Le fiabe di HANS CHRISTIAN ANDERSEN

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  1. gheagabry
     
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    Il sale
    In una bellissima città della Russia viveva un tempo un ricco mercante che aveva tre figlioli: Fedor, Vassilij e Ivan. I primi due erano abili e svelti negli affari, ma il minore non rivelava alcuna inclinazione per questo genere di attività, perciò il padre aveva ben poca stima di lui, e i fratelli ancor meno.
    Un giorno il vecchio mercante chiamò i due figli maggiori e disse:
    - E' tempo che mi diate un aiuto e dimostriate che cosa sapete fare. Ho allestito per voi due navi cariche di mercanzie preziose: tappeti, pellicce, essenze odorose, legni pregiati. Fate vela per qualche porto lontano e commerciate: vedrò, al vostro ritorno, chi di voi due avrà saputo far fruttare meglio la sua ricchezza. Vi do un anno di tempo.
    I due fratelli furono contentissimi e si prepararono a partire; ma il terzo, poiché non gli era stato affidato alcun incarico, incominciò a lamentarsi:
    - Padre mio, perché mai non avete fatto allestire una nave anche per me?
    - Perché tu non hai il bernoccolo degli affari. Sciuperesti la roba e torneresti a mani vuote.
    - Forse no! Lasciatemi provare, come i miei fratelli.
    Ivan tanto pregò e supplicò che finalmente il padre si decise ad affidargli una nave; ma non volendo metter in gioco mercanzie rare, convinto di non rivederle più, fece caricare la nave di pali, assi e tavole di legno di infimo valore.
    Così anche Ivan poté partire e il vento gli fu tanto favorevole che in tre giorni raggiunse i suoi fratelli. Veleggiarono per un po' l'uno dietro l'altro, ma a un tratto li colse una burrasca che sconvolse il mare e scatenò un vento furioso: le tre navi si dispersero, e quando ritornò il sereno, Ivan si accorse di essere rimasto solo.
    Senza sgomentarsi, il giovane continuò il suo viaggio, e dopo qualche tempo approdò a un'isola sconosciuta. "Chissà che non possa fare buoni affari, qui?" pensò; e scese a terra accompagnato dai marinai. Ma l'isola sembrava deserta e non si vedeva in giro né una capanna né un uomo.
    La spiaggia, tutta la terra e anche un'alta montagna erano ricoperte di una polvere bianca e scintillante. "Forse sbaglio, ma questo è sale" pensò Ivan. Ne raccolse un pizzico e l'assaggiò. Era sale davvero, e il giovane, assai contento pensando ai guadagni che avrebbe potuto ricavarne, ordinò:
    - Gettate in acqua assi e pali e fate, invece, un carico di sale.
    Così fu fatto; il bastimento riprese il mare e veleggiò per molto tempo fino a quando giunse al porto di una grande e ricca città. Sceso a terra, Ivan seppe che proprio in quel luogo viveva lo zar. Allora, dopo aver riempito un sacchetto di sale, si fece indicare il palazzo reale e chiese di essere ricevuto.
    - Che cosa vuoi straniero? - gli chiese lo zar - Vedo che arrivi da lontano: hai qualcosa da mostrarmi?
    - Maestà, io vendo sale - rispose Ivan - vorrei venderne a voi e a tutti gli abitanti della città.
    - Sale? Non so cosa sia. Mostrami questa tua strana merce.
    Subito il giovane aprì il sacchetto, ma il sovrano scoppiò a ridere:
    - Questa è soltanto sabbia molto bianca! Mi dispiace per te, straniero, ma da noi questa roba non si vende: si regala! Vattene in pace e torna soltanto quando potrai mostrarmi qualcosa di meglio.
    Ivan uscì dal palazzo molto deluso, e pensò "Aveva ragione mio padre: ho fatto soltanto un cattivo affare! Tuttavia voglio entrare nelle cucine reali per vedere che specie di sale mettono nelle vivande". Si presentò al capocuoco e chiese di potersi sedere accanto al fuoco per riscaldarsi e riposare.
    - Entra, fratello, e riposati quanto vuoi - rispose il capocuoco, e Ivan, dalla sua panca, poté osservare il personale di cucina che preparava le pietanze dello zar.
    Chi manipolava la pasta, chi rimestava, chi puliva i pesci, che faceva rosolare l'arrosto: cuochi e cuoche aggiungevano nelle vivande erbe aromatiche e spezie di ogni genere: ma di sale neanche l'ombra. Quando il pranzo fu pronto, tutti uscirono per imbandire la mensa, e Ivan, rimasto solo, aperse il suo sacchetto e gettò rapidamente un pizzico di sale nelle pentole e nei tegami. Poi sgattaiolò fuori e tornò alla sua nave. Quel giorno, a tavola, lo zar ebbe una serie di sorprese: la minestra era squisita, il pesce aveva un sapore delicato e persino il dolce era più buono del solito. Allora chiamò i cuochi.
    - E' la prima volta che assaggio cibi così gustosi! Come li avete cucinati?
    - Come al solito, maestà - risposero i cuochi - Non riusciamo a capire neppure noi perché oggi il pranzo sia riuscito così bene.
    - Però - esclamò ad un tratto il capocuoco - in cucina c'era uno straniero, che, adesso, è tornato alla sua nave. Forse egli ne sa qualcosa.
    - Venga subito alla mia presenza - comandò lo zar; e non appena Ivan si presentò, gli chiese con voce irata:
    - Che cosa hai aggiunto nelle mie vivande?
    Ivan si gettò in ginocchio: - Perdonatemi, maestà: ho messo nei cibi un pizzico di sale. Dalle nostre parti si usa così.
    - E' meraviglioso! - esclamò lo zar - Comprerò io, tutto il tuo sale. Quanto chiedi?
    - Poco: per ogni misura di sale, voglio una misura d'oro e una misura d'argento.
    - E' un prezzo conveniente. Fa scaricare la nave mentre io preparerò il compenso.
    Così fu fatto. Per scaricare il sale occorsero tre giorni, e altrettanti per caricare l'oro e l'argento. La stiva fu tanto piena che non ne sarebbe entrato un grammo di più. Il giovane Ivan era già pronto a spiegare le vele, quando al porto giunse la figlia dello zar accompagnata dalle damigelle.
    - Straniero, non ho mai visitato una nave - disse la fanciulla - posso veder questa?
    Ivan fu ben contento di fare da guida alla bella principessa, ma mentre la conduceva sul ponte, il cielo si oscurò e sul mare scoppiò una violenta burrasca. Trascinata dal vento, la nave ruppe gli ormeggi e fu spinta a tale distanza che quando ritornò il sereno, la terra non si vedeva più.
    La principessa si mise a piangere, e Ivan cercò di consolarla:
    - E' il destino che vuole così: ti farò conoscere il mio paese, e se vorrai ci sposeremo.
    Ivan era un bel giovane: la principessa sorrise.
    Il viaggio continuò allegramente, e dopo molti giorni furono avvistate altre due navi. Erano i fratelli di Ivan che facevano ritorno in patria. Ivan li salutò con gioia, e ingenuo e semplice com'era, presentò loro la bella principessa e mostrò le sue ricchezze, convinto che i fratelli ne avrebbero gioito con lui.
    Ma i fratelli invece divennero verdi per l'invidia e il dispetto e guardarono il giovane con occhi cattivi: poi presero a confabulare tra loro.
    Quella notte, mentre Ivan dormiva, Vassilij e Fedor lo afferrarono e lo gettarono in mare. Poi comandarono minacciosamente alla principessa di non fiatare e ripresero il viaggio verso casa.
    Intanto Ivan, toccato il fondo marino, era svenuto. Quando riaperse gli occhi si trovò seduto sopra uno scoglio, vicino a un gigante che toccava il fondo del mare con i piedi, e usciva dall'acqua fino ai gomiti.
    - Ti ho salvato io - spiegò il gigante che aveva i baffi lunghi due metri - e se vuoi sapere anche il resto, ti dirò che la tua principessa sposerà Fedor, mentre Vassilij si prenderà le tue ricchezze.
    - Ti prego - implorò Ivan - fammi ritornare a casa! Aiutami!
    gigante marino - Avrei voluto tenerti con me - borbottò il gigante - ma non sarebbe stato giusto. Perciò ti accompagnerò a casa, ma, prima di lasciarti andare vorrei che tu rispondessi a questa domanda: qual è la cosa più preziosa che ci sia in terra e in mare?
    - Il sale - rispose Ivan.
    Allora il gigante si mise il giovane sulle spalle, e lo trasportò fino alla soglia di casa: poi scomparve. Ivan fece per entrare quando udì suo padre che diceva:
    - Siete stati molto bravi, figli miei! Ma dove sarà finito Ivan?
    - Nella taverna di qualche porto - risero i fratelli.
    In quel momento Ivan spalancò la porta. La principessa lo vide e gli corse incontro, buttandogli le braccia al collo. Il padre guardò i figli maggiori e chiese tutto sorpreso:
    - Che cosa significa questo?
    Ma i figli non diedero spiegazioni: balzarono fuori dall'uscio e corsero fino alle navi, spiegarono le vele e si allontanarono al più presto.
    Ivan e la bella principessa si sposarono e vissero felici per moltissimi anni.

