IL VINO

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    Quando gli scrittori amano bere tricolore


    Cristina Brunacci



    Jack Kerouac aveva in mente il Chianti adorato dalla beatnik generation quando, nel 1957, fece dire al protagonista e narratore di «Sulla Strada» Salvatore (Sal) Paradise: «Era una bella notte, una notte calda, una notte da vino, una notte di luna, una notte fatta apposta per stringere la tua ragazza e parlare e sputare e sentirti al settimo cielo». Mezzo secolo più tardi, Jonathan Franzen (scrittore e saggista, considerato dal New Yorker tra i venti maggiori autori del XXI secolo e uno dei Best Young American Novelists) sceglie l’Amarone - nuova passione degli americani - per la cena ricca di tensione e rancore che riunisce i protagonisti del suo ultimo bestseller «Libertà», Walter e Patty, all’odiata famiglia snob di quest’ultima in un ristorante chic di Soho.

    La passione degli scrittori americani per i vini italiani è antica e va di pari passo con «la scoperta» del nostro paese da parte di innumerevoli generazioni di letterati statunitensi, da Mark Twain a Norman Mailer e da Edith Wharton a David Leavitt. Tutti innamorati della «terra poetica dell’Italia», per usare le parole di Washington Irving, prima di fare ritorno alle «oneste vallate americane, su cui aleggia, testarda, la realtà dei fatti».



    E chi non ricorda la scena de «Il silenzio degli innocenti» diretto da Jonathan Demme in cui Hannibal Lecter asserisce di aver mangiato il fegato dell’addetto al censimento «con fave e del Chianti». Nell’omonimo libro, pubblicato tre anni prima, l’autore Thomas Harris aveva scritto «con fave e dell’Amarone» ma nella versione cinematografica si optò per un vino più noto al grande pubblico.

    A cantare la grandezza dei vitigni made in Italy meno conosciuti oltreoceano, oggi ci pensa l’autore di «Le mille luci di New York» Jay McInerney che nel suo libro «Io e Bacco. Le mie avventure in una cantina di vini», edito da Bompiani, tesse le lodi del Valpolicella: «un vino che dovrebbe essere aperto solo alla presenza di Dio e di formaggi puzzolenti», scrive.

    Persino un guru della beat generation come Bob Dylan ha voluto legare il suo nome all’enologia italiana. Su esplicita richiesta del menestrello di Duluth, dagli anni ’80 la fattoria Le Terrazze della famiglia Terni di Montepulciano produce il «Planet Waves», dal titolo dell’omonimo album del 1974, un rosso venduto in bottiglie speciali firmate dal leggendario cantante amante dei nostri vini.

    Alessandra Farkas

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    I versi di Esiodo, le ambiguità di Leonardo
    Poi nell’Ottocento spunta il dramma del bere



    Vise



    Fare un buon vino è come fare un buon quadro. Bisogna mescolare le giuste varietà di vitigni, valorizzarne aromi e colori, controllare l’invecchiamento, scegliere le botti. Allo stesso modo il pittore mescola i colori, li ritocca per renderli più o meno densi, sceglie la trama giusta della tela, ricopre la pittura con vernici di diversa consistenza oleosa. In entrambi i casi è questione di sensibilità, di «quel certo non so che», che può fare un grande vino e una grande opera d’arte. Non è un caso che il vino sia comparso come uno dei soggetti più ricorrenti dagli albori della pittura, a cominciare dall’antico Egitto dove nella tomba di Nakht, nella Tebe della XVIII dinastia, si trova dipinta una scena di vendemmia. Anzi, si può affermare che la storia del vino è anche la storia della civiltà; e in più, per noi occidentali, anche parte della storia del cristianesimo.

    Se il poeta greco Esiodo cantava Bacco già all’inizio del VII secolo prima di Cristo ne «Le opere e i giorni» e Virgilio consacrò tutto il libro II delle Georgiche alla coltivazione della vite e al «dio dei torchi e dei tini», il Cristianesimo perpetrò l’iconografia della vite e dell’uva senza soluzione di continuità dal paganesimo identificando addirittura il vino con il sangue di Cristo. I pampini e i grappoli di Bacco diventano simboli eucaristici e della vigna del Signore come si vede fin dalla prime raffigurazioni dell’arte cristiana nel mosaico di santa Costanza, a Roma, del IV secolo, o nella catacomba di Domitilla della fine del I secolo.

