Le fiabe di HANS CHRISTIAN ANDERSEN

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1. gheagabry
     
    .

    User deleted



    Fiabe Classiche

    La figlia del Re della Palude (parte I)
    La prima coppia di cicogne che la portò e che la visse, passava l'estate sulla casa fatta di travi del vichingo su dalle parti della palude selvatica di Vildmose (nella zona settentrionale dello Iutland, il Vendsyssel). Era nella provincia di Hjœring, su verso la punta di Skagen nello Iutland, se dovessimo parlare in modo scientifico. E’ ancora una palude estremamente grande, se ne può leggere la descrizione nella relazione sul territorio. Vi è scritto che qui c'è stato il fondo del mare, ma esso si è sollevato; si estende per miglia in tutte le direzioni circondato da prati bagnati e da stagni malsicuri, con torbiere, more selvatiche e miseri alberi; è quasi sempre coperta dalla nebbia e settant'anni fa vi erano ancora i lupi; merita proprio di essere chiamata la “Palude Selvatica” e ci si può immaginare quanto fosse selvatica, quanti acquitrini e quarti laghi c'erano mille anni fa! Sì, nei dettagli si vedeva allora quello che ancora si vede: i giunchi avevano la stessa altezza, lo stesso tipo di foglie allungate e di fiori bruno-violacei in forma di pennacchi che portano ancora la betulla che era con la corteccia bianca e le foglie fini sciolte come ancora adesso, e per quanto riguarda gli esseri viventi che venivano qui: ebbene, la mosca portava la sua veste di velo dello stesso taglio di quello di oggi, il colore naturale della cicogna era il bianco con calze nere e rosse, invece le vesti degli uomini avevano all'epoca un altro taglio rispetto a quello di oggi, ma ognuno di loro, servo o cacciatore, chiunque mettesse piede nella melma, subiva lo stesso destino mille anni fa. E ancora oggi colui che viene qui, cade dentro e scende giù dal Re della Palude, come lo chiamavano, il quale governava giù nel grande regno della palude; Re della Melma si potrebbe anche chiamarlo, ma noi troviamo che sia meglio dire Re della Palude, e anche le cicogne lo chiamavano così. Si sa molto poco sulla sua politica, ma forse è meglio così. Vicino alla palude, attaccato al fiordo di Liim, vi era la casa fatta di travi del vichingo con la cantina di pietra, una torre e tre piani; su in cima al tetto la cicogna aveva costruito il suo nido, dove mamma cicogna covava le uova ed era sicura che sarebbero riuscite bene.

    Una sera papà cicogna rimase fuori fino a tardi e quando tornò a casa aveva un'aria scapigliata e affrettata. «Ti devo raccontare qualcosa di terribile!» egli disse a mamma cicogna. «Non farlo!» ella disse, «ricordati che sto covando, mi potrebbe fare del male e allora le uova ne risentono!» «Devi saperlo!» egli disse. «È arrivata qui la figlia del nostro padrone di casa in Egitto. Ella ha osato viaggiare fin qui! E ora è sparita!» «Ella che è della stirpe delle fate! Ma racconta! Sai che non sopporto di aspettare in questo periodo perché sto covando!» «Ebbene guarda, mamma! Ella ha creduto alla stessa cosa che disse il medico e che tu mi raccontasti; ha creduto che la ninfea bianca potesse aiutare suo padre malato ed è volata vestendo la spoglia di piume insieme alle altre due principesse vestite di piume che ogni anno dovevano venire qui al Nord per fare il bagno e ringiovanire! E’ venuta ed è sparita!» «La fai così lunga!» disse mamma cicogna, «le uova potrebbero prendere un raffreddore! non sopporto di stare sulle spine!» «Sono stato attento!» disse papà cicogna, «e questa sera, mentre camminavo tra i giunchi laddove la melma mi regge, arrivarono tre cigni, vi era qualcosa nell'andatura che mi disse: stai attento, non è un vero cigno, sono soltanto spoglie di cigno! Tu la conosci quella sensazione, mamma! Sai come me, qual è la cosa giusta!» «Certo!» ella disse, «ma raccontami della principessa! non voglio sentire più niente delle spoglie di cigno!» «Sai che qui in mezzo alla palude c'è una specie di lago,» disse papa cicogna, «ne vedi un pezzetto se ti alzi; lì accanto ai giunchi e alla melma verde, vi era un grande ceppo di ontano; i tre cigni si sedettero su di esso battendo le ali e guardandosi attorno. Uno di loro gettò via le spoglie di cigno e riconobbi in lei la principessa della nostra casa in Egitto: eccola seduta là senza nessun altro manto se non i suoi lunghi capelli neri. Ella pregò, sentii, gli altri due di aver cura della spoglia di cigno quando si sarebbe tuffata giù nell'acqua per cogliere il fiore che pensava di vedere. Loro fecero segno di sì con la testa, si sollevarono alzando il leggero vestito di piume. ‘Chissà cosa vogliono fare’, pensai, ed ella chiese loro, credo, la stessa cosa ed ebbe una risposta, una prova chiara: si sollevarono nell'aria con la sua spoglia di piume. "Ebbene tuffati!" gridarono, "non volerai mai più sotto la spoglia di un cigno, non vedrai mai più il paese d'Egitto! Mettiti seduta nella Palude Selvatica!'', e poi strapparono la sua spoglia di piume in cento pezzi facendo volare le piume dappertutto come se nevicasse, e le due principesse infami se ne volarono via!» «È orrendo!» disse mamma cicogna, «non lo posso sentire! Dimmi allora, cosa successe poi?» «La principessa si lamentò e pianse! Le lacrime correvano giù sul ceppo di ontano e così questo si mosse poiché era il Re della Palude in persona, colui che abita nella palude. Io vidi come il ceppo si rigirò e poi il ceppo non ci fu più, spuntarono lunghi rami coperti di fango, come braccia; allora la povera bambina si spaventò e corse via verso la melma malsicura, ma lì non regge me, ancor meno lei, ella sprofondò immediatamente e con lei sprofondò anche il ceppo, era lui a tirare. Vennero fuori grandi bolle nere e poi non vi furono più tracce. Ora ella è sepolta nella Palude Selvatica, non tornerà mai più col fiore nel paese d'Egitto. Non avresti potuto sopportarne la vista, mamma!» «Non dovresti nemmeno raccontare cose così in questo periodo! Lo sai che le uova potrebbero risentirne! La principessa si salverà probabilmente! Troverà facilmente aiuto! Fossi stata io o te oppure uno dei nostri, sarebbe stata la fine!» «Voglio però guardare tutti i giorni!» disse papà cicogna e così fece.

    Ora passò molto tempo. Un giorno allora egli vide che giù in basso dal fondale venne fuori un gambo verde e quando ebbe raggiunto lo specchio dell'acqua crebbe una foglia, che si fece sempre più larga; vicino a essa venne un bocciolo e quando una mattina la cicogna lo sorvolò il bocciolo del fiore si aprì sotto i forti raggi del sole e al centro di esso vi era un esserino delizioso, una piccola bambina, come se ella fosse uscita dal bagno. Assomigliava così tanto alla principessa d'Egitto che la cicogna in un primo tempo pensò che fosse lei che si era fatta piccola, ma quando poi vi rifletté, trovò più ragionevole che fosse la bambina di lei e del Re della Palude: ecco perché stava in una ninfea. "Ma non può rimanere lì!" pensò la cicogna, "Nel mio nido siamo già così tanti, ma qualcosa mi verrà in mente. La moglie del vichingo non ha figli, ricordo che desiderava avere un piccolo, tant’è che mi danno l'incarico di portare i piccoli: per una volta voglio ora farlo sul serio! Volo dalla moglie del vichingo con la bambina; ne saranno contenti!" E la cicogna prese la piccola bambina, e volò alla casa fatta di travi; fece col becco un buco nel vetro fatto con la pelle di vescica di maiale, depose la bambina vicino al petto della moglie del vichingo, e se ne volò poi a casa da mamma cicogna per raccontare, e anche i piccoli ascoltarono, poiché erano abbastanza grandi per farlo. «Ebbene vedi, la principessa non è morta: ha mandato la piccola quassù affinché fosse sistemata!» «L'ho detto fin dall'inizio!» disse mamma cicogna, «Ma ora devi pensare un pò ai tuoi cari. Si avvicina l'ora del viaggio; ogni tanto incomincio a sentire il solletico sotto le ali! Il cuculo e l'usignolo sono già partiti e sento dire le quaglie che avremo ben presto un buon vento in poppa. I nostri piccini faranno bella figura alle manovre, se li conosco bene!»

    Ebbene, come fu felice la moglie del vichingo quando la mattina si svegliò trovando vicino al suo petto la deliziosa piccola bambina; ella la baciò e l'accarezzò, ma questa pianse terribilmente, dimenandosi con le braccia e le gambe: non sembrava per niente contenta. A forza di piangere finì con l'addormentarsi e stando lì era deliziosissima da vedere. La moglie del vichingo fu tanto felice, tanto leggera, tanto florida, che ebbe la sensazione che ora sarebbe venuto suo marito con tutti i suoi uomini altrettanto all'improvviso quanto la piccola e allora lei e tutta la casa avrebbero avuto da fare per preparare tutto. Furono appese le lunghe tappezzerie colorate che lei e le ragazze avevano tessuto con le immagini dei loro idoli, Odino, Thor e Freia come venivano chiamati. I servi dovettero pulire i vecchi scudi che servivano come decorazione, furono messi cuscini sulle panche e legna secca sul focolare in mezzo alla sala, in modo da poter accendere immediatamente il fuoco. La moglie del vichingo diede una mano anche lei sicché la sera tardi era molto stanca e dormì bene.

    Ora quando sul mattino ella si svegliò, si spaventò profondamente, poiché la bambina era del tutto sparita; ella saltò dal letto, prese una stecca di pino e si guardò attorno e c'era, là dove ella allungò i suoi piedi nel letto, non la piccola bambina, ma un grande, orrendo batrace; ella ne fu profondamente disgustata, prese una grande asta con l’intento di uccidere la rana ma questa la guardò con occhi così strani e tristi che non riuscì a colpirla. Ancora una volta ella si guardò attorno, la rana fece un gracidio fine e pietoso, ella ne trasalì e saltò dal letto per correre allo sportellino, che aprì con un colpo secco; in quell'istante il sole apparì, gettando i suoi raggi all'interno direttamente sul letto e sul grande batrace e fu d'un colpo come se la bocca larga del mostro si contraesse per diventare piccola e rossa, le membra si stirarono per prendere una forma piacevole: era la sua propria piccola bambina deliziosa che stava lì e non una orrenda rana. «Ma che cos'è!» ella disse, «ho fatto un brutto sogno? Ma questa che sta sdraiata qui non è altro che la mia deliziosa bambina degli elfi!» ed ella la baciò e la tenne stretta al cuore, ma questa tirò e morse tutto intorno a sé come un gattino selvatico. Il capo vichingo non venne quel giorno, né quello seguente; sebbene fosse per strada, il vento era contrario, esso soffiava verso Sud per aiutare le cicogne. Il vantaggio per gli uni è lo svantaggio per gli altri.

    Nel giro di un paio di giorni e di notti la moglie del vichingo riuscì a capire come stavano le cose con la sua piccola bambina, su di lei aleggiava infatti un terribile incantesimo. Di giorno ella era deliziosa come un elfo del cielo, ma di notte aveva una natura cattiva e selvatica, era invece un orrendo batrace, silenzioso e piangente, con gli occhi tristi. In lei vi erano due nature che si alternavano, all'esterno, come all'interno; questo perché la piccola bambina che la cicogna aveva portato aveva di giorno l'aspetto esteriore della sua vera madre e in quel momento la personalità di suo padre. Al contrario, durante la notte, la parentela con lui diventava visibile nelle fattezze del corpo, però all'interno brillavano allora l'animo e il cuore della madre. Chi mai avrebbe potuto sciogliere questa forza della magia nera? La moglie del vichingo provò angoscia e tristezza per questo, eppure il suo cuore si sentì legato a quella povera creatura, della cui condizione ella non pensava di osare raccontare a suo marito quando egli ben presto sarebbe tornato a casa, poiché egli probabilmente, come era di consuetudine, avrebbe posto la povera bambina sulla pubblica via e l'avrebbe lasciata a chi se la voleva prendere. La remissiva moglie del vichingo non aveva il cuore di farlo, così decise che suo marito avrebbe visto la bambina soltanto durante il giorno.

    Una mattina le ali delle cicogne frusciarono sopra il tetto; si erano riposate la notte lì sopra più di cento coppie di cicogne dopo le grandi manovre, e ora si alzarono per volare verso Sud. «Tutti gli uomini pronti!» si sentì, «compresi mogli e figli!» «Mi sento così leggero!» dissero le piccole cicogne, «sento tutto un formicolio fin giù nelle gambe come se fossi pieno di rane vive! Com'è bello dover andare all'estero!» «Rimanete in gruppo!» dissero mamma e papà, «e non chiacchierate troppo, toglie il respiro!» E se ne volarono via. Nello stesso istante il corno vichingo risuonò sulla brughiera, il vichingo era arrivato con tutti i suoi uomini; tornavano a casa con un ricco bottino dalla costa gallica dove il popolo, come in Cornovaglia, cantava nel suo spavento: «Liberaci dai selvaggi Normanni!». Oh, come vi fu allegria nella fortezza dei vichinghi vicino alla Palude Selvatica! Venne portata nella sala la vasca con l'idromele, fu acceso il fuoco e si macellarono cavalli; c'era davvero da cuocere in grande. Il sacrificatore cosparse col caldo sangue dei cavalli i servi per consacrarli; il fuoco crepitava, il fumo passava sotto il soffitto, la fuliggine gocciava giù dalla trave, ma tutti erano abituati a questo. Ospiti furono invitati, i quali ricevettero bei regali, si erano dimenticate insidie e perfidie; si bevve molto e si buttarono in faccia le osse rosicchiate, era segno di buonumore. Lo scaldo (una specie di suonatore ambulante, ma allo stesso tempo uomo di guerra) era stato con loro e fece loro una piccola canzone in cui ascoltarono tutte le loro imprese di guerra e tutte le stranezze. A ogni strofa tornava lo stesso ritornello:

    “La fortuna muore, i parenti muoiono, ognuno muore allo stesso modo, ma un bel nome non muore mai!”

    e battevano allora tutti sugli scudi e martellavano il piano della tavola con un coltello o con un osso in modo da farsi sentire. La moglie del vichingo stava seduta sulla panca trasversale nella grande sala dei conviti. Portava una veste di seta, bracciali d'oro e grandi perle di ambra; era vestita in grande pompa e lo scaldo parlò anche di lei nella sua canzone, parlò del suo tesoro d'oro che ella aveva dato a suo marito benestante e quest'ultimo fu molto felice di questa deliziosa bambina. Egli l'aveva soltanto vista di giorno in tutto il suo splendore, ma apprezzò il suo lato selvatico: ella poteva diventare, egli disse, una guerriera terribile che batté il suo gigante! Ella non avrebbe battuto ciglio quando una mano esperta, per scherzo, avesse tagliato il suo sopracciglio con la spada affilata. La vasca di idromele fu vuotata, una nuova fu portata su, si bevve moltissimo, era gente che sopportava il bicchiere pieno. Una volta vi fu il detto: “Il bestiame sa quando deve tornare dal pascolo, ma l'uomo imprudente non conosce mai la misura del suo stomaco”. Sì, questo si sapeva, ma si sa una cosa e se ne fa un'altra! si sapeva pure che “La persona cara diventa noiosa quando siede troppo tempo in casa di altri”. Però si rimase lo stesso lì, carne e idromele sono una cosa buona! Vi era allegria, e la notte i servi dormirono nelle calde ceneri, mettendo le dita nella grassa fuliggine leccandole. Erano bei tempi! Ancora una volta quell'anno il vichingo partì per una spedizione, sebbene incominciassero le tempeste autunnali; egli andò con i suoi uomini fino alla costa della Cornovaglia, vi era semplicemente da “attraversare l'acqua”, egli disse, e sua moglie rimase a casa con la piccola bambina ed era certo che la madre adottiva preferiva quasi il povero batrace con gli occhi devoti e i profondi sospiri che non la bella creatura che tirava e mordeva tutt'attorno a sé.

    La nebbia autunnale pungente e bagnata, chiamata «Senza Parola» nei vecchi indovinelli popolari, che rode le foghe, era sospesa sopra il bosco e la brughiera; l’«Uccello senza piume», come viene chiamata la neve, volava tutta fitta, e l'inverno era in arrivo. I passeri occuparono il nido delle cicogne e ragionavano a modo loro sui signori assenti; proprio loro, la coppia di cicogne con tutti i loro piccoli, dov'erano adesso? Le cicogne erano ora nella terra d'Egitto dove il sole caldo brillava come da noi durante un bel giorno d'estate, i tamarindi e le acacie fiorivano dappertutto, la luna di Maometto brillava tutta lucida dalle cupole dei templi; sulle torri esili stavano parecchie coppie di cicogne a riposarsi dopo il lungo viaggio; interi grandi gruppi avevano un nido accanto all'altro sulle grandi colonne e sugli archi in rovina di templi e in posti dimenticati; la palma da dattero sollevava la sua tettoia molto in alto come se volesse fare da visiera. Le piramidi grigio-bianche erano come silhouette nell'aria limpida verso il deserto dove lo struzzo faceva vedere di saper utilizzare le sue gambe e il leone stava con grandi occhi intelligenti a guardare la sfinge di marmo mezza sepolta nella sabbia. Le acque del Nilo si erano ritirate, tutto il letto del fiume formicolava di rane e questo, bisogna dirlo, era per la nostra famiglia di cicogne lo spettacolo più bello in questo paese. I piccoli credevano che fosse tutto un abbaglio degli occhi, tanto trovavano il tutto meraviglioso. «Qui è tutto così, e stiamo sempre così nel nostro paese caldo!» disse mamma cicogna e i piccoli sentivano un formicolare negli stomaci. «Vedremo ancora di più?» dissero, «dobbiamo penetrare ancora molto nel paese?» «Non c'è niente di speciale da vedere!» disse mamma cicogna, «sul bordo fertile c'è soltanto la foresta dove gli alberi crescono unendosi e sono aggrovigliati fra di loro dalle piante rampicanti spinose, soltanto gli elefanti con le loro gambe pesanti possono farsi strada tra loro; i serpenti sono troppo grandi per noi e le lucertole troppo allegre. Se volete andare dalla parte del deserto, vi viene la sabbia negli occhi, che le cose vadano bene o che le cose vadano male vi ritroverete in un vortice di sabbia; no, il miglior posto per stare è questo! Qui vi sono le rane e le cavallette. Qui rimango io e voi con me!»

    Ed essi rimasero; i vecchi stavano nel loro nido sull'esile minareto, riposandosi eppure tutti indaffarati a lisciarsi le piume e a grattare col becco sulle calze rosse; poi alzarono il collo, salutando con solennità e sollevarono la testa con la fronte alta e le piume fini e lisce e i loro occhi marroni brillavano d'intelligenza. Le piccole cicogne femmine giravano solennemente tra i giunchi succulenti, guardando con la coda dell'occhio le altre piccole cicogne, facevano conoscenza e inghiottivano a ogni tre passi una rana, oppure giravano ciondolando con un piccolo serpente, faceva bella figura, pensavano, ed era buono da mangiare. I piccoli maschi litigavano, dandosi colpi con le ali, colpi col becco, sì, anche fino a ferirsi e poi si fidanzava uno e poi si fidanzava un altro, i piccoli maschi e le piccole femmine cicogne, era infatti per questo che esistevano; e costruivano il nido e poi si litigavano di nuovo poiché nei paesi caldi sono tutti tanto irascibili, ma era divertente e soprattutto una grande gioia per i vecchi: tutto si addice ai propri figli! Tutti i giorni vi era il sole, tutti i giorni abbondanza di cibo, si poteva pensare unicamente al diletto. Ma dentro al ricco castello dal padrone di casa egiziano, come lo chiamavano, questo non era per niente di casa. Il ricco e potente signore giaceva sulla panca per riposare, rigido in tutte le sue membra, steso come una mummia, in mezzo alla grande sala con le pareti variopinte; era come se egli giacesse in un tulipano. I parenti e i servitori stavano intorno a lui; morto non era, ma non si poteva nemmeno dire, a essere esatti, che vivesse. Il fiore liberatore della palude dei paesi del Nord, quello che andava cercato e colto dalla persona che più lo amava, non sarebbe mai stato portato.

    La sua giovane e bella figlia, che sotto la spoglia del cigno volò sopra i mari e sopra le terre, su verso Nord, non sarebbe mai tornata. «Ella era morta e sepolta!» avevano annunziato le due damigelle cicogne che erano tornate a casa; si erano inventate tutta una storia su di questo, e la raccontarono. «Menzogne, tutte invenzioni!» egli disse. «Mi verrebbe la voglia di perforarle il petto con il naso!». «E poi lo romperesti!» disse mamma cicogna, «saresti bello da vedere! Pensa prima a te stesso e poi alla tua famiglia, tutto il resto rimane fuori!» «Mi voglio però mettere sul bordo della grande cupola domani, quando tutti gli eruditi e i saggi si riuniscono per parlare del malato; forse allora si potrebbero avvicinare un pò di più alla verità!» E gli eruditi e i saggi si riunirono e parlarono molto di tante cose che non potevano servire alla cicogna, e nemmeno il malato ne poté cavare niente, né la figlia nella Palude Selvatica; però possiamo ascoltarlo lo stesso un pò, ci sono tante cose che si è obbligati ad ascoltare. Ma ora è giusto ascoltare e sapere anche gli antefatti, così seguiamo meglio la storia, almeno altrettanto bene quanto papà cicogna. «Dall'amore nasce la vita! Dall'amore più eccelso nasce la vita più eccelsa. Soltanto attraverso l'amore egli può trovare salvezza nella vita!» si era detto ed era estremamente saggio e ben detto, assicurarono gli eruditi. «E’ un bel pensiero!» disse immediatamente papà cicogna.

