ISOLE nel mondo

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    ......in mezzo all'oceano atlantico......


    Le isole AZZORRE



    L’arcipelago delle Azzorre è costituito da nove isole color smeraldo immerse nell’oceano Atlantico tra il Portogallo (1500 Km) e il Nord America (3500 Km). Da molti ritenute ciò che resta del mitico continente di Atlantide, l’arcipelago venne scoperto nel 15° secolo dai navigatori portoghesi in rotta verso il nuovo mondo e divenne ben presto uno dei punti di approdo preferiti tra l’Europa e l’America.
    L’origine vulcanica delle isole è il motivo principale del loro affascinante aspetto selvaggio: antichi crateri occupati da laghi cristallini, scogliere nere che si scagliano nelle acque dell’atlantico, aspre montagne, sorgenti di acque sulfuree e fumarole sono gli elementi che formano uno scenario naturalistico unico al mondo, aspro e spesso impervio ma sempre ingentilito dai fiori che vi crescono durante tutto l’anno, dai pascoli delimitati da siepi di ortensie e dalle tipiche case rurali intonacate di bianco. L’architettura è tipicamente portoghese e le città principali conservano edifici del L’arcipelago delle Azzorre è costituito da nove isole color smeraldo immerse nell’oceano Atlantico tra il Portogallo (1500 Km) e il Nord America (3500 Km). Da molti ritenute ciò che resta del mitico continente di Atlantide, l’arcipelago venne scoperto nel XV secolo dai navigatori portoghesi in rotta verso il nuovo mondo e divenne ben presto uno dei punti di approdo preferiti tra l’Europa e l’America.
    L’origine vulcanica delle isole è il motivo principale del loro affascinante aspetto selvaggio: antichi crateri occupati da laghi cristallini, scogliere nere che si scagliano nelle acque dell’atlantico, aspre montagne, sorgenti di acque sulfuree e fumarole sono gli elementi che formano uno scenario naturalistico unico al mondo, aspro e spesso impervio ma sempre ingentilito dai fiori che vi crescono durante tutto l’anno, dai pascoli delimitati da siepi di ortensie e dalle tipiche case rurali intonacate di bianco. L’architettura è tipicamente portoghese e le città principali conservano edifici del XVIII e XIX secolo.



    ...storia, miti e leggende....


    Forse già gli antichi, i navigatori fenici e cartaginesi soprattutto conoscevano questi luoghi.
    Ma la prima documentazione ufficiale dell'esistenza di un gruppo di «isole del mare» nell'Oceano Occidentale è contenuta nell'Atlante Mediceo (o Portulano di Firenze) del 1351, probabilmente redatto sulla scorta di testimonianze di naufraghi.
    Poco più tardi, l'Atlante Catalano di Abraham Cresque (1375) e un'anonima carta del 1384 rappresentano un gruppo di isole in cui pare di riconoscere le Azzorre.
    Ma bisogna aspettare la creazione della Scuola di Navigazione di Sagres da parte di Enrico il Navigatore attorno al 1420, perché le prime navi portoghesi partano alla ricerca delle «isole non trovate». Intorno al 1427 il navigatore Diogo da Silva, seguendo la rotta settentrionale di ritorno da Madera, sbarca su un'isola, probabilmente Santa Maria. A darle questo nome sarà qualche anno più tardi Gonçalo Velho Cabral, il monaco soldato dell' Ordine di Cristo di Tomar (nel Portogallo centrale), inviato in ricognizione dal principe Enrico.
    Gonçalo Velho sbarca nella prima delle isole il 15 agosto, giorno dell'Assunta e proprio alla Vergine l'isola viene consacrata. I viaggi di ricognizione continuano fino al 1439 e portarono alla scoperte delle isole orientali e centrali che iniziano ad essere colonizzate. Al momento dell'arrivo dei Portoghesi, le «isole del mare» sono deserte: unica presenza, enormi uccelli rapaci che volteggiano nel cielo: gli açores. Enrico il Navigatore intende popolare in fretta quegli angoli di terra in mezzo al mare, che possono costituire una base ideale per le navi portoghesi in rotta verso l'Africa e le Indie.

    I primi coloni ad accettare di trasferirsi alle Azzorre sono prigionieri - portoghesi e arabi - e poveri contadini delle regioni dell'Alentejo e dell'Algarve.
    Nel 1452 Diogo de Teive si spinge fino alle estreme isole orientali, Flores e Corvo, che entrano a far parte della corona portoghese. Ma la più consistente ondata di popolamento porta il segno fiammingo. Andata sposa a Filippo, duca di Borgogna, Isabella, sorella di Enrico il Navigatore, suggerisce al fratello il nome di alcuni ambiziosi fiamminghi che potrebbero egregiamente ricoprire il ruolo di capitani-donatari delle nuove isole, in nome della corona portoghese.
    Suo scopo è quello di allentare le pressioni sociali e politiche del Ducato di Borgogna (di cui fanno parte anche le Fiandre), dirottando verso colonie lontane un numero consistente di sudditi ridotti in miseria oppure finiti nelle galere e potenzialmente sovversivi.
    Jacome di Bruges ottiene così il controllo di Terceira, Wilhelm Van der Haegen si stabilisce a Sao Jorge e Josse Van Huerter a Faial, con il più numeroso gruppo di Fiamminghi: duemila artigiani e contadini delle Fiandre, all'epoca devastate dalla guerra dei Cento Anni, nel 1466 si insediano nella fertile valle alle spalle di Horta, che prende il nome di Flamengos.
    Alla fine del secolo anche una colonia bretone si stabilisce alle Azzorre, precisamente a Sao Miguel, in una zona settentrionale che ancora oggi ha il nome di Bretanha.
    Per circa tre secoli le carte nautiche finiranno per indicare le Azzorre come «isole dei Fiamminghi», sebbene bene in meno di cent'anni l'integrazione con le popolazioni portoghesi fosse compiuta. In realtà, molti Fiamminghi tornarono in Europa, giudicando troppo dure le condizioni di vita nelle isole atlantiche. Quelli che restarono sposarono donne portoghesi e presto modificarono i loro cognomi «azzorrizzandoli». I numerosi cognomi Brum o Brun derivano dal fiammingo Bruyn, Rosas da Roos e Bulcao da Bulscan. E se non bastasse, ci sono i mulini a vento, di foggia olandese, e molti abitanti con occhi blu e capelli biondi…



    "Navi di pietra, che il ventre della terra ha scagliato nel mezzo dell’Atlantico. Figlie di vulcani, ultime terre apparse. Accadde duemila anni prima di Cristo, una manciata di secoli appena. Verdi più dell’Irlanda, percosse da un vento che non conosce ostacoli, ricche di storia e di quiete. Isole difficili, le Azzorre. Isole da conquistare una ad una, da vivere con ritmi che forse abbiamo perduto. Isole solitarie. Quando cala la notte, e si accendono le luci sull’arcipelago, capisci che non è un evento banale: in quelle luci sembra di avvertire il calore di una vicinanza, la consapevolezza di un destino diverso, di una solitudine condivisa. Nove isole, diverse e pure uguali. La grande Sao Miguel, la capitale, a oriente. Più a sud la piccola Santa Maria, a ovest Pico, Terceira, Fajal, Sao Jorge e Graciosa, strette una all’altra quasi volessero tenersi compagnia. E ancora più a ovest, lontane, appartate, Flores e la minuscola Corvo. Quattrocento abitanti appena, vigneti e muli, la vita ferma a tanto tempo fa.
    Nel 1812, al largo di San Miguel ne era comparsa un’altra, poco più di uno scoglio. Il capitano Tillard, della Reale Marina Inglese, si era affrettato a piantarvi l’Union Jack, e a battezzarla Sabrina, dal nome della sua nave. Ma poche settimane dopo l’isola era stata di nuovo inghiottita dall’oceano. Vederle dal mare lascia sollevati e sgomenti i marinai: perchè quei muri alti di lava nera danno il senso della potenza della natura, ma chi le avvicina sa che troverà riparo alla furia del mare.
    Non c’è estate e non c’è inverno, alle Azzorre: solo una calda, continua primavera. E poi ogni isola ha uno suo clima particolare, legato ai venti, alle montagne. “Açores” è il nome portoghese dei grandi falchi che i primi marinai videro roteare sopra le loro navi, e Açores fu il nome che venne dato alle isole. I primi a parlare della loro esistenza furono, nel 1351, dei naufraghi. Ma probabilmente le avevano già scoperte i mercanti fenici. Solo nel 1420 i portoghesi avevano però deciso di andare alla loro scoperta. Cristoforo Colombo stava per aprire la via delle Americhe, e l’intuizione dei portoghesi avrebbe trasformato le “isole del mare”, popolate solo di uccelli, in un avamposto prezioso.
    Oggi le Azzorre fanno parte, per quanto paradossale possa sembrare, della Comunità Europea. Vivono ancora di agricoltura come cento anni fa, pascolano bovini nelle valli e producono un vino figlio della lava, dolce e forte: il “verdelho” di Pico era il vino preferito degli zar. Turismo, ma non di massa: gli aerei arrivano tutti i giorni, gli alberghi ci sono e alcuni sono anche molto belli.....le Azzorre non sono facili, sono isole da conquistare un giorno dopo l’altro. Quando tira il vento ad esempio, la vita delle isole sembra paralizzarsi: decollano a fatica i piccoli aerei che collegano un’isola all’altra, il mare si fa improbo, le strade diventano inospitali.
    E allora puoi correre a rifugiarti in una chiesa, una delle centinaia di magnifiche chiese che costellano l’arcipelago. Una religiosità gioiosa, tutta latina, pervade l’animo quieto degli isolani. E la festa dello Spirito Santo si ripete in tutte le isole mescolandosi a balli e corse di tori, grandi bevute e corse di barche sul mare. Le chiese, bianche e nere, opulente di legni dorati, custodi di straordinari tesori barocchi, vengono pulite con amore: le donne lavano i pavimenti, gli uomini provvedono alle pareti esterne, arrivando a pulire persino i campanili.
    Le Azzorre sono state per quasi due secoli isole di balenieri: i marinai americani di Nantucket, arrivati nell’arcipelago, avevano subito scopeto la straordinaria abilità di questi contadini nel cacciare gli enormi mammiferi, e ne avevano naturalmente approfittato. I balenieri delle Azzorre venivano soprattutto da Pico, l’isola-montagna, la più alta e scoscesa. “Non si sa bene perchè - scriveva Herman Melville in Moby Dick - ma è un fatto che gli isolani sono i balenieri migliori”. I bote, le minuscole lance di legno, inseguivano le balene nelle acque agitate dell’arcipelago, fino a quando saettava l’arpione: era una lotta alla pari, l’uomo e il gigante. Oggi di quei giorni rimane solo un piccolo straordinario museo a Lajes: una piccola casa di legno che ospita migliaia di scrimshaw, gli oggetti che che i balenieri intagliavano nei denti e nelle ossa delle loro prede.
    Difficile, quasi impossibile raccontare le isole una ad una. Troppo diverse, troppo ricche di fascino. Vagate da una all’altra, se ne avete il tempo. Lasciatevi incantare dalle infinite siepi di ortensie fiorite che dividono i campi, perdetevi nella magìa dei cento laghi vulcanici dai colori impossibili, ammirate i graffiti di Horta, dove ogni marinaio ha dipinto sui muri del porto il suo sollievo. Ma se davvero volete catturare l’anima delle Azzorre, fermatevi a Corvo, la più piccola e la più lontana delle isole: sei chilometri e mezzo per quattro, diciassette chilometri di incanto assoluto, di quiete, di dolcezza senza tempo. Ascoltate il portoghese antico della gente, sedetevi ai tavoli del Cafè Primavera e lasciate che il tempo vi scivoli addosso.
    (Giuliano Gallo)




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  2. gheagabry
     
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    Le SEYCHELLES



    Le isole granitiche e coralline delle Seychelles sono situate ad Ovest dell’Oceano Indiano in una zona che si estende tra i 4 e i 10 gradi a sud dell’equatore e dista tra 480km e 1600km dalle coste dell’ Africa orientale.
    Le 115 isole delle Seychelles si dividono in due gruppi distinti. Le isole granitiche, dette isole ‘vicine’ (Inner Islands), sono montagnose e si trovano tutte sulla piattaforma oceanica, relativamente poco profonda, situata a 4° a sud dell’equatore e approssimativamente a 1800 km dalle coste est africane, mentre le isole coralline, chiamate le isole ‘lontane’ (Outer Islands), sono tutte alquanto piatte e basse, giacciono in maggioranza oltre la piattaforma e si trovano fino a 10° a sud dell’equatore. Le isole ‘lontane’ si dividono a loro volta in cinque gruppi: il gruppo delle Amirantes, situato a 230km da Mahe, il Gruppo Corallino Del Sud, il gruppo di Alphonse, il gruppo di Farquhar e il gruppo di Aldabra che dista di circa 1150 km da Mahe. Il gruppo di isole ‘vicine’ e’ composto da 43 isole: 41 granitiche e 2 coralline; le isole ‘lontane’ contano 72 isole coralline.
    Le Seychelles hanno, tra i loro tesori, nientemeno che due siti dichiarati patrimonio mondiale dall’UNESCO: la leggendaria Vallee de Mai ove l’incredibile Coco de mer cresce allo stato naturale e la mitica Aldabra.
    Le 72 isole dette ‘lontane’ (outer islands) si trovano oltre la piattaforma oceanica delle Seychelles. Si tratta di banchi di corallo ed atolli che distano tra i 230km e i 1150km da Mahe. Semplici banchi di sabbia o solitari affioramenti rocciosi sono in realta’ dei piccoli mondi intatti e senza tempo. Molto meno visitati delle isole granitiche per via della loro distanza, offrono degli habitat inesplorati, regno di numerose specie di piante ed animali.