    Sant’Agostino paragona Cristo a un grappolo d’uva della Terra promessa messo sotto il torchio da vino, rifacendosi a due passi ripresi dal Libro dei Numeri e da Isaia, e da questo suggerimento i maestri francesi cinquecenteschi trassero l’immagine del torchio mistico per le vetrate delle cattedrali, passata anche in Italia nella pittura. In tale curiosa immagine simbolica Cristo è inginocchiato sotto il torchio con vicino una bacinella che servirà a raccogliere il suo sangue oppure, in alcune varianti, il sangue scorre già dentro le botti. Altre volte la croce è stata trasformata in un torchio con il braccio verticale come una grosse vite lignea sottolineando così la presenza reale del Cristo nel vino dell’Eucarestia. Leonardo, da suo pari, ha portato al massimo tale ambiguità fra paganesimo e cristianesimo quando ha trasformato un efebico San Giovanni in un Bacco con la corona di pampini, il grappolo d’uva e il tirso nel quadro oggi conservato al Louvre.

    Da Bacco a Cristo, col passare dei secoli l’iconografia dell’uva e del vino si emancipa dalla relazione con la divinità e passa ad assumere anche un significato sociale. Le immagini di vendemmia e coltivazione della vite servono ad esaltare l’armonia del paesaggio plasmato dall’uomo, come nelle miniature dei fratelli Limbourg delle Très riches heures del duca di Berry dove, nel mese di settembre, davanti al bianco castello di Saumur, nella valle della Loira, si vedono i vendemmiatori al lavoro fra i filari. Oppure come in uno dei più sontuosi cicli decorativi del Rinascimento, quello dei Mesi (con la potatura della vite a marzo) affrescato nel Palazzo Schifanoia di Ferrara da Cosmè Tura, Ercole de Roberti e Francesco del Cossa.

    In genere, dunque, la trasformazione dell’uva in vino, come anche nell’arazzo di Cluny della fine del XV secolo, è un’immagine esemplare della bellezza morale del lavoro. È solo nel Seicento, soprattutto dell’Europa del nord, in area olandese, che cominciano a venire i primi ammonimenti, anche se in forma di farsa carnascialesca, contro i pericoli del vino, associati all’ubriachezza, al sesso sfrenato e mercenario, alle classi contadine e alle osterie, per esempio nei baccanali di Jan Steen, di Gerard Ter Borch o ne «La mezzana» di Jan Vermeer. Intanto, i loro colleghi fiamminghi esaltavano invece soprattutto il piacere, il lusso e la raffinatezza del vino, dipinto in tutte le sue sfumature dorate e rubino assieme a preziosi calici e cristalli che componevano stupefacenti nature morte. Ancora nel Settecento Goya fa de La Vendemmia un’occasione di festa garbata e quasi galante in cui la nobiltà madrilena si mescola al popolo, ma nell’Ottocento comincia per l’iconografia del vino una nuova epoca. Si fa strada via via la dimensione tragica legata al bere, al proletariato che si ubriaca e dissipa la vita nell’ignavia, trascurando il sostentamento della famiglia e dei figli come ne «L’ubriacone » di Jean-Baptiste Greuze. Si aggiunge anche, per la prima volta, l’immagine del bere associata alla figura dell’artista maledetto sull’esempio di Toulouse Lautrec e Modigliani. Si può dunque dire che nel corso della sua vita millenaria, è solo nell’Ottocento che l’immagine del vino assume un connotato negativo, curiosamente di pari passo con il miglioramento della qualità del vino e del suo apprezzamento sul mercato come prodotto d’elite come è sempre la pittura a testimoniarci per esempio nella tela di José Frappa con «Dom Pérignon assaggia l’uva prima della pressatura» o il Bar alle Folies Bergères di Manet con le bottiglie di champagne in esposizione sul bancone.

    Un’ultima curiosità: simbolo sacro di salvezza o dannazione degli uomini che sia, anche il vino ha un santo protettore dei vignaioli: Vincenzo di Saragozza, martirizzato sotto Diocleziano nel 304 e raffigurato con un grappolo d’uva, oppure con la macina da mulino o la graticola, strumenti del suo martirio. Rimane tuttavia un mistero come abbia acquisito il patrocinio sui vignaioli. Forse è stato soltanto un gioco di parole legato al vino sangue dell’Eucarestia, il vin-sang, da cui Vincent. Uno scherzo profano del vecchio dio Bacco?