    «Non lo capisco bene!» disse mamma cicogna, «e non è colpa mia, ma colpa del pensiero, ma poi in fondo fa lo stesso, ho altro a cui pensare!» E ora i saggi avevano parlato dell'amore tra questo e quello, delle differenze che c'erano, dell'amore come veniva provato dai fidanzati e di quello tra genitori e figli, di quello tra la luce e le piante, di come i raggi del sole baciavano il fango facendo venire fuori il germoglio. Fu presentato in modo tanto ampio ed erudito che per papà cicogna fu impossibile seguire, per non parlare poi di ripeterlo; egli divenne tutto pensieroso per questo, chiuse gli occhi a metà e si tenne su una sola gamba per una giornata intera dopo di ciò; per lui la scienza era tanto pesante da reggere. Però papà cicogna capì una cosa, aveva sentito gente inferiore e gente molto distinta che parlò direttamente col cuore e disse che era una grande disgrazia per migliaia e pure per il paese che quell'uomo stesse male senza poter guarire; sarebbe stata la gioia e la benedizione se egli avesse ritrovato la sua salute. «Ma dove cresce il fiore della sua salute?» Chiedevano tutti, a scritti eruditi, alle stelle che luccicavano, a tutti i tempi e a tutte le stagioni; l'avevano chiesto per tutte le vie indirette esistenti, e alla fine gli eruditi e i saggi avevano ricavato questo, come detto: «Dall'amore nasce la vita, la vita per il padre», e con questo dissero più di quello che essi stessi fossero in grado di capire; ripeterono e scrissero come ricetta medica: «Dall'amore nasce la vita», ma come mettere insieme tutta quella cosa secondo la ricetta, ebbene lì si fermarono. Alla fine furono d'accordo che l'aiuto doveva venire dalla principessa, colei che con tutta la sua anima e tutto il suo cuore amava questo padre. Si finì anche col trovare come farlo, oramai sono passati anni da allora, di notte, quando la luna nuova che si era accesa fu di nuovo andata giù, ella sarebbe andata dalla sfinge di marmo ai limiti del deserto, avrebbe gettato via la sabbia dalla porta del piedistallo e lì avrebbe attraversato il lungo corridoio che conduceva al centro di una delle grandi piramidi dove uno dei potenti re dell'antichità giaceva in un involucro da mummia circondato da fasto e magnificenza; qui ella avrebbe appoggiato la sua testa contro il morto e allora le sarebbe stato rivelato dove trovare la vita e la salvezza per suo padre.

    Ella aveva fatto tutto questo e dal sogno aveva saputo di dover portare a casa dalla palude profonda su nelle terre danesi (il luogo era stato indicato dettagliatamente) il fior di loto che nelle profondità delle acque avrebbe toccato il suo petto, ed egli si sarebbe salvato.Ed ecco perché ella era volata sotto la spoglia di cigno dal paese d'Egitto su fino alla palude selvatica. Ebbene, tutto questo papà cicogna e mamma cicogna lo sapevano e ora noi lo sappiamo con più esattezza di quanto lo sapessimo prima. Sappiamo che il Re della Palude l'attrasse a sé, sappiamo che per tutti a casa sua ella era morta e sepolta. Soltanto il più saggio di tutti loro diceva ancora come mamma cicogna: “ella si salverà sicuramente!” e decisero di aspettare che ciò avvenisse, poiché non sapevano fare niente di meglio. «Credo che ruberò le spoglie di cigno delle due principesse infami!» disse papà cicogna, «così almeno non andranno alla Palude Selvatica a farci del male; queste spoglie di cigno le nasconderò lassù fino al momento in cui serviranno!» «Le nascondi lassù, dove?» chiese mamma cicogna. «Nel nostro nido sulla Palude Selvatica!» egli disse. «Io e i nostri figli più piccoli potremmo aiutarci a vicenda per portarcele e se diventa troppo complicato per noi ci sono tanti posti per strada per nasconderle fino alla prossima migrazione. Una spoglia di cigno dovrebbe bastare per lei, ma due è meglio, è bene avere molti vestiti da viaggio in un paese nordico!» «Non ti ringrazieranno certo per questo!» disse mamma cicogna, «ma sei tu padrone dì scegliere! Io non ho niente da dire tranne nel periodo della covatura!»

    Nella fortezza dei vichinghi vicino alla Palude Selvatica, dove le cicogne andavano nel loro volo verso la primavera, la piccola bambina aveva avuto un nome: Helga l'avevano chiamata; ma questo nome era troppo soave per un animo come quello della deliziosissima creatura; mese dopo mese esso si fece sempre più palese e col passar degli anni. Mentre le cicogne facevano tutti gli anni lo stesso viaggio (in autunno verso il Nilo, in primavera verso la Palude Selvatica), la piccola bambina divenne una ragazza grande e prima che se ne rendessero conto fu una deliziosa fanciulla nel suo sedicesimo anno di età; dalla buccia deliziosa, ma dal nocciolo duro e acerbo, più selvatica della maggior parte della gente in questi tempi duri e bui. Era per lei un piacere spruzzare con le sue mani bianche il sangue fumante del cavallo immolato per il sacrificio; nella sua ferocia ella morse selvaggiamente, fino a spezzarlo in due, il collo del gallo nero, che il sacrificatore doveva uccidere, e diceva in tutta serietà al suo padre adottivo: «Se dovesse venire il tuo nemico e attaccasse la corda intorno all'estremità sporgente della trave del tetto, sollevandolo sopra la tua testa mentre dormi, non ti sveglierei anche se potessi! non lo sentirei, tanto il sangue ronza ancora nell'orecchio sul quale tu anni fa mi desti uno schiaffo, tu! Mi ricordo!». Ma il vichingo non credette a quelle parole: egli era, come gli altri, incantato dalla sua bellezza; non sapeva nemmeno di come cambiavano l'anima e la pelle nella piccola Helga. Ella stava senza sella come radicata al cavallo, che correva a tutta velocità, e non saltava giù anche se esso si batteva a morsi con gli altri cavalli cattivi. Con tutti i suoi vestiti si buttava spesso giù dal pendio nelle forti correnti del fiordo e veniva incontro al vichingo a nuoto quando la sua barca andava verso terra. Ella si tagliava il ricciolo più grande dei suoi lunghi capelli per farne una treccia e servirsene come corda per il suo arco: «Chi vuole vada e chi non vuole mandi!» ella disse.

    La moglie del vichingo era secondo i tempi e le abitudini abbastanza forte di volontà e d'animo, ma paragonata alla figlia assomigliava a una donna tenera e piena di angoscia; ella sapeva però anche che era l'incantesimo a pesare sulla terribile bambina. Era come se a Helga, per puro cattivo divertimento, un pò troppo spesso venisse in mente, quando la mamma stava sul balcone oppure usciva nel cortile, di mettersi sul bordo del pozzo, gesticolando con le braccia e le gambe per poi lasciarsi cadere pesantemente giù nel buco stretto e profondo dove ella, dalla natura di rana, riappariva sollevandosi di nuovo, risalendo a quattro zampe, come se fosse un gatto, e veniva fradicia di acqua nella grande sala sicché le foglie verdi sparse per terra si rigiravano nella corrente bagnata.

    Però c'era un legame che vincolava la piccola Helga: era l'imbrunire della sera; allora ella si faceva silenziosa e come pensierosa, lasciandosi chiamare e condurre. Allora una specie di sensazione interna la attraeva verso la mamma e quando il sole tramontava con la conseguente trasformazione esterna e interna, stava lì tranquilla, triste, raggranchiata nella forma del batrace, con il corpo molto più grande di quello di quest'animale, ma proprio per questo tanto più orrido. Ella aveva l'aria di un nano pietoso con la testa dì rana e una membrana tra le dita. Vi era qualcosa di così triste in quegli occhi con i quali guardava, non aveva la voce, soltanto un gracchiare cavo, come un bambino che piange nel sogno; allora la moglie del vichingo se la poteva prendere in grembo, ella dimenticava la forma orrenda, guardando soltanto gli occhi tristi dicendo più di una volta: «Potrei quasi desiderare che tu rimanessi esclusivamente la mia muta bambina rana; sei ancora più orrenda da vedere quando la bellezza è girata in fuori!». Ed ella scrisse le rune contro la magia nera e contro la malattia, buttandole sulla miserella, ma non si ebbero miglioramenti. «Non si sarebbe mai creduto che ella era stata tanto piccola da stare in una ninfea!» disse papà cicogna. «Ora è una vera persona umana e assomiglia alla sua mamma egiziana da giovane; lei non l'abbiamo più rivista da allora! Ella non si salvò come sia te che e il più saggio degli eruditi pensavate. Anno dopo anno ho sorvolato la Palude Selvatica in tutti i sensi, ma ella non diede mai un segno di vita! Sì, questo te lo posso dire, in quegli anni in cui sono venuto quassù qualche, giorno prima di te, per riparare il nido, mettere a posto una cosa o un'altra, ho sorvolato una notte intera, come se fossi una civetta o un pipistrello, senza tregua la distesa dell'acqua, ma non è servito a niente! Non sono infatti nemmeno servite le due spoglie di cigno che i piccoli e io portammo quassù dal paese del Nilo; fu abbastanza complicato, le portammo in tre viaggi. Ora sono molti anni che stanno sul fondo del nido e se un giorno dovesse andare a fuoco, se dovesse succedere che la casa fatta di travi andasse a fuoco, allora spariranno!» «E il nostro bel nido sparirà!» disse mamma cicogna, «ci pensi di meno che non a quelle vesti di piuma e alla tua principessa della palude! Un giorno dovresti andar giù a trovarla e rimanere giù nel fango! Sei un cattivo padre per la tua famiglia, l'ho detto fin dalla prima volta che covai le uova. Speriamo che la pazza ragazzaccia vichinga non tiri una freccia nell'ala a noi o ai nostri figli! Infatti ella non sa quello che fa. Noi siamo, bisogna dirlo, di casa qui da un po’ più tempo di lei, ella ci dovrebbe pensare; noi non dimentichiamo mai i nostri doveri, paghiamo i nostri tributi annui, una piuma, un uovo e un piccolo, come è giusto che sia. Credi che quando lei è fuori a me va di scenderci come nei vecchi tempi e come faccio in Egitto dove sono mezza compagna loro senza oltrepassare i limiti, guardo nelle vasche e nelle pentole? No, sto quassù a prendermela con lei - ragazzaccia! - e me la prendo anche con te! Avresti dovuto lasciarla nella ninfea, così non sarebbe stata qui!» «Sei molto più degna di rispetto che non il tuo discorso!» disse papà cicogna, «io ti conosco meglio di quanto tu stessa non ti conosca!»

    E poi egli fece un salto, due colpi pesanti con le ali, stese le gambe indietro e se ne volò via, planando senza muovere le ali. Si era allontanato da un pezzo quando diede un battito forte; il sole brillava sulle piume bianche, il collo e la testa erano tesi in avanti. Era tutto velocità e movimento. «Rimane però il più bello di tutti quanti!» disse mamma cicogna, «ma non glielo dico.»

    Il vichingo tornò presto nell'autunno di quell'anno con tutto il suo bottino e i suoi prigionieri; tra questi vi era un giovane sacerdote cristiano, uno di quegli uomini che perseguitavano gli idoli dei paesi nordici. Negli ultimi tempi si era spesso parlato nella sala e nella camera delle donne della nuova confessione che si espandeva dappertutto nei paesi più a Sud, che era perfino arrivata anche su fino alla città di Hedeby vicino al fiordo di Slien grazie a sant' Anscario; perfino la piccola Helga aveva sentito parlare della fede nel Cristo bianco che per amore degli uomini aveva dato se stesso per salvarli. Per lei, come si suol dire, era entrato da un orecchio e uscito dall'altro; della parola Amore, lei sembrava avere soltanto una percezione quando si rannicchiava sotto la misera forma di rana nella sua stanza chiusa; ma la moglie del vichingo aveva ascoltato bene e si era sentita meravigliosamente commossa da quelle leggende e da quelle saghe che giravano sul figlio di un unico vero Dio. Gli uomini tornati dalla spedizione avevano raccontato di quei templi magnifici tagliati in pietre costose, costruiti per colui il cui messaggio era l'amore; due vasi dorati pesanti, scolpiti con arte e tutti in oro puro erano stati portati a casa. V era in ciascuno di essi un profumo aromatico particolare, erano gli incensieri che i sacerdoti cristiani facevano oscillare davanti all'altare dove non vi scorreva mai sangue, ma dove il vino e il pane consacrati venivano trasformati nel sangue di colui che aveva dato se stesso per le generazioni ancora a venire. Il giovane sacerdote cristiano catturato era stato messo nella profonda cantina in pietra della casa fatta di travi, con le mani e i piedi legati da fili di rafia; era bello; «vederlo sembrava il dio Baldurl» disse la moglie del vichingo ed ella rimase commossa dalle sue tribolazioni. Ma la giovane Helga desiderò che si facesse passare una corda attraverso le sue ginocchia e che fosse legato alla coda dei buoi selvatici. «Poi scioglierei i cani; Uh! Via attraverso le paludi e gli stagni, verso la brughiera! Sarebbe divertente vedere, ancora più divertente sarebbe poterlo seguire nel viaggio!» Il vichingo però non volle che egli morisse di tale morte, ma in quanto negatore e persecutore degli eccelsi dei, volle che fosse immolato subito l'indomani sulla pietra del sacrificio nel boschetto. Era la prima volta che una persona umana vi veniva immolata.

    La giovane Helga chiese di poter cospargere gli idoli e il popolo con il suo sangue. Ella affilò il suo coltello lucido e quando uno dei grandi cani mordaci, di cui ce n'erano tanti nella casa, le corse sopra i piedi, ella gli infilò il coltello nel fianco: «E’ per provarlo!» ella disse, e la moglie del vichingo guardò afflitta la ragazza selvatica e cattiva; e quando venne la notte e la figura della bellezza della figlia cambiò nel corpo e nell'anima, ella le parlò con le calde parole del dolore che provenivano da un'anima afflitta. Il brutto batrace dal corpo di orco le stette davanti e fissò i tristi occhi marroni su di lei, e ascoltando sembrava capire col pensiero umano. «Mai, nemmeno a mio marito, ho detto quello che patisco doppiamente con te!» disse la moglie del vichingo, «vi è più desolazione nel mio cuore per causa tua di quanto non credessi io stessa! Grande è l'amore di una madre, ma mai l'amore è passato per il tuo animo! Il tuo cuore è come una zolla di fango fredda! Ma da dove sei venuta in casa mia!» La figura pietosa tremolò allora in modo singolare, fu come se quelle parole toccassero un filo invisibile tra il corpo e l'anima, le vennero delle grosse lacrime agli occhi. «Un giorno verranno i tempi duri per te!» disse la moglie del vichingo, «saranno orribili anche per me! Sarebbe stato meglio se tu da bambina fossi stata depositata sulla pubblica via e il gelo della notte ti avesse cullata fino a portarti alla morte!» E la moglie del vichingo pianse a calde lacrime e se ne andò corrucciata e afflitta dietro alla tenda di pelle che stava appesa sopra la trave e che divideva la stanza. Il batrace stava tutto solo accovacciato nell'angolo; non c'erano rumori, ma a brevi intervalli salì dentro di lei un sospiro mezzo soffocato; fu come se nel dolore nascesse una vita nel più profondo del cuore. Ella fece un passo in avanti, ascoltò, fece ancora un passo e prese ora con le mani goffe la pesante stanga che era stata messa sulla porta; piano piano ella riuscì a toglierla, in silenzio tirò via la stecca che era stata messa sul saliscendi, afferrò la lampada accesa che stava nella cameretta davanti, e fu come se una forte volontà le desse la forza di tirare fuori la stecca di ferro dalla ribalta chiusa, per scendere giù dal prigioniero alla chetichella. Egli dormiva; ella lo toccò con la sua mano fredda e umida e quando egli si svegliò e vide la figura orrenda, rabbrividì come davanti a una visione malvagia. Ella tirò fuori il suo coltello, tagliò il suo legaccio e gli fece segno di seguirla. Egli fece il nome di alcuni santi, fece il segno della croce e siccome la figura rimaneva immutata, egli pronunciò le parole della Bibbia: «Beato l'uomo che ha cura del debole; nel giorno della sventura il Signore lo libera! Chi sei tu? Da dove questo aspetto esterno dell'animale, eppure pieno delle opere della misericordia?». La figura del batrace gli fece un cenno e lo condusse dietro alle tende che li nascondevano, per un corridoio deserto, fuori nella stalla; lì indicò col dito un cavallo, ed egli saltò su di esso, ma anche ella vi si mise davanti tenendo la criniera dell'animale. Il prigioniero la capì e a un trotto rapido presero una strada che egli non avrebbe mai trovata e che portava alla distesa della brughiera. Egli dimenticò la sua figura orrenda, sentì che la grazia e la misericordia del Signore agivano attraverso il mostro; egli disse delle preghiere devote e cantò degli inni sacri. Ella allora tremolò: era la forza della preghiera e del canto che agiva, o era il brivido per il freddo della mattina che stava incominciando? Che cosa era di preciso quello che ella sentì? Si sollevò molto in aria volendo fermare il cavallo per saltare giù; ma il sacerdote cristiano la tenne ferma con tutta la sua forza, cantando un salmo, come se questo fosse capace di sciogliere l'incantesimo che la teneva in quella orrenda forma di rana e il cavallo avanzò ancora più selvaggio, il cielo si fece rosso, il primo raggio di sole passò attraverso la nuvola e con la limpida fonte di luce arrivò la trasformazione: ella divenne la giovane bellezza con l'anima demoniaca e malvagia. Egli ebbe una giovane ragazza bellissima tra le sue braccia e ne fu spaventato, saltò giù da cavallo, fermandolo, pensando di andare incontro a un nuovo incantesimo devastante; ma anche la giovane Helga fu giù per terra con lo stesso salto, il suo vestito corto da bambina le arrivava soltanto fino alle ginocchia; tirò fuori dalla sua cintura il coltello affilato e si precipitò sulla persona sorpresa.

    (H.C.Andersen)
     
    Top
    .
  2. gheagabry
     
    .

    User deleted



    Fiabe Classiche

    Il folletto del droghiere
    C'era una volta un vero studente, che abitava in una mansarda e non possedeva niente; c'era anche un vero droghiere, che abitava al pianterreno e possedeva tutta la casa. Il folletto stava sempre con quest'ultimo perché ogni sera di Natale riceveva una scodella di riso e latte con un grosso pezzetto di burro, il droghiere poteva permettersi di darglielo, quindi il folletto restava nel negozio, e così imparava molto.

    Una sera entrò lo studente dal retrobottega per acquistare una candela e del formaggio; non aveva nessuno da mandare, e era sceso lui stesso. Gli diedero quello che aveva chiesto, lui pagò e venne salutato con un cenno dal droghiere e dalla moglie, una donna che, altro che far cenno, aveva il dono dell'eloquenza! Lo studente rispose al saluto e chinò lo sguardo a leggere il foglio di carta in cui era stato avvolto il formaggio. Era un foglio strappato da un vecchio libro che non avrebbe mai dovuto essere fatto a pezzi perché pieno di poesia. "Ne ho ancora di quei fogli" esclamò il droghiere. "Il libro me l'ha dato una vecchietta per pochi chicchi di caffè, se mi dà otto scellini, le do tutto quello che mi resta." "Grazie" rispose lo studente "lo prenderò al posto del formaggio." "Posso mangiare il pane da solo, mentre sarebbe un peccato se tutto il libro venisse ridotto a pezzetti. Lei è un'ottima persona, molto pratica, ma di poesia non ne capisce più di quel barile." Non erano parole molto gentili, soprattutto per il barile, ma il droghiere rise e anche lo studente si mise a ridere, l'aveva detto per scherzo. Ma il folletto si arrabbiò: come ci si permetteva di scherzare sul droghiere, che era il padrone di casa e vendeva dell'ottimo burro? Quando venne sera, la bottega fu chiusa e tutti andarono a letto, eccetto lo studente; allora il folletto andò a prendere la lingua della padrona, che lei non usava quando dormiva. Qualunque oggetto su cui venisse posata acquistava subito la parola e poteva esprimere i suoi pensieri e i suoi sentimenti proprio come la padrona; ma poteva farlo solo un oggetto alla volta, e questo era un vantaggio, perché altrimenti avrebbero parlato tutti insieme. Il folletto posò la lingua sul barile, dove si trovavano i giornali vecchi. "È proprio vero" chiese "che non sai che cos'è la poesia?" "Sì che lo sò" rispose il barile "è qualcosa che sta scritta nella parte inferiore dei giornali e che viene ritagliata; credo addirittura di averne dentro di me più dello studente, mentre per il droghiere sono soltanto un povero barile." Il folletto mise la lingua sul macinino del caffè, oh, quanto parlava! poi la mise sul mastello del burro e sul cassetto del denaro. Tutti condividevano l'opinione del barile e bisogna sempre rispettare il parere della maggioranza. "Adesso sentirò lo studente!" e il folletto salì piano piano le scale della cucina fino alla mansarda, dove lo studente abitava. C'era luce dentro e il folletto guardò attraverso il buco della serratura e vide che lo studente stava leggendo quel libro stracciato.