    Le Seychelles sono un museo di storia naturale vivente ed un santuario per alcune delle specie piu’ rare al mondo. In nessun altro luogo al mondo si trovano specie endemiche uniche quali il favoloso coco-de-mer, il seme piu’ grande del mondo, l’albero medusa del quale esistono solo otto esemplari, l’affascinante uccello “Vedova” delle Seychelles (Tersiphone corvina) e l’elusivo usignolo delle Seychelles (Acrocephalus sechellensis)....Dalla rana piu’ piccola della terra alla tartaruga gigante piu’ pesante del mondo, all’unico uccello dell’oceano indiano incapace di volare: le Seychelles nascondono un’impressionante gamma di specie endemiche in un’ambiente naturale di bellezza.



    ...storia.....


    La popolazione delle Seychelles è relativamente giovane le cui origini risalgono all’anno 1770 con l’arrivo dei primi coloni Francesi a capo di un piccolo gruppo di bianchi, Indiani e Africani. Le isole rimasero dominio Francese fino alla disfatta di Napoleone a Waterloo e vennero cedute all’Inghilterra nel 1814 con il trattato di Parigi. Nel frattempo la popolazione era passata da poche decine a 3500 abitanti. Durante quel periodo le Seychelles conobbero la politica illuminata di amministratori eccezionali quali Pierre Poivre, il brillante attivismo politico del governatore Queau de Quinssy e le terribili ripercussioni della Rivoluzione Francese.
    Nel 1825, sotto il dominio Inglese le Seychelles raggiunsero una popolazione di 7 000 abitanti. Fu durante quegli anni che nacquero grandi tenute agricole, piantagioni di cocchi, di cotone e canna da zucchero. Durante quel periodo le Seychelles videro anche la citta’ di Victoria diventare capitale, come videro l’esilio di diversi e pittoreschi agitatori politici dell’impero, la devastazione causata dalla grande valanga d’acqua del 1862 e le ripercussioni economiche dell’abolizione della schiavitu’.
    Nel 1976 le Seychelles ottennero l’indipendenza dal Regno Unito e diventarono una repubblica all’interno del Commonwealth.



    ......l' atollo di Aldabra......


    L’atollo di Aldabra, situato a 1150 km a sud-ovest di Mahe, e’ l’atollo di corallo emerso piu’ grande del mondo. Comprende piu’ di una dozzina di isole che orlano una laguna cosi grande che l’intera isola di Mahe potrebbe entrarci.
    Le condizioni eccezionali e incontaminate di Aldabra sono tali che l’atollo e’ uno dei due siti delle Seychelles designato patrimonio mondiale dall’UNESCO così come sito Ramsar.
    La natura dell’isola racchiude un vasto assortimento di flora e fauna uniche al mondo oltre che la popolazione piu’ numerosa della terra di tartarughe giganti. La sua laguna vanta una vita marina tra le piu’ esuberanti e piene di salute dell’intero arcipelago.
    Aldabra fu cosi chiamata dai marinai Arabi che furono tra i primi ad avvistarla. L’ambiente duro, assolato e riarso, le acque della laguna che scorrono veloci hanno da sempre tenuto al largo tutti gli esploratori ad eccezione dei piu’ intrepidi. Ciononostante dal 1874, vi risiede un minuscolo stanziamento composto soprattutto da braccianti sotto contratto provenienti da Mahe impegnati di volta in volta nella pesca, nella raccolta del guano e nella produzione della coprah per la l’esportazione.



    ......la Vallée de Mai..........


    La Vallée de Mai è una delle più piccole aree al mondo ad essere stata dichiarata Patrimonio Naturale Mondiale. Si tratta di una piccola valle nascosta al centro della riserva naturale di Praslin ed è il luogo d’origine della famosa e magnifica palma del Coco De Mer.
    Nel 1948 la Vallée de Mai venne acquistata dal Governo in quanto necessaria al progetto di raccolta delle acque a Praslin e venne dichiarata Riserva Naturale soltanto nel 1966.
    Da tempo immemorabile la palma del Coco De Mer è oggetto di innumerevoli miti e leggendo visto anche che sia il frutto femmina, sia il frutto maschio (che crescono da palme separate) hanno forme alquanto suggestive!
    Le palme maschio crescono fino ad un’altezza di circa 30m e le palme femmina fino a circa 24m. Le noci prodotto dalle palme femmina contengono i semi più grandi del mondo: una sola noce può pesare fino a 20Kg! Il seme vero e proprio è avvolto in un involucro e impiega sei o sette anni a maturare, la prima foglia appare soltanto un’anno dopo la germinazione. Nella Vallée de Mai le foglie delle giovani palme possono raggiungere una larghezza di addirittura 14m!
    Il tronco è inesistente fino a che la pianta non ha raggiunto i 15 anni, mentre la maturità è raggiunta tra i 20 ed i 40 anni.




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  3. gheagabry
     
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    BORA BORA
    Polinesia francese


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    Bora Bora è la sintesi perfetta dei due volti del Pacifico: quello dell'isola montagnosa e frastagliata di origine vulcanica, che sta al centro, e quello del basso atollo corallino che la circonda.
    L’isola di Bora Bora è situata in Polinesia Francese nell’arcipelago delle isole della Società, si trova a circa 260 km a nord-ovest di Tahiti.
    L'isola è circondata da una bellissima laguna racchiusa da una barriera corallina con isolotti (motu) al suo interno. Al centro dell'isola sono i resti dell'antico vulcano, rappresentati dalle cime dei monti Pahia e Otemanu. I prodotti dell'isola sono limitati alla pesca e al cocco, oggi Bora Bora dipende principalmente dal turismo. Due montagne dominano l’isola, il monte Otemanu (727 metri d’altezza) e il monte Pahia (649 metri), esse caratterizzano la forma dell’isola che varia in base alla prospettiva e alla posizione da cui si osservano le due montagne.
    Le spiagge più belle, di sabbia bianca e fine, orlate da palme di cocco, si trovano sulla penisola di Matira oppure sui motu (isolotti)...Il motu più famoso è il motu Tapu, anticamente riservato ai re.
    Il motu Toopua secondo la leggenda sarebbe la piroga pietrificata del dio Hiro, il dio polinesiano della guerra; una piccola collina che sorge sul motu e che produce strani effetti sonori, viene considerata la "Campana di Hiro".
    Lle sue verdi alture vulcaniche e le lagune circondate da isolotti, ricchi di colori e atolli sabbiosi lungo la barriera corallina, la rendono una piscina tropicale popolata da miriadi di pesci, tartarughe, murene.


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    ........storia, miti e leggende........



    In passato e si parla di parecchi milioni di anni fa, Bora Bora era un gigantesco vulcano che piano piano si è inabissato, dando origine all’isola.
    Le prime isole abitate, appartenenti al territorio della Polinesia francese, furono le isole Marchesi nel 300 d.C. e le isole della Società nell’800 d.C.
    Le prime scoperte europee cominciarono nel 1521, quando l’esploratore portoghese Ferdinando Magellano giunse a Pukapuka, nell’arcipelago Tuamotu. Durante il XVIII secolo, furono molti gli esploratori che giunsero fino alle isole polinesiane: l’olandese Jacob Roggeveen che scoprì Bora Bora, il francese Louis Antoine de Boungaville e l’inglese James Cook che giunsero a Tahiti.
    Nel corso del IX secolo la marina francese, per procurarsi degli scali, si insediò nelle isole che costituirono l’Éstablissements français de l’Océanie (EFO), ossia gli Stabilimenti francesi d’Oceania, detti Polinesia francese dal 1957. Oltre alla Nuova Caledonia, il gruppo comprendeva le isole Marchesi, Tahiti, le isole Clipperton, Gambier e Sottovento. Alla fine del secolo, in ciascuna isola o arcipelago, l’amministrazione diretta sostituì il protettorato.
    Il 24 marzo 1945 gli abitanti della Polinesia francese divennero cittadini francesi e dal 1959 la Polinesia francese è divenuta territorio d’Oltremare.
    Questa mitica isola, secondo la leggenda, fu la seconda isola, dopo Raiatea, ad uscire dalle acque e, per lungo tempo, è stata governata da donne. La "Perla del Pacifico", così battezzata dal capitano Cook, racchiude in sé la magia delle più belle isole della Polinesia. Lo scrittore americano James Michener.la chiamò l'isola più bella del mondo e molti famosi registi l'hanno immortalata nelle loro opere.


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  4. gheagabry
     
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    Le GALAPAGOS



    L“Archipielago de Colòn” prende il nome di “Arcipelago delle Galapagos” dalla tartaruga gigante endemica che lo popola (in spagnolo galapago). E’ formato da 19 isole maggiori e 200 isolette e scogli, per una superficie totale di terra ferma di circa 5mila miglia quadrate ed una riserva marina di circa 50mila. Originatesi dall’eruzione di vulcani sottomarini, di cui le isole principali sono la cima, alcuni di essi sono estinti, mentre altri, come Isabela e Fernandina, hanno ancora un’ attività intensa: le Galapagos sono in continua trasformazione, sin da quando iniziarono a generarsi, 4/5 milioni di anni fa, e rappresentano una fra le importanti “zolle” geotermiche del pianeta. Ogni isola è diversa a seconda della formazione lavica e dei minerali presenti, con spiagge che vanno dal bianco al corallo al nero, fra ponti e gallerie di roccia vulcanica. Le correnti dell’oceano delle Galapagos sono il motore dell’ecosistema. Gli organismi marini di superficie, quando muoiono si decompongono in nutrienti che arricchiscono il profondo dell’oceano. Le calde acque tropicali provenienti dall’America Centrale e le fredde acque della Corrente di Humboldt proveniente dal Perù, scontrandosi, riportano i nutrienti in superficie stimolando la crescita di alghe e plancton alla base della catena alimentare dell’oceano. Le variazioni di temperatura generano microclimi terrestri che favoriscono la vita di foreste con riarse distese; di iguane e tartarughe con pinguini ed otarie, completando la catena. Il clima, nonostante la latitudine dell’Equatore, non è mai troppo caldo e con scarse precipitazioni....In questo bioma, la vita creò condizioni organiche di sopravvivenza e sviluppo che portarono all’evoluzione di specie di piante ed animali “endemici” come l’iguana marina, l’unica al mondo a cibarsi in mare; la tartaruga gigante (galapago) ; il cormorano delle Galapagos, l’unico cormorano incapace di volare, i leoni marini e più di 80 specie di volatili fra cui tredici tipi di fringuelli. Dalla loro osservazione, nel 1835, Charles Darwin elaborò la teoria dell’evoluzione che consacrò poi nell’opera “L’origine delle specie”. Studiando questo “mistero dei misteri”, come lui stesso lo definiva, Darwin, infatti, ipotizzò che da un unico antenato comune una specie si fosse gradualmente modifica, in differenti modi, secondo l’habitat. Isabela, Fernandina, Baltra, Espanola, Santa Fè, Plaza, Floreana, San Cristobal, Bartolomè, Santa Cruz e le altre isole -tutte diverse e con la propria fauna e flora caratteristiche- sono un “laboratorio a cielo aperto”

    La vegetazione varia da un’isola all’altra ed anche in parti diverse della stessa isola: sugli “altopiani” è costituita da boschi di larici, felci e da 11 specie di scalesia, una pianta endemica; nella parte rimanente è caratterizzata da piccoli cespugli, Opuntie (fichi d’India) piccoli cactus variopinti, altre varietà endemiche e piante pioniere che crescono sulla lava. A Santa Cruz si trova la “Foresta dei Cactus Giganti” ed a Floreana ci sono la Mangrovia Nera ed altre specie endemiche di mangrovie, la Galapagos Millwork e il Fiore della Passione.