    Francesca Bonazzoli



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    IL SOMMELIER

    Per ogni vino la sua etichetta
    l’impronta che determina la provenienza
    Doc la garanzia,
    Docg la certezza
    Igt la sigla
    che completa la
    la cartina della cantina
    Il vino,
    per chi lo sa bere,
    si riconosce
    al gusto, al tatto
    Il naso arriccio
    ad un lambrusco.
    Da un rosato
    dolce–aromatico
    io volo al rosso
    con un bel sorso,
    un Grignolino
    un Malvasia
    connubio perfetto
    forchetta–pasta il vino bianco
    si rende complice
    con l’assonanza
    del secco-frizzante
    Sia pur raffinato o in barrique
    è sempre ben accompagnato
    da "salatini" del gran buffet
    Scrivi il tuo nome, o vino!
    Pinot nero
    Chianti o Barbera
    un Cabernet
    un Chardonnay
    a gocce a goccia
    io ti berrò
    dalla sorgente
    del tuo cristallo mero
    reggendomi
    sulle mie gambe
    con lucidità di mente
    inneggerò
    a tutti gli astanti
    un nitido brindisi
    una goccia di poesia
    con un brivido di
    dulce vinum
    extremum
    <digito caelum tangere>

    ANTONIA SCALIGINE

     
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    Vino,
    scoperto in Sardegna il vitigno più antico del Mediterraneo occidentale




    Una scoperta che riscrive la storia della viticultura dell'intero Mediterraneo occidentale. A farla gli studiosi dell'Università di Cagliari. L'équipe archeobotanica del Centro Conservazione Biodiversità (CCB), guidata dal professor Gianluigi Bacchetta, ha rinvenuto semi di vite di epoca Nuragica, risalenti a circa 3000 anni fa. E ha avanzato l'ipotesi che in Sardegna la coltivazione della vite non sia stata un fenomeno d'importazione, bensì autoctono.

    Sino ad oggi, infatti, i dati archeobotanici e storici attribuivano ai Fenici, che colonizzarono l'isola attorno all'800 a.C., e successivamente ai Romani, il merito di aver introdotto la vite domestica nel Mediterraneo occidentale. Ma la scoperta di un vitigno coltivato dalla civiltà Nuragica dimostra che la viticoltura in Sardegna era già conosciuta: probabilmente ebbe un'origine locale e non fu importata dall'Oriente. A suffragio di questa ipotesi, il gruppo del CCB sta raccogliendo materiali in tutto il Mediterraneo: dalla Turchia al Libano alla Giordania si cercano tracce per verificare possibili "parentele" tra le diverse specie di vitigni.



    La ricerca. Nel sito nuragico di Sa Osa, nel territorio di Cabras, nell'Oristanese (non lontano dal luogo del ritrovamento dei Giganti di Mont'e Prama), la squadra di archeobotanici del professor Bacchetta, grazie alla collaborazione con la Soprintendenza per i Beni Archeologici per le province di Cagliari e Oristano, ha trovato oltre 15.000 semi di vite, perfettamente conservati in fondo a un pozzo che fungeva da 'paleo-frigorifero' per gli alimenti. "Si tratta di vinaccioli non carbonizzati, di consistenza molto vicina a quelli 'freschi' reperibili da acini raccolti da piante odierne - spiega Bacchetta - . Grazie alla prova del Carbonio 14 i semi sono stati datati intorno a 3000 anni fa (all'incirca dal 1300 al 1100 a. C.), età del bronzo medio e periodo di massimo splendore della civiltà Nuragica".