    Che luce emanava! Dal libro proveniva un raggio trasparente, che si trasformava prima in tronco, poi in un enorme albero che si alzava altissimo e allargava i suoi rami sopra lo studente. Ogni foglia era freschissima e i fiori erano graziose teste di ragazza, alcune con occhi neri e lucenti, altre azzurri e straordinariamente trasparenti. Ogni frutto era una stella luminosa, e risuonava un canto mirabile. Una meraviglia simile il folletto non l'aveva mai immaginata, figuratevi poi vista o udita! Restò immobile in punta di piedi, guardò finché la luce non si spense. Lo studente spense la lampada e andò a letto, ma il folletto restò lì ugualmente, perché il canto risuonava ancora dolcissimo e meraviglioso, come una ninna nanna per lo studente che era andato a riposare. "Che meraviglia!" esclamò il piccolo folletto "non me lo sarei mai aspettato! Credo che resterò presso lo studente!" Poi ci rifletté sopra e alla fine sospirò: "Lo studente non ha il riso al latte!" così se ne andò, sì, se ne tornò dal droghiere. E fece bene a tornare perché il barile aveva quasi consumato tutta la lingua della padrona, raccontando, facciata per facciata, tutto quello che aveva dentro di sé, e ora stava per voltarsi e dire quello che c'era sulle altre facciate. Il folletto si riprese la lingua e la riportò alla padrona; ma tutto il negozio, dal cassetto dei soldi alle fascine per ardere, da quel momento fu dell'opinione del barile e lo stimò tanto e ebbe tanta fiducia che, quando alla sera il droghiere si metteva a leggere «Critiche d'arte e teatro» dal suo giornale, credeva fosse farina del barile. Il piccolo folletto non se ne stava più tranquillo a ascoltare tutte quelle cose sagge e ragionevoli che si dicevano laggiù; non appena s'accendeva la luce nella mansarda era come se i raggi lo trascinassero lassù simili a robuste gomene, e lui si sentiva costretto a salire e a guardare attraverso il buco della serratura. Lì lo avvolgeva un senso di grandezza, come quello che proviamo noi di fronte al mare agitato, quando Dio è presente con la tempesta. Poi scoppiava a piangere, senza neppure sapere perché, ma quel pianto era per lui come una benedizione. Sarebbe stato meraviglioso stare con lo studente sotto quell'albero, ma non poteva essere così, e lui si accontentava del buco della serratura. Si trovava nel freddo corridoio anche quando il vento autunnale soffiava dalla botola del soffitto e portava un freddo terribile, ma il piccolo folletto lo notava solo quando si spegneva la luce della mansarda e la melodia si perdeva nel vento. Uh! allora rabbrividiva e se ne ritornava nel suo angolino tiepido; era così comodo e piacevole! Quando poi ricevette il suo riso al latte di Natale con un bel pezzo di burro, allora il droghiere ridivenne il suo campione! Ma nel cuore della notte il folletto si svegliò a causa di un terribile baccano: la gente batteva sulle imposte delle finestre e il guardiano fischiava; c'era un grosso incendio, tutta la strada era in fiamme. Era in casa loro o in quella di fronte? Dove? Che spavento! La moglie del droghiere era così turbata che si tolse gli orecchini d'oro e se li mise in tasca. Tanto per salvare qualcosa. Il droghiere andò a cercare le sue obbligazioni e la domestica andò a prendere il suo scialle di seta, l'unico lusso che si poteva permettere. Ognuno voleva salvare le cose più belle e lo stesso volle fare anche il folletto; con un balzo fu in cima alle scale, dallo studente: questi se ne stava tranquillo alla finestra a guardare l'incendio, che infuriava nel cortile dei vicini. Il piccolo folletto afferrò dal tavolo quello straordinario libro, lo mise nel suo berretto rosso e lo tenne con tutte e due le mani: il tesoro della casa era salvo. Così se ne corse sul tetto, in cima al comignolo, e lì se ne stette, seduto, illuminato dalla casa di fronte che bruciava, tenendo stretto tra le mani il berretto rosso in cui si trovava il suo tesoro. In quel momento conobbe il suo cuore, e capì a chi apparteneva; ma quando il fuoco fu spento e lui ricominciò a riflettere, disse: "Sì, mi dividerò tra loro. Non posso fare a meno del droghiere, a causa del riso al latte!" E questo è molto umano! Anche noi andiamo dal droghiere per il riso.

    (H.C.Andersen)
     
    Top
    .
  3. gheagabry
     
    .

    User deleted



    Fiabe Classiche

    Gian Babbeo
    In campagna c'era una fattoria dove abitava un fattore con due figli, con tanto cervello che anche la metà sarebbe bastata. Volevano chiedere in sposa la figlia del re e avrebbero osato farlo perché lei aveva fatto sapere che avrebbe sposato chi sapeva tenere meglio una conversazione. I due si prepararono per una settimana, il periodo più lungo concesso, ma per loro sufficiente perché avevano già un certa cultura il che tornò loro utile. Uno conosceva tutto il vocabolario latino e le ultime tre annate del giornale del paese che sapeva recitare da capo a fondo e viceversa, l'altro si era studiato tutti i regolamenti delle corporazioni d'arti e mestieri e aveva imparato tutto quello che deve sapere il decano di una corporazione, così pensava di potersi pronunciare sui problemi dello stato, e inoltre imparò anche a ricamare le bretelle, dato che era di gusti raffinati e molto abile. "Io otterrò la figlia del re!" dicevano entrambi. Il padre dette a ognuno un bellissimo cavallo; l'esperto di vocabolario e di giornali lo ebbe nero come il carbone, quello che era saggio come un vecchio decano e che sapeva ricamare, bianco come il latte. Poi si unsero gli angoli della bocca con olio di fegato di merluzzo, in modo che scorressero meglio. Tutti i servitori erano andati in cortile per vederli montare a cavallo; in quel mentre sopraggiunse il terzo fratello; infatti erano in tre, ma il terzo nessuno lo teneva in considerazione perché non aveva la stessa cultura degli altri due e difatti lo chiamavano Gianbabbeo. "Dove state andando vestiti così a festa?" chiese. "A corte per conquistare con la conversazione la figlia del re. Non hai sentito quello che il banditore ha annunciato in tutto il paese?" e glielo raccontarono. "Accidenti! Allora vengo anch'io!" esclamò Gianbabbeo, ma i fratelli risero di lui e se ne partirono. "Padre, dammi un cavallo!" gridò Gianbabbeo. "Mi è venuta una gran voglia di sposarmi. Se mi vuole, bene, e se non mi vuole, la voglio io." "Quante storie!" disse il padre. "Non ti darò nessun cavallo. Tu non sei in grado di conversare; i tuoi fratelli sì che sono in gamba!" "Se non posso avere un cavallo" concluse Gianbabbeo "mi prenderò il caprone, quello è mio e mi potrà certo portare." E così montò sul caprone, lo spronò con i calcagni nei fianchi, e via di corsa per la strada maestra. Oh, come cavalcava! "Arrivo!" gridava, e si mise a cantare a squarciagola.

    I fratelli cavalcavano avanti a lui in silenzio; non dicevano una parola perché dovevano pensare a tutte le belle trovate che avrebbero avuto, per poter conversare con arguzia. "Ehi, là!" gridò Gianbabbeo "arrivo anch'io! Guardate cosa ho trovato per strada!" e mostrò loro una cornacchia morta. "Babbeo!" risposero i due "cosa vuoi farne?" "Voglio donarla alla figlia del re!" "Fai pure" dissero ridendo e ripresero a cavalcare. "Ehi, voi, arrivo! Guardate cos'ho trovato adesso, non è una cosa che si trova tutti i giorni sulla strada maestra!..." I fratelli si voltarono di nuovo per vedere che cos'era. "Babbeo!" dissero "è un vecchio zoccolo di legno a cui manca la punta! Anche questo è per la figlia del re?" "Certo!" rispose Gianbabbeo; i fratelli risero e cavalcarono via distanziandolo di un bel pò. "Ehi, eccomi qui!" gridò Gianbabbeo. "Oh, oh! va sempre meglio! Ehi, è una vera meraviglia!" "Cos'hai trovato adesso?" chiesero i fratelli. "Oh, una cosa incredibile!" disse Gianbabbeo "chissà come sarà contenta la figlia del re!" "Mà" esclamarono i fratelli "è fango appena preso dal fosso!" "Proprio così" rispose Gianbabbeo "e della migliore qualità, non si riesce neppure a tenerlo!" e si riempì la tasca. I fratelli cavalcarono via, spronando il più possibile i cavalli, e giunsero un'ora prima di lui alla porta della città dove ricevettero un numero d'ordine, come tutti gli altri aspiranti man mano che arrivavano. Poi venivano messi in fila, sei alla volta, e stavano così stretti da non poter muovere le braccia; ma era meglio così perché altrimenti si sarebbero rotti le costole a gomitate soltanto perché uno si trovava davanti all'altro.

    Tutti gli altri abitanti del paese si erano riuniti intorno al castello e si arrampicarono fino alle finestre per vedere la figlia del re accogliere gli aspiranti: appena uno si trovava nella sala, restava senza parole. "Non vale niente!" diceva la figlia del re. "Via!" Entrò il primo dei fratelli, quello che sapeva il vocabolario, ma lo aveva dimenticato stando in fila; inoltre il pavimento scricchiolava e il soffitto era tutto uno specchio, così lui si vedeva a testa in giù; e poi a ogni finestra si trovavano tre scrivani e un caposcrivano, che scrivevano tutto quello che veniva detto affinché venisse subito pubblicato sul giornale e venduto all'angolo per due soldi. Era terribile; e inoltre la stufa era così calda che il tubo era diventato tutto rosso. "Fa così caldo qui dentro!" disse il pretendente. "E perché mio padre deve arrostire i galletti oggi" rispose la figlia del re. "Ah!" e si fermò; non si aspettava una simile conversazione e non seppe più che cosa dire, dato che voleva dire qualcosa di spiritoso. "Ah!" "Non vale niente!" concluse la figlia del re. "Via!" e così quello dovette andarsene. Entrò poi suo fratello. "Qui fa un caldo terribile!" disse. "Sì, arrostiamo i galletti, oggi" rispose la figlia del re. "Come? Cosa?" disse lui, e tutti gli scrivani registrarono: come? cosa? "Non va bene!" esclamò la figlia del re. "Via!"

    Poi entrò Gianbabbeo, ancora sul suo caprone. "Qui c'è un caldo da bruciare!" disse. "E perché arrostiscono galletti!" spiegò la figlia del re. "Benissimo!" esclamò Gianbabbeo "Possono arrostire anche la mia cornacchia?" "Certo che possono" rispose la figlia del re "ma lei ha qualcosa in cui metterla? Noi non abbiamo né pentole, né padelle." "Ce l'ho!" disse Gianbabbeo. "Ecco qui una padella, col manico di stagno!" e tirò fuori il vecchio zoccolo e ci mise dentro la cornacchia. "È un pranzo completo!" commentò la figlia del re. "Ma dove troveremo il sugo?" "Ce l'ho in tasca" disse Gianbabbeo "ne ho tanto da poterne buttar via!" e intanto versò un pò di fango dalla tasca. "Mi piaci!" esclamò la figlia del re. "Tu sì che sai rispondere. E sai anche parlare, quindi ti voglio come marito. Ma sai che ogni parola che diciamo e che abbiamo detto viene trascritta e uscirà sul giornale di domani? A ogni finestra siedono tre scrivani e un vecchio caposcrivano, e questo è il peggiore di tutti, perché non capisce niente!" Disse così per fargli paura. Tutti gli scrivani risero e macchiarono di inchiostro il pavimento. "Ah, dunque sono loro i padroni!" esclamò Gianbabbeo. "Allora devo dare la parte migliore al capo!" e rovesciò la tasca e gli gettò del fango proprio in faccia. "Ben fatto!" disse la figlia del re. "Io non ne sarei mai stata capace, ma imparerò presto!"

    E così Gianbabbeo divenne re, ebbe una sposa e una corona e sedette sul trono. L'abbiamo appena saputo dal giornale del caposcrivano ma di quello è meglio non fidarsi..

    (H.C.Andersen)
     
    Top
    .
  4. gheagabry
     
    .

    User deleted



    Fiabe Classiche

    Pollicina (o «Mignolina»)
    C'era una volta una donna che desiderava molto avere una bambina, ma non sapeva come ottenerla; così un giorno andò da una vecchia strega e le disse: "Desidero dal profondo del cuore avere una bambina, mi vuoi dire come posso fare per averla?" "Sì, posso aiutarti" disse la strega. "Questo è ungranello d'orzo, ma non è di quelli che crescono nei campi del contadino e neppure di quelli che mangiano i polli; mettilo in un vaso e vedrai cosa succederà!" "Grazie molte" replicò la donna, e diede alla strega dodici centesimi; poi andò a casa, piantò il granello d'orzo e subito crebbe un bel fiore grande, sembrava un tulipano, ma i petali restavano chiusi come fosse ancora una gemma. "È proprio un bel fiore!" disse la donna, e baciò i petali rossi e gialli, ma mentre lei lo baciava, il fiore, con uno scoppio, si aprì. Era proprio un tulipano, ora lo si poteva vedere, ma in mezzo al fiore, sul pistillo verde, c'era una bambina piccolissima, delicata e graziosa; non era più grande di un mignolo e perciò venne chiamata Mignolina. Come culla ebbe un bel guscio di noce laccato, petali di viola azzurra erano il suo materasso e un petalo di rosa la coperta così dormiva di notte, ma di giorno giocava sul tavolo, dove la donna aveva messo un piatto pieno d'acqua con tutt'intorno una corona di fiori, coi gambi immersi nell'acqua. Lì galleggiava un grande tulipano e Mignolina vi navigava da un lato all'altro del piatto; per remare usava due peli di cavallo. Era così graziosa; sapeva anche cantare, e così bene non si era mai sentito prima.

    Una notte, mentre dormiva nel suo lettino, entrò un brutto rospo femmina saltando dalla finestra, che aveva un vetro rotto. Il rospo era sporco, grande e bagnato e saltò proprio sul tavolo, dove Mignolina dormiva sotto il petalo di rosa rossa. ' Sarebbe un'ottima moglie per mio figlio ' pensò il rospo; prese il guscio di noce in cui Mignolina dormiva e saltò attraverso il vetro giù nel giardino. Passava di li un grande e ampio torrente, ma nel punto più largo era pieno di pantano e fango; proprio lì abitava il rospo con suo figlio. Uh! anche lui era sporco e brutto, assomigliava tutto a sua madre: "Koax, koax, brekke-ke-kex!" fu tutto quel che disse vedendo la graziosa bambina nel guscio di noce. "Non parlare così forte, altrimenti si sveglia!" disse la vecchia "e potrebbe anche andarsene da noi, dato che è leggera come una piuma di cigno! potremmo metterla nel torrente su una grande foglia di ninfea; per lei che è così leggera e piccola, sarà come un'isola! così non potrà andarsene via mentre noi prepariamo la sala sotto il fango dove dovrete andare ad abitare!" Nel torrente crescevano moltissime ninfee con le larghe foglie verdi che sembrava galleggiassero sull'acqua; la foglia più lontana di tutte era anche la più grande, e lì nuotò il vecchio rospo e depose il guscio della noce con Mignolina. La poverina si svegliò presto quella mattina e quando vide dove si trovava cominciò a piangere amaramente, perché c'era acqua da tutte le parti della grande foglia verde e lei non poteva raggiungere la terra. Il vecchio rospo era giù nel fango e stava decorando la sua stanza con giunco e boccioli gialli di ninfea: tutto doveva essere bello per la nuova nuora; poi nuotò col figlio fino alla foglia dove si trovava Mignolina, volevano prendere il suo bel lettino e metterlo nella stanza della sposa prima che vi giungesse lei stessa. Il vecchio rospo si inchinò profondamente nell'acqua davanti a lei e disse: "Ora vedrai mio figlio, che diventerà tuo marito, e abiterete felicemente nel fango!" "Koax, koax, brekke-ke-kex!" fu tutto quello che il figlio disse. Presero il bel lettino e nuotarono via, e Mignolina rimase da sola a piangere sulla foglia verde, perché non voleva abitare con il brutto rospo e neppure sposare il suo brutto figlio. I pesciolini che nuotavano nell'acqua lì vicino avevano visto il rospo e avevano sentito quel che egli aveva detto, quindi si affacciarono per vedere la bambina. Vedendola, la trovarono molto carina e li addolorò molto pensare che dovesse andare a vivere con il brutto rospo. No, non doveva accadere! Si riunirono intorno al gambo che teneva la foglia su cui la bimba si trovava, rosicchiarono il gambo, così la foglia galleggiò via lungo il torrente, via con Mignolina, lontano, dove il rospo non poteva arrivare.

    Mignolina passò molti posti, e gli uccellini che erano nei cespugli, vedendola, cantavano: "Che graziosa fanciulla!". La foglia andava sempre più lontano, così Mignolina si trovò all'estero. Una farfallina bianca continuò a volare intorno a lei e infine si posò sulla foglia, perché Mignolina le piaceva tanto. La piccola era così felice perché il rospo non poteva più raggiungerla e perché tutto era bello intorno a lei: il sole brillava sull'acqua e la rendeva dorata. Allora si tolse la cintura e legò la farfallina alla foglia: in questo modo la foglia viaggiava molto più in fretta e così lei, dato che stava sulla foglia. Improvvisamente giunse ronzando un maggiolone che la vide e subito la afferrò con la zampa alla vita sottile e la portò in cima a un albero, la verde foglia intanto continuava a galleggiare lungo il torrente e la farfalla la seguiva, dato che era legata alla foglia e non poteva liberarsi. Dio mio, come si spaventò la povera Mignolina quando il maggiolone la portò volando sull'albero, ma era ancora più addolorata per la bella farfallina bianca che lei stessa aveva legato alla foglia; così non si sarebbe potuta liberare e sarebbe forse morta di fame. Ma di questo il maggiolone non si curava. Si posò con la fanciulla sulla più grande foglia verde dell'albero, le diede da mangiare il polline dei fiori e le disse che era così carina, anche se non assomigliava affatto a un maggiolino. Poi giunsero in visita tutti gli altri maggiolini che abitavano sull'albero; guardarono Mignolina e le giovani maggioline arricciarono le antenne e dissero: "Ha solo due gambe, che miseria", "Non ha neppure le antenne!", "È così magra in vita, assomiglia a un essere umano! Com'è brutta!". Così dissero tutte le maggioline, e dire che Mignolina era in realtà così graziosa! E questo lo pensava anche il maggiolone che l'aveva presa, ma quando tutti gli altri dissero che era brutta, alla fine lo credette anche lui. Non la volle più tenere con sé, poteva andare dove voleva. Volarono giù dall'albero e la posarono su una margherita; lei piangeva, perché era così brutta che i maggiolini non la volevano con loro, ma in realtà era la più bella che si potesse immaginare, delicata e luminosa come il più bel petalo di rosa.

    Per tutta l'estate la povera Mignolina visse da sola nel bosco. Si fece un letto intrecciando fili d'erba e lo appese sotto una grande foglia di romice che la riparava dalla pioggia; si nutriva col polline dei fiori e beveva la rugiada che ogni mattina trovava sulle foglie; così passò l'estate e l'autunno, ma poi giunse l'inverno, il lungo freddo inverno. Tutti gli uccellini che avevano cantato soavemente per lei erano ormai volati via, gli alberi e i fiori appassivano, la grande foglia di romice sotto cui aveva abitato si arrotolò e divenne un gambo secco e appassito. Mignolina soffriva molto il freddo, i suoi vestiti erano stracciati e lei era così minuta e delicata che avrebbe potuto morirne. Cominciò a nevicare, e ogni fiocco di neve che cadeva su di lei era come una intera palata di neve gettata su uno di noi, perché noi siamo più grandi e lei era alta solo un pollice. Provò a avvolgersi in una foglia appassita, ma non riuscì a scaldarsi, tremava ugualmente per il freddo. Appena fuori dal bosco dove si trovava c'era un grande campo di grano, ma il grano era stato raccolto da tempo e ora dalla terra gelata spuntavano solo le stoppie secche e nude. Per lei tuttavia era come attraversare un bosco, e continuava a tremare di freddo. Infine giunse alla porta della casa della topa di campagna. Non era altro che un piccolo buco sotto le stoppie di grano. Lì abitava la topa, in un ambiente caldo, con una stanza piena di grano, una bella cucina e una sala da pranzo. La povera Mignolina si mise davanti alla porta come una mendicante e implorò un pezzo di grano d'orzo, dato che non aveva mangiato nulla da due giorni. "Poverina!" disse la topa, che in fondo era una brava e vecchia topa. "Entra nella mia calda stanzetta e mangia con me." Dato che Mignolina le piaceva, le disse: "Puoi restare qui con me per l'inverno, basta che mi faccia un pò di pulizie e che mi racconti delle storie, perché quelle mi piacciono molto" e Mignolina fece quello che la vecchia topa desiderava e si trovò molto bene. "Avremo presto visite" disse la topa. "Il mio vicino viene a trovarmi ogni settimana. Sta molto meglio di me, ha grandi stanze e indossa una splendida pelliccia nera di velluto. Se tu riuscissi a sposarlo, non avresti più di che preoccuparti; ma purtroppo è completamente cieco. Devi raccontargli tutte le più belle storie che sai." Mignolina di questo non si curava, non voleva affatto sposare il vicino, che era una talpa. Venne in visita nella sua nera pelliccia di velluto, era molto ricco e molto colto, diceva la topa, e il suo appartamento era venti volte più grande di quello della topa, ma non poteva sopportare né il sole né i bei fiori; ne parlava molto male, perché non li aveva mai visti. Mignolina dovette cantare e così cantò sia Vola maggiolino, vola! che Il monaco va nei prati; la talpa si innamorò di lei a causa della bella voce, ma non disse nulla, perché era un uomo posato.

    Aveva appena scavato un lungo passaggio nella terra che collegava la sua casa con la loro, e diede alla topa e a Mignolina il permesso dl passeggiarvi quando volevano. Però disse anche di non aver paura dell'uccello morto che si trovava in quel passaggio, era un uccello intero, con le ali e il becco, ed era certamente morto da poco tempo - quando l'inverno era cominciato - e era stato sepolto proprio dove lui aveva fatto il passaggio. La talpa prese un pezzo di legno marcio con la bocca, perché nel buio si illumina, e s'avviò, illuminando alle altre due il lungo e buio passaggio; quando giunsero dove giaceva l'uccello morto, la talpa alzò il largo naso verso il soffitto e spinse la terra, così si formò un grande buco e la luce poté passarvi attraverso. Sul pavimento c'era una rondine morta, con le belle ali strette lungo i fianchi, le zampe e la testa infilate sotto le piume: la poverina era certo morta dal freddo. Mignolina ne era molto dispiaciuta, perché amava gli uccellini che per tutta l'estate avevano cantato e cinguettato per lei, ma la talpa la spinse con le sue corte zampe e disse: "Ora non canta più! Dev'essere triste essere nato uccello! Dio sia lodato, nessuno del miei figli diventerà tale; un uccello non ha altro che il suo cinguettare, e d'inverno muore di fame!" "È proprio così, come lei dice da quell'uomo assennato che è" aggiunse la topa. "Che cosa ha in cambio dei suoi gorgheggi un uccello, quando viene l'inverno? Deve soffrire la fame e il freddo; ma tant'è, quando si hanno di queste idee grandiose...!" Mignolina non disse nulla, ma quando gli altri si allontanarono dall'uccello, vi si chinò sopra, allontanò le piume che coprivano il capo e baciò i suoi occhi chiusi. ' Forse era proprio lei a cantare così bene questa estate per me! ' pensò ' quanta gioia mi ha procurato questo caro e grazioso uccello! ' La talpa richiuse il foro da cui penetrava la luce e accompagnò le signore a casa. Ma quella notte Mignolina non riuscì a dormire; allora si alzò, intrecciò con del fieno un grande e bel tappeto e vi avvolse l'uccello; poi vi mise attorno del soffice cotone, affinché avesse un pò di calore pur trovandosi nella fredda terra. "Addio, bella e piccola rondine!" disse. "Addio e grazie per le tue deliziose canzoni di quest'estate, quando tutti gli alberi erano verdi e il sole ci scaldava così piacevolmente." Poi posò la sua testolina sul petto della rondine, e si spaventò terribilmente, perché era come se qualcosa battesse lì dentro. Era il cuore della rondine, che non era morta, ma solo in letargo: ora era stata scaldata e era tornata in vita.