    (Hans Christian Andersen)
     
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  2. gheagabry
     
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    I cigni selvatici
    - Miei cari ragazzi, - annunciò il re, - entro pochi giorni mi risposerò...
    A questa notizia, Lisa e i suoi undici fratelli ebbero lo stesso presentimento: la loro esistenza viziata di principi felici stava per terminare. Quando videro la nuova regina, con l'aria dura e lo sguardo glaciale che rivelava egoismo e cattiveria, i loro timori furono confermati.
    Lisa fu la sua prima vittima... Il giorno immediatamente successivo alle nozze, la matrigna mandò Lisa presso una famiglia di contadini che la fecero vivere come la gente rude di campagna.
    Questa cattiva matrigna aveva persuaso il re che il soggiorno sarebbe stato benefico, anche se in realtà la bambina era trattata come una sguattera. In seguito cominciò a denigrare gli undici fratellini: ci mise tanto rancore e accanimento che, rapidamente, il re fece allontanare i suoi figli.
    - E ora volate con le vostre ali, - aggiunse la perfida donna, - volate... volate fino in capo al mondo!
    A queste parole, i principi si trasformarono in undici magnifici cigni immacolati e presero subito il volo.
    A quindici anni la principessa ritornò al palazzo, con gran dispiacere della matrigna che credeva di essersene sbarazzata per sempre. Quando vide quella bella adolescente, dolce, intelligente, sentì raddoppiare il suo odio. Invidiosa di tutte le qualità riunite in una sola ragazza, architettò un piano machiavellico per eliminarla definitivamente e attese pazientemente il momento opportuno per eseguirlo...
    La ragazza apprezzava in modo particolare un lussuoso salone di marmo. Al centro c'era una vasca d'acqua dove le piaceva specchiarsi, seduta su morbidi cuscini di seta e di broccato, sfiorando l'acqua con le dita esili.
    La megera vide in quell'acqua lo strumento della sua vendetta. Mise nella vasca tre enormi rospi pieni di pustole e ordinò loro:
    - Saltale sulla testa, attaccati ai capelli e trasmettile la tua incredibile stupidità... - disse al primo.
    - Saltale in faccia, - disse al secondo, - e falla diventare brutta e foruncolosa come te!
    - In quanto a te, che sei il terzo, rendila crudele, fai in modo che il suo cuore sia duro come la roccia, che la sua vita sia solo sofferenza!
    Quando la principessa arrivò, per approfittare di un po' di calma e di freschezza, i tre rospi vollero attuare il sinistro incarico. Ma il contatto di una ragazza così pura e innocente ruppe il sortilegio: le immonde bestiole si trasformarono in tre splendide rose, soavemente profumate...
    Allora la regina, colma di rabbia, si gettò sulla poveretta, sporcò il suo visino con la fuliggine e ridusse i suoi capelli come una zazzera ruvida come la canapa. In un momento diventò irriconoscibile persino al padre che, credendola una mendicante, la fece scacciare dal castello.
    Trionfante, la spaventosa strega gioì in segreto per non destare sospetti nel sovrano.


    Nel frattempo, l'infelice ragazza aveva incominciato il suo triste errare. Lisa camminò tutto il giorno. Quando giunse la sera, in mezzo ad una profonda foresta, si dissetò alla sorgente di un ruscello, si lavò il viso e i capelli prima di addormentarsi, sfinita. Ahimè! Brutti incubi rovinarono il suo sonno: che cosa era accaduto ai suoi fratelli? Al risveglio, incontrò una vecchia che le parlò di undici cigni in un lago vicino.
    La ragazza vi arrivò troppo tardi, ma coraggiosamente, continuò le ricerche. Arrivata sulle rive dell'oceano, il rumore di ali possenti che fendevano l'aria le resero un po' di speranza. Undici uccelli apparvero all'orizzonte... Le dita palmate dei volatili sfioravano la sabbia.
    All'improvviso, ripresero l'aspetto umano. L'incontro fu commovente, pieno di gioia e di tristezza. Parlarono lungamente: la principessa raccontò le sue avventure, il più grande dei fratelli fece lo stesso:
    - Condannati all'esilio eterno in un magnifico paese che non sostituirà mai la nostra amata patria, dobbiamo, ogni sera, ritornare sulla terra per ridiventare uomini. All'alba, il nostro regno diventa ancora il cielo!
    - Perché siete qui, allora? - domandò Lisa.
    - Qualche giorno all'anno siamo autorizzati a volare sul palazzo di nostro padre a rivedere il luogo della nostra felice giovinezza. Domani torneremo in esilio. Vieni anche tu con noi?
    La ragazza non esitò. Al mattino, Lisa si mise in una solida tela di lino tenuta fermamente dai becchi di tre suoi fratelli e intraprese un lungo viaggio sopra i mari. Gli altri ragazzi, anche loro trasformati in cigni, le fecero da scorta. Al tramonto, arrivati a destinazione, deposero il loro prezioso carico all'entrata di una grotta che era il loro rifugio. Il freddo della sera, la stanchezza e le emozioni del viaggio spossarono Lisa che si addormentò facilmente. Ma una grande preoccupazione tormentava i suoi sogni: come avrebbe potuto aiutare i fratelli a riprendere definitivamente le sembianze umane?
    In un sogno, apparve una fata. Malgrado la sua giovinezza e la sua bellezza, la principessa riconobbe la vecchia donna che l'aveva guidata nella foresta, quando stava cercando i fratelli.
    - Conosco il tuo desiderio, - le disse - e posso esaudirlo, ma ti occorrerà molta volontà e tenacia. Sei pronta a sopportare silenziosamente alcune prove terribili?
    - Sì, sono pronta! Niente mi fermerà...
    - Dovrai raccogliere molte ortiche, filarle come la lana, tesserle e cucire il tessuto ottenuto per confezionare undici abiti. Quando saranno terminati, li getterai sui cigni e il cattivo sortilegio scomparirà immediatamente. Durante questo lavoro resterai sempre zitta. Un solo suono uscito dalla tua bocca renderà inutile il tuo sacrificio e abbrevierà la vita dei tuoi cari che vuoi salvare. La liberazione dei tuoi fratelli ha questo prezzo...
    Al suo risveglio, Lisa si mise attivamente all'opera, colse le piante irritanti che inflissero alle sue mani bruciori lancinanti. Con la bocca chiusa, soffocò singhiozzi di dolore.
    Come ogni sera, i cigni ritornarono a terra e ripresero il loro aspetto principesco. Interrogarono la sorella sulla causa delle sua mani gonfie e degli occhi pieni di lacrime, ma Lisa non disse nemmeno una parola E continuò con ostinazione il suo lavoro doloroso.
    Un giorno in cui Lisa stava facendo provviste di ortiche, alcuni cacciatori si fermarono per chiederle la strada. Erano condotti dal sovrano del paese, giovane e seducente, che fu immediatamente conquistato dal suo fascino e dalla sua grazia. Il continuo silenzio della ragazza lo imbarazzò ma, preso dall'improvvisa passione, la mise in groppa al suo cavallo e la portò nel suo palazzo.


    Vestita di broccato e di seta, adorna di sontuosi gioielli, Lisa fu presentata a corte. Lacrime di sofferenza bagnarono i suoi occhi e tutti crederono fossero lacrime di felicità!
    Il matrimonio inaspettato, suscitò rancori e gelosie: da dove arrivava questa sconosciuta? Aveva soggiogato il re, era una strega!
    Per farle ritornare il sorriso e la voce, il giovane re ebbe la delicatezza di riportarla alla grotta dalla quale l'aveva portata via così bruscamente. C'era tutto; i vestiti già cuciti, il necessario per cucire gli altri. Lisa riprese il lavoro con entusiasmo... ma un giorno le ortiche finirono. Allora andò a coglierne al vicino cimitero, ricco di quelle pianticelle. Ahimè, un cortigiano invidioso del suo felice destino la seguì, scoprì il segreto e corse a rivelarlo al giovane marito.
    Il poveretto, malgrado il suo amore, dovette cedere alle insistenze della sua corte che accusava la sfortunata. Lisa, con il suo silenzio, non poté difendersi dall'accusa di stregoneria e fu gettata in prigione. Per miracolo, vi trovò il suo lavoro e poté terminarlo, all'insaputa delle guardie.
    Condannata ad essere bruciata viva, la poveretta camminò stoicamente verso il rogo, stringendo disperatamente fra le braccia i preziosi vestiti.
    Incuriositi dal rumore della folla, gli undici cigni si posarono nel luogo del supplizio e con grande emozione della folla ripresero l'aspetto umano appena Lisa ebbe lanciato i vestiti magici.
    Liberata dal giuramento, la principessa poté infine raccontare la sua storia e quella dei suoi fratelli.
    Di buon cuore, Lisa perdonò il suo sposo e, felice, ritornò con lui a palazzo...

    (H. C. Andersen)
     
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  3. gheagabry
     
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    La diligenza a dodici posti
    La notte era gelida e limpidissima: il cielo brillava di stelle. L'orologio della chiesa scoccò dodici rintocchi, e subito i mortaretti incominciarono a scoppiettare e una vecchia latta volò fuori da una finestra, perché era l'ultima notte dell'anno. In quel preciso momento, una vecchia diligenza sconquassata venne a fermarsi alla porta della città; portava dodici viaggiatori, quanti erano i posti.
    I nuovi arrivati scesero dalla diligenza. Tutti erano forniti di passaporto e di bagaglio e portavano persino dei doni per me, per voi, per tutti.
    - Buon anno! - augurò la sentinella. - avanti il primo: dichiarate nome e professione.
    Il primo viaggiatore era tutto avvolto in una pelliccia d'orso e calzava stivaloni di pelo.
    - Potete consultare il mio passaporto-disse - io sono colui a cui tutti guardano sempre con speranza. Distribuisco mance e regali, e ne darò uno anche a voi, se verrete a trovarmi domani. Faccio inviti e feste di ballo, ma non posso darne più di trentina. Le mie navi sono imprigionate in mezzo ai ghiacci, ma nella mia casa fa caldo. Mi chiamo Gennaro.
    - Avanti il secondo - disse allora la sentinella.
    Questi era un personaggio gioviale e pazzerellone: organizzava balli e divertimenti di ogni genere.pazzerellone Portava seco un grosso barile.
    - Quando c'è questo, c'è baldoria - dichiarò. - Voglio stare allegro, perché ho poco tempo da vivere: ventotto giorni soltanto. Ogni tanto mi aggiungono un altro giorno per la buona misura, ma non ne faccio gran calcolo. - Poco chiasso! - ammonì la sentinella.
    - Io posso fare tutto il chiasso che voglio - replicò l'altro. - Sono il Principe Carnevale, ma viaggio in incognito sotto il nome Febbraio.
    Il terzo viaggiatore era magro come la quaresima. Studiava il cielo camminando col naso in aria, perché predicava il tempo e le stagioni. Al risvolto della giacca portava un mazzolino di violette piccine, piccine. Il quarto viaggiatore gli batté la mano sulla spalla.
    - Don Marzo, - esclamò sento odor di punch! Nella saletta dei doganieri stanno preparando la tua bevanda preferita. Corri subito a vedere!
    Non era vero: il nuovo venuto voleva soltanto giocare un tiro al suo compagno di viaggio; infatti si chiamava Aprile e incominciava la sua carriera con un pesce. Aveva un aspetto gaio, forse perché lavorava poco.
    Dopo di lui scese una bella fanciulla che si chiamava Maggiolina. Indossava un vestito color dell'erba tenera. Aveva nei capelli un mazzolino di anemoni e profumava di tino. Quel profumo era tanto forte che la sentinella starnutì.
    - Dio vi benedica! - disse la fanciulla.
    - Fate largo che scende la dama di Giugno - avvertì il cocchiere.
    La signora scese. Era una dama molto bella e un poco altera. L'accompagnava Luglio, suo fratello minore. Questi era un giovane grassoccio, indossava abiti estivi e portava sulla testa un largo cappello di panama.
    Un po' affannata e rossa in viso scese poi Mamma Agostina. Era una venditrice di frutta, proprietaria di molti terreni, sempre in faccende.
    Dalla diligenza, dopo di lei, sbucò un pittore:pittore il professor Settembre. Aveva per sbaglio i tubetti del colore, perché il colore era la sua passione. Infatti appena entrava nelle foreste, gli alberi e le foglie sfoggiavano la più variopinta magnificenza; qua rosso acceso, là giallo, più in là bruno dorato.
    Comparve poi un gentiluomo di campagna, il Conte Ottobre. Amatissimo della caccia, portava con sé il fucile, il cane e il carniere pieno di noci.
    Novembre, il suo compagno, era tormentato da una violenta infreddatura. Era provveditore dei Focolari e doveva pensare alle provviste di legna, spaccarla e segarla.
    E finalmente ecco l'ultimo viaggiatore: Nonno Dicembre, che stringeva lo scaldino fra le mani. Era freddoloso e intirizzito, e portava in braccio anche un piccolo abete.
    - Voglio che cresca tanto da toccare il soffitto, alla sera di Natale - disse, - Così si potrà adornarlo con palle d'argento, candeline colorate e angioletti.
    Il doganiere lo interruppe:
    - Ogni passaporto è valido per un mese - avvertì. - Io lì ritirerò e, scaduto il tempo consentito, scriverò le note relative alla vostra condotta.
    Finito l'anno, cari lettori, credo che anch'io saprò dirvi che cosa i dodici viaggiatori avranno portato in regalo a me, a voi, a tutti, ma per ora davvero non lo so! Forse non lo sanno neanche loro. Si vive in tempi così strani...