    Gli archeosemi ritrovati e analizzati sono quelli della Vernaccia e della Malvasia, varietà a bacca bianca coltivate proprio nelle aree centro-occidentali della Sardegna. "Affermare che la viticoltura in Occidente sia nata nell'Isola sarebbe esagerato - spiega ancora Bacchetta - e non sarebbe supportabile in base alle evidenze scientifiche attuali. Quello che è certo, però, è che la vite in Sardegna non è stata portata dai Fenici, che in Libano già la coltivavano ancor prima dell'età Nuragica. Più che un fenomeno di importazione, dunque, noi pensiamo che in Sardegna si sia verificata quella che noi chiamiamo 'domesticazione' in loco di specie di vite selvatiche, che ancora oggi sono diffuse ampiamente in tutta la Sardegna. Va tenuto conto, però, che i Nuragici erano un popolo molto attivo negli scambi commerciali e hanno avuto contatti anche con altre civiltà, come quella cretese o di Cipro, che conoscevano la vite".



    La scoperta è il frutto di oltre 10 anni di lavoro condotto sulla caratterizzazione dei vitigni autoctoni della Sardegna e sui semi archeologici provenienti dagli scavi diretti dagli archeologi della Soprintendenza e dall'Università di Cagliari. I risultati sono giunti anche grazie all'innovativa tecnica di analisi d'immagine computerizzata messa a punto dai ricercatori del Ccb in collaborazione con la Stazione Consorziale Sperimentale di Granicoltura per la Sicilia. L'analisi sfrutta particolari funzioni matematiche che analizzano le forme e le dimensioni dei vinaccioli (semi di vite), mettendo a confronto i dati morfometrici dei semi archeologici con le attuali cultivar e le popolazioni selvatiche della Sardegna. Ciò ha permesso di scoprire che questi antichissimi semi erano appartenuti alle varietà coltivate mostrando, come visto, una relazione parentale anche con quelle silvestri che crescono spontanee sull'Isola.

    "Adesso abbiamo la prova scientifica che i Nuragici conoscessero la vite domestica e la coltivassero - spiega Andreino Addis, presidente di Assoenologi Sardegna. Una buona occasione per rilanciare in grande stile la viticoltura sarda, che pesa ancora troppo poco sul piano nazionale".

    Questi semi di vite provenienti dal passato sono dunque un patrimonio prezioso per valorizzare le produzioni vitivinicole doc e dei vitigni in via di sparizione. Che poi è lo scopo per cui L'Università di Cagliari è scesa dalla cattedra e si è calata nel territorio: "Da anni diciamo che la ricerca scientifica può aiutare molto le produzioni locali - conclude Bacchetta - e avere importanti ricadute economiche. Caratterizzare un prodotto, conoscerne le origini costituiscono elementi essenziali per riuscire a dare un valore aggiunto. Di fatto stiamo operando di comune accordo con numerose cantine sociali che credono nel nostro lavoro. E cerchiamo di dare il nostro contributo concreto allo sviluppo economico della Sardegna".





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    Cinque falsi miti sul vino
    Smontati dal critico del New York Times

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    Eric Asimov, il critico di vini del New York Times, ha scritto un articolo per smontare cinque comuni falsi miti del suo settore: li ha scelti dopo una cena a cui ha partecipato a New York, e nella quale un’organizzazione di sommelier e ristoratori d’alta cucina ha dimostrato con esempi pratici perché queste credenze siano sbagliate. Asimov ovviamente sapeva già che erano convinzioni errate, ma dice che «vale la pena discuterne, perché queste fallacie possono essere una barriera significativa che impedisce di trarre il maggiore piacere possibile dal vino».


    I vini dolci mai con i cibi salati
    Molte persone credono che con il cibo salato vada bevuto soltanto vino secco, cioè quello senza (o comunque con pochissimi) residui zuccherini, interamente fermentati in alcol e anidride carbonica. I vini dolci sono invece associati, secondo Asimov, a quelli più dozzinali, a quelli liquorosi, a quelli tedeschi (tipo il Riesling) o a quelli da dessert. Ma, come spiega Asimov, i vini dolci possono essere ottimi con i cibi salati: l’importante è che la parte zuccherina sia compensata in modo equilibrato da un certo grado di acidità. «Nelle bottiglie migliori, il risultato è una incredibile camminata in bilico mentre il vino procede sulla linea tra dolcezza e acidità. Questi vini sono indiscutibilmente dolci, ma l’acidità ripulisce qualsiasi sensazione stucchevole, lasciando un gusto secco e rinfrescante». Un esempio è proprio il Riesling, che non è sempre dolce, ricorda Asimov, o il Vouvray.