    In autunno tutte le rondini volano via per raggiungere paesi più caldi; e se una si attarda, si raggela tanto che cade come morta e resta immobile finché la neve non la copre tutta. Mignolina tremava per lo spavento, perché la rondine era grande paragonata a lei che era alta solo un pollice; ma si fece coraggio e avvicinò ancora di più il cotone alla poverina, poi andò a prendere una foglia di menta che le serviva da cuscino e gliela mise sotto la testa. La notte successiva tornò ancora da lei, e la trovò viva, ma così debole che riuscì a malapena a aprire gli occhi per un attimo e a vedere Mignolina che aveva un legno marcio in mano, perché era l'unica luce che aveva. "Grazie mille, graziosa bambina!" le disse la rondine malata "adesso mi sono scaldata ben bene. Presto riavrò le forze e potrò di nuovo volare fuori al sole." "Oh!" esclamò la fanciulla "è così freddo fuori, nevica e è tutto gelato! Se resti nel tuo lettuccio ben caldo, ti curerò io." Le portò dell'acqua in un petalo di fiore e la rondine la bevve e raccontò che si era ferita un'ala con un cespuglio spinoso e che per questo non poteva volare veloce come le altre rondini, in viaggio verso i paesi caldi. Alla fine era caduta a terra; di più non ricordava e non sapeva spiegarsi come mai si trovava lì. Per tutto l'inverno restò nella galleria e Mignolina fu molto buona con lei e le si affezionò; né la talpa né la topa ne vennero a sapere nulla, perché la povera rondine non le interessava. Non appena giunse la primavera e il sole scaldò la terra, la rondine dovette salutare Mignolina e aprì il buco che la talpa aveva fatto. Il sole penetrava nella galleria e la rondine chiese alla fanciulla se non voleva partire con lei; poteva sedersi sulla sua schiena, e avrebbero volato nel bosco. Ma Mignolina sapeva che se se ne fosse andata, avrebbe addolorato la vecchia topa. "No, non posso" rispose. "Addio, addio, graziosa fanciulla!" disse la rondine e volò in alto verso il sole. Mignolina la seguì con lo sguardo e gli occhi le si inumidirono, perché voleva molto bene alla rondine. "Qvit! qvit!" cantava la rondine e volò nel verde bosco. Mignolina era molto addolorata. Non poteva neppure uscire al sole; il grano, che era stato seminato nel campo sopra la casa della topa, crebbe così alto che era come un fitto bosco per la povera fanciulla, alta solo un pollice. "Quest'estate ti devi cucire la dote!" le disse la topa, perché ormai il loro vicino, la noiosa talpa nella pelliccia di velluto nero, si era dichiarato nei confronti di Mignolina. "Devi avere sia la lana che il cotone; avrai biancheria da tavola e da letto, quando sarai la moglie della talpa." Mignolina doveva filare e la topa prese a cottimo quattro ragni per tessere giorno e notte. Ogni sera la talpa veniva in visita e diceva sempre che alla fine dell'estate il sole non sarebbe stato così forte: ora aveva bruciato tutta la terra; sì, quando l'estate fosse finita, si sarebbe festeggiato il matrimonio con Mignolina; ma lei non era affatto contenta, perché non le importava nulla della noiosa talpa. Ogni mattina all'alba e ogni sera al tramonto sgusciava fuori casa e quando il vento muoveva le cime del grano, così da poter vedere il cielo blu, pensava a quant'era bello là fuori, e desiderava tanto poter rivedere la cara rondine, ma quella non giunse mai, era certo volata via verso i bei boschi verdi. Venne l'autunno e Mignolina aveva la dote pronta. "Tra quattro settimane ti sposi!" le disse la topa. Ma Mignolina pianse e rispose che non voleva sposare la noiosa talpa. "Quante storie!" disse la topa "non intestardirti, altrimenti ti do un morso con i miei denti bianchi! È proprio un brav'uomo quello che sposi; neppure la regina ha una pelliccia come la sua. E ha sia la cucina che la cantina piene: dovresti invece ringraziare il Signore."

    E venne il giorno delle nozze. La talpa era già giunta per prendere Mignolina, che avrebbe dovuto abitare con lui nella profondità della terra, e non avrebbe mai più potuto uscire al sole, che le piaceva tanto. La poverina era così triste, avrebbe dovuto dire addio al bel sole; almeno, stando dalla topa aveva il permesso di vederlo dalla porta. "Addio, bel sole!" disse, e allungò le braccine in alto, e così facendo uscì un pò dalla casa della topa; ormai il grano era stato tagliato e c'erano solo stoppie secche. "Addio, addio!" gridò e buttò le sue braccine intorno a un fiorellino rosso. "Saluta la rondinella da parte mia, quando la vedi." "Qvit, qvit!" si sentì in quel momento sopra di lei; Mignolina guardò in alto e vide la rondinella che passava proprio di lì. Non appena la vide, la rondine si rallegrò; Mignolina le raccontò che non voleva sposare la brutta talpa e andare a abitare sotto terra, rinunciando per sempre a vedere il sole. E mentre parlava non tratteneva le lacrime. "Adesso giunge il freddo inverno" le disse la rondinella. "Io volo lontano, verso i paesi caldi; vuoi venire con me? Puoi sederti sulla mia schiena. Puoi legarti con la cintura e così voliamo via dalla brutta talpa e dalla buia casa, lontano, oltre i monti, fino ai paesi caldi, dove il sole splende ancora più bello e dove è sempre estate e ci sono i fiori. Vola via con me, Mignolina, tu che hai salvato la mia vita quando giacevo congelata nella buia terra." Sì, voglio venire con te!" rispose Mignolina, e si mise sulla schiena, posò i piedi sulle ali spiegate, fissò la cintura a una delle penne più robuste, e così la rondine si sollevò nell'aria, oltre il bosco e il mare, oltre le montagne sempre innevate; Mignolina sentiva freddo in quell'aria gelata, allora si infilò sotto le calde piume dell'uccello e tenne fuori solo la testolina per vedere tutte le meraviglie sotto di lei. Così giunsero nei paesi caldi. Il sole splendeva ancora più luminoso che da noi, il cielo era più alto, sugli argini e sulle siepi cresceva l'uva più stupenda, verde e nera. Nei boschi pendevano dagli alberi limoni e arance, c'era profumo di mirto e di menta, e sulle strade di campagna i più graziosi bambini giocavano con grandi e variopinte farfalle. Ma la rondine volò oltre e tutto divenne ancora più bello. Sotto bellissimi alberi verdi, vicino al mare blu, c'era uno splendido castello di marmo bianco, dei tempi passati, e tralci di vite si avvolgevano ai pilastri; in cima c'erano molti nidi di rondine e in uno di questi abitava la rondine che portava Mignolina. "Questa è la mia casa!" disse la rondine "ma se tu vuoi scegliere uno dei bei fiori, che crescono laggiù, io ti poserò lì e non potrai desiderare di meglio." "Che meraviglia" esclamò la fanciulla, battendo le manine. C'era un grande pilastro di marmo caduto che s'era spezzato in tre pezzi, ma tra questi crescevano bellissimi fiori bianchi. La rondine volò laggiù con Mignolina e la posò su uno di quei larghi petali. Che sorpresa fu trovarvi dentro un omino candido e trasparente come fosse stato di vetro; portava sul capo una bella corona d'oro e aveva bellissime ali lucenti sulle spalle; e non era più alto di Mignolina. Era lo spirito del fiore. In ogni fiore abitava un omino o una donnina come lui, ma lui era re di tutti gli altri. "Dio mio, com'è bello" sussurrò Mignolina alla rondine. Il principino si spaventò molto a causa della rondine, che era proprio gigantesca rispetto a lui così piccolo e delicato, ma quando vide Mignolina si rallegrò, perché era la fanciulla più bella che avesse mai visto. Prese la sua corona d'oro e gliela mise sul capo, le chiese come si chiamava e se voleva diventare sua sposa, così sarebbe diventata regina di tutti i fiori! Certo era un marito ben diverso dal figlio del rospo e dalla talpa con la pelliccia di velluto nero. Lei disse di sì al bel principino, e subito uscirono da ogni fiore tanti omini e tante donnine, così graziosi che era un piacere vederli. Ognuno aveva un dono per Mignolina, ma il più bello fu un paio di graziose ali di una mosca bianca; vennero fissate alla schiena di Mignolina, così anche lei poteva volare da un fiore all'altro. Che gioia! e la rondinella tornò al suo nido e cantò per loro meglio che poté, ma in fondo al cuore era triste, perché voleva molto bene a Mignolina e non avrebbe voluto separarsi da lei. "Non ti chiamerai più Mignolina!" le disse lo spirito del fiore "è un brutto nome e tu sei invece così bella. Ti chiameremo Maja!" "Addio! Addio!" esclamò la rondinella e volò via di nuovo dai caldi paesi per andare lontano fino in Danimarca; lì aveva un piccolo nido sopra una finestra, dove vive colui che sa raccontare tante storie, e "Qvit, qvit" si mise a cantare per lui. È così che conosciamo tutta la storia.

    (H.C.Andersen)
     
    Top
    .
  5. gheagabry
     
    .

    User deleted



    Fiabe Classiche

    Il tenace soldatino di stagno
    C'erano una volta venticinque soldati di stagno, tutti fratelli tra loro perché erano nati da un vecchio cucchiaio di stagno. Tenevano il fucile in mano, e lo sguardo fisso in avanti, nella bella uniforme rossa e blu. La prima cosa che sentirono in questo mondo, quando il coperchio della scatola in cui erano venne sollevata, fu l'esclamazione: "Soldatini di stagno!" gridata da un bambino che batteva le mani; li aveva ricevuti perché era il suo compleanno, e li allineò sul tavolo. I soldatini si assomigliavano in ogni particolare, solo l'ultimo era un po' diverso: aveva una gamba sola perché era stato fuso per ultimo e non c'era stato stagno a sufficienza! Comunque stava ben dritto sulla sua unica gamba come gli altri sulle loro due gambe e proprio lui ebbe una strana sorte.

    Sul tavolo dove erano stati appoggiati c'erano molti altri giocattoli, ma quello che più attirava l'attenzione era un grazioso castello di carta. Attraverso le finestrelle si poteva vedere nelle sale. All'esterno si trovavano molti alberelli intorno a uno specchietto che doveva essere un lago; vi nuotavano sopra e vi si rispecchiavano cigni di cera. Tutto era molto grazioso, ma la cosa più carina era una fanciulla, in piedi sulla porta aperta del castello; anche lei era fatta di carta, ma aveva la gonna di lino finissimo e un piccolo nastro azzurro drappeggiato sulle spalle con al centro un lustrino splendente, grande come il suo viso. La fanciulla aveva entrambe le mani tese in alto, perché era una ballerina, e aveva una gamba sollevata così in alto che il soldatino di stagno, non vedendola, credette che anch'ella avesse una gamba sola, proprio come lui. ' Quella sarebbe la sposa per me! ' pensò ' ma è molto elegante e abita in un castello; io invece ho solo una scatola e ci abitiamo in venticinque, non è certo un posto per lei! comunque devo cercare di fare conoscenza! ' Si stese lungo com'era dietro una tabacchiera che si trovava sul tavolo; da lì poteva vedere bene la graziosa fanciulla che continuava a stare su una gamba sola, senza perdere l'equilibrio. A sera inoltrata gli altri soldatini di stagno entrarono nella scatola e gli abitanti della casa andarono a letto. Allora i giocattoli cominciarono a divertirsi: si scambiavano visite ballavano, giocavano alla guerra. I soldatini di stagno rumoreggiavano nella scatola, perché desideravano partecipare ai divertimenti, ma non riuscirono a togliere il coperchio. Lo schiaccianoci faceva le capriole e il gesso si divertiva sulla lavagna, facevano un tale rumore che il canarino si svegliò e cominciò a parlare in versi. Gli unici che non si mossero affatto furono il soldatino di stagno e la piccola ballerina; lei si teneva ritta sulla punta del piede con le due braccia alzate, lui con pari tenacia restava dritto sulla sua unica gamba e gli occhi non si spostavano un solo momento da lei. Suonò mezzanotte e tac... si sollevò il coperchio della tabacchiera, ma dentro non c'era tabacco, bensì un piccolissimo troll nero, perché era una scatola a sorpresa.

    "Soldato!" disse il troll "smettila di guardare gli altri!" Ma il soldatino finse di non sentire. "Aspetta domani e vedrai!" gli disse il troll. Quando l'indomani i bambini si alzarono, il soldatino fu messo vicino alla finestra e, non so se fu il troll o una folata di vento, la finestra si aprì e il soldatino cadde a testa in giù dal terzo piano. Fu un volo terribile, a gambe all'aria, poi cadde sul berretto infilando la baionetta tra le pietre. La domestica e il ragazzino scesero subito a cercarlo, ma sebbene stessero per calpestarlo, non riuscirono a vederlo. Se il soldatino avesse gridato: «Sono qui!» lo avrebbero certamente trovato, ma lui pensò che non fosse bene gridare a voce alta perché era in uniforme. Cominciò a piovere, le gocce cadevano sempre più fitte e venne un bell'acquazzone: quando finalmente smise di piovere arrivarono due monelli. "Guarda!" disse uno "c'è un soldatino di stagno! adesso lo facciamo andare in barca." Fecero una barchetta con un giornale, vi misero dentro il soldatino e lo fecero navigare lungo un rigagnolo; gli correvano dietro battendo le mani. Dio ci salvi! che ondate c'erano nel rigagnolo, e che corrente! Tutto a causa dell'acquazzone. La barchetta andava su e giù e ogni tanto girava su se stessa così velocemente che il soldatino tremava tutto, ma ciò nonostante, tenace com'era, non batté ciglio, guardò sempre davanti a sé e tenne il fucile sotto il braccio.

    Improvvisamente la barchetta si infilò in un passaggio sotterraneo della fogna; era così buio che al soldatino sembrava d'essere nella sua scatola. ' Dove sto andando? ' pensò. ' Sì, tutta colpa del troll! Ah, se solo la fanciulla fosse qui sulla barca con me, allora non mi importerebbe che fosse anche più buio. ' In quel mentre sbucò fuori un grosso ratto, che abitava nella fogna. "Hai il passaporto?" chiese. "Tira fuori il passaporto!" Ma il soldatino restò zitto e tenne il fucile ancora più stretto.

    La barchetta passò oltre e il ratto si mise a seguirla. Oh! come digrignava i denti e gridava alle pagliuzze e ai trucioli: "Fermatelo! Fermatelo! non ha pagato la dogana! non ha mostrato il passaporto!". Ma la corrente si fece sempre più forte e il soldatino scorgeva già la luce del giorno alla fine della fogna, quando sentì un rumore terribile, che faceva paura anche a un uomo coraggioso; pensate, il rigagnolo finiva in un grande canale, e per il soldatino era pericoloso come per noi capitare su una grande cascata. Ormai era così vicino che gli era impossibile fermarsi. Si irrigidì più che poté, perché nessuno potesse dire che aveva avuto paura. La barchetta girò su se stessa tre, quattro volte e ormai era piena di acqua fino all'orlo e stava per affondare. Il soldatino sentiva l'acqua arrivargli alla gola, e la barchetta affondava sempre più; la carta intanto si disfaceva. L'acqua gli coprì anche la testa, allora pensò alla graziosa ballerina che non avrebbe rivisto mai più, e si sentì risuonare nelle orecchie: Addio, bel soldatino morir dovrai anche tu La carta si disfece del tutto e il soldatino di stagno andò a fondo, ma subito venne inghiottito da un grosso pesce. Oh, com'era buio là dentro! ancora più buio che nella fogna, e poi era così stretto; ma il soldatino era tenace e restò lì disteso col fucile in spalla. Il pesce si agitava in modo terribile, poi si calmò e fu come se un lampo lo attraversasse. La luce ormai splendeva e qualcuno gridò: «Il soldatino di stagno!». Il pesce era stato pescato, portato al mercato, venduto e portato in cucina dove una ragazza lo aveva tagliato con un grosso coltello. Prese con due dita il soldatino e lo portò in salotto dove tutti volevano vedere quell'uomo straordinario che aveva viaggiato nella pancia di un pesce; ma lui non si insuperbì. Lo misero sul tavolo e... oh, che stranezze succedono nel mondo! il soldatino si trovò nella stessa sala in cui era stato prima, vide gli stessi bambini e i giocattoli che erano sul tavolo, il bel castello di carta con la graziosa ballerina, che ancora stava ritta su un piede solo e teneva l'altro sollevato; anche lei era tenace e questo commosse il soldatino che stava per piangere lacrime di stagno, ma questo non gli si addiceva. La guardò, e lei guardò lui, ma non dissero una sola parola.

    In quel mentre uno dei bambini più piccoli prese il soldatino e lo gettò nella stufa, e proprio senza alcun motivo, sicuramente era colpa del troll della tabacchiera.

    Il soldatino vide una gran luce e sentì un gran calore, era insopportabile, ma lui non sapeva se era proprio la fiamma del fuoco o quella dell'amore. I suoi colori erano ormai sbiaditi, ma chi poteva dire se fosse per il viaggio o per la pena d'amore? Il soldatino guardò la fanciulla e lei guardò lui, e lui si sentì sciogliere, ma ancora teneva ben stretto il fucile sulla spalla. Intanto una porta si spalancò e il vento afferrò la ballerina che volò come una silfide proprio nella stufa vicino al soldatino. Sparì con una sola fiammata, e anche il soldatino si sciolse completamente. Quando il giorno dopo la domestica tolse la cenere, del soldatino trovò solo il cuoricino di stagno, della ballerina il lustrino tutto bruciacchiato e annerito.

    (H.C.Andersen)
     
    Top
    .
  6. gheagabry
     
    .

    User deleted



    Fiabe Classiche

    L'uomo di neve
    "Fa così freddo che scricchiolo tutto" disse l'uomo di neve. "Il vento, quando morde, fa proprio resuscitare! Come mi fissa quello là!" e intendeva il sole, che stava per tramontare. "Ma non mi farà chiudere gli occhi, riesco a tenere le tegole ben aperte." Infatti i suoi occhi erano fatti con due pezzi di tegola di forma triangolare. La bocca invece era un vecchio rastrello rotto, quindi aveva anche i denti. Era nato tra gli evviva dei ragazzi, salutato dal suono di campanelli e dagli schiocchi di frusta delle slitte. Il sole tramontò e spuntò la luna piena, rotonda e grande, bellissima e diafana nel cielo azzurro. "Eccolo che arriva dall'altra parte!" disse l'uomo di neve. Credeva infatti che fosse ancora il sole che si mostrava di nuovo. "Gli ho tolto l'abitudine di fissarmi, ora se ne sta lì e illumina appena perché io possa vedermi. Se solo sapessi muovermi mi sposterei da un'altra parte. Vorrei tanto cambiare posto! Se potessi, scivolerei sul ghiaccio come hanno fatto i ragazzi, ma non sono capace di correre." "Via, via!" abbaiò il vecchio cane alla catena. Era un pò rauco, lo era diventato da quando non stava più in casa e non dormiva più vicino alla stufa. "Il sole ti insegnerà senz'altro a correre! L'ho già visto con il tuo predecessore dell'anno scorso, e con quello dell'anno prima. "Via, via! e tutti ve ne andrete!" "Non ti capisco, amico!" disse l'uomo di neve. "Quello lassù mi deve insegnare a correre?" e intendeva la luna. "È corso via infatti, quando l'ho fissato prima, ma ora spunta fuori da un'altra parte!" "Tu non sai nulla" gli rispose il cane alla catena "ma sei appena stato fatto! Quella che tu vedi si chiama luna, quello che se n'è andato era il sole. Tornerà domani e ti insegnerà a scorrere nel fosso. Tra poco cambierà il tempo, lo sento dalla zampa posteriore che mi fa male. Cambierà il tempo." "Non lo capisco" commentò l'uomo di neve "ma ho la sensazione che stia dicendo qualcosa di spiacevole. E quello che mi fissava e se ne è andato si chiama sole, non deve essermi amico neppure lui, lo sento." "Via! Via!" abbaiò il cane alla catena, poi girò tre volte su se stesso e si ritirò nella cuccia per dormire.

