo. Il fatto che le spiegazioni razionali avanzate si siano dimostrate poco convincenti non autorizza a saltare con ingenua disinvoltura nel campo dell'irrazionale. Forse, però, nonostante tutto possiamo ricavare un insegnamento di carattere generale da questa intricata vicenda, sollevata quasi per caso da una spedizione scientifica del 1840 in una dimenticata isola sub-antartica, ed è il seguente. Vi sono cose per le quali la scienza naturale stenta a dare una spiegazione e che stenta perfino a contestualizzare nel paradigma scientifico perlopiù accettato, "non perché la scienza non disponga al momento di strumenti di ricerca sufficientemente sofisticati, ma perché l'orizzonte concettuale della ragione calcolante è intrinsecamente inadeguato non solo a comprenderli, ma addirittura ad accettarli".
    I "cerchi nel grano" (non tutti, ovviamente, ma quelli infinitamente complessi e straordinariamente precisi, giudicati "autentici" dagli studiosi, nel senso di "non contraffatti"), appartengono a tale categoria di fenomeni. Un altro esempio è costituito da quei reperti archeologici o paleontologici che contrastano irrimediabilmente col paradigma scientifico oggi dominante (si badi a quell'"oggi"), e che si stanno accumulando uno sull'altro, a dispetto della decisa volontà della scienza accademica di voltare la testa dall'altra parte per non vederli (situazione che richiama molto, per inciso, quella della cosmologia tolemaica alla vigilia della rivoluzione copernicana).
    Una scienza che impieghi parte delle sue energie per rimuovere quei fatti che non riesce a spiegare, invece di prenderli seriamente in considerazione, è una scienza che nega i suoi stessi presupposti e la propria ragion d'essere. Così accade che "pur vedendo non vedono, e pur udendo non odono e non comprendono."
    Analogo discorso si potrebbe fare per molti di quei fenomeni "paranormali" di cui si occupa, da alcuni decenni ormai, una scienza giovane come la parapsicologia; o per quelle creature misteriose di cui si occupa la criptozoologia.
    La civiltà occidentale moderna, figlia della Rivoluzione scientifica del XVII secolo, è passata da un estremo all'altro: un tempo si credeva pressoché a tutto (40), oggi non si vuol credere più a nulla che non sia misurabile, quantificabile, riproducibile in laboratorio; ad onta del fatto che civiltà millenarie, come quella dell'India, abbiano sempre considerato con ben altra consapevolezza fenomeni non spiegabili solo con la ragione, attinenti al mondo naturale, preternaturale e soprannaturale. È come se avessimo fermamente deciso di escludere dal nostro orizzonte mentale e spirituale tutto ciò che non rientra nella sfera della ragione strumentale, riducendo l'essere umano, per parafrasare Marcuse, a vivere "in una sola dimensione", mentre è immerso un cosmo multidimensionale ed è, egli stesso, chiamato a realizzare una vocazione più ampia, più comprensiva della realtà in cui è collocato.
    Triste spettacolo quello di un pesce delle immensità oceaniche, costretto a sguazzare in una misera pozzanghera; o, se si preferisce il paragone, del proprietario di un immenso e magnifico palazzo che si riduce, per pigrizia ed ignoranza, a vivere come un mendicante nella più buia e squallida delle sue cantine.

    (Francesco Lamendola,
    www.centrostudilaruna.it Tratto, con il gentile consenso dell’Autore, dal sito Arianna Editrice)

     
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  12. gheagabry
     
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    Qui di seguito un estratto del libro di Patrick O’Brian, l’Isola della Desolazione (edizione Longanesi 1998, traduzione di Paola Merlo), ambientato in parte proprio sulla nostra isola. Il capitano Jack Aubrey, insieme al suo amico Stephen Maturin, medico e naturalista di bordo, dopo varie avventure e un incontro un po’ troppo ravvicinato con un iceberg sono costretti a riparare, con l’acqua letteralmente alla gola, presso l’Isola della Desolazione per le riparazioni. Maturin ne approfitta per una escursione:

    «Questo è il paradiso», disse Stephen, quando sbarcarono.
    «Un po’ troppo umido come paradiso, forse», suggerì Herapath.
    «Il paradiso terrestre non era affatto una distesa di sabbia spazzata dal vento, non era un deserto arido», ribatté Stephen. «In verità Mandeville menziona in particolare le sue mura coperte di muschio, prova certa di umidità elevata. Ho già trovato cinquantatré specie di muschio solo su questa nostra isola; e senza dubbio ce ne sono altre.»
    Guardò le nere rocce gocciolanti, i pendii coperti a tratti da un tappeto di erba ruvida, di cavoli gialli e vischiosi, molti dei quali in stato di lenta decomposizione, a tratti da terriccio giallastro e nudo, guano ovunque e il tutto attraversato da banchi fluttuanti di nebbia o di pioggia.
    «Mi ricorda le regioni nord occidentali dell’Irlanda», osservò Stephen, «disabitate, però; in particolare un promontorio nella contea di Mayo dove ho visto per la prima volta il falaropo… Visitiamo le procellarie o preferite le sterne?»
    «Per dirvi la verità, signore, preferirei restare qui seduto per un po’. Credo che quei cavoli mi abbiano trasformato in acqua le parti interne.»
    «Sciocchezze», ribatté Stephen, «sono i cavoli più salutari che io abbia mai incontrato in tutta la mia carriera. Spero, signor Herapath, che non vogliate unirvi alle querimonie da donnicciole, stolte, antifilosofiche, pigolanti e lamentose querimonie sui cavoli. Ebbene, sì, è forse un po’ giallo sotto una certa luce, forse un po’ aspro, ha un odore forse un po’ curioso; meglio così, dico io. Perlomeno quei porcelleschi Feaci in preda alla follia [si riferisce ai marinai della nave] non ne abuseranno, come abusano della creazione intera, ingozzandosi di carne fino a seppellire nel grasso quel po’ di cervello che hanno. Alimento virtuoso! Perfino i suoi più accaniti detrattori, pronti alle dichiarazioni più infamanti e a giurare e spergiurare che questo cavolo è stato causa di borborigmi e di peti, non possono negare che li ha curati della loro porpora. Che i brontolìi intestinali di quegli abitatori di Gomorra scuotano pure i cieli, che le loro scoregge facciano fuoco e fiamme, ma, finché ci sarà un solo cavolo su quest’isola, io non avrò sulla coscienza nemmeno un caso di scorbuto, onta di ogni chirurgo della Royal Navy!»

     
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