    ....storia, miti e leggende....


    Le Galápagos sono state scoperte casualmente il 10 marzo 1535, quando Fra Tomás de Berlanga, vescovo di Panama, si mise in mare verso il Perù per dirimere una disputa tra Francisco Pizarro ed i suoi luogotenenti dopo la conquista dei territori degli Incas. La nave si trovò in una zona di bonaccia e le correnti la portarono alla deriva fino alle isole. Nel rapporto che fece successivamente all'imperatore Carlo V, Berlanga descrisse l'aspetto arido e desertico delle isole e le loro tartarughe giganti. Scrisse inoltre delle iguane marine, dei leoni marini e di numerose specie di uccelli. Notò anche l'insolita mitezza degli animali, che continua a stupire i visitatori dell'arcipelago ancora oggi.
    All'epoca dell'avvistamento le isole erano disabitate. Thor Heyerdahl nel 1963 raccontò di avervi trovato frammenti di vasellame di origine sudamericana che facevano pensare ad un precedente contatto umano; un'ipotesi che tuttavia appare ancora controversa. L'arcipelago divenne poi nascondiglio dei pirati inglesi che intercettavano i galeoni spagnoli diretti verso la madrepatria carichi dell'oro e dell'argento sudamericani.
    Le isole Galápagos compaiono per la prima volta in mappe nel 1570, nelle carte disegnate da Ortelius e da Mercatore, con il nome di insulæ de los Galopegos, ossia "isole delle tartarughe". Il primo inglese che visitò le isole fu Richard Hawkins, nel 1593. Molti famosi pirati da allora vi transitarono. La prima missione scientifica alle Galápagos giunse nel 1790 al seguito di Alessandro Malaspina, un capitano siciliano la cui missione era finanziata dal re di Spagna. I rapporti della sua missione sono però andati perduti. Nel 1793 James Collnet fece una descrizione della flora e della fauna delle Galápagos e suggerì che le isole potevano essere usate come base d'appoggio per i balenieri dell'Oceano Pacifico. Disegnò anche le prime accurate carte nautiche delle isole. I balenieri catturarono ed uccisero migliaia di tartarughe per estrarne il grasso, inoltre venivano portate anche sulle navi come riserva di carne, dal momento che potevano sopravvivere per mesi senza cibo né acqua. La caccia alle tartarughe ne ridusse notevolmente la popolazione e fece estinguere alcune specie. Ai balenieri si aggiunsero poi anche i cacciatori di foche, che portarono anche questo animale sull'orlo dell'estinzione.
    L'Ecuador annetté le isole Galápagos il 12 febbraio 1832 nominando l'arcipelago Arcipelago del Ecudaor. Il primo governatore delle isole, il generale José de Villamil, mandò un gruppo di detenuti a popolare l'isola di Floreana e nell'ottobre del 1832 a loro si aggiunsero alcuni artigiani ed agricoltori.

    Charles Darwin fu il primo ad eseguire uno studio scientifico delle isole. Fresco di laurea, era un naturalista in giro per il mondo con la spedizione geografica e scientifica a bordo della Beagle, che durò dal 1831 al 1836. Darwin raggiunse le Galápagos il 15 settembre 1835 e vi passò circa cinque settimane, fino al 20 ottobre, studiando la geologia e la biologia di quattro delle isole. Qui iniziò a lavorare alla teoria dell'evoluzione delle specie.




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  5. gheagabry
     
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    Le Isole PHI PHI, Thailandia



    Le isole Phi Phi sono un piccolo arcipelago nel mare delle Andamane, appartenenti alla provincia thailandese di Krabi nel sud del paese. Negli ultimi anni le isole sono diventate molto popolari come meta turistica.
    Sono diventate famose dopo aver ospitato il set del film The Beach, con Leonardo DiCaprio.
    L'arcipelago è formato da due isole principali (Phi Phi Don e Phi Phi Leh) più due isole minori.
    Situata a circa 50 km da Phuket, Ko Phi Phi, rappresenta una delle località più belle del mare thailandese. È formata dalle isole Phi Phi Don e Phi Phi Leh: la prima è abitata, mentre la seconda è visitabile.

    Koh Phi Phi Don è la più grande delle due isole, un’isola con una forma che ricorda un manubrio con splendide colline, incredibili falesie, lunghe spiagge, acque color smeraldo ed una notevole vita marina e molti uccelli. La‘maniglia’ nel mezzo, ha lunghe spiagge bianche su entrambi i lati, separate solo da poco più di 100 metri.
    La spiaggia sul lato meridionale ricurva intorno ad Ao Ton Sai, dove approdano le barche provenienti da Phuket e Krabi. C’è anche un paese thailandese musulmano .. Sul lato settentrionale del“manico” c’è Ao Loh Dalam... la sezione occidentale dell'isola, Koh Noak,è completamente disabitata.
    A nord dell’estremità orientale dell'isola c’è Laem Tong, dove vive la popolazione Chao Naam ...il numero di Chao Naam che vivono qui varia di volta in volta, in quanto sono ancora nomadi, navigano da isola a isola, fermandosi al largo per riparare le loro barche o le reti da pesca, ma in genere circa 100 risiedono permanentemente sull'isola di Phi Phi.

    Phi Phi Lei è quasi completamente circondata da scogliere a strapiombo sul mare, con alcune grotte e un lago marino tra due scogliere che consente l’entrata dell’acqua. La cosiddetta Grotta dei Vichinghi contiene dipinti preistorici di figure stilizzate umane e animali accanto a figure di epoca più tarda di non più di 100 anni di navi (giunche asiatiche). La grotta è anche un punto di raccolta per gli ambiti nidi di rondine. Nessunoè autorizzato a soggiornare a Phi Phi Lei a causa della raccolta dei nidi.



    ...la storia....


    Gli Zingari di mare hanno frequentato Phi Phi Don fin da sempre. Questi fecero qui lo loro case temporanee nei cambi di stagione quando spesso cercavano rifugio a Phi Phi Don durante la bassa stagione.
    Nel 1945 Phi Phi Don rimase disabitata. I primi coloni arrivarono nel 1950 dal nord di Phi Phi Island nella baia di Phang Nga. Inoltre persone provenienti da Krabi e da altre province iniziarono ad insediarsi. Molte delle famiglie che ancora oggi possiedono gran parte della terra discendono da questi primi coloni. La maggior parte di questi nuovi abitanti erano pescatori musulmani. L'isola più tardi divenne una piantagione di cocco.
    Il 26 dicembre 2004, gran parte della parte abitata di Phi Phi Donè stata devastata dallo Tsunami nell'Oceano Indiano. Il villaggio principale dell’isola, Ton Sai,è stato prevalentemente costruito su un promontorio di sabbia tra le due lunghe e alte creste di calcare. Su entrambi i lati di Ton Sai, ci sono delle baie semicircolari delineate da spiagge. Poco dopo le ore 10 di mattina del 26 dicembre, l'acqua da entrambe le baie iniziò a ritirarsi. Quando lo tsunami colpì, lo fece da entrambe le baie e le acque conversero nel mezzo causando molti morti e la distruzione di quasi il 70% degli edifici sull'isola.
    Phi Phi ha avuto notevoli ripercussioni a causa della devastazione causata dallo tsunami. L’impegno del popolo Thai, nonché il sostegno di tutto il mondo, ha contribuito a ricostruire Phi Phi, facendola di nuovo diventare uno dei paradisi tropicale da non perdere.




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  6. gheagabry
     
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    Isola di Ouessant



    "Enez Eussa", la più alta. L'isola di Ouessant dalla bellezza selvaggia, è lontana 20 chilometri dalla terraferma. I suoi fari, le cinque vedette disposte su ogni lato dei suoi otto chilometri, fanno da guida alle 5000 navi che ogni anno attraversano il "rail d'Ouessant", il tratto di mare più frequentato d'Europa e fra i più pericolosi al mondo.
    Ouessant, l'isola perduta nelle correnti dove nascono le leggende e sbiadiscono i contorni conosciuti del vecchio continente.
    Da Le Conquet si attracca a quattro chilometri da Lampaul, 1062 abitanti, dove si concentrano quasi tutte le case dell'isola, che sono orientate a est per evitare i venti più forti.
    La tradizione marinara è scelta obbligata e radicatissima, tanto che anche le case lo testimoniano: quelle che sfoggiano la facciata bianca con le porte e le finestre incorniciate da colori vivaci sono le abitazioni dei "Cap Horniers", i marinai che, almeno una volta nella vita, hanno raggiunto l'estremità dell'America del Sud.
    "Chi vede Ouessant vede il suo sangue" dice un proverbio locale; e non a caso: i dintorni dell'isola, gremìti di scogli e spesso circondati dalla bruma, sono un vero e proprio cimitero di imbarcazioni. La memoria degli abitanti è ricca di racconti di naufragi e salvataggi.
    La vita qui è una sfida all'oceano; questo piccolo pezzo di terra ai confini del mondo sopravvive solo grazie all'ostinazione dei suoi abitanti, che strappano alla superficie rocciosa piccoli lembi da coltivare e li proteggono dal vento con muretti di pietre della roccia stessa. Anche gli animali erano adattati alla vita sull'isola: mucche grandi al massimo come vitelli, cavalli alti non più di un metro, pecore nane. Oggi, tranne qualche rara pecora, sono estinti.
    La natura qui non ha bisogno di descrizioni: è incontrastata, un paesaggio puro, primordiale.