    Il tempo cambiò davvero. Una nebbia fitta e umida si stese durante la mattinata su tutto il territorio, all'alba cominciò a soffiare il vento, un vento gelato che fece spuntare dappertutto il ghiaccio, ma che splendore quando comparve il sole! Tutti gli alberi e i cespugli erano ricoperti di ghiaccio, era come vedere un intero bosco di coralli bianchi, come se tutti i rami fossero ricoperti di lucenti fiori bianchi. Quei rami sottili che d'estate non si possono vedere a causa delle molte foglie si mostravano ora uno per uno, sembravano un ricamo, e tutto era bianco splendente come se da ogni ramo sgorgasse un bianco splendore. La betulla si piegava al vento, c'era vita in lei, come in tutti gli alberi nel periodo estivo, era uno splendore senza fine. Quando brillò il sole ogni cosa scintillò, come se tutto fosse stato ricoperto di una polvere lucente, e sulla distesa di neve che ricopriva la terra luccicavano grandi diamanti, o meglio si poteva credere che bruciassero infiniti lumini ancora più bianchi della bianca neve. "È una meraviglia incredibile!" disse una fanciulla che con un giovane attraversava il giardino, poi si fermò proprio vicino all'uomo di neve e si mise a guardare quei meravigliosi alberi "In estate non c'è una vista così bella!" disse, e le brillavano gli occhi. "E non abbiamo neppure un tipo come questo qui!" disse il giovane indicando l'uomo di neve. "È proprio bello!" La fanciulla rise, fece una riverenza all'uomo di neve e ballò col suo amico sulla neve che scricchiolò sotto di loro, come fosse stata di celluloide. "Chi erano quei due?" chiese l'uomo di neve al cane alla catena. "Tu vivi da più tempo qui nel cortile, li conosci?" "Certo!" disse il cane alla catena. "Lei mi ha accarezzato, e lui mi ha dato un osso. Così non li mordo." "Ma che cosa rappresentano qui?" chiese l'uomo di neve. "Innamo-o-r-a-t-i" disse il cane. "Si trasferiranno in un canile e rosicchieranno insieme le ossa. Via! Via!" "E due come loro sono importanti quanto te e me?" chiese l'uomo di neve. "Appartengono alla classe dei padroni" disse il cane. "Non si sa proprio nulla quando si è nati ieri, lo vedo bene guardando te! Io invece sono vecchio e ho una grande conoscenza delle cose, conosco tutti qui nel cortile! E ho conosciuto un tempo in cui non stavo qui al freddo e alla catena. Via! Via!" "Il freddo è bello" disse l'uomo di neve. "Racconta, racconta! ma non devi agitare la catena perché mi fa scricchiolare." "Via! Via!" abbaiò il cane. "Io ero un cucciolo; piccolo e grazioso, così dicevano, quando stavo su una sedia di velluto o mi prendeva in grembo il padrone più importante; mi baciavano sulla gola e mi asciugavano le zampette con un fazzoletto ricamato. Mi chiamavamo «Bellissimo », «Tesoruccio», ma poi divenni troppo grande per loro, allora mi diedero alla governante. Passai così al pianterreno. Lo puoi vedere da dove ti trovi, puoi vedere in quella cameretta dove io sono stato padrone, quando ero dalla governante. Naturalmente era più piccola di quella di sopra, ma era molto più piacevole: non venivo stuzzicato e trascinato dappertutto dai bambini, come accadeva di sopra; e avevo del buon cibo, proprio come prima, anzi di più! avevo il mio cuscino e poi c'era una stufa che in questa stagione è la cosa più bella del mondo! Mi raggomitolavo lì sotto e era come se sparissi. Oh, quella stufa me la sogno ancora. Via! Via!" "È bella la stufa?" chiese l'uomo di neve. "Mi assomiglia?" "È proprio il tuo contrario! È nera come il carbone, ha un lungo collo e uno sportelletto d'ottone; divora pezzetti di legno, così le esce il fuoco dalla bocca. Bisogna mettersi proprio di fianco, vicini vicini, o anche sotto, che meraviglia! Tu dovresti riuscire a vederla attraverso la finestra!"

    L'uomo di neve guardò e vide veramente un grande oggetto nero, lucido, con una porticina di ottone, e il pavimento intorno tutto illuminato. L'uomo di neve si sentì molto strano, aveva una sensazione che non riusciva a spiegarsi, sentiva qualche cosa che non conosceva, ma che tutti conoscono se non sono fatti di neve. "Perché l'hai lasciata?" chiese l'uomo di neve: sentiva che doveva essere una creatura femminile. "Come hai potuto lasciare un posto simile?" "Ci fui costretto" spiegò il cane alla catena. "Mi cacciarono fuori e mi misero alla catena. Avevo morso il padrone più giovane alla gamba, perché aveva dato un calcio a un osso che stavo rosicchiando. Osso per osso, pensai io! Ma loro se la presero molto e da allora mi trovo alla catena e ho perso la mia bella voce: senti come sono rauco! Via! Via! E così finì la bella vita per me." L'uomo di neve non ascoltava più, fissava continuamente la stanza della governante dove si trovava la stufa sulle quattro gambe di ferro: sembrava alta quanto lui. "Come scricchiolo!" disse. "Riuscirò mai a entrare? Sarebbe un desiderio innocente e tutti i nostri desideri innocenti dovrebbero venire esauditi. È la mia massima aspirazione, il mio unico desiderio, e sarebbe quasi ingiusto se non venisse esaudito. Devo andare lì dentro, devo arrivare fino a lei, anche se devo rompere il vetro." "Non entrerai mai!" rispose il cane alla catena. "E se mai arrivassi alla stufa, allora te ne andresti, hai capito? te ne andresti." "È come se fossi già andato!" disse l'uomo di neve. "Mi viene da vomitare." Per tutto il giorno l'uomo di neve guardò in quella stanza; nella penombra il locale sembrava ancora più bello, dalla stufa proveniva una luce così tenue che neppure la luna o il sole sapevano eguagliare, un bagliore tipico di una stufa quando c'è qualcosa dentro. Se aprivano la porta, allora usciva una fiammata, era una sua abitudine; questa fece diventare il bianco volto dell'uomo di neve tutto rosso, e lo illuminò fino al petto. "Non resisto più!" disse. "Come le dona tirar fuori la lingua!"

    La notte fu molto lunga, ma non per l'uomo di neve che si era abbandonato ai suoi bellissimi pensieri, e questi, gelando, scricchiolavano. Al mattino le finestre del pianterreno erano gelate, ricoperte dei più bei fiori di ghiaccio che un uomo di neve possa desiderare, ma gli toglievano la vista della stufa. Il ghiaccio dei vetri non voleva sciogliersi, così lui non riusciva a vederla. Si sentiva uno scricchiolio, un crepitio, era proprio un tempo da gelo che doveva divertire un uomo di neve, ma lui non era per niente divertito: avrebbe potuto sentirsi felicissimo ma non lo era, perché aveva nostalgia della stufa. "È una pessima malattia per un uomo di neve!" commentò il cane alla catena. "Ho sofferto anch'io di quella malattia, ma ormai l'ho superata. Via! Via! Ora cambierà il tempo." E infatti il vento cambiò, e sciolse la neve. Venne il caldo, e l'uomo di neve dimagrì. Non disse nulla, non scricchiolò, e questo era proprio il segno della fine. Una mattina crollò. Nel punto in cui si trovava rimase infilzato qualcosa che assomigliava a un manico di scopa: i ragazzi ce lo avevano costruito intorno. "Adesso capisco quella sua nostalgia!" disse il cane alla catena. "L'uomo di neve aveva un raschiatoio della stufa in corpo; è quello che lo turbava, ma adesso tutto è finito. Via! Via!" E ormai anche l'inverno era quasi finito. "Via! Via!" abbaiava il cane alla catena, ma le bambine in giardino cantavano: Affrettati, mughetto, bello e fresco, getta i rametti, o salice. Venite, cuculi, allodole, cantate! C'è già primavera alla fine di febbraio! Io canto con voi, cuculi, cucù! Vieni, caro sole, esci anche tu! E nessuno pensò più all'uomo di neve.

    (H.C.Andersen)
     
    Top
    .
  7. gheagabry
     
    .

    User deleted



    Fiabe Classiche

    L'usignolo
    In Cina, lo sai bene, l'imperatore è un cinese e anche tutti quelli che lo circondano sono cinesi. La storia è di molti anni fa, ma proprio per questo vale la pena di sentirla, prima che venga dimenticata. Il castello dell'imperatore era il più bello del mondo, tutto fatto di finissima porcellana, costosissima ma così fragile e delicata, che, toccandola, bisognava fare molta attenzione. Nel giardino si trovavano i fiori più meravigliosi, e a quelli più belli erano state attaccate campanelline d'argento che suonavano cosicché nessuno passasse di lì senza notare quei fiori. Sì, tutto era molto ben progettato nel giardino dell'imperatore che si estendeva talmente che neppure il giardiniere sapeva dove finisse. Se si continuava a camminare, si arrivava in uno splendido bosco con alberi altissimi e laghetti profondi. Il bosco terminava vicino al mare, azzurro e profondo; grandi navi potevano navigare fin sotto i rami del bosco e tra questi viveva un usignolo, e cantava in modo così meraviglioso che persino il povero pescatore, che aveva tanto da fare, sentendolo cantare si fermava a ascoltarlo, quando di notte era fuori a tendere le reti da pesca. "Oh, Signore, che bello!" diceva, poi doveva stare attento al suo lavoro e dimenticava l'uccello. Ma la notte successiva, quando questo ancora cantava, il pescatore che usciva con la barca, esclamava: "Oh, Signore, che bello!".

    Alla città dell'imperatore giungevano stranieri da ogni parte del mondo, per ammirare la città stessa, il castello e il giardino; quando però sentivano l'usignolo, dicevano tutti: "Questa è la meraviglia più grande!". I viaggiatori poi, una volta tornati a casa, raccontavano tutto, e le persone istruite scrissero molti libri sulla città, sul castello e sul giardino, ma non dimenticarono mai l'usignolo, anzi l'usignolo veniva prima di tutto il resto, e quelli che sapevano scrivere poesie scrissero i versi più belli sull'usignolo del bosco, vicino al mare profondo. Quei libri girarono per il mondo e alcuni giunsero fino all'imperatore. Seduto sul trono d'oro, leggeva continuamente, facendo ogni momento cenni di assenso con la testa, perché gli piaceva ascoltare le splendide descrizioni della città, del castello e del giardino. «Ma l'usignolo è la cosa più bella» c'era scritto. "Che cosa?" esclamò l'imperatore. "L'usignolo? Non lo conosco affatto! Esiste un tale uccello nel mio regno, e per di più nel mio giardino! Non l'ho mai saputo! E bisogna leggerlo per saperlo!" Così chiamò il suo luogotenente che era così distinto che, se qualcuno inferiore a lui osava rivolgergli la parola o chiedergli qualcosa, non diceva altro che: "P...!", il che non significa nulla. "Qui dovrebbe esserci un uccello meraviglioso chiamato usignolo" spiegò l'imperatore. "Si dice che sia la massima meraviglia del mio grande regno. Perché nessuno me ne ha mai parlato?" "Non l'ho mai sentito nominare prima d'ora" rispose il luogotenente "non è mai stato introdotto a corte." "Voglio che venga qui stasera a cantare per me" concluse l'imperatore. "Tutto il mondo sa che cosa possiedo e io non lo so!" "Non l'ho mai sentito nominare prima d'ora!" ripeté il luogotenente "farò in modo di trovarlo." Ma dove? Il luogotenente corse su e giù per le scale e attraversò saloni e corridoi; nessuno di quelli che incontrava aveva mai sentito parlare dell'usignolo, così il luogotenente tornò di corsa dall'imperatore e gli disse che doveva essere un'invenzione di chi aveva scritto i libri. "Sua Maestà Imperiale non deve credere a quello che si scrive! È certamente un'invenzione fatta con quella che si chiama magia nera." "Ma quel libro in cui l'ho letto" disse l'imperatore "mi è stato inviato dal potente imperatore del Giappone, quindi non può essere falso. Voglio sentire quell'usignolo! Dev'essere qui stasera! Sarà ammesso nelle mie grazie! Se invece non viene, tutta la corte sarà picchiata sulla pancia dopo cena!" "Tsing-pe!" rispose il luogotenente e ricominciò a correre su e giù per le scale, e attraverso saloni e corridoi, e metà della corte correva con lui, dato che non volevano essere picchiati sulla pancia. Si sentiva chiedere soltanto dello straordinario usignolo che tutto il mondo conosceva eccetto quelli della corte. Alla fine trovarono una povera fanciulla in cucina che disse: "O Dio! L'usignolo: lo conosco, e come canta bene. Ogni sera ho il permesso di portare un po' degli avanzi a casa, alla mia povera mamma malata che vive giù vicino alla spiaggia, e quando al ritorno, stanca, mi fermo a riposare nel bosco, sento cantare l'usignolo. Mi vengono le lacrime agli occhi, è come se la mia mamma mi baciasse!". "Povera sguattera" esclamò il luogotenente "ti darò un posto fisso in cucina e ti permetterò di assistere al pranzo dell'imperatore se ci porterai dall'usignolo, dato che è stato convocato per questa sera." Così tutti si diressero nel bosco, dove di solito cantava l'usignolo; c'era mezza corte. Sul più bello una mucca cominciò a muggire. "Oh!" dissero i gentiluomini di corte "eccolo! C'è una forza straordinaria in un animale così piccolo; certo l'ho sentito prima!" "No! Sono le mucche che muggiscono" spiegò la piccola sguattera "siamo ancora lontani." Allora le rane gracidarono nello stagno. "Bello!" disse il cappellano di corte cinese "ora lo sento, sembrano tante piccole campane!" "No! Sono le rane" esclamò la fanciulla. "Sentite, sentite! Eccolo lì" e indicò un piccolo uccello grigio tra i rami. "È possibile?" disse il luogotenente "non me lo sarei mai immaginato così. Come è modesto! Ha certamente perso i suoi colori nel vedersi intorno tanta gente distinta." "Piccolo usignolo!" gridò la fanciulla a voce alta "il nostro clemente imperatore desidera che tu canti per lui!" "Volentieri!" rispose l'usignolo, e cantò che era un piacere sentirlo. "È come se fossero campane di vetro!" commentò il luogotenente. "E guardate quella piccola gola, come si sforza! È stranissimo che non l'abbiamo mai sentito prima! Avrà sicuramente successo a corte." "Devo cantare ancora una volta per l'imperatore?" chiese l'usignolo, convinto che l'imperatore fosse presente. "Mio eccellente usignolo!" disse il luogotenente "ho il grande piacere di invitarla a una festa a corte, questa sera, dove lei incanterà la Nostra Altezza Imperiale con il suo affascinante canto!" "È meglio tra il verde!" rispose l'usignolo, ma li seguì ugualmente volentieri quando seppe che l'imperatore lo desiderava.

    Al castello avevano fatto grandi preparativi. Le pareti e i pavimenti, che erano di porcellana, brillavano, illuminati da migliaia di lampade d'oro; i fiori più belli, quelli che tintinnavano, erano stati messi lungo i corridoi; c'era un correre continuo e una forte corrente d'aria, e così tutte le campanelline si misero a suonare e non fu più possibile capire niente. In mezzo al grande salone dove stava l'imperatore era stato collocato un trespolo d'oro, su cui l'usignolo doveva posarsi c'era tutta la corte, e la piccola sguattera aveva avuto il permesso di stare dietro alla porta, dato che era stata insignita del titolo di «sguattera imperiale». Tutti indossavano i loro abiti migliori e tutti guardarono quel piccolo uccello grigio che l'imperatore salutò con un cenno. L'usignolo cantò così deliziosamente che l'imperatore si commosse, le lacrime gli corsero lungo le guance, allora l'usignolo cantò ancora meglio e gli andò dritto al cuore. L'imperatore era così soddisfatto che diede ordine che l'usignolo portasse intorno al collo la sua pantofola d'oro. L'usignolo ringraziò ma disse che aveva già avuto la sua ricompensa. "Ho visto le lacrime negli occhi dell'imperatore, questo è il tesoro più prezioso per me. Le lacrime di un imperatore hanno una potenza straordinaria. Dio sa che sono già stato ricompensato!" E cantò di nuovo con la sua dolcissima voce. "È la più amabile civetteria che io conosca!" dissero le dame di corte e si misero dell'acqua in bocca per fare glug, quando qualcuno avesse rivolto loro la parola, così credevano di essere anche loro degli usignoli. Anche i lacchè e le cameriere cominciarono a essere soddisfatti, e questa non è cosa da poco perché sono le persone più difficili da soddisfare. Sì, l'usignolo portò davvero la gioia! Ora sarebbe rimasto a corte, in una gabbia tutta d'oro e con la possibilità di passeggiare due volte di giorno e una volta di notte. Ebbe a disposizione dodici servitori e tutti avevano un nastro di seta con cui lo tenevano stretto, dato che i nastri erano legati alla sua zampina. Non era certo un divertimento fare quelle passeggiate! Tutta la città parlava di quel meraviglioso uccello, e quando due persone si incontravano uno non diceva altro che: "Usi" e l'altro rispondeva: "Gnolo!" e poi sospiravano comprendendosi reciprocamente; undici figli di droghieri ricevettero il nome di quell'uccello, ma non uno di essi ebbe il dono di cantare bene.

    Un giorno arrivò un grande pacco per l'imperatore, con scritto sopra: «Usignolo». "È sicuramente un nuovo libro sul famoso uccello!" esclamò l'imperatore; ma non era un libro, era invece un piccolo oggetto chiuso in una scatola: un usignolo meccanico, che doveva somigliare a quello vivo ma era ricoperto completamente di diamanti, rubini e zaffiri. Non appena lo si caricava, cominciava a cantare uno dei brani che anche quello vero cantava, e intanto muoveva la coda e brillava d'oro e d'argento. Intorno al collo aveva un piccolo nastro su cui era scritto: «L'usignolo dell'imperatore del Giappone è misero in confronto a quello dell'imperatore della Cina». "Che bello!" dissero tutti, e colui che aveva portato quell'usignolo meccanico ebbe il titolo di Portatore imperiale di usignoli. "Ora devono cantare insieme! Chissà che duetto!" Cantarono insieme, ma non andò molto bene, perché il vero usignolo cantava a modo suo, quello meccanico invece funzionava per mezzo di cilindri. "Non è colpa sua!" spiegò il maestro di musica "tiene bene il tempo e segue in tutto la mia scuola!" Così l'usignolo meccanico dovette cantare da solo. Ebbe lo stesso successo di quello vero, ma era molto più bello da guardare: brillava come i braccialetti e le spille. Cantò per trentatré volte sempre lo stesso pezzo e non era affatto stanco; la gente lo avrebbe ascoltato volentieri di nuovo, ma l'imperatore pensò che ora avrebbe dovuto cantare un po' l'usignolo vero... ma dov'era finito? Nessuno aveva notato che era volato dalla finestra aperta, verso il suo verde bosco. "Guarda un pò!" esclamò l'imperatore; e tutta la corte si lamentò e dichiarò che l'usignolo era un animale molto ingrato. "Ma abbiamo l'uccello migliore!" dissero, e così l'uccello meccanico dovette cantare ancora e per la trentaquattresima volta sentirono la stessa melodia, ma non la conoscevano ancora completamente, perché era molto difficile, il maestro di musica lodò immensamente l'uccello e assicurò che era migliore di quello vero, non solo per il suo abbigliamento e i bellissimi diamanti, ma anche internamente. "Perché, vedete, Signore e Signori, e prima di tutti Vostra Maestà Imperiale, con l'usignolo vero non si può mai prevedere quale sarà il suo canto; in questo uccello meccanico invece tutto è stabilito. Così è e non cambia! Ci si può rendere conto di come è fatto, lo si può aprire e si può capire come sono collocati i cilindri, come funzionano e come si muovono, uno dopo l'altro." "È proprio quello che penso anch'io!" esclamarono tutti, e il maestro di musica ottenne il permesso, la domenica successiva, di mostrare l'uccello al popolo. "Anche loro devono sentirlo cantare" disse l'imperatore, e così lo sentirono e si divertirono tantissimo, come si fossero ubriacati di tè, il che è una cosa prettamente cinese. Tutti esclamarono: "Oh!" e alzarono in aria il dito indice, che chiamano «leccapentole», e assentirono col capo. Ma i poveri pescatori che avevano sentito l'usignolo vero, dissero: "Canta bene, e assomiglia all'altro, ma manca qualcosa, anche se non so che cosa!". Il vero usignolo venne bandito da tutto l'impero. L'uccello meccanico fu posto su un cuscino di seta vicino al letto dell'imperatore; tutti i regali che aveva ricevuto, oro e pietre preziose, gli furono messi intorno, e gli fu dato il titolo di «Cantore imperiale da comodino»; nel protocollo fu messo al primo posto a sinistra, perché l'imperatore considerava quel lato più nobile, essendo il lato del cuore: e anche il cuore di un imperatore infatti sta a sinistra. Il maestro di musica scrisse venticinque volumi sull'uccello meccanico, molto eruditi e lunghi e espressi con le parole cinesi più difficili, che tutti dissero di aver letto e capito, perché altrimenti sarebbero parsi sciocchi e sarebbero stati picchiati sulla pancia.

    Passò così un anno intero; l'imperatore, la corte e tutti gli altri cinesi conoscevano ogni minimo suono della canzone dell'uccello meccanico, e proprio per questo pensavano che fosse così bella: infatti potevano cantarla anche loro, insieme all'uccello, e così facevano. I ragazzi di strada cantavano: "Zi zi zi! glu glu glu!" e lo stesso cantava l'imperatore. Era proprio bello! Ma una sera, mentre l'uccello meccanico cantava meglio che poteva, e l'imperatore era a letto a ascoltarlo, si sentì svup!; nell'uccello era saltato qualcosa: trrrr! tutte le ruote girarono, e poi la musica si fermò. L'imperatore balzò fuori dal letto e chiamò il suo medico, ma a che cosa poteva servire? Allora chiamò l'orologiaio che, dopo molti discorsi e visite, rimise in sesto in qualche modo l'uccello, ma disse che bisognava risparmiarlo il più possibile, perché aveva i congegni consumati e non era possibile metterne di nuovi senza rischiare di rovinare la musica. Fu un grande dolore! Si poteva far suonare l'uccello meccanico solo una volta l'anno, e con fatica, ma il maestro di musica tenne un discorso con parole difficili e disse che tutto era uguale a prima, e difatti tutto fu uguale a prima.