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    Temperature
    Succede troppo spesso, spiega Asimov, che i ristoranti servano vini bianchi troppo freddi e vini rossi troppo caldi. Nel primo caso, va bene se il vino non è granché: una temperatura molto bassa nasconde i difetti, quindi è meglio bere un vino bianco dozzinale subito dopo averlo tirato fuori dal frigo. Ma una buona bottiglia di bianco può essere rovinata se bevuta troppo fredda, perché perde complessità: può essere una buona idea tirarla fuori dal frigo una mezz’oretta prima di aprirla. Asimov consiglia di non lasciare automaticamente che i camerieri al ristorante mettano la bottiglia di bianco nel secchio del ghiaccio: prima è bene controllarne la temperatura.
    Per quanto riguarda i rossi, la faccenda è un po’ più complicata. La definizione di “temperatura ambiente” non è molto oggettiva, e fu formulata in un’epoca in cui le case avevano spessi muri in mattoni e temperature diverse da quelle attuali, solitamente più basse. Per questo, una bottiglia a temperatura ambiente di oggi potrebbe spesso essere troppo calda, e il vino potrebbe sembrare più debole di quanto sia. Asimov spiega che una bottiglia di rosso dovrebbe essere leggermente fredda al tatto: se sembra troppo calda, possono bastare 15 minuti in frigo, o 10 minuti nel secchio del ghiaccio.

    Vini rossi con la carne, vini bianchi con il pesce
    Questa ormai la sanno in molti, che è una convinzione sbagliata: ma non vuol dire che saperlo sia d’aiuto. Asimov ammette che, visto che abbinare il vino ai piatti è complesso, è ok partire dal presupposto che con la carne ci vada il vino rosso, e con il pesce e il pollo ci vada il vino bianco. Ma quando si inizia a saperne di più si può sperimentare: per esempio il salmone, il tonno e il polpo si abbinano bene ai pinot neri, mentre il Syrah della Valle del Rodano, un rosso, è ottimo con il pollo.



    La fissazione per le annate buone
    Asimov consiglia di non fissarsi troppo con le annate che i critici di vino dicono essere le migliori. L’eccezione è se si compra una bottiglia preziosa per investimento, e cioè per conservarla e farne aumentare il valore. Se si vuole conservare una bottiglia per un periodo medio-lungo, dai vent’anni in su, conviene prendere un vino di un’annata davvero ottima, le migliori, perché spesso non tutti i critici sono concordi.
    Se si vuole bere, invece, non sempre è meglio comprare bottiglie delle annate giudicate migliori, come i vini della Borgogna del 2005 o i Bordeaux del 2000 e del 2010: secondo Asimov era quasi meglio bere rispettivamente le annate del 2007, o del 2001 e del 2011, anche se meno pregiate. Questo perché spesso per ottenere il meglio da una buona annata bisogna aspettare più tempo, e se si apre troppo presto una bottiglia la si spreca, in un certo senso. Nella sua cena i sommelier hanno servito due vini della Côte-Rôtie, una zona a nord della Valle del Rodano, del 2010, un’ottima annata, e del 2011, considerata un po’ inferiore: il migliore era quello del 2011. Forse tra qualche anno non sarà più così, dice Asimov.



    Il vino insieme al formaggio
    Asimov racconta che l’ultimo mito smontato nella sua cena è stato quello secondo il quale con il formaggio sia meglio bere vino rosso: dice però che, secondo lui, ormai è una convinzione superata, e la maggior parte delle persone ha capito che spesso un vino bianco è meglio. Tanto che qualche anno fa ha dovuto scrivere un editoriale per dire che a volte il vino rosso è ancora la scelta migliore.


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    I vini sono tutti uguali?