    "Anime di rocce estreme vivono di vento e nostalgia sull’isola di Ouessant. Dal piazzale scosceso davanti al faro di Creac’h, le guardo riverberare l’orizzonte frastagliato. Oltre c’è solo l’Atlantico.
    L’ho solcato prima a bordo del ferry proveniente dal villaggio di Le Conquet, punta occidentale della Bretagna. Dopo trenta chilometri e un’ora di navigazione, il traghetto mi ha portato qui, su questo lembo di terra che delimita l’entrata della Manica. E la fine della Francia. Sbarcato nella baia di Stiff, sono stato raccolto insieme agli altri viaggiatori dal pullman di servizio: e ho iniziato a scoprire i primi chilometri dell’isola, ricca di emozioni antiche, e compendio ideale del distretto di Finistère cui appartiene. Nel vetro salsedine del bus, ho visto sfilare la natura selvaggia del luogo e alcune piccole case tramandate: sono ancora vestite di bianco e verde speranza, e blu e bianco come l’abito della Vergine Maria. Simbolo di una vita difficile di gente fiera e indomita cui solo la preghiera può dare un senso. Poi il mezzo ha raggiunto Lampoul, l’unico villaggio di Oeussant in cui risiedono la maggior parte dei 908 abitanti, e mi ha scaricato davanti alla chiesa. Il suo profilo gotico si allungava sul cimitero a latere dove c’è il memoriale di guerra con i nomi di tutte le navi su cui erano imbarcati gli uomini dell’isola, tombe di marinai senza identità gettati a riva, e una cappella di croci pröella fatte di cera per i navigatori mai tornati.
    Ecco perché questa terra selvaggia e impervia è definita l’isola del terrore. Un vecchio detto bretone la caratterizza con poche parole: “Qui voit Ouessant voit son sang”, “chi vede Ouessant vede il suo sangue”.
    Solo il tempo di camminare tra le navate di Saint-Pol, ascoltare la melodia suonata da un pifferaio, accendere una candela, e sono uscito sulla piazza principale circondata da qualche negozio e una libreria-edicola. Poco più in là un nuovo pulmino mi ha preso a bordo per scoprire i segreti del luogo, nascosti lungo i suoi otto chilometri di lunghezza e quattro di larghezza.
    Appena lasciato il paese, l’asfalto è divenuto sterrato e il vento ha iniziato a sibilare il suo canto nostalgico. L’ho sentito attraversare le pale dell’ultimo mulino di Ouessant. Un secolo fa erano oltre un centinaio e servivano a macinare l’orzo coltivato, uno dei pochi sostentamenti per chi, come gli isolani, viveva di agricoltura. Oggi il turismo integra le entrate della coltivazione. E poi sono arrivato qui dove mi trovo ora, davanti a Creac’h uno dei fari più potenti d’Europa. Il suo occhio vede sino a 53 chilometri dalla riva e illumina la via dei marinai dal 1862 quando fu costruito. Nel 1888 venne dotato di energia elettrica e nel 1971 di una lampada allo Xenon. Sedici anni dopo è stato introdotto un sistema di illuminazione per preservare il volo degli uccelli migratori.
    L’isola, infatti, è un paradiso per i volatili, ultimo rifugio in terra europea durante la migrazione. Ecco perché Ouessant è molto visitata dagli appassionati di bird-watching: armati di binocoli e teleobiettivi cercano il volo dei gracchi corallini, una specie a rischio di piccolo corvo con zampe e becco rosso, cormorani e pulcinella di mare. I turisti percorrono i sentieri a piedi o in bicicletta perché ai non residenti è vietato guidare auto. A fianco di Creac’h, dove una volta c’era la sua vecchia centrale elettrica, è stato allestito il museo dei fari e delle mede. Dentro l’edificio viene raccontata la storia del traffico delle coste, rifugio per gli uomini sin dal 1500 a.C.: sull’isola sono stati trovati i resti di un villaggio pre-cristiano. Ma anche i cartaginesi, così come i greci e romani, ne fecero un approdo durante i loro commerci di stagno con le popolazioni britanniche.
    Il pulmino riprende la marcia e si ferma alla punta di Pern, vicino al vecchio forte di Loqueltas. Costruito nel 1861 sotto Napoleone III, doveva proteggere Ouessant da minacce esterne. All’orizzonte intuisco il profilo sfocato del faro di Nividic e i suoi due piloni usati per il trasporto di cavi aerei e come teleferica. Fu edificato sullo scoglio Leurvoz An Ividig in 24 anni. Entrò in funzione nel 1936. Il piccolo bus riparte, e ripassando da Lampaul, arriva a Porz Goret. La baia è tranquilla, riparo sereno degli uccelli che con pochi colpi d’ala possono raggiungere ciò che i miei occhi faticano a focalizzare: il faro della Giumenta. Realizzato al largo nel 1911 è ancora oggi un posto pericoloso: tanto che durante le tempeste il suo fusto vibra Schiaffeggiato dalle onde. Costeggiando il lato destro dell’isola e proseguendo verso settentrione, il pulmino mi porta alla baia di Arlan: le sue spiagge sono granelli di oro fine, e dalla costa ondeggiante si vedono gli altri due fari di Ouessant, Men Korn a nord e phare de Kéréon a est. Non lontano da dove mi trovo ora, c’è la piccola pista di atterraggio per i voli provenienti da Brest. L’altro modo di raggiungere l’isola. Risalendo il promontorio, il bus arriva sulla cima nord-ovest. Qui, nello spazio di pochi metri, la torre radar e lo Stiff, l’ultimo dei cinque fari dell’isola, presidiano la costa e si dividono uno specchio di cielo. La prima è stata costruita nel 1978, e serve a sorvegliare il traffico marino di Ouessant. Il secondo, invece, data il 1696 e nonostante sia uno dei più antichi fari di Francia è ancora in servizio. Per soli due euro si può salire sulle sue scale a chiocciola e guardare dall’alto la baia di Stiff e l’imbarcadero dove ho attraccato stamane.
    Il tour dell’isola è finito e il pulmino mi riporta a Lampoul passando davanti alla farmacia e al minimarket. Proprio all’angolo una croce enorme con Gesù Cristo delimita l’incrocio stretto. Dalla piazza del villaggio prendo la stradina che porta verso la baia dove sono attraccate piccole barche.Il tramonto scende su Ouessant: colora l’anima delle sue rocce estreme e l’Atlantico di porpora.
    (Andrea Lessona, repoorter.it)


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  7. gheagabry
     
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    TORY ISLAND


    I marosi la percuotono in ogni stagione, il vento non sembra darle tregua, il silenzio regna sovrano interrotto solo dai versi dei gabbiani. È un luogo dell'anima Tory Island, sperduta isoletta nell'Oceano Atlantico a poche miglia dalla costa dell'Irlanda settentrionale.
    Superare il mare grosso, le onde enormi, il cielo plumbeo è per uomini e donne coraggiosi, ma la fatica e lo stress fisico vengono subito ripagati dalla selvaggia bellezza di Tory e delle sue tante curiosità. Basta che appaia il sole e si illuminano tutti i quattro chilometri dell'isola, le case dipinte di bianco raggruppate intorno alla via (unica peraltro) principale, i laghetti costieri abitati da maestosi cigni, i campi verdi punteggiati dal bianco delle pecore, mentre i conigli giocano a rimpiattino nell'erba. Un quadretto da sogno, ma soprattutto un mondo calato alla perfezione nella natura ancora incotaminata. Del resto, questo è un santuario per gli uccelli marini e i pochi turisti che si avventurano con il ferry sono amanti del birdwatching. Cormorani, gabbiani, urie si gettano nell'acqua, risalgono in superficie, si librano alti nel cielo e si posano sulle scogliere a picco.
    E si respira un'atmosfera spirituale, quasi commovente, molto più che in alcuni luoghi prescelti dalla religione: qui l'unico grande e supremo dio è la Natura, rispettata, amata e custodita. Se poi, oltre agli uccelli marini, si ha la fortuna di imbattersi in uno squalo, che spunta dall'acqua con la sua pinna grigia, la suggestione è completa. Non mancano i delfini in queste acque. Anzi, fino a poco tempo fa ce n'era uno che era diventato la mascotte di Tory Island perchè ogni giorno si avvicinava al molo e aspettava il suo amico, un labrador: insieme nuotavano e giocavano, insieme sono diventati protagonisti di filmati tv e cronaca locale. Sono solo una delle tante curiosità di quest'isola. Appena 135 abitanti, un solo hotel, quello del capitano Pat, proprio di fronte al molo, un solo caffè e ristorante, un negozio di souvenir che apre solo durante l'estate, una piccola galleria d'arte, un faro che domina l'orizzonte, una torre: Bell Tower, unica sopravvissuta di un monastero del VI Secolo.


    Il re Patsy Dan Rogers, una vaga rassomiglianza con Giovanni Paolo II, giubbotto e cappello da comandante, orecchino a cerchio di pesante argento all'orecchio, sette anelli alle dita, bicchiere di whiskey irlandese in mano, guida una scalcagnata utilitaria blu con tanto di adesivo di Padre Pio e statua di Gesù che si muove sul cruscotto, ma con la targa "King of Tory", in inglese e in gaelico. Re Patsy è un'artista, è arrivato qui decenni fa con una piccola comunità di pittori attirati dalle scene del posto, ma poi si è fermato e qualche anno fa è stato nominato sovrano. Una missione che non ha preso alla leggera: vorrebbe avere un po' più di considerazione da parte del potere centrale a Dublino per la sua isola, vorrebbe i finanziamenti per mettere una linea di traghetti meno avventurosa, vorrebbe mantenere viva la tradizione e la lingua gaelica che ancora parlano tra loro gli abitanti, e vorrebbe trovare un lavoro ai teenager del luogo. Tutti progetti che è pronto a raccontare ad ogni visitatore che sbarca al molo e che accoglie uno ad uno, con grande affabilità. Perché anche se è un re, non gli importa nulla dell'etichetta. Anzi: è allegro, irrefrenabile e selvaggio proprio come la sua splendida Tory, un'isola che lascia un ricordo indelebile, non solo per le difficoltà della traversata, nel cuore di chi ci sbarca.

    Nell’oblio di onde furenti navigo l’Atlantico verso Tory Island. L’isola al largo dell’Irlanda dovrebbe essere là, oltre queste mura liquide che sbattono contro il ferry. Stretto al corrimano del ponte, guardo l’orizzonte e prego perché il porto non sia solo una speranza. Ed ecco le scogliere sfregiate di cielo e mare grigio, primo lembo di terra da quando il traghetto ha lasciato la banchina di Magheraroarty. È lì, sulla costa settentrionale del Donegal che mi sono imbarcato per arrivare qui dopo 12 chilometri e un’ora di navigazione impervia. Qui, dove poche case e pochi abitanti soltanto vivono di vento e orgoglio insieme al loro re: Patzy Dan Rodgers. Il molo di Tory Island è una insenatura risparmiata dalla violenza delle acque: striscia di cemento rovinato che sale la roccia grezza e si ferma davanti alla Tau cross, la piccola croce a forma di T. Vicino c’è la Torre Rotonda, costruita con ciottoli smussati e blocchi di granito, ha una circonferenza di 16 metri e un portale tondeggiante a qualche metro dal suolo. Entrambe le strutture sono gli ultimi resti del monastero fondato da San Colomba nel VI secolo quando venne sull’isola per evangelizzarla. E per primo nominò sovrano un abitante del posto. Il centro monastico caratterizzò la vita di questo luogo sperduto sino al 1595: fu in quell’anno che le truppe inglesi lo invasero per sedare una rivolta di capitribù. E ne segnarono il destino.
    Un destino di sofferenza e solitudine che caratterizza da sempre Tory Island. I primi insediamenti risalgono a 5000 anni fa, ma da allora poco è cambiato: chi vive qui è esposto alla furia del cielo e del mare orfano di pesca. Tanto che nel 1974, dopo una terribile tempesta di otto settimane, il governo irlandese studiò un piano per evacuare l’atollo e mettere in salvo i suoi 170 abitanti. Grazie all’intervento di frate Diarmuid Ó Peícín, che sensibilizzò l’opinione pubblica internazionale e raccolse fondi, il tentativo fallì. Col denaro venne realizzato un collegamento regolare di traghetti per la mainland, fu acquistato un generatore elettrico e vennero rinnovate diverse strutture. Anche la chiesa è in buone condizioni.
    È il primo posto dove vado, dentro la semplicità, è un esempio di fede profonda: si respira nell’aria che salmastra attraversa l’unica navata, e lascia cadere un po’ di polvere sui vecchi banchi in legno. Fuori, nel cimitero circostante, alcune donne caracollano sotto uno scialle di lana posato sul capo come un velo. Prendo la strada principale e attraverso il villaggio: poche case colorate, un piccolo bar, un negozio di souvenir chiuso. Ed esco nel verde. L’erba si distende come un manto striato dal vento che mi urla la sua forza e mi spinge là, dove il grigio del faro si confonde con quello del cielo. Il suo fascio di luce ricorda al mondo che qui in mezzo all’Atlantico esiste una terra lunga cinque chilometri e larga uno chiamata Tory Island.
    Una terra di storie e leggende, dove vive ancora un re, e antica fortezza dei Fomorian che da qui partivano per razziare le coste dell’Irlanda. Il più famoso di questo popolo era il ciclope Balor of the Evil Eye. Il dio celtico dell’oscurità aveva un solo occhio sul retro della testa. Ed era ferocissimo. Oggi, gli scenari naturali dell’isola, dove tutti parlano gaelico, sono ispirazione profonda per musicisti, narratori e pittori. Il primo interprete della corrente pittorica definita primitiva o naif è stato l’inglese Derek Hill. I suoi quadri hanno conosciuto gloria in tutto il globo. Ma questo eremo è anche rifugio di uccelli migratori che hanno trovato un approdo sicuro durante la traversata. Alcuni delle oltre cento specie sono appollaiati sulle scogliere orientali, alte quasi novanta metri. E’ quello il luogo preferito dei puffin. Così, visto il mare rasserenato, torno sui miei passi e dal molo mi imbarco di nuovo sul ferry per poterli vedere. Come fanno i pochi appassionati che arrivano qui e costituiscono una piccola fonte di guadagno. Il capitano doppia il promontorio in pochi minuti e mi porta vicino ai faraglioni. I pulcinella di mare galleggiano sereni, mentre più in là uno squalo martello affiora da un’onda e mostra la sua coda battente. In un attimo il cielo si fa scuro, le acque si arricciano gonfie. È tempo di rientrare. Il dispiacere di non essere riuscito a fotografare l’animale è lenito dalla fremente attesa di un incontro. Ancora pochi minuti e finalmente conoscerò Patzy Dan Rodgers, l’ultimo re d’Irlanda.
    (Andrea Lessona, il reporter.com)



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  8. gheagabry
     
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    L'arcipelago MERGUI



    mergui_Clear_Water
    «E dove diavolo è l'arcipelago Mergui?» risposi a un amico che mi parlava di quelle isole, al suo ritorno dalla Thailandia. Mi disse che da pochi mesi la Birmania aveva dato il permesso ad alcune barche di navigare nelle acque di un bellissimo e desolato arcipelago, subito sopra il confine con la Thailandia. Spinto dalla curiosità - possibile che a questo mondo ancora ci siano isole sconosciute e selvagge? - consultai l'atlante. Si, è vero, ci sono tante isole davanti alla costa birmana; strano che non me ne sia mai accorto in uno dei miei sogni ad occhi aperti davanti alle carte geografiche. Poi capisco: la Birmania è stata, dall'indipendenza nel '48, in un regime isolazionista e da allora ben pochi stranieri hanno ottenuto il visto per visitarla. Oggi il paese, ribattezzato Myanmar, sta tentando una graduale riapertura al turismo e anche l'arcipelago Mergui, rimasto «off-limits» per decenni, comincia a vedere qualche barca solcare le sue acque.