    (Hans Christian Andersen)

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    L'acciarino magico
    Un soldato marciava allegramente verso il suo villaggio: uno, due! Uno, due! Con lo zaino in spalla e la sciabola al fianco, ritornava dalla guerra. Improvvisamente incontrò una strega molto vecchia e brutta.
    - Buongiorno, soldato, - gli disse, - hai una bella sciabola, ma il tuo zaino sembra vuoto. Ti piacerebbe possedere molti soldi?
    - Si, certo, rispose il soldato.
    - Bene, allora scendi nel tronco cavo di questo albero. Prima ti attaccherò una corda intorno alla vita, per farti poi risalire quando me lo domanderai, - continuò la strega.
    - Che cosa troverò in questo grosso albero? - domandò il giovane soldato.
    - Denaro, soldato, tanto quanto ne vorrai. Quando sarai arrivato sul fondo, vedrai una galleria illuminata da un centinaio di lampade. Sulla sinistra troverai tre porte: ciascuna di esse apre una stanza. Nella prima camera vedrai un cofano sul quale è seduto un cane con due occhi grandi e piatti. Non averne paura, stendi per terra il mio grembiule blu a quadri, afferra poi il cane e mettilo su di esso: come per incanto, resterà immobile. Apri pure il cofano e prendi tutti i soldi di rame che desideri. Se preferisci invece le monete d'argento, entra nella seconda stanza. Anche qui c'è un cofano difeso da un cane con due occhi grandi come le macine di un mulino. Agisci come la prima volta e prendi tutti i soldi d'argento che desideri. Ma se vuoi l'oro, entra nella terza stanza. Anche là troverai un cane con due occhi grandi come la torre rotonda di Copenaghen. Fai come prima e prendi tutte le monete d'oro che desideri.-
    - Certo che mi conviene molto, - mormorò il soldato. - E voi cosa desiderate in cambio di queste ricchezze?
    - Riportami solamente l'acciarino che mia madre ha dimenticato l'ultima volta che è scesa nell'albero.
    - D'accordo. Dammi il tuo grembiule a quadri blu, attacca la corda intorno alla mia vita, poi scenderò subito in fondo all'albero, - disse il giovanotto, risoluto.
    Le cose andarono come aveva detto la strega.
    Il soldato trovò uno dopo l'altro i tre cani spaventosi con i loro occhi grandi.
    Si riempì le tasche di monete di rame, ma le svuotò subito dopo per prendere quelle d'argento ed infine per le monete d'oro di cui si riempì anche gli stivali e lo zaino.
    Ora era cosi ricco che avrebbe potuto comperare la città di Copenaghen! trovò l'acciarino, lo prese e chiamò la strega.
    - Che cosa vuoi fare di questo acciarino? - le domandò il giovanotto quando fu nuovamente fuori sulla strada.
    - Sei troppo curioso, soldato! Accontentati dell'oro che hai!
    - Voglio anche l'acciarino! Ridammelo o ti ammazzerò!
    La strega si rifiutò con fermezza; il soldato allora l'ammazzò e con passo pesante, perché era molto carico, si diresse verso la città vicina dove alloggiò nel miglior albergo.
    Là condusse una bella vita, circondato da cortigiani che lo adulavano.
    Un giorno senti parlare dei pregi e della bellezza della principessa, figlia del re di Danimarca.
    - Mi piacerebbe molto conoscerla, - sospirò il soldato.
    - E' impossibile, - gli fu risposto. - La principessa vive rinchiusa in un castello, circondato da alte mura. Nessuno può avvicinarsi. Il re la sorveglia gelosamente perché un mago gli ha predetto che sposerà un semplice soldato.
    Per dimenticare questa delusione il giovane uscì con i suoi amici e sperperò molti soldi; tanto che, un giorno, non gliene rimase nemmeno uno.
    Lasciò l'albergo per andare a vivere in una povera mansarda.
    I suoi amici gli voltarono le spalle.
    Una sera, volendo accendere la sua candela, batté l'acciarino della strega.
    Nell'attimo stesso che s'accese la scintilla, apparve uno dei tre cani con gli occhi grandi.
    - Ordina, padrone! Io ti servirò, - gli disse, - e i miei compagni sono anch'essi pronti ad ubbidirti.
    Il soldato capì che l'acciarino era magico e chiese alcune monete d'oro.
    In questo modo ridiventò presto ricco e adulato.
    Tuttavia era triste, perché era innamorato segretamente della principessa.
    Una notte, ormai disperato, incaricò uno dei cani di portargli la principessa.
    Era così bella, profondamente addormentata sul dorso dell'animale, che il soldato le diede un bacio.
    Il cane la riportò poi al castello.
    Il giorno dopo la principessa raccontò ai genitori sovrani ciò che credeva fosse stato un sogno.
    Diffidente, il re la fece seguire dalle sue ancelle per vedere dove andasse di notte.
    Il cane, però, riuscì a far perdere le tracce.
    Allora la regina fece cucire nei vestiti di sua figlia un taschino pieno d'orzo, forato all'estremità. Così, quando il cane, la notte seguente, portò via la principessa, i semi d'orzo caddero per terra indicando la strada che portava alla casa del soldato.
    Il giovanotto fu immediatamente gettato in prigione e condannato all' impiccagione.
    Il giorno dell'esecuzione, moltissima gente si era riunita nella piazza.
    I sovrani e i giudici troneggiavano dall'alto di un palco.
    Due guardie portarono il condannato che, prima di morire, espresse l'ultimo desiderio: quello di fumare un' ultima volta la pipa; ciò gli fu concesso.
    Prese dalla tasca l'acciarino magico e lo batté tre volte: i tre cani comparvero, feroci con i loro grandi occhi.
    Balzarono sui sovrani e li fecero precipitare dall'alto del palco sulla piazza ove si sfracellarono.
    - Viva il piccolo soldato! - urlò la folla che detestava i sovrani tiranni, - viva il nostro re!
    Il soldato, divenuto re, sposò la principessa e furono felici per moltissimi anni, ben protetti dai tre cani dai grandi occhi.

    (Hans Christian Andersen)
     
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  4. gheagabry
     
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    Mignolina
    C'era una volta una donna che desiderava molto avere una bambina, ma non sapeva come ottenerla; così un giorno andò da una vecchia strega e le disse:
    «Desidero dal profondo del cuore avere una bambina, mi vuoi dire come posso fare per averla?».
    «Sì, posso aiutarti» disse la strega. «Questo è un granello d'orzo, ma non è di quelli che crescono nei campi del contadino e neppure di quelli che mangiano i polli; mettilo in un vaso e vedrai cosa succederà!»
    «Grazie molte» replicò la donna, e diede alla strega dodici centesimi; poi andò a casa, piantò il granello d'orzo e subito crebbe un bel fiore grande, sembrava un tulipano, ma i petali restavano chiusi come fosse ancora una gemma.
    «È proprio un bel fiore!» disse la donna, e baciò i petali rossi e gialli, ma mentre lei lo baciava, il fiore, con uno scoppio, si aprì. Era proprio un tulipano, ora lo si poteva vedere, ma in mezzo al fiore, sul pistillo verde, c'era una bambina piccolissima, delicata e graziosa; non era più grande di un mignolo e perciò venne chiamata Mignolina.
    Come culla ebbe un bel guscio di noce laccato, petali di viola azzurra erano il suo materasso e un petalo di rosa la coperta così dormiva di notte, ma di giorno giocava sul tavolo, dove la donna aveva messo un piatto pieno d'acqua con tutt'intorno una corona di fiori, coi gambi immersi nell'acqua. Lì galleggiava un grande tulipano e Mignolina vi navigava da un lato all'altro del piatto; per remare usava due peli di cavallo. Era così graziosa; sapeva anche cantare, e così bene non si era mai sentito prima.
    Una notte, mentre dormiva nel suo lettino, entrò un brutto rospo femmina saltando dalla finestra, che aveva un vetro rotto. Il rospo era sporco, grande e bagnato e saltò proprio sul tavolo, dove Mignolina dormiva sotto il petalo di rosa rossa.
    "Sarebbe un'ottima moglie per mio figlio" pensò il rospo; prese il guscio di noce in cui Mignolina dormiva e saltò attraverso il vetro giù nel giardino.
    Passava di li un grande e ampio torrente, ma nel punto più largo era pieno di pantano e fango; proprio lì abitava il rospo con suo figlio. Uh! anche lui era sporco e brutto, assomigliava tutto a sua madre: «Koax, koax, brekke-ke-kex!» fu tutto quel che disse vedendo la graziosa bambina nel guscio di noce.
    «Non parlare così forte, altrimenti si sveglia!» disse la vecchia «e potrebbe anche andarsene da noi, dato che è leggera come una piuma di cigno! potremmo metterla nel torrente su una grande foglia di ninfea; per lei che è così leggera e piccola, sarà come un'isola! così non potrà andarsene via mentre noi prepariamo la sala sotto il fango dove dovrete andare a abitare!»