    Passarono cinque anni e tutto il paese ebbe un grande dolore perché in fondo tutti amavano il loro imperatore; e lui era malato e non sarebbe vissuto a lungo, si diceva; un nuovo imperatore era già stato scelto e il popolo si riuniva per la strada e chiedeva al luogotenente come stava il loro imperatore. "P!" diceva lui scuotendo il capo. L'imperatore stava pallido e gelido nel suo grande e meraviglioso letto. Tutta la corte lo credeva morto e tutti corsero a salutare il nuovo imperatore; i servitori uscirono per parlare dell'avvenimento e le cameriere s'erano trovate in compagnia per il caffè. In tutti i saloni e i corridoi erano stati messi a terra dei drappeggi, affinché non si sentisse camminare nessuno, e per questo motivo c'era silenzio, molto silenzio. Ma l'imperatore non era ancora morto; rigido e pallido stava nel suo bel letto con le lunghe tende di velluto e i pesanti fiocchi dorati. In alto c'era la finestra aperta e la luna illuminava l'imperatore e l'uccello meccanico. Il povero imperatore non riusciva quasi a respirare, era come se avesse qualcosa sul petto; spalancò gli occhi e vide che la morte sedeva sul suo petto e s'era messa in testa la sua corona d'oro. In una mano teneva la spada d'oro e nell'altra una splendida insegna; tutt'intorno, dalle pieghe delle grandi tende di velluto del letto, comparivano strane teste, alcune orribili, altre molto dolci: erano tutte le azioni buone e cattive dell'imperatore, che lo guardavano, ora che la morte poggiava sul suo cuore. "Ti ricordi?" sussurrarono una dopo l'altra. "Ti ricordi?" e gli raccontarono tante e tante cose che il sudore gli colava dalla fronte. "Non l'ho mai saputo!" diceva l'imperatore. "Musica musica, il grande tamburo cinese!" gridava "per non sentire quello che dicono!" Ma loro continuarono e la morte faceva di sì con la testa a tutto quello che veniva detto. "Musica! Musica!" gridò l'imperatore. "Tu, piccolo uccello d'oro canta, forza, canta! Ti ho dato oro e oggetti preziosi, ti ho appeso personalmente la mia pantofola d'oro al collo, canta dunque, canta!" Ma l'uccello stava zitto, non c'era nessuno che lo caricasse e quindi non poteva cantare. La morte invece continuò a guardare l'imperatore con le sue enormi orbite cave, e stava in silenzio, in un silenzio spaventoso. In quel momento si sentì vicino alla finestra un canto mirabile; era il piccolo usignolo vivo che stava seduto sul ramo lì fuori; aveva sentito delle sofferenze dell'imperatore e era accorso per infondergli col canto consolazione e speranza Mentre lui cantava, quelle immagini diventavano sempre più tenui, il sangue si mise a scorrere con più forza nel debole corpo dell'imperatore, e la morte stessa si mise a ascoltare e disse: "Continua, piccolo usignolo, continua!". "Solo se mi darai la bella spada d'oro, se mi darai quella ricca insegna, se mi darai la corona dell'imperatore!" E la morte gli diede ogni cimelio in cambio di una canzone, e l'usignolo continuò a cantare, e cantò del tranquillo cimitero dove crescevano le rose bianche, dove l'albero di sambuco profumava e dove la fresca erbetta veniva innaffiata dalle lacrime dei sopravvissuti; allora la morte sentì nostalgia del suo giardino e volò via, come una fredda nebbia bianca, fuori dalla finestra. "Grazie, grazie!" disse l'imperatore. "Piccolo uccello celeste, ti riconosco! Ti avevo bandito dal mio regno e ciò nonostante col tuo canto hai allontanato le cattive visioni dal mio letto, e hai scacciato la morte dal mio cuore. Come potrò ricompensarti?" "Mi hai già ricompensato!" rispose l'usignolo. "Ho avuto le tue lacrime la prima volta che ho cantato per te, non lo dimenticherò mai! Questi sono i gioielli che fanno bene al cuore di chi canta! Ma adesso dormi e torna a essere forte e sano: io canterò per te." Cantò di nuovo, e l'imperatore cadde in un dolce sonno, in un sonno tranquillo e ristoratore. Il sole entrava dalla finestra quando lui si svegliò, guarito e pieno di forza; nessuno dei suoi servitori era ancora tornato perché credevano che fosse morto, ma l'usignolo era ancora lì a cantare. "Dovrai restare con me per sempre!" disse l'imperatore. "Canterai solo quando ne avrai voglia, e io farò in mille pezzi l'uccello meccanico." "Non farlo!" gridò l'usignolo. "Ha fatto tutto il bene che poteva. Conservalo come prima. Io non posso vivere al castello, ma permettimi di venire quando ne ho voglia, allora ogni sera mi poserò su quel ramo vicino alla finestra e canterò per te, perché tu possa essere felice e riflettere un po'. Ti canterò delle persone felici e di quelle che soffrono. Ti canterò del bene e del male intorno a te che ti viene tenuto nascosto. L'uccellino che canta vola ovunque, dal povero pescatore alla casa del contadino, da tutti quelli che sono lontani da te e dalla tua corte. Io amo il tuo cuore più della tua corona, anche se la corona ha qualcosa di sacro intorno a sé. Verrò a cantare per te! Ma mi devi promettere una cosa." "Qualunque cosa!" rispose l'imperatore, ritto negli abiti imperiali che aveva indossato da solo, la pesante spada d'oro sul cuore. "Ti chiedo una sola cosa! Non raccontare a nessuno che hai un uccellino che ti riferisce tutto, così le cose andranno molto meglio!" E l'usignolo volò via. I servitori entrarono per vedere il loro imperatore morto; restarono impalati quando l'imperatore disse: "Buongiorno!".

    (H.C.Andersen)
     
    Top
    .
  8. gheagabry
     
    .

    User deleted



    Fiabe Classiche

    Il vento racconta di Valdemar Daae e delle sue figlie
    Quando il Vento corre sull'erba, allora questa si increspa come l'acqua quando corre sul grano, allora questo ondeggia come un lago, questa è la danza del Vento; ascoltalo quando racconta: esso racconta cantando, e risuona diversamente tra gli alberi della foresta che tra aperture, fenditure e crepe del muro. Vedi come lassù il Vento dà la caccia alle nuvole come se fosse un gregge di pecore! Senti come il Vento quaggiù urla attraverso il portone aperto come se fosse il guardiano notturno che suona il corno! Esso urla in modo strano giù nel comignolo e dentro al caminetto; per questo il fuoco divampa e scintilla, illumina quasi interamente la stanza e si sta tanto bene seduti al caldo ad ascoltare. Devi soltanto lasciar raccontare il vento: esso conosce le fiabe e le storie, più di tutti noi insieme. Ascolta ora come racconta:

    "Ffu-u-o-ri! scomparire!" - ecco il ritornello della canzone.

    "Vi è sulle rive dello stretto del grande Belt una vecchia proprietà con i muri spessi e rossi!" dice il Vento, "ne conosco ogni pietra, vidi ognuna di esse prima quando stava nella fortezza di Marsk Stig il traditore sul promontorio; questa dovette essere tirata giù! la pietra venne rimessa e diventò un nuovo muro, una nuova proprietà, altrove, fu la proprietà di Borreby, corre si presenta ancora oggi! Ho visto e conosciuto i signori e le signore di alto lignaggio, le famiglie cbe si sono alternate per abitarvi, ora racconto di Valdemar Daae e delle sue figlie! Egli teneva la testa così alta, era di stirpe regale! era capace di ben altre cose che non di dare la caccia al cervo e di vuotare un boccale; - in fondo si potevano arrangiare da soli, diceva lui stesso. La sua sposa avanzava dritta, con una veste di seta ricamata d'oro in casa, sul pavimento lucido a disegni; le tappezzerie erano magnifiche, i mobili costosi, erano intagliati con grande arte. Ella aveva portato argenteria e oro in casa; in cantina vi era la birra tedesca quando c'era qualcosa; neri cavalli focosi nitrivano nella stalla; la ricchezza era grande nella proprietà di Borrreby quando c'era la ricchezza. E vi erano bambini; tre belle fanciulle, Ide, Johanne e Anna Dorothea: ricordo ancora i nomi. Era gente ricca, era gente distinta, nata e cresciuta nella magnificenza! "Ffuu-o-ri! scomparire!" cantò il Vento e poi raccontò di nuovo. "Qui non vidi, come nelle altre vecchie proprietà, l'illustre signora seduta nella sala dei cavalieri con le sue ragazze a girare la rocca, ella suonava il liuto melodioso accompagnandolo col suo canto, non sempre però con i vecchi canti danesi, ma con canzoni in lingua straniera. Vi era vita e festa, venivano ospiti distinti da vicino e da lontano, la musica risuonava, i boccali risuonavano, non riuscii a coprire le loro voci!" disse il Vento. "Vi era superbia insieme a spavalderia e chiasso, signori, ma non vi era Nostro Signore! Era proprio la vigilia della festa di maggio", disse il Vento, "io venni da Ovest, avevo visto le navi ridotte a carcasse sulla costa occidentale dello Iutland, mi ero affrettato passando sulla brughiera e sulla costa verde di boschi, passando sull'isola di Fionia, e passavo ora sullo stretto del Grande Belt, a tutta velocità e soffiando forte.

    Poi mi misi a riposare sulla costa dell'isola di Selandia, vicino alla proprieú di Borreby, dove il bosco aveva ancora querce magnifiche. I giovani garzoni della zona vennero qui fuori a raccogliere cime e rami, i più grandi e i più secchi che potessero trovare. Se li portarono in città, ne fecero un cumulo, vi appiccarono fuoco, e le ragazze e i garzoni danzarono intorno cantando. Io stavo fermo", disse il Vento, "ma piano piano toccai un ramo, quello posto dal più bello dei garzoni; la sua legna avvampò, emettendo la fiamma più grande; egli fu l'eletto, ebbe il nome d'onore di Re della foresta, fu il primo a scegliere tra le ragazze la sua compagna, l'Agnellina della festa; la gioia e l'allegria furono più grandi lì di quelle nella ricca proprietà di Borreby." "E alla proprietà arrivò in una carrozza dorata con sei cavalli la nobile siruora e le sue tre figlie, tanto fini, tanto giovani, tre deliziosi fiori: la rosa, il riglio e il giacinto pallido. La madre stessa era un tulipano vanitoso, non salutò una sola persona di tutta la schiera che fermò il suo gioco per fare la riverenza e mostrarle rispetto, si dovette credere che la signora fosse di gambo fragile. La rosa, il giglio e il giacinto pallido, sì, li vidi tutti e tre! di chi sarebbero un giorno state l'Agnellina della festa, pensai; il loro Re della festa sarà un cavaliere orgoglioso, forse un principe! - Ffu-u-o-ri - scomparire! scomparire!

    Si, la carrozza proseguì con loro e la danza proseguì con i contadini. L'estate fu portata a cavallo nel paese di Borreby, di Tjaereby, in tutti i paesi lì intorno. Ma di notte, quando mi alzai", disse il Vento, "la signora di alto lignaggio si mise a letto per non alzarsi mai più; fu presa così come tutti gli uomini tengono presi, non è una novità. Valdemar Daae stette tutto serio e pensoso per un breve momento; l'albero più orgoglioso può essere piegato ma non rotto, disse una voce dentro di lui; le figlie piansero e nella proprietà tutti si asciugarono gli occhi, ma la signora Daae era scomparsa, - e io scomparii! ffu-u-o-ri!", disse il Vento. "Tornai, tornai spesso, sopra l'isola di Fionia e l'acqua dello stretto del Belt, mettendomi seduto sulla spiaggia di Borreby, vicino al meraviglioso bosco di querce; lì il falco pescatore, il colombaccio, i corvi blu e perfino la cicogna nera costruiscono i loro nidi. Era la prima parte dell'anno, alcuni avevano le uova e alcuni avevano i piccoli. Ebbene, come volavano, come strillavano; si sentirono colpi d'ascia, colpo dopo colpo; il bosco andava abbattuto, Valdemar Daae voleva costruirsi una nave preziosa, una nave da guerra con tre castelli di prua che il re probabilmente avrebbe comprato, ed ecco perché il bosco, il segno dei marinai, la casa degli uccelli, andava abbattuto. L'averla volò via spaventata, il suo nido venne distrutto; il falco pescatore e tutti gli uccelli del bosco persero la loro casa, volarono dappertutto insicuri strillando di angoscia e di rabbia, io li capii anche troppo bene. Le cornacchie e le taccole gridarono ad alta voce per scherno: ' Fuori dal nido! Fuori dal nido! Frò! Frò!".

    E in mezzo al bosco, con la schiera dei braccianti, stette Valdemar Daae e le sue tre figlie, e risero tutti degli strilli selvaggi degli uccelli, ma la sua figlia minore, Anna Dorothea, sentì la desolazione nel suo cuore a causa di tutto questo, e quando vollero pure abbattere un albero mezzo morto sul cui ramo spoglio la cicogna nera aveva costruito il suo nido, e dove i piccoli sporgevano la testa, ella pregò per questa, pregò con le lacrime agli occhi. E così l'albero ebbe il permesso di rimanere in piedi con il nido per la cicogna nera. Era solo una piccola cosa. Tagliavano, segavano, si costruiva una nave con tre castelli di prua. Il costruttore stesso era di famiglia umile ma di aspetto nobile; gli occhi e la fronte parlavano di quanto fosse intelligente e Valdemar Daae amava sentirlo raccontare, lo fece anche la piccola Ide, la maggiore, la figlia quindicenne: e mentre egli costruiva la nave per il padre, costruì per se stesso il castello dei suoi sogni, in cui egli e la piccola Ide stavano seduti, marito e moglie, e sarebbe stato anche così se il castello fosse stato di pietre murate con bastione e fosso, con bosco e giardino. Ma con tutta la sua intelligenza il mastro era ugualmente soltanto un misero uccello, e cosa fa il passero in mezzo alla danza delle gru? Ffu-u-o-ri! - io me ne volai via ed egli se ne volò via, e poiché non osò rimanere, e la piccola Ide superò tutto questo, poiché dovette su perarlo !" "Nella stalla i cavalli neri nitrivano, valeva la pena guardarli, e venivano guardati. Il re in persona aveva mandato l'ammiraglio per vedere la nuova nave da guerra e per parlare del suo acquisto, egli parlava ad alta voce in ammirazione dei cavalli impetuosi; lo sentii bene!" disse il Vento; "seguii i signori attraverso la porta aperta seminando le pagliuzze davanti ai loro piedi come stecche d'oro. Valdemar Daae voleva l'oro, l'ammiraglio voleva i cavalli neri, ecco perché egli li lodava, ma ciò non venne capito e allora nemmeno la nave venne comprata, rimase lì, tutta brillante vicino alla riva, coperta da tavole, un'arca di Noè che non venne mai messa in acqua. Ffu-u-ori! scomparire! scomparire! e faceva pietà!

    Al momento dell'inverno, quando i campi erano coperti di neve, il ghiaccio galleggiante riempiva lo stretto del Belt e io l'avevo portato con un soffio sulla riva", disse il Vento, "arrivarono i corvi e le cornacchie, gli uni più neri degli altri, grandi schiere; si sedettero sulla nave deserta, morta, abbandonata vicino al mare e gridarono con voce rauca parlando della foresta che non c'era più, dei tanti preziosi nidi d'uccello che erano rimasti deserti, dei vecchi senza tetto, dei piccoli senza tetto e tutto quello per causa di quella baracca di quella imbarcazione orgogliosa che non avrebbe mai navigato. Io feci turbinare i fiocchi di neve; la neve stava ammucchiata come grandi laghi intorno a essa, coprendola! le feci sentire la mia voce, quello che una tempesta ha da dire; so di aver fatto la mia parte in modo che potesse acquisire delle esperienze di navigazione. Ffu-u-o-ri! scomparire!

    E l'inverno scomparì, l'inverno e l'estate passarono e passano come io passo, come i fiocchi di neve cadono, come i petali del fiore del melo cadono, come fiocchi e come cadono le foglie! scomparire, scomparire, scomparire, anche gli uomini! Ma le figlie erano ancora giovani, la piccola Ide una rosa bella da vedere, come quando la vide il costruttore della nave. Spesso acchiappavo i suoi lunghi capelli marroni quando stava pensosa sotto il melo nel giardino senza sentire che io le seminavo i fiori sui capelli, che si scioglievano, ed ella guardava il sole rosso e il fondo dorato del cielo tra gli alberi e i cespugli scuri del giardino.

    Sua sorella era come un giglio, brillante e dritto, Johanne; aveva un bel portamento e la testa alta, era di gambo fragile come la madre. Passeggiava volentieri nella grande sala, dove erano appesi i ritratti di famiglia; le signore erano rappresentate in velluto e seta con un piccolo cappelletto ricamato con le perle sui capelli intrecciati; erano belle signore! si vedevano i loro mariti vestiti d'acciaio oppure con il mantello prezioso con la fodera in pelle di oiattolo e il collo plissettato blu; la spada era cinta intorno alla coscia e non intorno ai reni. Chissà dove sarebbe stato appeso un giorno il ritratto di Johanne e come si sarebbe presentato il nobile marito? sì, ella pensava a questo, ella ne parlava un pochino, io lo sentii quando corsi per il lungo corridoio dentro la sala per tornarmene indietro!

    Anna Dorothea, il giacinto pallido, soltanto una bambina di quattordici anni, era silenziosa e pensierosa; i grandi occhi blu come l'acqua sembravano pieni di pensieri, ma sulla bocca vi era un sorriso da bambina, non riuscivo a soffiarlo via, e non volevo nemmeno farlo. La incontrai nel giardino, sulla strada infossata e sul campo della proprietà, ella coglieva erbe e fiori, quelle che sapeva che potevano servire a suo padre per le bevande e le gocce, sapeva distillare; Valdemar Daae era orgoglioso e borioso, ma anche informato e sapeva tante cose; lo notavano bene, ne mormoravano; nel suo camino c'era il fuoco acceso anche d'estate; la porta della camera era chiusa; prendeva sempre più sostanza man mano che passavano i giorni e le notti, ma non ne parlava molto; bisogna esplorare le forze della natura in silenzio, presto avrebbe senz'altro scoperto la cosa suprema: l'oro rosso. Per questo il camino fumava, per questo crepitava e vampava! sì, c'ero anch'io!" raccontò il Vento, "lasciamo passare! lasciamo passare! cantavo attraverso il comignolo. Finirà col diventare fumo, puzzo, brace e cenere! Finirai bruciato tu stesso! ffu-u-o-ri! scomparire! scomparire! ma Valdenwr Daae non lasciò che passasse! I meravigliosi cavalli nella stalla, dove erano andati a finire? la vecchia argenteria e gli oggetti d'oro negli armadi e nelle camerette, le mucche nei campi, i beni e la proprietà? - eh sì, potevano essere fusi! fusi nel crogiolo; eppure non se ne sarebbe ricavato l'oro.

    Il granaio e la dispensa, la cantina e la soffitta si vuotarono. Meno gente, più topi. Un vetro si crepò, uno si spaccò, non dovetti più entrare per la porta!" disse il Vento. "Non c'è fumo senza arrosto, il fumo c'era, quello che inghiotte tutti gli arrosti, per l'oro rosso. Io soffiai attraverso il portone del castello come un guardiano notturno che suona il corno, ma non vi era nessun guardiano notturno!" disse il Vento. "Girai il gallo della girotta sulla guglia, essa tuonava come se il guardiano notturno russasse sulla torre, ma non vi era nessun guardiano notturno: erano i ratti e i topi; la miseria apparecchiava la tavola, la miseria stava negli armadi e nella dispensa, la porta si staccava dal perno, venivano fuori fessure e crepe; io entravo e uscivo", disse il Vento, "ecco perché son ben informato!" In mezzo al fumo e alle ceneri, al dolore e alle notti insonni la barba e i capelli intorno alla fronte si incanutirono, la pelle divenne opaca e gialla. Gli occhi cercarono con rapacità l'oro, l'oro atteso. Io gli soffiai il fumo e le ceneri in piena faccia e sulla barba; e al posto dell'oro arrivarono debiti. Cantai attraverso i vetri spaccati e le crepe aperte soffiando fino alla cassapanca delle figlie, dove i vestiti giacevano scoloriti e logori, dovendo continuare a resistere. Sopra la culla di quelle bambine non era stata cantata quella canzone! La vita da signori divenne una vita di miseria! io solo cantavo ad alta voce nel castello", disse il Vento. "Li rinchiusi, bloccati dalla neve, si dice che riscalda; non avevano legna, il bosco da cui avrebbero dovuto prenderla era stato abbattuto. Gelava da spaccare le pietre; svolazzavo attraverso aperture e corridoi, sopra muri laterali e muri maestri per tenermi in forma; là dentro stavano nei loro letti, a causa del freddo, queste nobili figlie; il padre si infilava sotto la coperta di pelle. Niente da maigiare e niente da bruciare, questa sì che è vita da signori! ffu-u-o-ri! lasciamo passare! - Ma il signor Daae non poté! "Dopo l'inverno viene la primavera!" egli disse, "dopo la penuria vengono i tempi buoni! - ma si fanno aspettare! - Ora la proprietà è diventata un'ipoteca! Ora è il momento estremo; e poi arriva l'oro! A Pasqua!"

    Io lo sentii mormorare nella ragnatela, "Tu bravo piccolo tessitore! Tu insegni a perseverare! se la tua tela viene strappata, ricominci di nuovo e finisci! di nuovo strappata - e tu riprendi infaticabile, dall'inizio! - dall'inizio! è quello che bisogna fare! e si viene ricompensati!"

    Era la mattina di Pasqua, le campane suonavano, il sole giocava nel cielo. In un calore febbrile egli aveva vegliato, bollito e raffreddato, mescolato e distillato. Lo sentii che sospirava come un'anima disperata, lo sentii che pregava, ebbi la sensazione che egli trattenesse il respiro. La lucerna si era spenta, egli non se ne accorse; soffiai sui carboni ardenti, essi illuminarono il suo viso bianco come un cencio, che prese un barlume di colore, gli occhi erano affossati nelle orbite,ma ora diventarono più grandi, grandi come se volessero saltare. Guarda, il vetro dell'alchimia lampeggia là dentro! è ardente, puro e pesante! egli lo sollevò con la mano che tremava, egli gridò con la lingua che tremava: "oro! oro!" gli girò la testa alla vista, avrei potuto rovesciarlo con un soffio", disse il vento, "ma soffiai soltanto sui carboni ardenti, lo seguii attraverso la porta fin dentro dove le figlie avevano freddo. La sua tunica era coperta di cenere, stava sulla barba e nei capelli aggrovigliati. Si drizzò molto in alto, sollevò il suo ricco tesoro nel vetro fragile: "trovato! vinto! E' oro!" egli gridò, tese in aria il vetro che lampeggiava nei raggi del sole; e la mano tremolò e il vetro dell'alchimia cadde per terra rompendosi in mille pezzi; si era rotta l'ultima bolla del suo benessere. Ffu-u-o-ri! scomparire! - E io scomparii fuggendo dalla proprietà dell'alchimista.

    Nell'ultima parte dell'anno, durante le giornate brevi quassù, quando la nebbia arriva con la sua spugna e strizza gocce bagnate sulle bacche rosse e sui rami senza foglie, mi sentii di buonumore, cambiai l'aria, spazzai col soffio il cielo e ruppi i rami marciti, e non è un grande lavoro, però va fatto. Fu fatto anche un altro tipo di pulizie dentro alla proprietà di Borreby da Valdemar Daae. Il suo nemico, Ove Ramel da Basnaes, si presentò e aveva pagato l'ipoteca sulla proprietà e sui mobili. Io tambureggiai sui vetri spaccati, battei le porte caduche, fischiai attraverso i crepacci e le fessure: -Ffu-i! -. Al Signor Ove non dovette venire voglia di rimanervi. Ide e Anna Dorothea piansero lacrime di afflizione; Johanne stette dritta e pallida, si morse il pollice finché sanguinò, che bell'aiuto! Ove Ramel concesse al signor Daae di rimanere nella proprietà vita natural durante, ma non ebbe ringraziamenti per la proposta; io ascoltai il seguito; vidi il signore privo di proprietà alzare la testa più orgoglioso, battere un colpo con la nuca e io battei contro la proprietà e contro i vecchi tigli, così che il ramo più grosso si ruppe, e non era marcito; esso giacque davanti al portone come una scopa, nel caso in cui qualcuno volesse dare una pulita, e si diede una pulita; difatti lo sapevo!