    L’arcipelago delle isole Mergui si trova al largo della costa occidentale del Myanmar tra il 10° e il 13° grado di latitudine e confina a sud con le acque territoriali tailandesi. Su un’area di circa diecimila miglia quadrate, si trovano più di ottocento isole tropicali. Fino al 1996 questa area era interdetta al turismo, oggi è possibile visitarla con dei permessi governativi speciali. L’arcipelago è per la maggior parte ancora disabitato e la natura regna sovrana. Isole ricoperte di vegetazione, isole con spiagge da sogno, incantevoli baie, barriere coralline incontaminate e fondali ricchi di vita marina sono gli argomenti più convincenti per visitare questo arcipelago ancora incontaminato dal turismo di massa. Per alcuni secoli queste acque furono la dimora dei “Moken”, gli zingari di mare, alcuni nuclei sono ancora presenti oggi; da sempre hanno vissuto la loro vita in mare su barche in legno che si tramandano di generazione in generazione. A volte si accampano su qualche isola per diversi giorni ma mai in modo stanziale. Ufficialmente non sono mai appartenuti ad alcun popolo ne ad alcuna Nazione e la loro principale fonte di sostentamento era la pirateria e la pesca tradizionale e di perle. Oggi vivono piuttosto miseramente di pesca.

    Ottocento tra isole, isolette e faraglioni, sparsi su un territorio di 36.000 chilometri quadrati. Tutte ricoperte di una fitta foresta e con spiagge candide coralline. Quasi tutte disabitate a parte alcuni insediamenti di «Moken», i vagabondi del Mar delle Andamane. Questi passano gran parte dell'anno sulle loro barche, ma non sono pescatori: nel periodo del monsone piovoso vivono a terra e coltivano lo stretto necessario per la loro sopravvivenza. In mare raccolgono molluschi, ricci e i pesci che rimangono intrappolati sulla barriera con la bassa marea. Essiccano certi tipi di alghe per venderle ai cinesi in cambio di merci e oppio, che fumano mischiato con pezzetti di foglia secca di banano per mezzo di una pipa ad acqua, passata di mano in mano.
    Mergui, che dà il nome all'arcipelago, era un porto importante tra il quindicesimo e il diciassettesimo secolo, frequentato da bucanieri, banditi, mercanti e avventurieri provenienti da Cina, India e Golfo Persico. Era infatti il punto di partenza e arrivo delle carovane che traversavano la più sottile striscia di terra del Siam, la strada più corta tra l'Oceano Indiano e il Mare Cinese. Il porto, causa di continue liti tra Siam e Birmania, fu distrutto nel 1760 e seguì un periodo di declino e abbandono. Anche l'arcipelago fu sempre meno frequentato e, sotto il controllo britannico dal 1826, rimase selvaggio e disabitato, eccetto sporadiche visite dei pescatori di perle o per approvvigionamenti di legname.
    (nautica.it)

     
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  9. gheagabry
     
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    ...STRANE ISOLE...

    Città galleggiante deserta di Oily Rocks



    Una delle più strane città del mondo si trova appena al largo della costa dell'Azerbaigian, abbandonati e fatiscenti. 'Grassa Rocks 'iniziato con un singolo percorso sull'acqua ed è cresciuto in un sistema di percorsi e piattaforme costruito sul retro delle navi affondate per servire la città di fondazione . E 'stato tutto creato per servire l'industria del petrolio, e poco dopo, conteneva abitazioni, scuole, librerie e negozi per i lavoratori e le loro famiglie. Ora, solo una parte di essa rimane come molti dei sentieri sono scomparsi tra le onde.


    Piattaforma di lancio



    Ci sono numerose isole create per basi militari in tutto il mondo, ora abbandonate o quasi, ma mai come remoto come Atollo Johnston. Situato nel Pacifico centrale e composto da poco più di una grande pista.
    Originariamente era un'isola naturale in cima ad una barriera corallina, a circa 750 miglia nautiche ad ovest delle Hawaii, Johnston Island è stato ampliato enormemente nel corso degli anni .. Il risultato: un' isola semi artificiale che prevede un ampia base militare con sistemazione per più di 1.000 persone al suo zenit.
    Tra il 1958 e il 1975, Atollo Johnston è stato utilizzato come sito per esperimenti nucleari nucleari sotterranei. Diversi missili-test nucleare sono stati lanciati dalla atollo durante "Operazione Domenico", nel 1962
    Atollo Johnston è anche servito come piattaforma di lancio per alcuni dei satelliti spia americani prima e di altri razzi scientifica. Ma dal 1993, la sua missione militare è stato ridimensionata per gestire lo stoccaggio e la distruzione di armi chimiche.




    Il Forte in mezzo al nulla



    Un forte militare, in mezzo all'oceano, con un fossato! Fort Jefferson è una parte di Dry Tortugas Parco nazionale nelle acque al largo di Key West, in Florida. La costruzione del "fortino in mezzo al nulla" è stato avviato nel 1846. È stato originariamente pensato per la difesa degli Stati Uniti, ma durante i 30 anni di costruzione, le sue caratteristiche sono diventate obsolete a tale scopo.
    Durante e dopo la guerra civile il forte cominciò ad essere utilizzato come prigione per i disertori e altri criminali. Nel 1874 fu completamente abbandonato dopo diversi uragani e un'epidemia di febbre gialla, e solo nel 1898 sono tornati i militari in forza della marina, per la guerra ispano-americana. Il forte è stato utilizzato anche dal 1888 fino 1900 come centro di quarantena, ed era presidiata di nuovo brevemente durante la prima guerra mondiale





    Fantasma Island



    Hashima Island (che significa "Border Island"), comunemente chiamata Gunkanjima (che significa "Battleship Island") è una tra le 505 isole disabitate nella prefettura di Nagasaki, a circa 15 chilometri da Nagasaki stessa. L'isola è stata popolata 1887-1974 come una struttura di estrazione del carbone .
    Servizi quali cinema, medico, uffici, sale giochi, ristoranti e bar sono state aggiunte successivamente, e la città divenne una fiorente comunità microcosmica. L'intero complesso è stato collegato tramite tunnel sotterranei . Al suo apice nel 1959, Hashima Island era la città più popolosa della Terra, con 5.259 abitanti sul piccolo sperone di roccia, la più alta densità di popolazione mai registrata in tutto il mondo, 835 persone per ogni 2,5 ettari.
    Il petrolio sostituì il carbone, in Giappone nel 1960, le miniere di carbone iniziarono a chiudere in tutto il paese, e Hashima non face eccezione. Mitsubishi ha annunciato ufficialmente la chiusura della miniera nel 1974, e oggi è vuota e spoglia, è per questo che è chiamata l'isola fantasma. Ogni contatto con Hashima è attualmente proibito.




    Isola artificiale Militare




    Fort Carroll è con i suoi 3,4 acri (14.000 m²) un'isola fortezza artificiale e abbandonata nel bel mezzo del fiume Patapsco, a sud di Baltimora, nel Maryland. La fortezza fu utilizzata nel 1800. Nella seconda guerra mondiale fu per breve tempo utilizzata come poligono di tiro per l'esercito e posto di controllo per le navi
    Il governo ha abbandonato il forte, come una postazione militare, nel 1920. Tuttavia, il Dipartimento di Guerra non ha preso provvedimenti immediati per vendere la terra. Nel maggio del 1958, un avvocato di Baltimora ha acquistato l'isola per 10.000 dollari, ma i piani di sviluppo non si sono mai materializzato. Il forte ora è deserto.

     
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  11. gheagabry
     
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    Le Isole ANTIPODI, vietate all’uomo


    La Nuova Zelanda è un arcipelago ricchissimo di isole minori anche molto piccole, spesso di origine e natura vulcanica, che tutte insieme formano un totale di 833 chilometri quadrati. Alcune di esse contano un certo numero di abitanti, altre invece sono disabitate dall’uomo e spesso utilizzate come vere e proprie riserve naturali, in virtù del loro isolamento e del loro territorio rimasto intatto da tempi immemorabili.

    Le Isole degli Antipodi, unitamente alle Bounty, Auckland e alle isole Campbell, sono Riserva Naturale sotto la legislazione di Nuova Zelanda e Australia (mentre le isole Macquarie sono sotto la giurisdizione del Parco Naturale della Tasmania). Anche la fauna marina è protetta da una fascia di rispetto di dodici miglia marine (circa ventidue km) intorno a ciascuna isola. La vegetazione delle Isole degli Antipodi è costituita da 166 specie, fra le quali quattro endemiche (fra cui tre tassi), ma l’isola principale è ricoperta per lo più da erba da pascolo, con qualche radura boscosa. Il clima è umido, relativamente freddo e ventoso, con velocità del vento compresa fra i 30 e i 40 kmh. Le precipitazioni si verificano almeno 300 giorni l’anno, con una media di poco inferiore ai 1.500 mm. annui. Fra gli animali, degne di nota le due specie di pinguini “Erect-Crested” ed “Eastern Rockhopper”, nonché una specie endemica molto rara, il “Pappagallo dell’Isola degli Antipodi” (Unicolor VU di Cyanoramphus), in pericolo di estinzione.
    Le isole sono di origine vulcanica, la composizione del terreno è di lava basaltica di detriti piroclastici
    Antipodes Island è di forma triangolare con una superficie di 2025 ha. Sono presenti ripide falesie costiere alte fino a 150 m. L'altopiano centrale ondulato presenta diversi coni vulcanici, divisi da canaloni ripidi.

    Sono entrate di diritto nell’elenco dei Patrimoni dell’Umanità dell’UNESCO alla fine degli anni Novanta. La motivazione della scelta è stata determinata dal fatto che queste sono zone privilegiate e a differenza di altre non hanno subito saccheggi indiscriminati da parte da pescatori e cacciatori di balene. Nel tempo hanno subito invece immigrazioni di numerose specie di uccelli, che qui hanno trovato il luogo ideale per stabilirsi, lontano dalle insicurezze dell’uomo e protetti dalle condizioni naturali delle isole.