    Nel torrente crescevano moltissime ninfee con le larghe foglie verdi che sembrava galleggiassero sull'acqua; la foglia più lontana di tutte era anche la più grande, e lì nuotò il vecchio rospo e depose il guscio della noce con Mignolina.
    La poverina si svegliò presto quella mattina e quando vide dove si trovava cominciò a piangere amaramente, perché c'era acqua da tutte le parti della grande foglia verde e lei non poteva raggiungere la terra.
    Il vecchio rospo era giù nel fango e stava decorando la sua stanza con giunco e boccioli gialli di ninfea: tutto doveva essere bello per la nuova nuora; poi nuotò col figlio fino alla foglia dove si trovava Mignolina, volevano prendere il suo bel lettino e metterlo nella stanza della sposa prima che vi giungesse lei stessa.
    Il vecchio rospo si inchinò profondamente nell'acqua davanti a lei e disse: «Ora vedrai mio figlio, che diventerà tuo marito, e abiterete felicemente nel fango!».
    «Koax, koax, brekke-ke-kex!» fu tutto quello che il figlio disse.
    Presero il bel lettino e nuotarono via, e Mignolina rimase da sola a piangere sulla foglia verde, perché non voleva abitare con il brutto rospo e neppure sposare il suo brutto figlio. I pesciolini che nuotavano nell'acqua lì vicino avevano visto il rospo e avevano sentito quel che egli aveva detto, quindi si affacciarono per vedere la bambina. Vedendola, la trovarono molto carina e li addolorò molto pensare che dovesse andare a vivere con il brutto rospo. No, non doveva accadere! Si riunirono intorno al gambo che teneva la foglia su cui la bimba si trovava, rosicchiarono il gambo, così la foglia galleggiò via lungo il torrente, via con Mignolina, lontano, dove il rospo non poteva arrivare.
    Mignolina passò molti posti, e gli uccellini che erano nei cespugli, vedendola, cantavano: «Che graziosa fanciulla!». La foglia andava sempre più lontano, così Mignolina si trovò all'estero.
    Una farfallina bianca continuò a volare intorno a lei e infine si posò sulla foglia, perché Mignolina le piaceva tanto. La piccola era così felice perché il rospo non poteva più raggiungerla e perché tutto era bello intorno a lei: il sole brillava sull'acqua e la rendeva dorata. Allora si tolse la cintura e legò la farfallina alla foglia: in questo modo la foglia viaggiava molto più in fretta e così lei, dato che stava sulla foglia.
    Improvvisamente giunse ronzando un maggiolone che la vide e subito la afferrò con la zampa alla vita sottile e la portò in cima a un albero, la verde foglia intanto continuava a galleggiare lungo il torrente e la farfalla la seguiva, dato che era legata alla foglia e non poteva liberarsi.
    Dio mio, come si spaventò la povera Mignolina quando il maggiolone la portò volando sull'albero, ma era ancora più addolorata per la bella farfallina bianca che lei stessa aveva legato alla foglia; così non si sarebbe potuta liberare e sarebbe forse morta di fame. Ma di questo il maggiolone non si curava. Si posò con la fanciulla sulla più grande foglia verde dell'albero, le diede da mangiare il polline dei fiori e le disse che era così carina, anche se non assomigliava affatto a un maggiolino. Poi giunsero in visita tutti gli altri maggiolini che abitavano sull'albero; guardarono Mignolina e le giovani maggioline arricciarono le antenne e dissero:
    «Ha solo due gambe, che miseria», «Non ha neppure le antenne!», «È così magra in vita, assomiglia a un essere umano! Com'è brutta!».
    Così dissero tutte le maggioline, e dire che Mignolina era in realtà così graziosa! E questo lo pensava anche il maggiolone che l'aveva presa, ma quando tutti gli altri dissero che era brutta, alla fine lo credette anche lui. Non la volle più tenere con sé, poteva andare dove voleva. Volarono giù dall'albero e la posarono su una margherita; lei piangeva, perché era così brutta che i maggiolini non la volevano con loro, ma in realtà era la più bella che si potesse immaginare, delicata e luminosa come il più bel petalo di rosa.
    Per tutta l'estate la povera Mignolina visse da sola nel bosco. Si fece un letto intrecciando fili d'erba e lo appese sotto una grande foglia di romice che la riparava dalla pioggia; si nutriva col polline dei fiori e beveva la rugiada che ogni mattina trovava sulle foglie; così passò l'estate e l'autunno, ma poi giunse l'inverno, il lungo freddo inverno. Tutti gli uccellini che avevano cantato soavemente per lei erano ormai volati via, gli alberi e i fiori appassivano, la grande foglia di romice sotto cui aveva abitato si arrotolò e divenne un gambo secco e appassito. Mignolina soffriva molto il freddo, i suoi vestiti erano stracciati e lei era così minuta e delicata che avrebbe potuto morirne.

    Cominciò a nevicare, e ogni fiocco di neve che cadeva su di lei era come una intera palata di neve gettata su uno di noi, perché noi siamo più grandi e lei era alta solo un pollice. Provò a avvolgersi in una foglia appassita, ma non riuscì a scaldarsi, tremava ugualmente per il freddo.
    Appena fuori dal bosco dove si trovava c'era un grande campo di grano, ma il grano era stato raccolto da tempo e ora dalla terra gelata spuntavano solo le stoppie secche e nude. Per lei tuttavia era come attraversare un bosco, e continuava a tremare di freddo. Infine giunse alla porta della casa della topa di campagna. Non era altro che un piccolo buco sotto le stoppie di grano. Lì abitava la topa, in un ambiente caldo, con una stanza piena di grano, una bella cucina e una sala da pranzo.
    La povera Mignolina si mise davanti alla porta come una mendicante e implorò un pezzo di grano d'orzo, dato che non aveva mangiato nulla da due giorni.
    mignolina «Poverina!» disse la topa, che in fondo era una brava e vecchia topa. «Entra nella mia calda stanzetta e mangia con me.»
    Dato che Mignolina le piaceva, le disse: «Puoi restare qui con me per l'inverno, basta che mi faccia un po' di pulizie e che mi racconti delle storie, perché quelle mi piacciono molto» e Mignolina fece quello che la vecchia topa desiderava e si trovò molto bene.
    «Avremo presto visite» disse la topa. «Il mio vicino viene a trovarmi ogni settimana. Sta molto meglio di me, ha grandi stanze e indossa una splendida pelliccia nera di velluto. Se tu riuscissi a sposarlo, non avresti più di che preoccuparti; ma purtroppo è completamente cieco. Devi raccontargli tutte le più belle storie che sai.»
    Mignolina di questo non si curava, non voleva affatto sposare il vicino, che era una talpa. Venne in visita nella sua nera pelliccia di velluto, era molto ricco e molto colto, diceva la topa, e il suo appartamento era venti volte più grande di quello della topa, ma non poteva sopportare né il sole né i bei fiori; ne parlava molto male, perché non li aveva mai visti. Mignolina dovette cantare e così cantò sia "Vola maggiolino, vola!" che "li monaco va nei prati" ; la talpa si innamorò di lei a causa della bella voce, ma non disse nulla, perché era un uomo posato.
    Aveva appena scavato un lungo passaggio nella terra che collegava la sua casa con la loro, e diede alla topa e a Mignolina il permesso di passeggiarvi quando volevano. Però disse anche di non aver paura dell'uccello morto che si trovava in quel passaggio, era un uccello intero, con le ali e il becco, ed era certamente morto da poco tempo - quando l'inverno era cominciato - e era stato sepolto proprio dove lui aveva fatto il passaggio.
    La talpa prese un pezzo di legno marcio con la bocca, perché nel buio si illumina, e s'avviò, illuminando alle altre due il lungo e buio passaggio; quando giunsero dove giaceva l'uccello morto, la talpa alzò il largo naso verso il soffitto e spinse la terra, così si formò un grande buco e la luce potè passarvi attraverso. Sul pavimento c'era una rondine morta, con le belle ali strette lungo i fianchi, le zampe e la testa infilate sotto le piume: la poverina era certo morta dal freddo.
    «Ora non canta più! Dev'essere triste essere nato uccello! Dio sia lodato, nessuno del miei figli diventerà tale; un uccello non ha altro che il suo cinguettare, e d'inverno muore di fame!».
    «È proprio così, come lei dice da quell'uomo assennato che è» aggiunse la topa. «Che cosa ha in cambio dei suoi gorgheggi un uccello, quando viene l'inverno? Deve soffrire la fame e il freddo; ma tant'è, quando si hanno di queste idee grandiose...!»
    Mignolina non disse nulla, ma quando gli altri si allontanarono dall'uccello, vi si chinò sopra, allontanò le piume che coprivano il capo e baciò i suoi occhi chiusi. "Forse era proprio lei a cantare così bene questa estate per me!" pensò "quanta gioia mi ha procurato questo caro e grazioso uccello!"
    La talpa richiuse il foro da cui penetrava la luce e accompagnò le signore a casa. Ma quella notte Mignolina non riuscì a dormire; allora si alzò, intrecciò con del fieno un grande e bel tappeto e vi avvolse l'uccello; poi vi mise attorno del soffice cotone, affinché avesse un po' di calore pur trovandosi nella fredda terra.
    «Addio, bella e piccola rondine!» disse. «Addio e grazie per le tue deliziose canzoni di quest'estate, quando tutti gli alberi erano verdi e il sole ci scaldava così piacevolmente.»
    Poi posò la sua testolina sul petto della rondine, e si spaventò terribilmente, perché era come se qualcosa battesse lì dentro. Era il cuore della rondine, che non era morta, ma solo in letargo: ora era stata scaldata e era tornata in vita.
    In autunno tutte le rondini volano via per raggiungere paesi più caldi; e se una si attarda, si raggela tanto che cade come morta e resta immobile finché la neve non la copre tutta.
    Mignolina tremava per lo spavento, perché la rondine era grande paragonata a lei che era alta solo un pollice; ma si fece coraggio e avvicinò ancora di più il cotone alla poverina, poi andò a prendere una foglia di menta che le serviva da cuscino e gliela mise sotto la testa.
    La notte successiva tornò ancora da lei, e la trovò viva, ma così debole che riuscì a malapena a aprire gli occhi per un attimo e a vedere Mignolina che aveva un legno marcio in mano, perché era l'unica luce che aveva.
    «Grazie mille, graziosa bambina!» le disse la rondine malata «adesso mi sono scaldata ben bene. Presto riavrò le forze e potrò di nuovo volare fuori al sole.»
    «Oh!» esclamò la fanciulla «è così freddo fuori, nevica e è tutto gelato! Se resti nel tuo lettuccio ben caldo, ti curerò io.»
    Le portò dell'acqua in un petalo di fiore e la rondine la bevve e raccontò che si era ferita un'ala con un cespuglio spinoso e che per questo non poteva volare veloce come le altre rondini, in viaggio verso i paesi caldi. Alla fine era caduta a terra; di più non ricordava e non sapeva spiegarsi come mai si trovava lì.
    Per tutto l'inverno restò nella galleria e Mignolina fu molto buona con lei e le si affezionò; né la talpa né la topa ne vennero a sapere nulla, perché la povera rondine non le interessava.
    Non appena giunse la primavera e il sole scaldò la terra, la rondine dovette salutare Mignolina e aprì il buco che la talpa aveva fatto. Il sole penetrava nella galleria e la rondine chiese alla fanciulla se non voleva partire con lei; poteva sedersi sulla sua schiena, e avrebbero volato nel bosco. Ma Mignolina sapeva che se se ne fosse andata, avrebbe addolorato la vecchia topa.
    «No, non posso» rispose. «Addio, addio, graziosa fanciulla!» disse la rondine e volò in alto verso il sole. Mignolina la seguì con lo sguardo e gli occhi le si inumidirono, perché voleva molto bene alla rondine.
    «Qvit! qvit!» cantava la rondine e volò nel verde bosco.