    Il commerciante di vini britannico Steven Spurrier era convinto, come gran parte degli intenditori, che i vini americani non potessero competere con quelli francesi, considerati da sempre tra i più pregiati al mondo. Per dimostrarlo invitò undici esperti ad assaggiare al buio Bordeaux francesi e Cabernet della California e a giudicarne la bontà in una scala da zero a venti punti. La prova si svolse il 24 maggio del 1976 e il risultato fu sorprendente. I giudici infatti stabilirono che il vino dal sapore migliore era quello di una bottiglia del 1973 proveniente dal vigneto Stag’s Leap di Napa Valley, in California. Alcuni giudici chiesero di ripetere l’assaggio a distanza di qualche tempo sostenendo che i vini francesi non fossero invecchiati al punto giusto, ma i risultati furono gli stessi: dopo lo Stag’s Leap si posizionarono altri tre Cabernet californiani. L’esperimento divenne famoso come il giudizio di Paride – richiamandosi al mito greco in cui il principe troiano Paride dovette scegliere chi fosse la dea più bella tra Atena, Era e Afrodite – e legittimò i vini americani e contribuì alla loro diffusione.
    Jonah Lehrer racconta sul New Yorker che l’8 giugno scorso l’Università di Princeton ha realizzato un esperimento simile. Questa volta i giudici erano nove, americani e francesi, e i vini francesi sono stati confrontati con quelli del New Jersey, considerati ordinari e non di grande qualità. Pur non venendo dichiarati i migliori in assoluto, i vini americani – che costano circa un quinto dei loro omonimi francesi – ottennero ottimi punteggi dai giudici e si piazzarono ai primi posti della classifica. Secondo Richard Quandt, uno dei giudici dell’assaggio, il sapore dei vini era “statisticamente indistinguibile”. A partire da questi esperimenti Leherer spiega che definire la bontà di un vino è davvero difficile, anche per gli esperti. Le differenze sensoriali tra diverse bottiglie di vino sono molto lievi e diminuiscono dopo numerosi assaggi, tanto che ci sono pareri spesso discordanti su quale sia il vino con il miglior sapore. Per esempio sia il vino bianco che quello rosso risultati vincitori nel giudizio di Princeton sono stati valutati i peggiori da almeno uno dei giudici.



    Secondo Lehrer il contesto – come per esempio l’alto costo di una bottiglia o un’etichetta che ne indica la provenienza da un vigneto prestigioso - gioca un ruolo fondamentale e ingannevole nella percezione del gusto di un vino. La sua tesi è dimostrata da diversi studi. Nel 2001 Frédéric Brochet dell’Università di Bordeaux invitò 57 intenditori ad assaggiare e descrivere un bicchiere di vino bianco e uno rosso. In realtà si trattava dello stesso vino bianco che in un caso era stato dipinto di rosso con un colorante alimentare. Gli esperti però descrissero il vino apparentemente rosso con termini solitamente usati per quel genere di vino. In un altro esperimento Brochet invitò i giudici ad assaggiare un pregiato Bordeaux e un vino da tavola. Si trattava dello stesso vino proveniente da bottiglie diverse ma gli esperti descrissero quello spacciato per pregiato come “amabile”, “legnoso”, “equilibrato” e “rotondo” e l’altro come “debole”, “leggero”, “piatto” e “difettoso”.
    Se gli esperti non sono in grado di distinguere i vini pregiati le persone comuni lo sono ancora meno. Lo scorso anno lo psicologo Richard Wiseman chiese a un gruppo di volontari di assaggiare diverse varietà di vino – da quello in cartone allo champagne – e stabilire quella più costosa. I volontari non furono in grado di indovinarlo e il 61 per cento di loro indicò il vino economico come il più caro e di maggior qualità. Lehrer conclude che la maggior parte degli intenditori e delle persone comuni non è in grado di stabilire con accettabile correttezza la bontà del vino e che la nostra percezione è fortemente influenzata dalle nostre aspettative mentali: «Quindi continuate pure a comprare vino del New Jersey – consiglia – Ma se volete garantire ai vostri ospiti il massimo piacere, appiccicate sulla bottiglia un’etichetta francese. Il vino avrà un sapore ancora migliore».



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    Il riscaldamento globale sta cambiando il sapore del vino


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    di Alejandra Borunda

    Quella del 1540 fu un'estate rovente sulle colline della Borgogna coltivate a vite. Un caldo "quasi insopportabile", racconta una cronaca dell'epoca.

    In effetti quell'anno fece molto caldo in tutta Europa. I ghiacciai sulle Alpi si sciolsero e i loro fronti si ritirano in valli scoscese. Gli incendi divamparono dalla Francia alla Polonia. E nella regione vinicola della Francia centrale i grappoli appassirono sulla pianta fino quasi a diventare uva passa, così zuccherina che il vino risultò super-alcolico.