    Alla fine pensi di trovarti davanti ad un’isola assolutamente dannata.
    Ma purtroppo è dall’inizio che bisogna raccontare una storia che i più scettici definirebbero solo sfortunata. Ci troviamo al cospetto delle Isole Antipodi, territorio della Nuova Zelanda.
    La più grande misura sessanta chilometri quadrati, le altre minori per grandezza si perdono fino a diventare semplici scogli. L’ospitalità per gli animali è garantita, tranne per gli umani.
    Il territorio è il regno indiscusso di colonie d’uccelli come il Beccaccino, Parrocchetto, l’Albatro e di metà dell’intera popolazione mondiale di pinguini crestati. Bello, direte voi. Invece in questo luogo la Natura ed il Fato si sono dimenticati dell’uomo.
    Il gruppo d’isole fu avvistato ed avvicinato la prima volta nel 1800 dalla nave britannica HMS Reliance, capitanata da Henry Waterhouse. Forse da subito si capì d’essere al cospetto di uno dei territori meno accoglienti per la nostra specie, ma non si volle gettare la spugna tentando di colonizzarli comunque. Cavia perfetta un bel po’ di bestiame e tutta l’attività connessa. In poco per le avverse condizioni climatiche non solo terminò l’esperienza del pascolo, ma anche la vita dei poveri ruminanti che dovettero soccombere ad un luogo inospitale. Ma non solo l’allevamento fallì. La Spirit of Dawn, non paga della brutta fine dei suoi predecessori, si avvicinò troppo alla costa affondando e lasciando su quel pezzo di terra in mezzo al mare i suoi naufraghi.
    Era il 1893 e gli undici sopravvissuti dell’equipaggio passarono tre mesi sull’isola cibandosi solo d’uccelli marini crudi all’insaputa della presenza sulla parte opposta dell’isola di un ben fornito deposito per naufraghi.
    Ben di dio che non fu invece ignorato dall’equipaggio della President Felix Faura che ebbe la stessa sorte nautica quindici anni dopo nella baia di Anchorage. Inutile dire che non furono gli ultimi: nove anni fa lo yacht Totorore affondò portando con sé la vita di due persone.
    Oggi, saggiamente, l’uomo ha capito che quel territorio non li è proprio congeniale. Di sicuro non c’entra la fortuna o la sfortuna.
    Semplicemente, in questi remoti spazi, la Natura è l’unica padrona. E per l’uomo, per una volta, non c’è posto.
    (Francesco Bizzini, ilreporter)


    "Il mio nome è Benjamin, sono un piccolo pinguino che vive sulle Isole degli Antipodi, un lembo di terra di poche decine di kmq. a oltre 700 km al largo della Nuova Zelanda. Vorrei proprio raccontarvi la storia della mia terra, che ha resistito a diversi tentativi di colonizzazione da parte dell’uomo, e che ora è tornata ad essere splendidamente soltanto nostra. Inizio spiegando l’origine del nome che voi bipedi senza becco avete dato alle nostre isole. Se fosse possibile bucare la Terra con un enorme spillone da balia in corrispondenza della cittadina britannica di Greenwich (che per voi umani ospita il meridiano n° 0, da cui hanno origine tutti gli altri), attraversata la Sfera passando per il centro della Terra, la punta della spilla uscirebbe in mare aperto, a sud-est della Nuova Zelanda. La terra emersa più vicina, tuttavia, sarebbe senza dubbio l’arcipelago delle Isole degli Antipodi, che a onor del vero sono più precisamente agli antipodi della costa francese della Manica. L’arcipelago, costituito da un’isola principale e da numerosi isolotti che le fanno da contorno (Bullon, Windward, Leeward,) fu scoperto dagli uomini il 26 marzo 1800, quando vi sbarcò il Capitano Henry Waterhouse col suo vascello “Reliance”: è stato teatro di avventure, naufragi e tentativi di colonizzazione, nessuno dei quali veramente riuscito.
    Già nel 1804, da un’imbarcazione americana vennero lasciati sull’isola principale dodici uomini, compreso un ufficiale, per approvvigionarsi delle pelli di noi poveri pinguini. Sulla strada del ritorno, la nave fece naufragio e l’intero equipaggio perì nel disastro. Il gruppo di marinai rimasto sulle Antipodes Islands fu salvato solo nel 1805, dopo un anno di permanenza sulle nostre terre per voi inospitali, durante il quale raccolse quasi 60.000 pelli dei miei sfortunati antenati.
    Da allora, le campagne per la spietata e barbara caccia al pinguino si intensificarono, fino a raggiungere il suo culmine nel biennio 1814 – 1815, quando venne fatta strage di 400.000 di noi innocenti pinguini. Già nel 1830, tuttavia, la caccia al pinguino venne temporaneamente abbandonata e le isole tornarono al loro splendido isolamento. Fallirono successivamente anche alcuni tentativi di introdurre nell’arcipelago l’allevamento del bestiame, a causa della rigidità del clima.
    Ma l’avventura più affascinante è certamente quella legata allo “Spirit of Dawn”, una nave di Liverpool in navigazione da Rangoon a Talcahuano, in Cile, con un carico di riso. Il 4 settembre 1893 lo “Spirito dell’Alba” naufragò sugli scogli del litorale sud ovest dell’isola principale e cinque membri dell’equipaggio, compreso il Comandante, perirono tra i flutti, mentre gli undici superstiti, in salvo su una lancia di salvataggio, riuscirono a riparare sull’isola. La costa meridionale dell’Isola degli Antipodi si rivelò ben presto inospitale, con scarsa possibilità di approvvigionarsi di cibo ed uno dei marinai decise pertanto di attraversare l’isola alla ricerca di condizioni di vita migliori. Fu un toro inselvatichito a sbarrargli minacciosamente la strada e ad indurlo a ritornare prudentemente alla base: se solo avesse proseguito per quattro miglia, avrebbe trovato sulla costa nord orientale un deposito per naufraghi attrezzato di tutto l’occorrente per la sopravvivenza, compresi gli strumenti per accendere il fuoco. Già, perché durante gli 87 giorni di permanenza sull’Isola degli Antipodi gli undici marinai furono costretti a vivere in una fredda caverna e a nutrirsi soltanto di mitili, radici e uccelli marini crudi, fino a quando l’equipaggio della nave neozelandese “Hinemoa”, riuscito a scorgere la bandiera da loro piazzata sul punto più alto dell’isola, portò in salvo gli undici naufraghi stremati, che entrarono nel porto di Dunedin il 4 dicembre 1893.
    Andò meglio qualche anno dopo ai ventidue membri dell’equipaggio della barca francese “Presidente Felix Fauré”, naufragata il 13 marzo 1908 nei pressi del punto di ancoraggio, sulla costa nord orientale, proprio davanti al deposito per naufraghi allestito dal governo neozelandese.
    Il loro soggiorno fu senza dubbio più confortevole, data la possibilità di dormire all’asciutto e di cucinare i cibi, ma il tempo fu davvero inclemente, flagellando le isole di pioggia, neve e grandine per tutti i 60 giorni di permanenza dei naufraghi, portati in salvo dalla nave “Pegasus” all’inizio di maggio dello stesso anno.
    E oggi? Finalmente voi bipedi senza becco avete deciso di proteggere la nostra terra, così come le isole vicine, anche perché le vostre donne hanno smesso di considerare la nostra pelle solo come un vestito alla moda e perché avete capito che non vi conviene distruggere ciò che la natura ha faticosamente costruito. Noi pinguini chiediamo soltanto di vivere in pace e in armonia con la natura, della quale anche voi uomini siete parte, anche se a volte sembrate scordarvene. Del resto, i vostri simili non si sono trovati tanto a loro agio sulle nostre isole, spesso tormentate da un vento impetuoso ed incessante e con un clima rigido, se non estremo. Avete già tanto posto a disposizione, le Isole degli Antipodi lasciatele a noi pinguini, forse è più conveniente anche per voi!
    -Benjamin-
    (Ermanno Sommariva)
     
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  12. gheagabry
     
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    Le Isole Fær Øer


    Diciotto isole, delle quali diciassette abitate da circa 45.000 persone, poste in mezzo al nord Atlantico, su una superficie complessiva di 1.400 Km², a metà strada fra Norvegia ed Islanda, non lontano dalle coste nord occidentali della Scozia. Questa è la carta d'identità delle Isole Faroer, appartenenti politicamente alla Danimarca, ma fiere della loro autonomia, tanto che il loro territorio non fa parte dell'Unione Europea: si tratta infatti di una regione autonoma associata alla Danimarca, forse perché i suoi orgogliosi abitanti sono più affini agli antichi Vichinghi e ai popoli scandinavi che al continente Mitteleuropeo.
    Le Faroer sono attraversate dal 7° meridiano ad ovest di Greenwich e dal 62° parallelo a nord dell'Equatore, a pochi gradi dal Circolo Polare Artico, ma il loro clima è mitigato dalla Corrente del Golfo, che rende le temperature invernali non molto diverse da quelle di Milano, grazie ad un mare sempre sgombro di ghiacci, mentre l'estate somiglia ad una lunga e umida primavera, con temperature che oscillano fra i 10 e i 15 ° centigradi.
    Il freddo silenzio del Mare del Nord viene rotto solamente dal frangersi delle onde sui fiordi e dal continuo lamento del vento. Simile ad una sentinella di pietra, a nord dell’isola di Eysturoy, svetta imponente il monte Slaettarantindur, le cui asperità si confondono tra le nuvole basse, rischiarate appena dal sole di mezzanotte. Le Faer Oer, sono isole "fatate" situate tra l’Islanda e le isole scozzesi Shetland, ai confini del circolo polare artico, sembrano perennemente avvolte dalle nebbie del nord. Forse proprio per contrastare il grigio della bruma, le case dei pescatori sono tinte in colori vivaci, spesso con accostamenti estremi.
    E' proprio la caratteristica forma geografica delle Faroer a creare panorami unici, grazie al fatto che nessun luogo delle isole dista dal mare più di cinque chilometri, che la montagna più alta non supera i 900 metri di altezza e che la quasi totale mancanza di alberi consente allo sguardo di spaziare senza limiti verso un orizzonte di 360°, comunicando a chi osserva una duplice sensazione di solitudine e di intima e totale appartenenza allo sconfinato universo del Creato....interminabili distese di prati verdi che si interrompono improvvisamente nell'azzurro del mare tempestoso; maestose cascate che compaiono inaspettatamente fra le valli e che si tuffano nell'oceano, fra imponenti scogliere e tenebrosi faraglioni, dove dimorano migliaia di uccelli marini, il cui stridio interrompe il silenzio della solitudine, inframmezzato unicamente dall'incessante sibilo del vento. Selvagge, aspre, magnifiche: montagne di basalto che risalgono ripide dal fondo marino ed emergono quasi verticali sull'acqua. Isole verdi e scure, battute dal vento e dal mare, in una delle aree più tempestose dell'Atlantico.
    Di una bellezza austera, spoglia di alberi, fatta di un manto di erba brillante che contrasta con la roccia nera delle montagne che precipitano per centinaia di metri nel blu dell'oceano; di villaggi di case in legno dai tetti a volte ancora ricoperti da zolle d'erba, adagiati lungo le sponde di baie e fiordi; di vallate profonde e scogliere a picco; di pascoli e brughiere nella nebbia; di spazi aperti, qualità della luce, purezza dell'aria. Ogni cosa che cresce alle Faroer è stata portata dal vento, dal mare, dagli uccelli e poi dall'uomo. Vestigia di enormi strati di basalto depositati da giganteschi vulcani circa 60 milioni di anni fa, le isole sono ciò che rimane di un altopiano eroso un tempo ricoperto da ghiacciai, un alternarsi tra pareti di roccia e e pendii foderati di verde.

    ...la storia...



    La storia delle origini delle Isole Fær Øer non è ben nota, anche se si ritiene l'ex-presenza dei vichinghi coloni di Naddoddr, lo scopritore dell'Islanda. Si pensa ci fossero anche monaci irlandesi giunti dalla vicina Scozia o direttamente dall'Irlanda verso il VI secolo. San Brendano, un santo monaco irlandese ed un Papar, si suppone abbia visitato le Isole Fær Øer in due o tre occasioni (512-530), nominando due delle isole Sheep Island e Paradise Island of Birds. Nel tardo settimo secolo agli inizi del secolo ottavo nelle isole vi era la presenza di monaci provenienti dall'Irlanda, per la conversione e l'evangelizzazione ed anche per la solitudine del romitaggio, infatti sia le Isole Fær Øer che l'Islanda erano per loro come un eremo.
    Secondo la Saga dei Faroesi, gli emigranti che lasciarono la Norvegia per sfuggire alla tirannia di Harald I si insediarono nelle isole all'incirca all'inizio del IX secolo. Nell'XI secolo il Cristianesimo venne introdotto da Sigmundur Brestirson, la cui famiglia era originaria delle isole del sud, ma era stata sterminata nel corso di un'invasione degli abitanti delle isole del nord, obbligandolo a rifugiarsi in Norvegia. Sigmundur Brestirson venne poi inviato a conquistare le isole dal re di Norvegia Olaf I. Dopo aver preso possesso delle isole, Sigmundur Brestirson fu assassinato, ma i norvegesi mantennero il loro controllo fino al 1380, quando la Norvegia entrò in un'unione con la Danimarca, che gradualmente evolse nella doppia monarchia Danese-Norvegese. La riforma protestante raggiunse le Far Oer nel 1538. Quando la Norvegia venne separata dalla Danimarca con il trattato di Kiel del 1814, fu la Danimarca a mantenere il possesso delle Isole Far Oer. Il monopolio danese del commercio con le Isole Far Oer fu abolito nel 1856. Il paese iniziò allora a svilupparsi in una nazione moderna, dedita principalmente alla pesca, e con una propria flotta. Il risveglio dei sentimenti nazionali, cominciato nel 1888, fu all'inizio orientato sull'ambito culturale, in particolare sulla rinascita della lingua faroese. Dopo il 1906 si rafforzò l'indipendentismo politico, con la fondazione dei primi partiti politici delle Isole Far Oer. Il 12 aprile 1940, le Far Oer furono occupate dalle truppe del Regno Unito, come contromossa all'invasione della Danimarca da parte della Germania nazista. Questa azione fu decisa per scongiurare una possibile occupazione tedesca nelle isole, che avrebbe potuto avere gravi conseguenze per gli esiti della seconda battaglia dell'Atlantico. Tra il 1942 e il 1943 gli Inglesi costruirono l'unico aeroporto delle Far Oer, l'aeroporto di Vágar.
    Il controllo delle isole ritornò alla Danimarca dopo la guerra, ma nel 1948 venne introdotta la cosiddetta Hjemmestyre (o, in feringio, Heimastýrislógin), che garantiva un alto grado di autonomia locale.