    Mignolina era molto addolorata. Non poteva neppure uscire al sole; il grano, che era stato seminato nel campo sopra la casa della topa, crebbe così alto che era come un fìtto bosco per la povera fanciulla, alta solo un pollice.
    «Quest'estate ti devi cucire la dote!» le disse la topa, perché ormai il loro vicino, la noiosa talpa nella pelliccia di velluto nero, si era dichiarato nei confronti di Mignolina. «Devi avere sia la lana che il cotone; avrai biancheria da tavola e da letto, quando sarai la moglie della talpa.»
    Mignolina doveva filare e la topa prese a cottimo quattro ragni per tessere giorno e notte. Ogni sera la talpa veniva in visita e diceva sempre che alla fine dell'estate il sole non sarebbe stato così forte: ora aveva bruciato tutta la terra; sì, quando l'estate fosse finita, si sarebbe festeggiato il matrimonio con Mignolina; ma lei non era affatto contenta, perché non le importava nulla della noiosa talpa.
    Ogni mattina all'alba e ogni sera al tramonto sgusciava fuori casa e quando il vento muoveva le cime del grano, così da poter vedere il cielo blu, pensava a quant'era bello là fuori, e desiderava tanto poter rivedere la cara rondine, ma quella non giunse mai, era certo volata via verso i bei boschi verdi.
    Venne l'autunno e Mignolina aveva la dote pronta.
    «Tra quattro settimane ti sposi!» le disse la topa. Ma Mignolina pianse e rispose che non voleva sposare la noiosa talpa.
    «Quante storie!» disse la topa «non intestardirti, altrimenti ti do un morso con i miei denti bianchi! È proprio un brav'uomo quello che sposi; neppure la regina ha una pelliccia come la sua. E ha sia la cucina che la cantina piene: dovresti invece ringraziare il Signore.»
    E venne il giorno delle nozze. La talpa era già giunta per prendere Mignolina, che avrebbe dovuto abitare con lui nella profondità della terra, e non avrebbe mai più potuto uscire al sole, che le piaceva tanto.
    La poverina era così triste, avrebbe dovuto dire addio al bel sole; almeno, stando dalla topa aveva il permesso di vederlo dalla porta.
    «Addio, bel sole!» disse, e allungò le braccine in alto, e così facendo uscì un po' dalla casa della topa; ormai il grano era stato tagliato e c'erano solo stoppie secche. «Addio, addio!» gridò e buttò le sue braccine intorno a un fiorellino rosso. «Saluta la rondinella da parte mia, quando la vedi.»
    «Qvit, qvit!» si sentì in quel momento sopra di lei; Mignolina guardò in alto e vide la rondinella che passava proprio di lì. Non appena la vide, la rondine si rallegrò; Mignolina le raccontò che non voleva sposare la brutta talpa e andare a abitare sotto terra, rinunciando per sempre a vedere il sole. E mentre parlava non tratteneva le lacrime.
    «Adesso giunge il freddo inverno» le disse la rondinella. «Io volo lontano, verso i paesi caldi; vuoi venire con me? Puoi sederti sulla mia schiena. Puoi legarti con la cintura e così voliamo via dalla brutta talpa e dalla buia casa, lontano, oltre i monti, fino ai paesi caldi, dove il sole splende ancora più bello e dove è sempre estate e ci sono i fiori. Vola via con me, Mignolina, tu che hai salvato la mia vita quando giacevo congelata nella buia terra.»
    «Sì, voglio venire con te!» rispose Mignolina, e si mise sulla schiena, posò i piedi sulle ali spiegate, fissò la cintura a una delle penne più robuste, e così la rondine si sollevò nell'aria, oltre il bosco e il mare, oltre le montagne sempre innevate; Mignolina sentiva freddo in quell'aria gelata, allora si infilò sotto le calde piume dell'uccello e tenne fuori solo la testolina per vedere tutte le meraviglie sotto di lei.
    Così giunsero nei paesi caldi. Il sole splendeva ancora più luminoso che da noi, il cielo era più alto, sugli argini e sulle siepi cresceva l'uva più stupenda, verde e nera. Nei boschi pendevano dagli alberi limoni e arance, c'era profumo di mirto e di menta, e sulle strade di campagna i più graziosi bambini giocavano con grandi e variopinte farfalle. Ma la rondine volò oltre e tutto divenne ancora più bello. Sotto bellissimi alberi verdi, vicino al mare blu, c'era uno splendido castello di marmo bianco, dei tempi passati, e tralci di vite si avvolgevano ai pilastri; in cima c'erano molti nidi di rondine e in uno di questi abitava la rondine che portava Mignolina.
    «Questa è la mia casa!» disse la rondine «ma se tu vuoi scegliere uno dei bei fiori, che crescono laggiù, io ti poserò lì e non potrai desiderare di meglio.»
    «Che meraviglia» esclamò la fanciulla, battendo le manine.
    C'era un grande pilastro di marmo caduto che s'era spezzato in tre pezzi, ma tra questi crescevano bellissimi fiori bianchi. La rondine volò laggiù con Mignolina e la posò su uno di quei larghi petali. Che sorpresa fu trovarvi dentro un omino candido e trasparente come fosse stato di vetro; portava sul capo una bella corona d'oro e aveva bellissime ali lucenti sulle spalle; e non era più alto di Mgnolina.
    Era lo spirito del fiore. In ogni fiore abitava un omino o una donnina come lui, ma lui era re di tutti gli altri.
    «Dio mio, com'è bello» sussurrò Mignolina alla rondine.
    Il principino si spaventò molto a causa della rondine, che era proprio gigantesca rispetto a lui così piccolo e delicato, ma quando vide Mignolina si rallegrò, perché era la fanciulla più bella che avesse mai visto.
    Prese la sua corona d'oro e gliela mise sul capo, le chiese come si chiamava e se voleva diventare sua sposa, così sarebbe diventata regina di tutti i fiori! Certo era un marito ben diverso dal figlio del rospo e dalla talpa con la pelliccia di velluto nero.
    Lei disse di sì al bel principino, e subito uscirono da ogni fiore tanti omini e tante donnine, così graziosi che era un piacere vederli. Ognuno aveva un dono per Mignolina, ma il più bello fu un paio di graziose ali di una mosca bianca; vennero fissate alla schiena di Mignolina, così anche lei poteva volare da un fiore all'altro. Che gioia! e la rondinella tornò al suo nido e cantò per loro meglio che potè, ma in fondo al cuore era triste, perché voleva molto bene a Mignolina e non avrebbe voluto separarsi da lei.
    «Non ti chiamerai più Mignolina!» le disse lo spirito del fiore «è un brutto nome e tu sei invece così bella. Ti chiameremo Maja!»
    «Addio! Addio!» esclamò la rondinella e volò via di nuovo dai caldi paesi per andare lontano fino in Danimarca; lì aveva un piccolo nido sopra una finestra, dove vive colui che sa raccontare tante storie, e «Qvit, qvit» si mise a cantare per lui.
    È così che conosciamo tutta la storia.