    Di solito i vignaioli raccoglievano l'uva dalla fine di settembre agli inizi di ottobre. Ma quell'anno dovettero precipitarsi per togliere dalla pianta i grappoli troppo maturi diverse settimane prima del solito.

    Oggi, un archivio che contiene le date dei periodi di vendemmia degli ultimi 700 anni nella città di Beaune, in Borgogna, evidenzia come la raccolta precoce del 1540 sia oggi la normalità a causa del cambiamento climatico. Scienziati e storici hanno messo insieme una lunga serie che parte nel 1354 per scoprire che l'aria si è riscaldata così tanto - soprattutto negli ultimi 30 anni - che oggi l'uva viene raccolta quasi due settimane prima rispetto alla media
    storica.

    "Abbiamo osservato con chiarezza il modo in cui i frutti reagiscono all'aumento delle temperature", dice Thomas Labbé, storico all'università di Lipsia. E questa reazione incide sullo stesso vino.

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    Il vino, in Borgogna, fa parte del tessuto culturale. Il pinot nero e lo chardonnay per i quali la regione è così famosa crescono qui da secoli, perfettamente adattati alle condizioni climatiche della zona.

    I vignaioli conoscono alla perfezione ogni fase della crescita: l'aspetto della vite prima che germogli, durante la lunga fase di maturazione e le fragranti, zuccherose forme dei grappoli quando sono pronti ad essere trasformati in vino.

    Il momento della raccolta è fondamentale. Se i grappoli restano troppo sulla pianta avranno troppo contenuto zuccherino, con il risultato che il vino sarà troppo alcolico e non avrà quel sapore discreto al quale i vignaioli tengono tanto. Se i frutti non restano invece abbastanza aggrappati alla vite, potrebbero non aver ancora raggiunto il giusto bilanciamento tra sostanze chimiche che conferiscono al vino il suo gusto caratteristico.

    Nell'Ottocento, scienziati e storici si resero conto che quegli archivi curati in modo così certosino potevano essere utilizzati come un termometro, per capire in che modo il clima stesse cambiando in diverse regioni europee.

    Le date di vendemmia riflettono le temperature che l'uva ha percepito nel corso della sua maturazione, da aprile fino alla sua raccolta. Se la primavera e l'estate sono troppo calde, l'uva matura più rapidamente e dev'essere quindi raccolta prima. Viceversa se le due stagioni sono fredde.

    Gli scienziati del clima hanno poi messo insieme queste raccolte di dati con la dendrocronologia (lo studio che si basa sugli anelli che si trovano sulla sezione del tronco degli alberi) e con gli studi che osservano l'estensione dei ghiacciai alpini. Con tutti questi elementi hanno capito che buona parte dell'Europa centrale si è riscaldata nel corso del Periodo caldo medievale, dal 900 al 1300 circa. E che si era raffreddata durante la Piccola era glaciale, dal Quindicesimo al Diciannovesimo secolo.

    Gli storici hanno anche osservato che nelle ultime centinaia di anni le temperature hanno subito oscillazioni, impennandosi verso l'alto per brevi periodi e abbassandosi in altri. Tuttavia queste oscillazioni si erano sempre mantenute intorno a un valore medio piuttosto coerente. Tutto questo fino a poco tempo fa.
    uva-tavola-uva-vino-quali-le-differenze

    I grappoli parlano di un recente riscaldamento

    Una delle serie di dati più lunghe e complete che gli storici hanno trovato viene da Digione, vicino al centro della rinomata Borgogna. Qui però quasi tutti i vigneti nei pressi della città sono scomparsi durante l'Ottocento man mano che il nucleo cittadino si espandeva verso l'esterno. Il risultato è che l'archivio non arriva fino all'era moderna.

    Ma a Beaune, un paese circa 40 chilometri a sud di Digione, la maggior parte dei vigneti che hanno costellato le colline locali per centinaia di anni sono ancora lì, a produrre vino. E gli archivi cittadini erano pieni zeppi di dati.

    Ed è proprio lì che Labbé e i suoi colleghi hanno scavato. Per i periodi più remoti hanno consultato delicati libri in cartapecora risalenti al 1300 che si trovavano nella cattedrale di Notre Dame de Beaune. La chiesa aveva un piccolo appezzamento di terreno coltivato a vite che produceva un vino così rinomato da essere venduto a mercanti che, a loro volta, rifornivano il re.