    ....le leggende....



    Le leggende delle Faer Oer sono piene di riferimenti a esseri fatati, soprattutto gnomi e folletti. In queste isole ogni scoglio, rupe o isolotto ha una sua storia. Fino alla metà del XIX secolo, quando vennero poste le basi di una letteratura nazionale attraverso l’elaborazione di una lingua scritta, prevalse la tradizione orale, ricchissima di favole e racconti epici. Esseri fatati, saggi gnomi portafortuna, folletti dispettosi e soprattutto il mitico "Popolo dei Grigi", rappresentazione leggendaria di entità potenti e ostili alla natura, sono gli interpreti principali di favole centenarie giunte fino ai nostri giorni grazie agli affascinanti racconti dei pescatori locali. I Grigi hanno abitudini inconsuete ed inquietanti, fra le quali quelle di dimorare sottoterra o in caverne o scomodi anfratti, e non sanno nuotare, attitudine piuttosto insolita per chi vive in un territorio interamente circondato dal mare. E' proprio lo gnomo di una famosa leggenda locale il protagonista di una storia delle Faroer, dove viene descritto come una sorta di magico personaggio bene augurante che aveva permesso ad un pescatore dell'isola di Streymoy di gonfiare di pesci le sue reti al punto tale da poter sfamare l'intero villaggio. Per riuscire nel suo intento, lo gnomo era riuscito a vincere le forze negative, gettando in acqua lo spirito grigio; quest'ultimo però, trovò la forza di vendicarsi, trasformando la barca ed il pescato in uno scoglio.
    (dal web)
     
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  13. gheagabry
     
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    L'evoluzione di un paradiso...
    Qui il tempo si è fermato a circa sei milioni di anni fa...


    L'isola di SOCOTRA


    Socotra (arabo سقطرة Suquţra) è la principale isola di un arcipelago di quattro isole (le altre sono ʿAbd al-Kūrī, Darsa (o Darza) e Samḥa, dette anche "Il fratello" e "La sorella") e isolette situate nell'Oceano Indiano, poco al largo del Corno d'Africa.
    Socotra, detta anche Sokotra oppure Suqutrà, in lingua yemenita, è un'isola situata in posizione sud-orientale rispetto allo Yemen, nell'Oceano indiano, e si affaccia a sud-est del Golfo di Aden.

    L'affascinante e incontaminata isola si trova a circa 350 km dalla costa yemenita, a circa 1000 km da Aden e a meno di 250 chilometri dal Corno d'Africa. L'isola di Socotra è la più grande di un gruppo di quattro isole: Abd Alkuri, Sahma, Darsah e Socotra . E' lunga 120 km e larga 40. Appartiene quindi geograficamente all’Africa, legata all’India da interessi commerciali e strategici, fa parte politicamente dello Yemen. Per un lungo periodo della sua storia, Socotra è appartenuta ad uno stato semi-indipendente, governato dai sultani Mahra dell'Arabia meridionale. Il loro controllo sull'isola fu interrotto da un breve dominio portoghese (1550). Nel 1886 il sultano dell'epoca accettò la protezione britannica, che durò per l'intero periodo storico del sultanato yemenita. Dal 1967 l'isola è stata accorpata alla Repubblica Democratica dello Yemen. Oggi l'isola è alla ribalta ed è in corso un progetto delle Nazioni Unite per rendere Socotra un Parco Naturale protetto. Gli studiosi vi giungono da tutto il mondo per visitare l'incredibile patrimonio naturale di Socotra e delle altre isole del suo arcipelago. Possiede spiagge sabbiose ed acque particolarmente ricche di pesci, che contribuiscono al considerevole potenziale di sviluppo turistico. Il paesaggio è vario, disseminato di coste semi-deserte, colline di calcare e montagne di granito. Le aspre vette di granito, delle montagne di Hagghier, s'innalzano a più di 1500 metri e dominano l'orizzonte, avvolte da una vegetazione quasi impenetrabile. Insieme alle altre isolette dell’arcipelago omonimo, è annoverata tra i patrimoni dell’umanità dell’UNESCO a causa del suo altissimo valore naturalistico...
    Sono surreali i paesaggi montani con le vette ricoperte da graniti che conferiscono loro un colore rossastro chiazzato dal grigio spettrale dei licheni. Gli abitanti dell'isola, gente semplice, affabile e molto ospitale, sono circa 35.000 ed hanno una propria cultura e lingua (oltre a quella araba). Le coste sono abitate da pescatori, per la maggior parte di origine africana, la regione dei Wadi è abitata da nomadi di origine araba, mentre la regione delle montagne è abitata dai discendenti di una tribù sudarabica che parla socotri, un antico dialetto arabo....

    Storicamente, è stata sempre isolata sia per motivi militari, sia per le condizioni ambientali estreme causate dal monsone che spira da aprile ad ottobre creando una barriera fisica per accedere nell’isola sin dai tempi antichi. Gli affascinanti racconti dei pochi viaggiatori approdati sulle isole nel passato parlano di una terra ricca di magie e di stregoni capaci addirittura di rendere l'isola invisibile. Il lungo isolamento ha prodotto un elevato livello di endemismo con la presenza di specie endemiche vegetali che non esistono in alcuna altra parte del mondo e che le conferiscono un aspetto primordiale. Sull’isola sono state classificate circa 240 specie di piante endemiche, mentre il mondo animale è caratterizzato dalla completa assenza di mammiferi, ad eccezione delle capre introdotte dai Portoghesi nel 1500.... conserva una ventina di specie animali e quasi 300 specie vegetali totalmente estinte nel resto del pianeta. Un po’ l’equivalente delle isole Galapagos nell’Oceano Pacifico. Il 37% delle 825 specie di piante sono uniche al mondo. La stessa cosa si può dire per il 90% dei rettili e per il 95% dei serpenti di terra.

    ...la storia...


    Mentre non è certa l'etimologia dell'arcipelago, forse da collegare al sanscrito Dvipa Sukhadhara o Dvīpa sukhatara, vale a dire "Isola della Felicità" o "Isola felice", non c'è dubbio che Socotra sia la Panchaia citata da Virgilio, in qualche modo ricollegabile al mito della fenice. I Greci la collegavano a loro volta ai Dioscuri e da questo le sarebbe infatti venuto il nome di Dioskouridou con cui viene ricordata nell'anonima trattazione risalente al 40-70 d.C., il Periplo del Mare Eritreo, vale a dire dell'Oceano Indiano fino alle coste occidentali del Golfo del Bengala, e di Dioscoridis Insula con cui la chiamavano i Romani. Socotra è ricordata tra gli altri da Cosma Indicopleuste, Marco Polo, e dai geografi musulmani Yāqūt (m. 1229), al-Qazwīnī (m. 1283), al-Idrīsī (XII secolo) e al-Hamdānī (m. 1538). Malgrado la tradizione cristiana sostenga che i suoi abitanti siano stati convertiti al Cristianesimo dall'apostolo Tommaso nel 52 d.C., la popolazione di Socotra è oggi interamente musulmana, e ammonta a poco più di 20.000 persone fra Arabi, Somali, Indiani e discendenti di schiavi neri africani. Sebbene alcune fonti attribuiscano all'esploratore Tristão da Cunha il merito di aver raggiunto Socotra nel XVI secolo per poi proclamarne l'annessione al Portogallo, l'impresa va invece ascritta a Alfonso de Albuquerque che nel 1507 mise per primo il piede sull'isola.
    A quel tempo il Cristianesimo era scomparso da Socotra, ma erano ancora visibili le croci di pietra che sarebbero state erette un tempo dagli abitanti. Nel 1542, durante la sua permanenza sull'isola, San Francesco Saverio trovò un gruppo di persone che sosteneva di discendere dagli abitanti convertiti da San Tommaso. Il vescovo Osorio scrisse a tal proposito che i discoridi, abitanti di Discoride, erano tanto casti da non poter conoscere più di una donna nella vita. Le isole passarono già nel 1511 sotto il controllo degli Imam di Mascate e dei sultani di Qishn, della regione del Mahra, che così aggiunsero alle loro titolature anche quella di sultano di Socotra. Occupata dalla Gran Bretagna nel 1834, in base a un accordo che prevedeva la loro permanenza nell'isola per solo un quinquennio, l'approdo a Socotra per il rifornimento del naviglio, indussero il governo delle Indie a trattarne l'acquisto, finché nel 1886 il Sultano accettò il protettorato della Corona britannica che così la annesse al suo Protettorato di Aden. Con l'indipendenza dello Yemen, Socotra passò allo Yemen meridionale, entrando poi a far parte dello Yemen unificato il 22 maggio 1990.


    Di Socotra ha scritto nel 1517 Andrea Corsali e il testo è contenuto in Giovanni Battista Ramusio Delle navigationi et viaggi (I volume, 1550). Andrea Corsali fiorentino allo illustrissimo principe e signor il signor duca Lorenzo de' Medici, della navigazione del mar Rosso e sino Persico sino a Cochin, città nella India, scritta alli XVIII di settembre MDXVII. [...]

    "Questa isola di Soquotora è in circuito quindeci leghe, e mi pare, quando Tolomeo compose la sua Geografia, che era incognita appresso de' naviganti, come molt'altre per decorso del tempo per questa navigazione novamente discoperta: il che non è di maraviglia, non essendo di costume a que' tempi discostarsi molto dalla terra. Questa è abitata da pastori cristiani, che vivono di latte e butiro, che qui n'è grandissima abbondanzia; il lor pane sono dattili. Nella medesima terra è alcuno riso, che d'altre parti si naviga. Sono di natura Etiopi, come i cristiani del re David, con il capello alquanto piú lungo, nero e riccio; vestono alla moresca, con un panno solamente atorno le parti vergognose, come costumano in India, Arabia ed Etiopia, massime la gente populare. Nell'isola non vi si trova nessun signor naturale: egli è vero che le ville vicine al mare sono signoreggiate da Mori di Arabia Felice, che, per il commerzio ch'essi tenevano coi detti cristiani, a poco a poco gli soggiogarono e impatronironsi. La terra non è molto fruttifera, ma sterile e deserta com'è tutta l'Arabia Felice; in essa vi sono montagne di maravigliosa grandezza, con infiniti rivi d'acqua dolce. Qui è molto sangue di drago, ch'è gomma d'un arbore il quale si genera in aperture di questi monti, non molto alto, ma grosso di gambo e di scorza delicata, e va continuamente diminuendo da basso in suso come ritonda piramide, in la punta della quale sono pochi rami, con foglie intagliate come di rovere. Di qui viene lo aloe soquoterino, dal nome dell'isola denominato. Nella costa del mare si trova molto ambracan; ancora gran quantità ne viene dell'Etiopia, da Cefala sino al capo di Guardafuni, e di questa isola dell'oceano.
    Probabilmente queste notizie botaniche furono raccolte da Andrea Corsali in un modo un po' farraginoso. Giustamente cita la presenza a Socotra del sangue di drago, una resina rossastra ottenuta dalla Dracaena cinnabari - l'albero del sangue di drago - che ha la caratteristica di possedere un fusto che termina in un'ampia ombrella sostenuta da un tronco regolarmente cilindrico. Ma ciò che egli afferma circa l'arbore del sangue di drago - grosso di gambo e di scorza delicata, e va continuamente diminuendo da basso in suso come ritonda piramide, in la punta della quale sono pochi rami - non si addice al fenotipo della Dracaena cinnabari, bensì a quello di due altre piante presenti a Socotra, ambedue dette alberi bottiglia per la foggia del tronco. È assai verosimile che egli si riferisse alla Dorstenia gigas, il fico di Socotra, meno verosimile ma possibile il riferimento all'Adenium obesum, la rosa del deserto."
     