    (Hans Christian Andersen)

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    Non era buona a nulla
    Il giudice stava affacciato alla finestra, con i polsini inamidati, una spilla sullo sparato della camicia e tutto ben rasato; si era rasato lui stesso e in realtà si era fatto un tagliettino, ma lo aveva già coperto con un pezzetto di giornale.
    «Senti, ragazzo!» chiamò.
    Il ragazzo non era altri che il figlio della lavandaia, che stava passando di lì. Rispettosamente, si tolse il berretto, che si poteva piegare e era fatto apposta per essere messo in tasca. In quei vestiti miseri, ma puliti e rattoppati con cura, ai piedi pesanti zoccoli di legno, il ragazzo se ne rimaneva rispettosamente fermo come si fosse trovato davanti al re in persona.
    «Sei un bravo ragazzo!» disse il giudice «e sei un ragazzo educato. Tua madre sta sciacquando i panni giù al ruscello, vero? e tu stai andando là a portarle quello che hai in tasca. Brutta storia, questa di tua madre! Quanto ne hai?»
    «Mezzo quarto» disse il ragazzo spaventato, con una vocina debole.
    «E stamattina ha avuto lo stesso?» continuò l'uomo.
    «No, era ieri» rispose il ragazzo.
    «Due mezzi quarti fanno un quarto! Non è buona a nulla: fa proprio pena questa gente! Di' a tua madre che dovrebbe vergognarsi, e non diventare anche tu un ubriacone; ma tanto lo diventerai di sicuro! povero ragazzo, vai adesso!»
    E il ragazzo se ne andò; teneva il berretto in mano e il vento gli soffiava tra i capelli biondi che si sollevavano a ciuffi. Girò in una strada, entrò in un vicolo fino a che arrivò al ruscello; lì la madre era nell'acqua vicino a un cavalletto e batteva la pesante biancheria con una mazza. C'era una forte corrente nel ruscello, perché le chiuse del mulino erano aperte; il lenzuolo veniva trascinato dalla corrente e stava per ribaltare il cavalletto: la lavandaia doveva trattenerlo con forza.
    «Non ce la faccio quasi più!» disse «per fortuna sei arrivato. Ho proprio bisogno di recuperare un po' le forze. Fa freddo nell'acqua, e sono già sei ore che sto qua. Mi hai portato qualcosa?»
    Il ragazzo tirò fuori la bottiglia che la madre si portò alla bocca, bevendone un sorso.
    «Ah, come va giù bene, e come riscalda! È come mangiare del cibo caldo, ma non è così caro! bevi anche tu, ragazzo mio! Sei così pallido, stai gelando con quei vestiti leggeri! E poi è già autunno. Uh, l'acqua è gelida! Speriamo di non ammalarmi! No, non c'è pericolo. Dammi un altro sorso e bevine anche tu ma solo un goccio, non ti devi abituare a bere, povero ragazzo mio!»
    Salì sul ponte dove si trovava il ragazzo e raggiunse la riva; l'acqua colava dalla stuoia che aveva intorno alla vita e gocciolava dalla gonna.
    «Sgobbo talmente che quasi mi esce il sangue dalle unghie, ma non mi importa, purché riesca a fare di te un bravo ragazzo, figlio mio!»
    In quel momento arrivò una donna più anziana, scarna e poveramente vestita, zoppa da una gamba e con un grosso ricciolo fìnto che le scendeva su un occhio guercio, per nasconderlo, rendendo in realtà il difetto più appariscente, i vicini la chiamavano "la zoppa col ricciolo".
    «Poveretta! Come ti affatichi nell'acqua gelida! Hai certo bisogno di qualcosa per riscaldarti, e pensare che la gente ti critica perché bevi un goccio!» e subito il discorso tenuto dal giudice al ragazzo venne riferito alla lavandaia, perché la vecchia lo aveva sentito e si era arrabbiata a sentir parlare in quel modo a un ragazzo di sua madre per quel poco che beveva; quando poi il giudice organizzava pranzi con vino a volontà. «Vini pregiati e vini forti, e quasi tutti bevono più del necessario! Ma per loro quello non vuol dire bere! Loro vengono rispettati, tu invece non sei buona a nulla!»
    «Ti ha parlato così, figlio mio?» chiese la lavandaia, le labbra tremanti. «Tua madre non è buona a nulla! Forse ha ragione ma non dovrebbe dirlo al ragazzo. Certo che ricevo molti dolori da quella casa!»
    «Già, hai servito da loro quando i genitori del giudice ancora vivevano! Quanti anni sono passati! E hai dovuto ingoiarne di bocconi amari da allora, puoi ben avere sete!» disse ridendo la vecchia. «Oggi c'è un pranzo importante dal giudice, doveva venire annullato ma ormai è troppo tardi e poi il cibo è già pronto. L'ho saputo dal servo. Meno di un'ora fa è arrivata una lettera che annunciava che il fratello più giovane è morto a Copenaghen.»
    «Morto!» gridò la lavandaia, impallidendo.
    «Come!» esclamò la donna «te la prendi tanto? Certo lo conoscevi dal tempo in cui prestavi servizio in casa.»
    «È morto! era l'uomo migliore del mondo, il più buono! Il Signore non ne ha tanti come lui!» e le lacrime le scorrevano sulle guance. «Oh Dio! mi gira la testa! Forse perché ho finito la bottiglia. Non lo sopporto più! Sto così male!» e si appoggiò al cavalletto.
    «Signore! stai proprio male!» disse la donna. «Cerca di riprenderti! No, stai proprio male. E meglio che ti porti a casa.»
    «E la biancheria?»
    «Me ne occupo io. Prendimi sottobraccio. Il ragazzo può restare qui a controllare finché non tornerò a lavare il resto: non è molto.»
    La lavandaia non si reggeva in piedi.
    «Sono stata troppo tempo nell'acqua gelata. Da stamattina non ho bevuto né mangiato. Mi sento la febbre in corpo! Oh, Signore Gesù, aiutami ad arrivare a casa! povero figlio mio!» e piangeva.
    Il ragazzo si mise a piangere anche lui e sedette in riva a ruscello vicino alla biancheria bagnata. Le due donne si avviarono lentamente, la lavandaia vacillava, camminarono lungo il vicolo, poi per la strada proprio davanti alla casa del giudice, e la donna cadde a terra. La gente le si affollò attorno.
    La vecchietta entrò in casa a cercare aiuto. Il giudice si affacciò alla finestra con i suoi ospiti.
    «È la lavandaia!» esclamò «ha bevuto troppo. È una buona a nulla! È un peccato per il suo bel figliolo, voglio molto bene a quel ragazzo, ma la madre non è buona a nulla.»
    La donna rinvenne e venne portata nella sua misera casa, e messa a letto. La vecchia amica andò a scaldare una scodella di birra con burro e zucchero, che secondo lei era la medicina migliore. Poi tornò al ruscello e sciacquò tutto molto male, ma con buona volontà, riportò la biancheria a terra e la mise in una cassa. Verso sera tornò nella misera casa della lavandaia. Aveva avuto dalla cuoca del giudice due patate rosolate con lo zucchero e un bel pezzo di prosciutto grasso per la malata, ma se lo mangiarono lei e il ragazzo; la malata si riprese sentendone l'odore. «È così sostanzioso!» disse.
    Il ragazzo andò a dormire nello stesso letto dove si trovava la madre, ma il suo posto era di traverso dalla parte dei piedi, con una vecchia coperta ricavata da strisce di stoffa azzurra e rossa cucite insieme.
    La lavandaia stava un po' meglio; la birra calda le aveva ridato forza e l'odore del buon cibo le aveva fatto bene.
    fiori