    Fu una giornata dura, un momento teso per resistere, ma l'animo era forte e la nuca rigida. Non possedevano niente tranne i vestiti che avevano addosso; ah sì, il vetro di alchimia appena comprato e riempito con i resti raschiati da terra; il tesoro che prometteva ma non manteneva. Valdemar Daae lo nascose nel petto, prese poi il suo bastone in mano e il signore, ricco un tempo, uscì con le sue due figlie dalla proprietà di Borreby. Io soffiai aria fredda sulle sue guance ardenti, accarezzai la sua barba grigia e i suoi lunghi capelli bianchi, cantai meglio che potei: -Ffu-u-o-ri! scomparire! scomparire! - Fu la fine della ricca magnificenza. Ide e Anna Dorothea camminavano accanto a lui, ciascuna da un lato: Johanne si girò nel portone, a che cosa poteva servire, la fortuna non volle girare. Ella guardò le pietre rosse del muro della fortezza di Marsk Stig, se pensava alle figlie di lui: "La maggiore prese per mano la più piccola, E viaggiarono per il vasto mondo!". Le veniva in mente quella canzone; - qui erano in tre, - vi era il padre con loro! - Camminavano per la via dove erano passati in carrozza, facevano la strada dei mendicanti col padre, fino al campo di Smidstrup, fino alla casa di travi e argilla, affittata per dieci marchi all'anno, il nuovo maniero con le pareti spoglie e i vasi vuoti. Le cornacchie e le taccole volavano sopra di loro gridando, come per scherno: "Fuori dal nido! Fuori dal nido! Frò! frò!" come gli uccelli gridarono nel bosco di Borreby quando gli alberi vennero abbattuti. Il Signor Daae e le sue figlie lo sentirono perfettamente. Io soffiai intorno alle orecchie, non era possibile ascoltarlo.

    Poi entrarono nella casa di travi e argilla sul campo di Smidstrup, e io corsi affrettato sopra pantani e campi, attraverso cespugli nudi e scarne foreste verso le distese di acque, altri paesi. Ffu-u-o-ri! scomparire! scomparire questo in tutti questi anni!"

    Come andarono le cose per Valdemar Daae, come andarono per le sue figlie, il Vento racconta: "L'ultima che vidi, sì, l'ultima volta, fu Anna Dorothea, il giacinto pallido: ora era vecchia e curva, era passato mezzo secolo. Visse più a lungo. Ella sapeva tutto. Sulla brughiera vicino alla città di Viborg, vi era la fattoria nuova e bella del decano del capitolo con pietre rosse e con la punta del muro laterale a gradoni; il fumo usciva tutto denso dal comignolo. La dolce signora e le sue figlie sedevano nella veranda a guardare sopra alla spina Christi che peadeva la brughiera marrone -! Che cosa cercavano lì con lo sguardo? Cercavano il nido della cicogna là fuori sulla casa cadente. Il tetto era di muschio e semprevive, quello che ce n'era, quello che soprattutto servì come copertura fu il nido della cicogna, ed esso fu l'unico a essere mantenuto, e la cicogna ebbe la manuntenzione. Era una casa da guardare, non da toccare; io dovevo andare con cautela, disse il vento. "La casa fu lasciata per il nido di cicogna, altrimenti aveva aspetto spaventoso per la brughiera. La famiglia del decano non volle cacciare via la cicogna, così la catapecchia ebbe il permesso di rimanere e la poveretta lì dentro ebbe il permesso di starci; ella poteva ringraziare l'uccello egiziano per questo (oppure fu un ringraziamento perché ella una volta pregò per il nido del suo nero fratello selvatico nel bosco di Borreby?) Ella, allora, poveretta, era una giovane bambina, un giacinto fine e pallido nel nobile orto. Ella si ricordava tutto: Anna Dorothea." "Oh! oh! -, sì, gli uomini sono capaci di sospirare come il vento in mezzo ai giunchi e alle canne. Oh! Nessuna campana suonò sulla tua tomba, Valdemar Daae! Gli scolari poveri non cantarono quando il signore di Borreby dei giorni passati fu messo sotto terra! -Oh, tutto finisce, anche la miseria! La sorella Ide divenne la moglie di un contadino, e fu per nostro padre la prova più dura! Il marito della figlia, un misero servo, cui il proprietario del maniero poteva per punizione far montare il duro cavallo di legno! Ora sarà sotto terra? e anche tu? Ide! - Ebbene sì! ebbene sì! e ancora non è finita, povera me, tutta vecchia! Povera me, tutta misera! Libera me, potente Cristo!"

    Questa fu la preghiera di Anna Dorothea nella misera casa dove aveva il permesso di rimanere a causa della cicogna. "Io mi occupai della più sana delle sorelle!" disse il vento, "le si tagliarono vestiti, secondo il suo animo alla nascita! venne come misero garzone per arruolarsi dal capitano; era di poche parole, dall'aria ingrugnata, ma disposta a fare il suo lavoro; però non era capace di arrampicarsi; così io la gettai col soffio in mare, prima che qualcuno avesse capito che fosse femmina, e questo è stato senz'altro ben fatto da parte mia!" disse il Vento. "Fu una mattina di Pasqua come quella quando Valdemar Daae pensava di aver trovato l'oro rosso, quando sentii da sotto il nido della cicogna tra le pareti fragili, un canto di salmi, l'ultimo canto di Anna Dorothea. Non c'erano finestre di vetro, c'era soltanto un buco nella parete; il sole entrò come una zolla d'oro e si pose lì dentro; fu un vero splendore! I suoi occhi si spezzarono, il suo cuore si spezzò! L'avrebbero fatto lo stesso, anche se il sole quella mattina non l'avesse illuminata.

    La cicogna le diede un tetto per la morte, e io cantai sulla sua tomba!" disse il vento, "cantai sulla tomba di suo padre, io so dove sta e dove sta la tomba di lei, altrimenti proprio nessuno lo saprebbe. Tempi nuovi, altri tempi! la vecchia via pubblica finisce in un campo chiuso, tombe protette diventano strade maestre trafficate, e ben presto arriva il vapore con la sua fila di carrozze a rugliare sopra le tombe, dimenticate come lo sono i nomi.

    Questa è la storia di Valdemar Daae e delle sue figlie. Raccontatela meglio, voialtri, se potete!" disse il Vento rigirandosi. E così dicendo era sparito.

    (H.C.Andersen)
     
    Top
    .
  9.  
    .
    Avatar


    Group
    moderatori
    Posts
    19,944
    Location
    Zagreb(Cro) Altamura(It)

    Status
    Offline
    grazie gabry
     
    Top
    .
  10. gheagabry
     
    .

    User deleted



    Fiabe Classiche

    I vestiti nuovi dell'imperatore
    Molti anni fa viveva un imperatore che amava tanto avere sempre bellissimi vestiti nuovi da usare tutti i suoi soldi per vestirsi elegantemente. Non si curava dei suoi soldati né di andare a teatro o di passeggiare nel bosco, se non per sfoggiare i vestiti nuovi. Possedeva un vestito per ogni ora del giorno e come di solito si dice che un re è al consiglio, così di lui si diceva sempre: "È nello spogliatoio!".

    Nella grande città in cui abitava ci si divertiva molto; ogni giorno giungevano molti stranieri e una volta arrivarono due impostori: si fecero passare per tessitori e sostennero di saper tessere la stoffa più bella che mai si potesse immaginare. Non solo i colori e il disegno erano straordinariamente belli, ma i vestiti che si facevano con quella stoffa avevano lo strano potere di diventare invisibili agli uomini che non erano all'altezza della loro carica e a quelli molto stupidi. ' Sono proprio dei bei vestiti! ' pensò l'imperatore. ' Con questi potrei scoprire chi nel mio regno non è all'altezza dell'incarico che ha, e riconoscere gli stupidi dagli intelligenti. Sì, questa stoffa dev'essere immediatamente tessuta per me! ' e diede ai due truffatori molti soldi, affinché potessero cominciare a lavorare. Questi montarono due telai e fecero finta di lavorare, ma non avevano proprio nulla sul telaio. Senza scrupoli chiesero la seta più bella e l'oro più prezioso, ne riempirono le borse e lavorarono con i telai vuoti fino a notte tarda. ' Mi piacerebbe sapere come proseguono i lavori per la stoffa ' pensò l'imperatore, ma in verità si sentiva un pò agitato al pensiero che gli stupidi o chi non era adatto al suo incarico non potessero vedere la stoffa. Naturalmente non temeva per se stesso; tuttavia preferì mandare prima un altro a vedere come le cose proseguivano. Tutti in città sapevano che straordinario potere avesse quella stoffa e tutti erano ansiosi di scoprire quanto stupido o incompetente fosse il loro vicino. ' Manderò il mio vecchio bravo ministro dai tessitori ' pensò l'imperatore ' lui potrà certo vedere meglio degli altri come sta venendo la stoffa, dato che ha buon senso e non c'è nessuno migliore di lui nel fare il suo lavoro. '

    Il vecchio ministro entrò nel salone dove i due truffatori stavano lavorando con i due telai vuoti. ' Dio mi protegga! ' pensò, e spalancò gli occhi ' non riesco a vedere niente! ' ma non lo disse. Entrambi i truffatori lo pregarono di avvicinarsi di più e chiesero se i colori e il disegno non erano belli. Intanto indicavano i telai vuoti e il povero ministro continuò a sgranare gli occhi, ma non poté dir nulla, perché non c'era nulla. ' Signore! ' pensò ' forse sono stupido? Non l'ho mai pensato ma non si sa mai. Forse non sono adatto al mio incarico? Non posso raccontare che non riesco a vedere la stoffa! ' "Ebbene, lei non dice nulla!" esclamò uno dei tessitori. "È splendida! Bellissima!" disse il vecchio ministro guardando attraverso gli occhiali. "Che disegni e che colori! Sì, sì, dirò all'imperatore che mi piacciono moltissimo!" "Ne siamo molto felici!" dissero i due tessitori, e cominciarono a nominare i vari colori e lo splendido disegno. Il vecchio ministro ascoltò attentamente per poter dire lo stesso una volta tornato dall'imperatore, e così infatti fece.

    Gli imbroglioni richiesero altri soldi, seta e oro, necessari per tessere. Ma si misero tutto in tasca; sul telaio non giunse mai nulla, e loro continuarono a tessere sui telai vuoti. L'imperatore inviò poco dopo un altro onesto funzionario per vedere come proseguivano i lavori, e quanto mancava prima che il tessuto fosse pronto. A lui successe quello che era capitato al ministro; guardò con attenzione, ma non c'era nulla da vedere se non i telai vuoti, e difatti non vide nulla. "Non è una bella stoffa?" chiesero i due truffatori, spiegando e mostrando il bel disegno che non c'era affatto. ' Stupido non sono ' pensò il funzionario ' è dunque la carica che ho che non è adatta a me? Mi sembra strano! Comunque nessuno deve accorgersene! ' e così lodò la stoffa che non vedeva e li rassicurò sulla gioia che i colori e il magnifico disegno gli procuravano. "Sì, è proprio magnifica" riferì poi all'imperatore. Tutti in città parlavano di quella magnifica stoffa. L'imperatore volle vederla personalmente mentre ancora era sul telaio. Con un gruppo di uomini scelti, tra cui anche i due funzionari che già erano stati a vederla, si recò dai furbi truffatori che stavano tessendo con grande impegno, ma senza filo. "Non è magnifique?" esclamarono i due bravi funzionari. "Sua Maestà guardi che disegno, che colori!" e indicarono il telaio vuoto, pensando che gli altri potessero vedere la stoffa. ' Come sarebbe! ' pensò l'imperatore. ' Io non vedo nulla! È terribile! sono forse stupido? o non sono degno di essere imperatore? È la cosa più terribile che mi possa capitare '. "Oh, è bellissima!" esclamò "ha la mia piena approvazione!" e ammirava, osservandolo soddisfatto, il telaio vuoto; non voleva dire che non ci vedeva niente. Tutto il suo seguito guardò con attenzione, e non scoprì nulla di più; tutti dissero ugualmente all'imperatore: "È bellissima" e gli consigliarono di farsi un vestito con quella nuova meravigliosa stoffa e di indossarlo per la prima volta al corteo che doveva avvenire tra breve. "È magnifique, bellissima, excellente" esclamarono l'uno con l'altro, e si rallegrarono molto delle loro parole.

    L'imperatore consegnò ai truffatori la Croce di Cavaliere da appendere all'occhiello, e il titolo di Nobili Tessitori. Tutta la notte che precedette il corteo i truffatori restarono alzati con sedici candele accese. Così la gente poteva vedere che avevano da fare per preparare il nuovo vestito dell'imperatore. Finsero di togliere la stoffa dal telaio, tagliarono l'aria con grosse forbici e cucirono con ago senza filo, infine annunciarono: "Ora il vestito è pronto". Giunse l'imperatore in persona con i suoi illustri cavalieri, e i due imbroglioni sollevarono un braccio come se tenessero qualcosa e dissero: "Questi sono i calzoni; e poi la giacca, e infine il mantello!" e così via. "La stoffa è leggera come una tela di ragno! si potrebbe quasi credere di non aver niente addosso, ma e proprio questo il suo pregio!". "Sì" confermarono tutti i cavalieri, anche se non potevano vedere nulla, dato che non c'era nulla. "Vuole Sua Maestà Imperiale degnarsi ora di spogliarsi?" dissero i truffatori "così le metteremo i nuovi abiti proprio qui davanti allo specchio."

    L'imperatore si svestì e i truffatori finsero di porgergli le varie parti del nuovo vestito, che stavano terminando di cucire; lo presero per la vita come se gli dovessero legare qualcosa ben stretto, era lo strascico, e l'imperatore si rigirava davanti allo specchio. "Come le sta bene! come le dona!" dissero tutti. "Che disegno! che colori! È un abito preziosissimo!" "Qui fuori sono arrivati i portatori del baldacchino che dovrà essere tenuto sopra Sua Maestà durante il corteo!" annunciò il Gran Maestro del Cerimoniale. "Sì, anch'io sono pronto" rispose l'imperatore. "Mi sta proprio bene, vero?" E si rigirò ancora una volta davanti allo specchio, come se contemplasse la sua tenuta. I ciambellani che dovevano reggere lo strascico finsero di afferrarlo da terra e si avviarono tenendo l'aria, dato che non potevano far capire che non vedevano niente. E così l'imperatore aprì il corteo sotto il bel baldacchino e la gente che era per strada o alla finestra diceva: "Che meraviglia i nuovi vestiti dell'imperatore! Che splendido strascico porta! Come gli stanno bene!". Nessuno voleva far capire che non vedeva niente, perché altrimenti avrebbe dimostrato di essere stupido o di non essere all'altezza del suo incarico. Nessuno dei vestiti dell'imperatore aveva mai avuto una tale successo. "Ma non ha niente addosso!" disse un bambino. "Signore sentite la voce dell'innocenza!" replicò il padre, e ognuno sussurrava all'altro quel che il bambino aveva detto. "Non ha niente addosso! C'è un bambino che dice che non ha niente addosso" "Non ha proprio niente addosso!" gridava alla fine tutta la gente. E l'imperatore, rabbrividì perché sapeva che avevano ragione, ma pensò: ' Ormai devo restare fino alla fine '. E così si raddrizzò ancora più fiero e i ciambellani lo seguirono reggendo lo strascico che non c'era.

    (H.C.Andersen)
     
    Top
    .
  11. gheagabry
     
    .

    User deleted


    AP289961142919

    Ritrovato un racconto inedito di Andersen
    «La Candela di Sego» è stato scovato in uno scatolone
    dallo storico Esben Brage nell'ottobre scorso



    È la storia di una candela e del suo splendore ritrovato, l’ultimo inedito di Hans Christian Andersen che anticipa, molto anni prima, molti temi cari alla sensibilità dello scrittore danese. Il manoscritto, intitolato «La Candela di Sego», è stato esaminato da numerosi esperti e pare proprio che si tratti di un'opera giovanile del celebre autore di fiabe, scritta intorno al 1820 (periodo della vita di Andersen, nato nel 1805, che coincide con la frequentazione del liceo). Il quotidiano danese Politiken ne ha pubblicato una versione integrale tradotta in inglese e uno dei più autorevoli esperti dell'opera letteraria del favolista danese, Ejnar Stig Askgaard, ha definito la scoperta sensazionale, aggiungendo di "non nutrire alcun dubbio sul fatto che l'autore della favola sia Hans Christian Andersen".

    Esben Brage stava rovistando tra i faldoni e le scatole dell'Archivio Nazionale di Funen quando si è casualmente imbattuto nel manoscritto composto da 700 parole, sul quale era ben visibile una dedica: «Alla signora Bunkeflod, con affetto HC Andersen». Gli esperti ritengono che si possa trattare di una vedova della quale il giovane Christian era solito frequentare la casa, dove leggeva e prendeva in prestito libri.

    LA CANDELA DI SEGO - La breve favola è incentrata su una candela di sego, un grasso di origine animale, figlia di una pecora e di un calderone, nel quale il grasso è stato trasformato in una candela bianca e scintillante. Ma a tanto candore corrisponde una vita di mani sporche che la toccano e la consumano senza nessun amore fino a gettarla via, come un oggetto inutile. La fiaba prosegue con la candela che si interroga tristemente sul significato della propria esistenza. La svolta è l'incontro con quella che gli inglesi chiamano tinder box (una sorta di kit per l'accensione del fuoco con tanto di acciarino ed esca) che accende la candela, donandole la gioiosa possibilità di irradiare per anni la luce intorno a sé.

    Sebbene gli esperti concordino sul fatto che "La Candela di Sego" non abbia la raffinatezza stilistica delle opere più mature del favolista, nella fiaba sono presenti elementi tipici della scrittura di Andersen. Per esempio il tema della bellezza perduta, o ancora inespressa come nel caso de «Il Brutto Anatroccolo», che improvvisamente esplode radiosa, risarcendo il protagonista di un'esistenza grama e solitaria. Un altro indizio è l'abitudine di Andersen (derivata dalla tradizione favolistica che va da Esopo a La Fontaine) di far uso della prosopopea, utilizzando come personaggi delle sue opere animali o oggetti con caratteristiche, dilemmi e difetti tipicamente umani. Insomma, salvo clamorose e inattese smentite, si può tranquillamente dire che è stata pubblicata la «nuova» favola di Hans Christian Andersen.

    (Emanuela Di Pasqua, lettura corriere)
     
    Top
    .
  12. gheagabry
     
    .

    User deleted


    Favole Classiche

    L'abete

    In mezzo al bosco si trovava un grazioso alberello di abete aveva per sé parecchio spazio, prendeva il sole, aveva aria a sufficienza, e tutt'intorno crescevano molti suoi compagni più grandi, sia abeti che pini, ma quel piccolo abete aveva una gran fretta di crescere. Non pensava affatto al caldo sole né all'aria fresca, né si preoccupava dei figli dei contadini che passavano di lì chiacchierando quando andavano a raccogliere fragole o lamponi. Spesso arrivavano con il cestino pieno zeppo di fragole oppure le tenevano intrecciate con fili di paglia, si sedevano vicino all'alberello e esclamavano: "Oh, com'è carino così piccolo!" ma all'albero dispiaceva molto sentirlo.

    L'anno dopo il tronco gli si era allungato, e l'anno successivo era diventato ancora più lungo; guardandone la costituzione si può sempre capire quanti anni ha un abete. "Oh! se solo fossi grosso come gli altri alberi!" sospirava l'alberello "potrei allargare per bene i miei rami e con la cima ammirare il vasto mondo! gli uccelli costruirebbero i loro nidi tra i miei rami e quando c'è vento potrei dondolarmi solennemente, come fanno tutti gli altri." E non si godeva affatto né il sole, né gli uccelli o le nuvole rosse che mattina e sera gli passavano sopra. Quand'era inverno e la neve brillava bianchissima tutt'intorno, arrivava spesso una lepre e con un salto si posava proprio sopra l'alberello. "Che noia!" Ma dopo due inverni l'albero era così grande che la lepre dovette limitarsi a girargli intorno. ' Oh! crescere, crescere, diventare grosso e vecchio, è l'unica cosa bella di questo mondo ' pensava l'albero. In autunno giunsero i taglialegna per abbattere alcuni degli alberi più grandi; questo accadeva ogni anno e il giovane abete,che ormai era ben cresciuto, rabbrividiva al pensiero di quei grandi e meravigliosi alberi che cadevano a terra con un fragore incredibile. I loro rami venivano strappati, così restavano lì nudi, esili e magri che quasi non si riconoscevano più, poi venivano messi sui carri e i cavalli li portavano fuori dal bosco. Dove erano diretti? Che cosa ne sarebbe stato di loro? In primavera, quando giunsero la rondine e la cicogna, l'albero chiese: "Sapete forse dove sono stati portati? Non li avete incontrati?". La rondine non sapeva nulla, ma la cicogna sembrò riflettere un pò, poi fece cenno col capo e disse: "Sì, credo di sì! Ho incontrato molte nuove navi, mentre tornavo dall'Egitto; avevano alberi maestri magnifici: immagino fossero loro, dato che odoravano di abete. Posso assicurarvi che erano magnifici, davvero magnifici!". "Oh, se anch'io fossi abbastanza grande da andare per il mare! Ma com'è poi in realtà questo mare, e a cosa assomiglia?" "È troppo lungo da spiegare!" rispose la cicogna andandosene. "Rallegrati per la giovinezza!" dissero i raggi di sole. "Rallegrati per la tua crescita, per la giovane vita che è in te!" Il vento baciò l'albero e la rugiada riversò su di lui le sue lacrime, ma l'albero non riuscì a capire.