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  14. gheagabry
     
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    Un biplano vola sopra alla secca di Monomoy Island, in Massachussets.
    scatto di di Michael Melford




    Le Isole della BAIA di BOSTON



    Antiche leggende di ancestrale memoria, meraviglie naturali di incomparabile bellezza, retaggi culturali che affondano le loro radici nella storia dei Nativi d’America e dei primi coloni inglesi contribuiscono a rendere la costiera di Boston un unicum inimitabile. Ricca di magnifici panorami naturali e di una lunga e avventurosa tradizione marittima e marinara, la regione offre ancora l’incanto di piccole comunità di pescatori, villaggi d’artisti, porticcioli e lo splendore - ancor oggi conservato - delle belle case dei “Capitani Coraggiosi” e degli armatori che un tempo salpavano da queste coste per intraprendere i primi lunghi viaggi in mare per il commercio con la Cina.
    I fari delle coste del New England accompagnavano i marinai, le barche ed i pescatori dall’800. Oggi sono ancora di vedetta, non più meccanici ma computerizzati, ciò nonostante conservano intatto il fascino dei romanzi di mare. Piccoli o grandi, a strapiombo sul mare o quasi appoggiati su una duna di sabbia, i fari sono l’ immagine omnipresente che il viaggiatore incontra percorrendo la costa del Massachusetts. Anche le isole generano memoria, sono mondi isolati, che riescono a sostituire i rumori della metropoli con le brezze marine, l’avifauna, l’aria salmastra e l'infrangersi delle onde. E’ relax totale. Oltre alla pace nella natura ci sono anche le testimonianze delle tribù dei Nativi Americani del ‘600, quindi dei primi insediamenti coloniali Europei, delle prime grandi navigazioni, della Rivoluzione e degli eventi storici successivi.
    Isole e fari, il mare, l’oceano, un mondo fantastico che racconta storie di viaggi e di libertà a chiunque lo sappia ascoltare con orecchie attente e curiose, non distratte dal fragore assordante della contemporaneità. A solo una mezz’ora da Boston ci si sente come in un’area deserta, pur ammirando lo skyline cittadino a poca distanza, giusto per ricordare come la storia di queste isole si sia costantemente intrecciata con quella della città. Durante la Guerra del Re Filippo, nel 1600, Deer Island fu un campo di prigionia per i Nativi Americani. Dal 1920 agli anni ’50, Spectacle Island fu una discarica cittadina, ma attualmente il suo triste passato è stato cancellato per divenire il centro del parco con il visitor centre, la spiaggia ed una collina di almeno cinquanta metri dalla quale si gode uno splendido panorama della città di Boston e del suo porto.


    Bumpkin: come molte isole della baia già abitata dai Nativi americani prima dell’arrivo degli europei, la sua superficie fu affittata durante il periodo coloniale a degli agricoltori. Agli inizi del ‘900 fu scelta da un filantropo bostoniano di nome Clarence Barrage per fondarvi un ospedale per bambini con difficoltà motorie.
    Grape: un paradiso dalla natura selvaggia, fu forse coltivata prima dell’arrivo degli europei, che sicuramente praticarono sull’isola agricoltura e pastorizia fino agli anni ’40 del XX secolo. Ora abbonda di bacche selvatiche, nutrimento per un gran numero di specie di uccelli marini. Durante la guerra d’Indipendenza su di essa si combatté la battaglia di Grape Island.
    Lovells: chiamata così dal nome del Capitano William Lovell, un colono di Dorchester, è particolarmente rinomata per i numerosi naufragi avvenuti lungo le sue coste (il più famoso dei quali è quello della nave da guerra francese Magnifique avvenuto nel 1782). I nativi americani utilizzarono l’isola per la pesca e il commercio, mentre i coloni europei, oltre che per la preziosa fauna ittica delle sue acque, ne sfruttarono il territorio per il legname e per l’allevamento dei conigli. L’isola fu anche utilizzata come residenza dei guardiani del faro di Boston. Fortificata poco prima della I guerra mondiale conserva ancora i resti di Fort Standish. Sull’isola è presente una popolosa colonia di lepri europee introdotte tra gli anni ’40 e ’50 del secolo scorso.
    Peddocks:. Composta da quattro mini-penisole collegate da lembi di sabbia o di ghiaia chiamate “Tombolos”, Peddocks vanta la linea di costa più lunga tra le isole della baia. La sua vicinanza alla terra ferma ne ha fatto, fin dai tempi più lontani, un importante avamposto militare. Nel 1776, 600 volontari si installarono sull’isola per controllare che le truppe britanniche, appena salpate per la madre patria, non tornassero a minacciare il New England. Sede di Fort Andrews e utilizzata per la difesa della baia fin dal 1904 conserva ancora numerose strutture fortificate. Il suo fascino risiede, però, soprattutto nella bellezza del suo variegato paesaggio naturale.
    Deer: è stata un’isola fino al 1938, quando le conseguenze di un uragano crearono un lembo di terra che la connesse al continente. È tristemente nota per essere stata nell’inverno 1675/76 un luogo d’internamento per circa 500 indiani, che vi morirono di stenti. Ancora adesso i Nativi Americani si riuniscono a Deer ogni ottobre per commemorare l’evento. Nel XIX secolo fu anche il luogo di approdo per migliaia di immigranti irlandesi in fuga da malattie e povertà.
    Georges: è l’”hub” del sistema di trasporto delle isole della baia di Boston. Nel 1847 vi costruirono Fort Warren, che fu utilizzato come luogo di detenzione per i prigionieri Confederati durante la Guerra Civile. una leggenda racconta che ancora oggi passeggi tra i corridoi del forte il fantasma di The Lady in Black – La Signora in Nero, una giovane donna impiccata con una coperta nera ricavata dai tendaggi della sala-mensa, per aver cercato invano di liberare il marito.
    Little Brewster: è l’isola più famosa della baia, perché sede del Boston Light, il faro in attività più antico di tutti gli Stati Uniti. Costruito nel 1716, grazie al finanziamento ottenuto con la tassa di un penny per ogni vascello che attraversasse la baia, fu distrutto dagli inglesi durante la ritirata alla fine della guerra d’Indipendenza. Fu ricostruito nel 1859 ed ancora oggi è custodito da un gruppo di guardacoste che si prende cura del faro e delle strutture dell’isola.

    ..La leggenda dell'Aragosta Rivoluzionaria..


    "Da queste Parti si narra che quando le aragoste giganti della baia decisero di ribellarsi al dominio britannico, uscirono dall’acqua per incamminarsi lungo il percorso che oggi è noto come il “Freedom Trial”, un sentiero urbano della memoria storica, un condensato di cospirazioni, giubbe rosse madide di sudore freddo spazzato dal vento, lanterne nella notte, assalti, angoscia, rivalsa e indomito orgoglio. Area del centro a ridosso del porto, ai margini delle acque del Charles River, oggi alla mercé di canottieri e corridori della domenica fra i campus di Cambridge e le rive dell’Esplanade, ma all’epoca scacchiere strategico costellato di vascelli e navi cariche di mercanzia, meeting point nel crocevia universale di merci e umanità fra le Indie, il Nuovo Mondo e la Madre Patria. Charlestown dominava il mare e fiutava odore acre di battaglia. Le redcoat avevano le ore contate. Le aragoste erano stufe della fama dell’antico e asettico culto del tè, troppo british e conservatore. Così quando gli esuli gettarono in acqua casse intere di Earl Gray in segno di protesta e manifesta insurrezione contro la Corona, ostriche, gamberi, molluschi e crostacei di ogni sorta e religione della East Coast, uscirono alla ribalta per partecipare senza invito al Tea Party del 16 dicembre 1773, sostenere la lotta e sconfiggere il tedioso nemico dall’aplomb compassato. Boston era libera, dal dominio oppressivo degli inetti e dalla loro riprovevole liturgia pomeridiana. La Storia ci consegna tante piccole storie, tasselli di un puzzle o semplici isole, talvolta marginali eppure decisive come questa. Aneddoti verosimili di aragoste sovrannaturali: un tempo servirono la causa della Rivoluzione, dei patrioti, oggi rappresentano il motore di una parte della florida economia della città, il biglietto da visita, il gadget pret-à-porter, l’orgoglio cittadino, almeno quanto la filiera di mattoni rossi e lampioni a gas delle residenze che si arrampicano sulla collina di Beacon Hill. Questa è l’importanza di essere un’aragosta. Penso a questa surreale epopea, mentre spazio fra i prodigi ittici e urbanistici del Wharf di Old Atlantic Avenue, con lo sguardo rivolto allo sconfinato mare del New England che si fa oceano. Una lingua di vita costellata di isolotti, più o meno piccoli e selvaggi, su cui si stagliano fari bianchi a indicar la via verso scenari maestosi, in cui perdersi e apprezzare il profumo della solitudine e della navigazione. Isole senza tempo né padroni. Uno scorcio, che solca l’orizzonte dal Maine al Rhode Island, amato dal talento e dall’occhio di Edward Hopper. Una luce ambigua, vitale e cupa, luminosa e introversa al tempo stesso, abbagliante e di fatto insondabile come lo spirito di questa baia e delle aragoste di queste acque che lambiscono la Quincy Bay fino alla penisola atlantica di Cape Cod. Affascinante e ipnotica immensità contraddittoria di queste luoghi." (dal web)
     
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  15. gheagabry
     
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    SANDY, l’isola che non c’è

    Sandy_island

    Sandy Island si trova nel tratto di oceano Pacifico tra Australia e Nuova Caledonia, è segnalata su moltissimi atlanti, carte nautiche e mappe, comprese quelle digitali di Google, ma in realtà non esiste. Secondo i ricercatori dell’Università di Sidney, Australia, è erroneamente segnalata sulle carte geografiche da almeno dieci anni. Come spiega BBC, un gruppo di ricercatori ha raggiunto in nave la zona in cui si sarebbe dovuta trovare l’isola, trovando solo acqua a perdita d’occhio.
    «Abbiamo voluto controllare perché le carte di navigazione a bordo della nave segnavano acque molto profonde nella zona, circa 1400 metri. È segnalata su Google Earth e su altre mappe, quindi siamo andati a vedere e l’isola non c’era. È una cosa abbastanza bizzarra. Come ha fatto a finire sulle mappe? Non lo sappiamo, ma continueremo le ricerche per capirlo», ha spiegato la ricercatrice Maria Seton, che ha fatto parte della spedizione verso l’isola fantasma.

    La locuzione “isola fantasma” non è una frase a effetto o un pigro modo di dire giornalistico: per convenzione sono chiamate così le isole che nel corso del tempo sono state segnalate come realmente esistenti, con i contorni delle coste disegnati sulle carte geografiche, e che in seguito sono state rimosse dopo la dimostrazione della loro inesistenza. Il fenomeno un tempo era abbastanza frequente perché gli esploratori non avevano sempre a disposizione strumentazioni molto accurate, o perché si verificavano errori nella trascrizione delle coordinate in fase di disegno delle mappe. A volte banchi di nebbia, iceberg o illusioni ottiche tradivano i cartografi, che segnavano piccole isole in realtà inesistenti. Con lo sviluppo delle nuove tecnologie, e soprattutto grazie ai satelliti, il fenomeno è quasi del tutto scomparso e per questo motivo i ricercatori australiani non sanno dire con certezza come mai sia stata segnalata l’esistenza di Sandy Island.
    Una ipotesi, ancora da verificare, è che l’isola stia stata identificata per sbaglio una volta, e che in seguito l’errore sia stato ricopiato e replicato su carte e atlanti, comprese le versioni digitali. Sandy Island potrebbe essere stata segnalata in seguito all’errata interpretazione dei dati satellitari: la sua posizione coincide con quella di un promontorio della piattaforma continentale, cosa che potrebbe avere influito sulle rilevazioni nella zona. Secondo altre interpretazioni, l’isola potrebbe essere un inserimento fittizio, cioè un elemento aggiunto volutamente per identificare eventuali casi di plagi. In questo caso, la presenza di un elemento di fantasia in un’altra mappa avrebbe dimostrato che l’originale era stato copiato senza autorizzazione.




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