    «Grazie, amica mia!» disse alla vecchia. «Ti dirò tutto, quando il ragazzo si sarà addormentato. Credo anzi che dorma già. Non ha una espressione dolce e beata, con gli occhi chiusi? Non sa che vita fa sua madre, che il Signore non glielo faccia mai provare! Io ero a servizio nella casa del consigliere il padre del giudice, e un giorno tornò a casa il più giovane dei loro figli, studente all'università. A quel tempo ero giovane e impetuosa, ma onesta, questo lo posso affermare davanti a Dio» raccontò la lavandaia. «Lo studente era così allegro e felice, aveva un carattere tanto buono e sincero. Non è certo esistito un uomo migliore di lui sulla terra. Lui era il figlio del padrone e io ero solo una cameriera, ma ci fidanzammo, restando puri e onesti. Un bacio non è certo un peccato quando ci si vuol bene. Lo raccontò a sua madre, che per lui era come il Dio in terra, così intelligente, affettuosa e amabile. Poi lui ripartì, ma mi mise l'anello d'oro al dito. Quando era ormai lontano, sua madre mi chiamò da lei, seria, ma con molta dolcezza, mi parlò, come avrebbe fatto il Signore; mi spiegò la differenza che c'era tra me e lui. "Ora lui vede solo che sei bella, ma la bellezza sfiorirà! Tu non sei istruita come lui, non riuscirete a comprendervi sul piano spirituale e proprio qui sta il male. Rispetto il povero" riprese "presso Dio avrà forse un posto migliore di molti ricchi, ma sulla terra non si può seguire un binario sbagliato quando si va avanti, altrimenti il carro si ribalta, e voi con lui! So che un uomo onesto, un artigiano ti ha chiesto in sposa, è Enrico il guantaio; è vedovo e non ha figli; e se la passa bene. Pensaci!" Ogni parola pronunciata era come un coltello che mi trafiggeva il cuore, ma quella donna aveva ragione e questo mi ossessionava e mi opprimeva; le baciai la mano e piansi lacrime amare, ma piansi ancora di più in camera mia quando mi buttai sul letto. La notte che venne fu una brutta notte, il Signore sa che cosa ho sofferto. La domenica andai all'altare del Signore, per far luce dentro di me. Fu come un segno della Provvidenza: uscendo dalla chiesa incontrai Enrico il guantaio. Allora non ebbi più dubbi, eravamo adatti l'uno all'altra per ceto sociale e condizione, e lui era anche benestante, così andai diretta da lui, gli presi la mano e gli chiesi: "Pensi ancora a me?". "Sì, per sempre!" rispose. "Vuoi una ragazza che ti stima e ti rispetta, ma che non ti ama? L'amore potrà venire dopo." "Verrà!" replicò e così ci prendemmo per mano. Tornai dalla mia padrona; quell'anello d'oro che suo figlio mi aveva dato, lo portavo sul petto; non lo potevo certo mettere al dito di giorno, ma lo facevo di notte, quand'ero a letto. Baciai l'anello finché mi sanguinò la bocca e poi lo diedi alla mia padrona dicendo che la settimana dopo sarebbe stato annunciato dal pastore il matrimonio tra me e il guantaio. Lei mi abbracciò e mi baciò; non disse che non ero buona a nulla, ma forse allora ero migliore, anche se non avevo ancora provato tante tribolazioni. Così venne celebrato il matrimonio, il giorno della Candelora - e il primo anno andò bene, avevamo un aiutante e un garzone e tu ci servivi in casa.»
    «Oh, eri un'ottima padrona!» le disse la vecchia «non dimenticherò mai quanto siete stati buoni, tu e tuo marito.»
    «Furono anni felici quelli. Figli non ne avevamo. E io non rividi mai più lo studente. O meglio, lo vidi, ma lui non mi vide. Era venuto per il funerale di sua madre. Lo vidi vicino alla tomba, era bianco come il gesso e tristissimo, ma certo a causa di sua madre. Quando poi morì suo padre, si trovava all'estero e non tornò a casa, e da allora non è più tornato. So che non si è mai sposato, credo che sia diventato procuratore. Di sicuro non si ricordava di me, e se anche mi avesse rivista, non mi avrebbe certo riconosciuta, sono così brutta adesso. Forse è stato un bene!»
    Poi raccontò dei duri periodi di sofferenza, della sfortuna che li aveva colpiti in continuazione. Possedevano cinquecento talleri e dato che nella loro strada c'era una casa che costava duecento talleri e che valeva la pena di demolire e ricostruire, la comprarono. Il muratore e il falegname fecero un preventivo di milleventi talleri: Enrico il guantaio aveva buon credito e ottenne un prestito da Copenaghen, ma la nave che lo doveva portare naufragò e con essa anche i soldi!
    «In quel tempo nacque il mio caro figliolo che ora dorme. Suo padre si ammalò di una lunga e grave malattia, dopo nove mesi dovevo vestirlo e svestirlo io. Andò sempre peggio per noi, facemmo debiti sempre più grossi, tutta la nostra merce andò perduta e infine mio marito morì. Io ho faticato molto, moltissimo per questo figlio; ho lavato scale, biancheria fine e grossa, ma il Signore non vuole che le cose mi vadano meglio, così un giorno si libererà di me e avrà cura del ragazzo.»
    Così dicendo, si addormentò.
    Il mattino dopo si sentì guarita e abbastanza in forze per tornare a lavare, così almeno credeva. Era appena entrata nell'acqua gelida quando le vennero i brividi e si sentì debole. Annaspò disperatamente, fece un passo per risalire e cadde in acqua. Aveva la testa sulla terra asciutta, mentre i piedi stavano nel ruscello; gli zoccoli di legno che aveva quand'era in acqua e che aveva riempito di paglia per tenersi calda galleggiavano spinti dalla corrente. Venne trovata così dalla vecchia Marietta che le stava portando un caffè.
    Il giudice le aveva detto che la lavandaia doveva recarsi immediatamente da lui, perché aveva qualcosa da dirle. Ma era troppo tardi. Venne chiamato il barbiere per fare un salasso; la lavandaia era morta.
    «È morta per il troppo bere!» commentò il giudice.
    Alla lettera che annunciava la morte del fratello era stata allegata copia del testamento: seicento talleri dovevano essere dati alla vedova del guantaio, che una volta era stata a servizio dai genitori. Il denaro poteva venir diviso, come meglio credevano, tra lei e il figlio.
    «C'è stato certo qualcosa tra lei e mio fratello!» disse il giudice. «Per fortuna che lei ormai se n'è andata, il ragazzo riceverà tutta la somma e io lo metterò a lavorare da gente onesta, così diventerà un bravo artigiano.»
    Il Signore benedisse quell'augurio.
    Il giudice chiamò a sé il ragazzo, gli promise che avrebbe avuto cura di lui e gli disse che era un bene che sua madre fosse morta, dato che non era buona a nulla.
    Fu portata al cimitero, al cimitero dei poveri. Marietta piantò una pianta di rose sulla tomba e il ragazzo le stava vicino.
    «La mia cara mamma!» esclamò tra le lacrime «è proprio vero: non era buona a nulla!»
    «Ti sbagli, era buona, invece» rispose la vecchia guardando verso il cielo. «Lo so da tanto tempo e soprattutto dall'ultima notte. Te lo dico io che era buona! e lo dice anche Nostro Signore che sta nel regno dei cieli. Lascia che gli altri dicano: "Non era buona a nulla!".»

    (Hans Christian Andersen)
     
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  5. gheagabry
     
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    FAVOLE PER LA NINNA NANNA …

    La pastorella e lo spazzacamino

    L'armadio che si trovava nel salotto era antichissimo e molto bello. Tutto scolpito in rilievo, con foglioline e arabeschi, aveva una cornice di rose e di tulipani.
    Nel centro invece, c'era la figura di un uomo dall'aspetto stranissimo: aveva le gambe di capra, una testa sormontata da due piccole corna e un viso aguzzo e sogghignante, con una barbetta a punta: I bambini lo avevano soprannominato " Il Gran Generale Comandante in Capo Gamba di Caprone ", titolo forse un po' lungo, ma del quale poche persone sono state insignite fino a oggi.
    Sulla mensola che sosteneva il grande specchio abitava da tanto tempo una pastorella di porcellana, graziosissima; aveva le trecce bionde arrotolate sulle orecchie, portava le scarpette verdi, una gonna ornata di un nastro azzurro e sosteneva sulle spalle una graziosa gerla.
    Vicino a lei c'era uno spazzacamino pure di porcellana. Sorreggeva con grazia la scala sotto il braccio e il suo visetto era bianco e roseo come un fiore, cosa stranissima, perché, come spazzacamino, gli sarebbe forse stata bene un po' di fuliggine. La pastorella e lo spazzacamino erano là da tanto tempo, perciò avevano incominciato a volersi bene e infine si erano fidanzati. Tutti e due erano giovani e belli, tutti e due di porcellana, tutti e due fragili e leggeri.
    Poco lontano da loro c'era un'altra statuetta, tre volte più grande: rappresentava un vecchio cinese e poteva dir di sì e di no tentennando la testa. Affermava di essere il nonno della pastorella, forse perché era di porcellana anche lui; ma la pastorella non ci credeva. Tuttavia il cinese dichiarava di avere autorità sopra di lei e quando il Gran Generale Comandante in Capo Gamba di Caprone gli domandò la mano della fanciulla, dondolò la testa affermativamente.
    - Che marito avrai! - disse con entusiasmo alla presunta nipotina. - Che marito! Credo persino che sia di mogano, e tu sarai chiamata la Signora Gran Generale Comandante in Capo Gamba di Caprone. E' anche molto ricco, perché ha tutto l'armadio pieno di argenteria, senza contare ciò che tiene nascosto nei cassetti segreti…
    - Ma io non entrerò mai in quell'armadio buio - protestò la pastorella. - Ho sentito dire che vi sono già chiuse dentro undici statuette di porcellana.
    - Ebbene, tu sarai la dodicesima - concluse il cinese. - Questa notte, quando tutti i mobili si sveglieranno e incominceranno a scricchiolare, sarà celebrato il matrimonio.
    Detto questo, fece ancora di si con la testa, poi si addormentò. La pastorella incominciò a piangere, guardando lo spazzacamino.
    - Non voglio sposare quell'uomo dai piedi di capra - singhiozzò. - Dobbiamo scappare di qui. Aiutami, ti prego.
    - Farò tutto ciò che vorrai - rispose il piccolo spazzacamino. -Fuggiamo di qui. Io guadagnerò la vita anche per te, col mio mestiere di spazzacamino.
    - Purché si riesca a scendere dalla mensola - osservò la pastorella preoccupata.
    Lo spazzacamino la rassicurò e andò per primo, mostrandole dove bisognava posare i piedi, sugli angoli intagliati e sulle foglie in rilievo. L'aiutò anche con la scala e in poco tempo raggiunsero il pavimento. Ma quando si volsero verso l'armadio, videro che l'allarme era già stato dato. Il Gran Generale Comandante in Capo Gamba di Caprone fece addirittura un salto, gridando al vecchio cinese:
    - Eccoli che fuggono! Fuggono!
    La pastorella e lo spazzacamino ebbero una gran paura e, lesti lesti, si nascosero nel cassetto di un piccolo mobile. In quel cassetto c'erano alcuni mazzi di carte incompleti e anche un piccolo teatro di cartone per burattini. In quel momento vi si stava rappresentando una commedia e tutte le dame di quadri, di cuori, di fiori e di picche erano sedute nei primi posti e si facevano vento con dei tulipani. I fanti stavano dietro e avevano una testa in alto e una in basso, come nelle carte da gioco. La commedia rappresentata narrava la storia di due giovani che si volevano bene e non riuscivano a sposarsi, e la pastorella pianse molto perché quella storia assomigliava alla sua. A un certo punto esclamò: - Mi fa troppo soffrire. Io debbo uscire dal cassetto.
    Lo spazzacamino l'accompagno subito fuori, ma quando misero piede sul pavimento e guardarono la mensola, videro che il vecchio cinese si agitava violentemente.
    - Di sicuro viene a riprenderci - gridò la pastorella spaventata e, per la paura, cadde sulle ginocchia di porcellana.
    - Ho un'idea - suggerì lo spazzacamino - Andiamo a nasconderci in quell'anfora che sta nell'angolo. E' piena di fiori, ma noi ci acquatteremo fra le rose e la lavanda e se il cinese verrà, gli getteremo l'acqua negli occhi.
    - No, sarebbe inutile - disse la pastorella - So che il cinese e l'anfora sono stati fidanzati molto tempo fa, ma sono rimasti sempre buoni amici. Non ci rimane altra risorsa che fuggire nel vasto mondo.
    - Ma tu ne hai davvero il coraggio? - chiese lo spazzacamino - Hai pensato che il mondo è tanto grande e che noi potremmo anche non tornare mai più?
    - Ho pensato a tutto.
    Lo spazzacamino la guardò a lungo, poi disse:
    - Secondo me, la strada migliore è la cappa del camino. Ti senti di scivolare con me nella stufa e di arrampicarti lungo i tubi? Soltanto per questa via potremo giungere al comignolo. Lassù mi sentirò a mio agio, ma prima bisogna salire in alto in alto e arrivare a un buco attraverso il quale usciremo nel mondo.
    La pastorella accennò di si, e allora il fidanzato la condusse allo sportello della stufa e lo aperse.
    - Dio mio, com'e' buoi! - eclamò lei.
    Ma si fece coraggio ed entrò con lui nella stufa. Pian piano risalirono i tubi e giunsero proprio nella cappa del camino.
    - Il peggio è passato e tra poco saremo fuori - disse lo spazzacamino - Guarda in alto che magnifica stella!
    C'era infatti nel cielo una stella che sembrava indicare la strada ai due fuggitivi: scintillava proprio sulle loro teste; ed essi continuarono ad arrampicarsi coraggiosamente. Era una strada ripida, nera, interminabile; ma lo spazzacamino sosteneva la pastorella e le indicava i punti migliori dove mettere i piedini di porcellana. Così finalmente arrivarono all'orlo del camino e sedettero proprio sul comignolo per riposarsi un po'. Erano davvero molto stanchi. Sopra di loro si stendeva il cielo pieno di stelle e, sotto, i tetti innumerevoli della grande città. Essi guardarono giù, guardarono intorno, tutto il vasto mondo. Come era grande! La povera pastorella non lo aveva immaginato così! Ebbe paura: posò la fronte sulla spalla del compagno e incominciò a piangere.
    Lo spazzacamino tentò invano di farle coraggio.
    - E' troppo! - singhiozzava - E' troppo grande! E' più grande di quando io possa sopportare. Oh, se fossimo ancora sulla mensola vicina allo specchio! Ti prego, riaccompagnami là! Non sarò contenta finché non ci sarò ritornata. Io ti ho seguito nel vasto mondo, ma adesso devi ricondurmi a casa, se mi vuoi bene.
    Lo spazzacamino cercò di calmarla e di farla ragionare; le ricordò il vecchio cinese e il Gran Generale in Capo Gamba di Caprone; ma lei continuava a piangere disperatamente e non restò altro rimedio che accontentarla.
    Rientrati nella cappa del camino, incominciarono a scendere con gran fatica, poi si ritrovarono di nuovo nei tubi oscuri. Non era di certo un viaggio di piacere! Infine giunsero nella stufa e si fermarono ad ascoltare dietro lo sportello, per capire che cosa succedeva nella stanza; ma non udirono alcun rumore. Allora cautamente sporsero la testa e guardarono. Ahimè, il vecchio cinese giaceva sul pavimento, rotto in tre pezzi: nel tentativo di inseguirli era caduto dalla mensola. Il busto si trovava distaccato dal resto del corpo, la testa era rotolata in un angolo.
    Il Gran Generale Comandante in Capo Gamba di Caprone conservava, invece, l'atteggiamento consueto.
    - E' terribile! - disse la pastorella - Il vecchio nonno si è rotto e la colpa è nostra! Oh, non riuscirò mai a sopravvivere a questa disgrazia! - E ricominciò a piangere.
    - Si potrà aggiustarlo - la consolò lo spazzacamino - Sì, certamente è possibile. Non disperarti, via: se gli riattacchiamo il busto alla gambe e gli metteremo un buon sostegno nel collo, ritornerà come se fosse nuovo…e potrà dirci ancora una quantità di cose sgradevoli.
    - Lo credi? - domandò la pastorella un po' rasserenata.
    Così dicendo pian piano uscirono dalla stufa e si arrampicarono di nuovo sulla mensola, vicino al grande specchio.
    - Ecco a che punto siamo - commentò lo spazzacamino -Quanta fatica per nulla!
    - Oh, se soltanto il vecchio nonno fosse riappiccicato! - disse la pastorella.
    Il vecchio nonno, infatti, venne rimesso insieme con po' di colla. Gli fu applicato un sostegno per tener ferma la testa e ritornò come nuovo; ma non poteva più dire di sì o di no .
    - Uh, come fate il sostenuto, da quando vi siete rotto - Gli disse il Gran Comandante in Capo Gamba di Caprone - Allora, volete darmi in moglie vostra nipote sì o no?
    Lo spazzacamino e la pastorella guardavano ansiosamente il vecchio cinese, ma egli non poteva più piegare il collo e si sarebbe vergognato di confessare che aveva dentro un sostegno. Ma grazie appunto a questo, le due statuine di porcellana poterono mettersi il cuore in pace e vivere tranquille insieme, fino al giorno fatale in cui anch'esse si ruppero.