    E ogni anno c'era qualcuno che annotava minuziosamente la data in cui si mandavano dei braccianti a raccogliere l'uva. Questa data dipendeva dalle condizioni meteo che si erano verificate durante l'anno. I ricercatori hanno consultato documenti in Latino in scrittura filiforme estraendo, anno dopo anno, le date di vendemmia. Per trovare i dati relativi ai periodi più recenti hanno perlustrato i resoconti dei consigli comunali e gli archivi dei quotidiani, mettendo insieme una serie che si estendeva dal 1354 al 2018 senza soluzione di continuità.

    Ed è così che hanno scoperto un netto cambiamento. Nel Medioevo e anche oltre, i dati indicano brevi strisce di tempo caldo e anni roventi molto occasionali, proprio come il 1540. Ma dalla fine degli anni Ottanta del Novecento la temperatura ha fatto una scalata. Negli ultimi 16 anni, per otto volte è stato superato il record di precocità della vendemmia.

    Queste osservazioni coincidono con l'esperienza diretta dei vignaioli della regione. Aubert de Villaine fa questo mestiere dal 1965 e la situazione di oggi, dice, non ha precedenti.

    "Noi agricoltori vediamo dalla prima fila quel che sta accadendo al tempo e al clima", dice. Nathalie Oudin fa lo chardonnay coltivando i vigneti che la sua famiglia possiede da decenni. Generalmente la vendemmia coincideva con il compleanno di suo padre - il 28 settembre - ma oggi la raccolta per quella data è già finita. Due o tre settimane prima rispetto a quando suo nonno faceva il vino, dice Nathalie.

    Salvare il pianeta per salvare il vino
    Per ora l'aumento delle temperature non sta creando troppi problemi agli agricoltori. Infatti, spiega De Villaine, quelle degli ultimi anni sono state tra le migliori annate a loro memoria. Persino quest'anno, durante la forte ondata di calore che in Francia ha fatto balzare le temperature oltre i 37 gradi, le vigne in Borgogna hanno tenuto, protette dalla loro posizione in alta collina e dalla latitudine alla quale si trovano.

    Ma più a sud gli effetti sono meno benevoli. Quest'estate nei paesi della Francia sud-occidentale, le foglie della vite si sono bruciate sulla pianta e i frutti si sono raggrinziti per il troppo stress.

    Questo tipo di caldo non ha ancora raggiunto la Borgogna, ma è probabile che sia in arrivo, dice Jean-Marc Touzard, scienziato del vino all'Istituto nazionale francese per la ricerca agricola.

    "Utilizzando dei modelli possiamo prevedere la data di raccolta dei prossimi anni", spiega, "e possiamo dire che nel 2050, in diverse regioni a tradizione vinicola della Francia, la vendemmia si farà intorno a Ferragosto, nel bel mezzo della calura estiva".

    Tutto ciò influirà quasi sicuramente sul sapore del vino e sulla sua gradazione alcolica. Già oggi, con temperature mondiali aumentate ovunque, il contenuto di alcol nel vino è salito dal 12% degli anni Settanta al 14% di oggi, seppure queste cifre varino da regione a regione. In parte questo si spiega con le scelte degli stessi vignaioli, dice Greg Jones, esperto di viticoltura e scienziato al Linfield College, ma in parte è perché la canicola fa maturare l'uva più in fretta. Più zucchero si accumula nei grappoli, più zucchero si trasforma in alcol durante il processo di vinificazione.

    "Con l'aumentare delle temperature, hai più zucchero e meno acidità", dice Oudin. "Qui non ci piacciono molto gli Chardonnay troppo pesanti e zuccherini, vogliamo che siano più leggeri. Ma questo è sempre più difficile con le estati calde che stiamo avendo". I famosissimi vini della Borgogna sono, per ora, al sicuro ma stanno già cambiando. E il loro futuro è tutt'altro che certo.

    "Ci prendiamo cura del terreno ogni giorno per prepararlo e nutrirlo, facciamo tutto ciò che è nelle nostre possibilità per ottenere il miglior vino. Ma quella del clima è una variabile che non possiamo controllare. Anche se tutto il resto lo facciamo al meglio, sulle temperature non abbiamo alcun potere", conclude Oudin.


    (www.nationalgeographic 04 ottobre 2019)
     
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