    (Hans CHristian Andersen )
     
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    C'erano cinque piselli in un baccello, erano verdi e anche il baccello era verde, così loro credevano che tutto il mondo fosse verde, e avevano pienamente ragione!
    Il baccello cresceva, e anche i piselli crescevano, così si assestarono secondo la conformazione della casa, mettendosi tutti in fila. Fuori il sole splendeva e riscaldava il baccello; la pioggia lo schiariva, c'era bel caldo e si stava bene, era chiaro di giorno e buio di notte proprio come doveva essere, e i piselli diventavano sempre più grossi e pensavano sempre di più: se ne stavano sempre lì seduti, qualcosa dovevano pur farla!
    «Dobbiamo restare qui per sempre?» si chiedevano «purché non diventiamo duri a star seduti così a lungo! Mi sembra quasi che ci sia qualcosa fuori di qui; ne ho la sensazione!».
    E passarono diverse settimane; i piselli ingiallirono e anche il baccello si fece giallo.
    «Tutto il mondo sta diventando giallo!» dissero, e ne avevano il motivo.
    Poi sentirono una scossa al baccello; era stato strappato dalla pianta preso in mano e messo nella tasca di una giacca insieme a molti altri baccelli ancora pieni.
    «Tra poco ci apriranno!» esclamarono, e si misero a aspettare. Mi piacerebbe sapere chi di noi andrà più lontano!» disse il pisello più piccolo.
    «Tra breve si vedrà!»
    «Succeda quel che deve succedere!» replicò il più grande.
    Crac! il baccello fu aperto e i cinque piselli rotolarono fuori sotto il sole; si trovarono in una mano di bambino: un ragazzetto li teneva stretti e diceva che andavano proprio bene per la sua cerbottana. Subito un pisello fu messo nella canna e sparato lontano.
    «Ora volo nel vasto mondo! mi segua chi può!» e era già partito.
    «Io invece» esclamò il secondo «volerò fino al sole; è un vero e proprio baccello e mi andrà a meraviglia!» e fu lanciato anche lui.
    «Noi dormiremo dove capiterà!» dissero gli altri due «ma avanzeremo anche noi!» e subito rotolarono sul pavimento prima di finire nella canna, ma poi venne anche il loro turno.
    «Andremo più lontano di tutti!»
    «Succeda quel che deve succedere!» esclamò l'ultimo che venne sparato verso l'alto, volò contro una vecchia assicella che si trovava sotto la finestra di una mansarda, e s'infilò proprio in una fessura dove c'erano muschio e terra umida.
    Il muschio gli si richiuse sopra; era nascosto ma non era stato dimenticato dal Signore.
    «Succeda quel che deve succedere!» disse di nuovo.
    In quella piccola mansarda abitava una povera donna che di giorno andava a pulire le stufe, a tagliare la legna e a fare i lavori pesanti, perché era forte e piena di volontà, ma ciò nonostante rimaneva povera. In casa, nella cameretta, c'era anche la sua unica figlia, una adolescente delicata e gracile; da un anno intero era a letto e non voleva né vivere né morire.
    «Andrà dalla sorellina!» diceva la donna. «Avevo due figlie, era troppo faticoso mantenerle entrambe, e così il Signore le ha divise con me e se ne è presa una; ora io vorrei tenere quest'unica che mi è rimasta, ma lui non vuole tenerle separate e così lei andrà a raggiungere la sorellina.»
    La ragazzina malata però viveva ancora. Se ne stava a letto immobile e paziente per tutto il giorno, mentre la madre era fuori per guadagnare qualcosa.
    Era primavera, e una mattina presto, mentre la madre stava andando al lavoro e il sole splendeva chiaro attraverso la finestrella e si posava sul pavimento, la fanciulla malata guardò attraverso il vetro più basso.
    «Che cos'è quel verde che spunta dietro il vetro? Si muove col vento!» la madre andò alla finestra, e la aprì.
    «Oh!» esclamò «è un piccolo pisello che ha messo fuori delle foglioline verdi. Come ha fatto a arrivare in quella fessura? Adesso hai un giardinetto da guardare!»
    Il letto della malata venne avvicinato alla finestra, perché lei potesse vedere il pisello che germogliava; intanto la madre andò al lavoro.
    «Mamma, credo che guarirò!» raccontò la bambina alla sera «Il sole oggi era così caldo su di me. Il pisello cresce proprio bene, e anch'io voglio crescere e uscire al sole.»
    «Se solo accadesse davvero!» esclamò la madre, ma non lo credeva possibile; intanto però a quel verde germoglio che aveva donato alla bambina la voglia di vivere mise un bastoncino, perché non si piegasse al vento. Legò un filo dall'assicella alla finestra così che il gambo del pisello avesse qualcosa a cui appoggiarsi e arrampicarsi, crescendo; e così infatti fece, e di giorno in giorno cresceva a vista d'occhio.
    «Oh, mette anche i fiori!» disse un mattino la donna, e cominciò a sperare e a credere che la piccola malata sarebbe guarita. Le tornò in mente che nell'ultimo periodo la sua figliola parlava con più vivacità, le ultime mattine si era tirata su da sola nel letto e era rimasta lì seduta a guardare con occhi splendenti quel giardinetto costituito da una sola pianta di piselli.
    La settimana successiva per la prima volta la malata restò alzata per più di un'ora. Felice si sedette al sole, con la finestra aperta, e fuori c'era un fiore bianco e rosso di pisello completamente sbocciato. La fanciulla piegò la testa e baciò con delicatezza quei petali lievi. Era proprio un giorno di festa, quel giorno!
    «Il Signore in persona lo ha piantato e lo ha fatto crescere, per dare a te gioia e speranza, cara figliola, e anche a me» disse la madre felice, e sorrise al fiore come se fosse un angelo del Signore.
    E che ne è stato degli altri piselli?
    Quello che volò nel vasto mondo: «Mi segua chi può!» cadde in una grondaia e finì nel gozzo di un piccione, e lì rimase come Giona nella balena.
    I due pigroni fecero la stessa strada e furono anch'essi mangiati dai piccioni, e ciò vuol dire essere utili in modo concreto.
    Il quarto, che voleva raggiungere il sole, cadde nella fogna e restò per molti giorni e settimane nell'acqua stagnante, gonfiandosi tutto.
    «Divento bello grosso!» esclamò.
    «Sto per scoppiare e non credo che nessun pisello abbia mai fatto altrettanto. Sono sicuramente il più notevole dei cinque che erano nel baccello!» e la fogna lo approvava.
    Alla finestra della mansarda stava la fanciulla con gli occhi scintillanti e con il colore della salute sulle guance.............


    Hans Christian Andersen

     
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    Quante cose, grazie!
     
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