    Quando si avvicinarono le feste natalizie, vennero abbattuti giovani alberelli, che non erano ancora grandi e vecchi come quell'abete, che non riusciva ad avere pace e voleva sempre partire. Questi alberelli, che erano stati scelti tra i più belli, conservarono i loro rami e vennero messi sui carri che i cavalli trascinarono fuori dal bosco. "Dove vanno?" chiese l'abete "non sono più grandi di me, anzi ce n'era uno che era molto più piccolo. Perché conservano i rami? Dove sono diretti?" "Noi lo sappiamo! Noi lo sappiamo!" cinguettarono i passerotti "abbiamo curiosato attraverso i vetri delle finestre, in città. Sappiamo dove vengono portati! Ricevono una ricchezza e uno sfarzo inimmaginabili! Abbiamo visto attraverso le finestre che vengono piantati in mezzo a una stanza riscaldata e decorati con le cose più belle, mele dorate, tortine di miele, giocattoli e molte centinaia di candeline!" "E poi?" domandò l'abete agitando i rami "e poi? Che cosa succede dopo?" "Non abbiamo visto altro. Ma era meraviglioso!" "Magari sarò anch'io destinato a seguire quel destino splendente!" si rallegrò l'abete. "Ed è molto meglio che andare per mare. Che nostalgia! Se solo fosse Natale! Ormai sono alto e sviluppato come gli alberi che erano stati portati via l'anno scorso. Potessi essere già sul carro! E nella stanza riscaldata con quello sfarzo e quella ricchezza! e poi? Poi succederanno cose ancora più belle, più meravigliose; altrimenti perché mi decorerebbero? Deve succedere qualcosa di più importante, di più straordinario, ma che cosa? Come soffro! Che nostalgia! Non so neppure io che cosa mi succede!" "Rallegrati con me!" dissero l'aria e la luce del sole "goditi la tua gioventù qui all'aperto!" Ma lui non gioiva affatto. Cresceva continuamente e restava verde sia d'estate che d'inverno, di un verde scuro, e la gente che lo vedeva esclamava: "Che bell'albero!". Verso Natale fu il primo albero a essere abbattuto. La scure penetrò in profondità nel midollo; l'albero cadde a terra con un sospiro, sentì un dolore, un languore che non gli fece pensare a nessuna felicità era triste perché doveva abbandonare la sua casa, la zolla da cui era spuntato. Sapeva bene che non avrebbe più rivisto i vecchi e cari compagni, i piccoli cespugli e i fiorellini che stavano intorno a lui, e forse neppure gli uccelli. La partenza non fu certo una cosa piacevole. L'albero si riprese solo mentre veniva scaricato con gli altri alberi, quando udì esclamare: "Questo è magnifico! Lo dobbiamo usare senz'altro!". Giunsero due camerieri in ghingheri che portarono l'abete in una grande sala molto bella. Tutt'intorno, sulle pareti, pendevano ritratti e vicino a una grande stufa di maiolica si trovavano vasi cinesi con leoni sul coperchio. C'erano sedie a dondolo divani ricoperti di seta, grossi tavoli sommersi da libri illustrati e da giocattoli che valevano cento volte cento talleri, come dicevano i bambini. L'abete venne messo in piedi in un secchio di sabbia, ma nessuno vide che era un secchio, perché era stato ricoperto di stoffa verde e era stato messo su un grosso tappeto a vari colori. Come tremava l'albero! Che cosa sarebbe accaduto? I camerieri e le signorine lo decorarono. Su un ramo pendevano piccole reti ricavate dalla carta colorata; ognuna era stata riempita di caramelle. Pendevano anche mele e noci dorate, che sembravano quasi cresciute dai rami. Poi vennero fissate ai rami più di cento candeline bianche rosse e blu. Bambole che sembravano vere, e che l'abete non aveva mai visto prima d'allora, dondolavano tra il verde. In cima venne posta una grande stella fatta con la stagnola dorata; era proprio meravigliosa. "Questa sera!" esclamarono tutti "questa sera deve splendere!" ' Fosse già sera! ' pensò l'albero 'se almeno le candele fossero accese presto! Che cosa accadrà? Chissà se verranno gli alberi del bosco a vedermi? E chissà se i passerotti voleranno fino alla finestra? Forse metterò radici qui e resterò decorato estate e inverno! ' Sì! ne sapeva davvero poco! ma gli era venuto mal di corteccia per la nostalgia, e il mal di corteccia è fastidioso per un albero come lo è il mal testa per noi.

    Finalmente vennero accese le candele. Che splendore, che magnificenza! L'albero tremava con tutti i suoi rami finché una candelina appiccò fuoco al verde. Che dolore! "Dio ci protegga!" gridarono le signorine e subito spensero la fiamma. Ora l'albero non osava neppure più tremare. Che tortura! Aveva una gran paura di perdere qualche parte del suo addobbo, ed era molto turbato per tutto quello sfarzo. Si aprirono i due battenti della porta e una quantità di bambini si precipitò nella stanza, sembrava quasi che volessero rovesciare l'albero. Gli adulti li seguirono con prudenza; i piccoli si azzittirono, ma solo per un attimo, poi gridarono nuovamente di gioia facendo tremare tutta la casa. Ballarono intorno all'albero e tolsero, uno dopo l'altro, tutti i regali. ' Che cosa fanno? ' pensò l'albero. ' Che succede? ' Intanto le candele bruciarono fino ai rami, e man mano che si consumarono vennero spente. Poi i bambini ebbero il permesso di disfare l'albero. Gli si precipitarono contro con tale veemenza che l'albero sentì scricchiolare tutti i rami. Se non fosse stato fissato al soffitto con la stella dorata si sarebbe certamente rovesciato. I bambini gli saltellavano intorno coi loro magnifici giocattoli. Nessuno guardò più l'albero, eccetto la vecchia bambinaia che curiosò tra le foglie per vedere se era stato dimenticato un fico secco o una mela. "Una storia! Una storia!" gridarono i bambini trascinando un signore piccoletto ma robusto verso l'albero. Lui vi si sedette proprio sotto e disse: "Adesso siamo nel bosco, e anche l'albero farebbe bene ad ascoltare! Comunque racconterò solo una storia. Volete quella di Ivede-Avede o quella di Klumpe-Dumpe che cadde giù dalle scale, salì sul trono e sposò la principessa?" "Ivede-Avede!" gridarono alcuni; "Klumpe-Dumpe" gridarono altri. Fu un grido solo e solo l'albero se ne stette zitto a pensare: ' Non posso partecipare anch'io? Non posso far più nulla? '. In realtà aveva già partecipato e fatto la parte che gli spettava. L'uomo raccontò la storia di Klumpe-Dumpe che cadde giù dalle scale, salì sul trono e sposò la principessa; i bambini batterono le mani e gridarono: "Racconta, racconta!". Volevano sentire anche quella di Ivede-Avede, ma fu raccontata solo la storia di Klumpe-Dumpe. L'abete se ne stava zitto e pensieroso; gli uccelli del bosco non avevano mai raccontato storie del genere. Klumpe-Dumpe che cade dalle scale e sposa la principessa! Certo: è così che va il mondo! Concluse l'albero, credendo che tutto fosse vero, dato che era stato raccontato da un uomo così per bene. ' Certo! Chi può mai saperlo? Forse cadrò anch'io dalle scale e sposerò una principessa! '. E si rallegrò al pensiero che il giorno dopo sarebbe stato decorato di nuovo con candele, giocattoli, e frutta dorata. ' Domani non tremerò! 'pensò. ' Voglio proprio godermi tutto quello splendore. Domani sentirò ancora la storia di Klumpe-Dumpe e forse anche quella di Ivede-Avede. ' L'albero restò fermo a pensare per tutta la notte. Il mattino dopo entrarono il cameriere e la domestica. "Adesso ricomincia la festa!” pensò l'albero; invece lo trascinarono fuori dalla stanza, su per le scale fino in soffitta e lo misero in un angolo buio dove non arrivava neanche un filo di luce. ' Che significa!? ' pensò l'albero. ' Che cosa faccio qui? Che cosa posso ascoltare da qua? ' Si appoggiò al muro e continuò a pensare. Di tempo ne aveva, passarono giorni e notti e nessuno venne lassù, quando finalmente comparve qualcuno, fu solo per posare delle casse in un angolo. L'albero era ormai nascosto, si poteva pensare che fosse stato dimenticato. ' Adesso è inverno là fuori! ' pensò l'albero. ' La terra è dura e coperta di neve. Gli uomini non potrebbero ripiantarmi, per questo devo rimanere al riparo fino a primavera. Che ottima idea! Come sono bravi gli uomini! Se solo qui non fosse così buio ed io non fossi così solo! Non c'è neppure una piccola lepre! Invece era proprio bello nel bosco quando c'era la neve e la lepre mi passava vicino. Sì, anche quando mi saltava sopra ma allora non mi piaceva. Qui invece c'è una solitudine terribile! ' "Pi! Pi!" esclamò un topolino proprio in quel momento e saltò fuori. Subito dopo ne uscì un altro. Fiutarono l'abete e si infilarono tra i rami. "Fa un freddo tremendo!" dissero i topolini. "Se non fosse per questo freddo, si starebbe bene qui! Non è vero, vecchio abete?" "Non sono affatto vecchio!" replicò l'abete. "Ce ne sono molti che sono più vecchi di me!" "Da dove vieni?" gli chiesero i topolini "e che cosa sai?" Erano infatti terribilmente curiosi. "Raccontaci del posto più bello della terra! Ci sei stato? Sei stato nella dispensa dove c'è il formaggio sugli scaffali e i prosciutti pendono dai soffitto, dove si balla sulle candele di sego, dove si arriva magri e si esce grassi?" "Non lo conosco!" rispose l'albero "ma conosco il bosco, dove splende il sole e dove gli uccelli cinguettano!" e così raccontò della sua gioventù, e i topolini non avevano mai sentito nulla di simile, così lo ascoltarono attentamente e poi dissero: "Oh! Tu hai visto molto! come sei stato felice!". "Io?" esclamò l'abete, pensando a quello che raccontava. "Sì, in fondo sono stati bei tempi!" poi raccontò della sera di Natale, di quando era stato addobbato con dolci e candeline. "Oh!" esclamarono i topolini "come sei stato felice, vecchio abete!" "Non sono per niente vecchio!" rispose l'albero. "Sono venuto via dal bosco quest'inverno! Sono nell'età migliore, ho solo terminato la crescita!" "Come racconti bene!" gli dissero i topolini, e la notte dopo ritornarono con altri quattro topolini che volevano sentire il racconto dell'albero; e quanto più raccontava, tanto più chiaramente si ricordava tutto e pensava: ' Erano proprio bei tempi! Ma ritorneranno, ritorneranno! Klumpe-Dumpe cadde dalle scale e ebbe la principessa; forse anch'io ne sposerò una ' e intanto pensava ad una piccola e graziosa betulla che cresceva nel bosco e che per l'abete era come una bella principessa. "Chi è Klumpe-Dumpe?" chiesero i topolini, e l'abete raccontò tutta la storia; ricordava ogni parola e i topolini erano pronti a saltare in cima all'albero per il divertimento. La notte successiva vennero molti più topi e la domenica giunsero persino due ratti; ma dissero che la storia non era divertente e questo rattristò i topolini che pure, da allora, la trovarono meno divertente. "Lei conosce solo questa storia?" chiesero i ratti. "Solo questa!" rispose l'albero "la sentii durante la serata più felice della mia vita, ma in quel momento non capii quanto era felice." "È una storia veramente brutta! Non ne conosce qualcuna sulla carne e sulle candele di sego? O sulla dispensa?" "No!" rispose l'albero. "Ah, allora grazie!" dissero i ratti e si ritirarono. Anche i topolini alla fine scomparvero e allora l'albero sospirò: "Era molto bello quando si sedevano intorno a me, quei vispi topolini, e ascoltavano i miei racconti. Adesso è finito anche questo! Ma devo ricordarmi di divertirmi, quando uscirò di qui!".

    Che successe invece? Ah, sì! Una mattina presto giunse della gente a rovistare in soffitta. La casse vennero spostate e l'albero fu tirato fuori, lo gettarono senza alcuna cura sul pavimento e subito un cameriere lo trascinò verso le scale dove arrivava la luce del sole. ' Ora ricomincia la vita! ' pensò l'albero, che sentì l'aria fresca e il primo raggio di sole. E così si ritrovò nel cortile. Tutto accadde così in fretta che l'albero non si accorse neppure del suo aspetto; c'era tanto da vedere tutt'intorno. Il cortile confinava con un giardino che era tutto fiorito, le rose pendevano fresche e profumate dalla bassa ringhiera, i tigli erano fioriti e le rondini volavano lì intorno e dicevano: "Kvirre-virre-vit, è arrivato mio marito!" ma non si riferivano all'abete. "Adesso voglio vivere!" gridò lui pieno di gioia e allargò i rami, oh! erano tutti gialli e appassiti; e lui si trovava in un angolo tra ortiche ed erbacce; ma la stella di carta dorata era ancora al suo posto e brillava al sole. Nel cortile stavano giocando alcuni di quegli allegri bambini che a Natale avevano ballato intorno all'albero e ne erano stati tanto felici. Uno dei più piccoli corse a strappare la stella d'oro dall'albero. "Guarda cosa c'è ancora su questo vecchio e brutto albero di Natale!" disse, e cominciò a pestare i rami che scricchiolarono sotto i suoi stivaletti. L'albero guardò quegli splendidi fiori e quella freschezza del giardino, poi guardò se stesso e desiderò di essere rimasto in quell'angolo buio della soffitta. Pensò alla sua gioventù passata nel bosco, alla divertente notte di Natale, e ai topolini che erano così felici di aver sentito la storia di Klumpe-Dumpe. "Finito! finito!" esclamò il povero albero. "Se almeno mi fossi rallegrato quando potevo! finito! finito!" Il cameriere sopraggiunse e tagliò l'albero in piccoli pezzi e ne fece un fascio. Come bruciò bene sotto il grande paiolo; sospirava profondamente e ogni sospiro sembrava una piccola esplosione; attratti da quegli scoppi, i bambini che stavano giocando accorsero e si misero davanti al fuoco e, guardandolo, gridarono: "Pif-pof!", ma a ogni crepitio, che era per lui un sospiro profondo, l'albero ripensava a un giorno d'estate nel bosco, a una notte d'inverno quando le stelle brillavano nel cielo, alla notte di Natale e a Klumpe-Dumpe, l'unica storia che aveva sentito e che sapeva raccontare. E intanto si era consumato tutto. I bambini ripresero a giocare nel cortile e il più piccolo si era messo al petto la stella dorata che l'albero aveva portato nella serata più felice della sua vita; ora questa era finita, e anche l'albero era finito, e così anche la storia: finita, finita, come tutte le storie.

    (H.C.Andersen)
     
    Top
    .
  13.  
    .
    Avatar

    Advanced Member

    Group
    Quelli di sempre
    Posts
    9,662

    Status
    Offline
    Grazie Gabry.. ♥
     
    Top
    .
  14. gheagabry
     
    .

    User deleted


    Favole Classiche

    Il compagno di viaggio (parte I)

    Il povero Giovanni era molto triste perché suo padre era gravemente malato e presto sarebbe morto. Non c'era nessun altro nella stanza oltre a loro due, la lampada sul tavolo si stava spegnendo, e era già sera tardi. «Sei stato un bravo figlio, Giovanni!» disse il vecchio «il Signore ti sarà d'aiuto in questo mondo!» e lo guardò con uno sguardo dolce e serio, poi respirò profondamente e morì; era come se dormisse.


    Giovanni pianse, ora non aveva più nessuno al mondo, né padre né madre, né sorelle né fratelli. Povero Giovanni! Rimase inginocchiato accanto al letto e baciò la mano del padre morto, pianse molte lacrime, ma alla fine gli si chiusero gli occhi e lui si addormentò con la testa sulla dura asse del letto. Fece uno strano sogno: vide che il sole e la luna si inchinavano davanti a lui, vide suo padre ancora vivo e sano e lo sentì ridere, come faceva sempre quando era divertito. Una graziosa fanciulla, con una corona d'oro posata sui bei capelli, tese la mano verso Giovanni, e suo padre esclamò: «Vedi la sposa per te? È la più bella del mondo». Poi si svegliò e tutta quella meraviglia era svanita, suo padre giaceva gelido e senza vita nel letto e non c'era nessun altro; povero Giovanni!

    La settimana dopo il morto venne seppellito; Giovanni camminava proprio dietro la bara, ormai non poteva più vedere il buon padre che gli aveva voluto così bene; sentì che gettavano la terra sulla bara, ne vide un ultimo angolo, ma alla successiva palata di terra anche questo sparì. Era tanto addolorato che gli sembrava che il cuore gli scoppiasse. Tutt'intorno cantavano un salmo, risuonava così dolce che a Giovanni vennero le lacrime agli occhi; pianse e questo gli fece bene. Il sole brillava tra i verdi alberi e pareva volesse dire: “Non devi essere così addolorato, Giovanni! Vedi com'è bello il cielo! Tuo padre è ormai lassù e prega il buon Dio che tutto ti vada bene!” “Voglio restare sempre buono!” disse Giovanni “così anch'io andrò da mio padre e sarà una gioia quando ci rivedremo di nuovo. Quante cose avrò da raccontargli, e lui mi mostrerà tante cose, mi insegnerà tutte le bellezze del cielo, come mi aveva insegnato sulla terra. Oh! sarà proprio una gioia!”. Giovanni immaginò tutto con tanta chiarezza che si ritrovò a sorridere, mentre le lacrime gli scorrevano ancora lungo le guance. Gli uccellini stavano appollaiati sui castagni e cinguettavano, erano contenti anche se erano a un funerale; sapevano che il defunto era ormai su nel cielo, aveva le ali, ali molto più belle e robuste delle loro, e era felice, perché era stato buono sulla terra. Per questo erano contenti. Giovanni li vide volar via dai verdi rami lontano verso il mondo e venne anche a lui voglia di volar via con loro. Prima però tagliò una grande croce di legno da mettere sulla tomba di suo padre e, quando alla sera la portò al cimitero, la tomba era stata ricoperta di sabbia e di fiori. Erano stati certo degli estranei che avevano voluto bene a suo padre, ormai morto. La mattina dopo, molto presto, Giovanni preparò le sue poche cose e nascose nella cintura tutta la sua eredità, cinquanta talleri e poche monete d'argento; con quelli voleva andare per il mondo. Ma prima andò al cimitero, alla tomba di suo padre, recitò il Padre Nostro e disse: «Addio, caro padre! Voglio essere sempre buono, così tu potrai pregare il buon Dio affinché tutto mi vada bene!»

    Nei campi che Giovanni attraversava c'erano bei fiori freschi, illuminati dal sole, che si piegavano al vento come per dire: “Benvenuto nel verde! Non è bello qui?”. Ma Giovanni si voltò ancora una volta per vedere la vecchia chiesa dove da piccolo era stato battezzato, dove ogni domenica era andato col padre e aveva cantato i salmi. Vide così, proprio in cima al campanile, in una fessura, il folletto della chiesa, col suo cappellino rosso a punta: lo teneva sollevato per ripararsi dal sole. Giovanni gli fece un cenno di saluto e il folletto agitò il cappellino rosso, posò una mano sul cuore e gli mandò con le dita tanti baci, per mostrargli quanta fortuna gli augurava e perché facesse un buon viaggio. Giovanni pensò a quante meraviglie avrebbe ora visto nel grande e splendido mondo, e se ne andò lontano, lontano dove non era mai stato prima; non conosceva le città che attraversava, e neppure le persone che incontrava; era circondato da estranei. La prima notte dormì su un mucchio di fieno, non aveva altro giaciglio. Ma gli andò bene ugualmente, anzi pensò che il re non ne aveva certo uno migliore. Il campo, col ruscello, il mucchio dl fieno e il cielo azzurro, era proprio una bella stanza da letto. L'erbetta verde con i fiorellini rossi e bianchi faceva da tappeto, i cespugli di sambuco e le siepi di rose selvatiche erano i mazzi di fiori, e come catino d'acqua c'era il ruscello intero con la sua acqua fresca e trasparente, dove le canne si piegavano dicendo buon giorno e buona sera. La luna fungeva da grande lampada, appesa in alto al soffitto blu, e non appiccava fuoco alle tendine. Giovanni poteva dormire tranquillo e così infatti fece, si svegliò quando il sole si levò in cielo e tutti gli uccellini si misero a cantare: “Buon giorno! Buon giorno! Non sei ancora alzato?” Le campane col loro rintocco invitavano la gente in chiesa, era domenica. Tutti andarono a sentire il pastore e Giovanni li seguì, cantò il salmo e ascoltò la parola di Dio. Gli sembrò di essere nella sua chiesa, dove era stato battezzato e dove aveva cantato i salmi con suo padre. Nel cimitero c'erano molte tombe e su alcune l'erba cresceva alta. Allora Giovanni pensò alla tomba di suo padre, che sarebbe diventata come quelle, poiché lui non poteva più ripulirla dalle erbacce né curarla. Così si mise a strappare l'erba, rialzò le croci di legno che erano cadute e rimise a posto le corone che il vento aveva spostato dalle tombe, e intanto pensava che forse qualcuno avrebbe fatto lo stesso alla tomba di suo padre, ora che non poteva farlo lui. All'ingresso del cimitero c'era un vecchio mendicante, che si reggeva con una stampella: Giovanni gli diede le monete d'argento che aveva con sé e se ne ripartì felice per il vasto mondo.

    Verso sera venne un tempo spaventoso, Giovanni si affrettò perché voleva trovare un rifugio, ma in un attimo fu buio pesto; infine raggiunse una chiesetta che si trovava tutta sola in cima a un'altura, la porta era socchiusa e così egli si infilò dentro: ci sarebbe rimasto finché il brutto tempo fosse passato. “Mi metterò qui in un angolo” pensò “sono proprio stanco e ho bisogno di riposarmi”. Sedette, giunse le mani e recitò la preghiera della sera, e prima ancora di accorgersene, stava già dormendo e sognava, mentre fuori lampeggiava e tuonava. Quando si risvegliò era ancora notte, ma il brutto tempo era passato, ora la luna lo illuminava attraverso la finestra. In mezzo alla chiesa c'era una bara aperta, con dentro un morto, che non era stato ancora seppellito. Giovanni non era affatto spaventato, perché aveva la coscienza tranquilla; sapeva che i morti non fanno del male; sono i vivi, i cattivi, che fanno del male. E proprio due persone, vive e cattive, si trovavano vicine al morto e volevano fare del male, lo volevano togliere dalla bara e gettare fuori dalla chiesa; povero morto! «Perché volete farlo?» chiese Giovanni. «È male! Lasciatelo in pace nel nome di Gesù!» «Oh! Quante storie!» risposero i due malvagi. «Ci ha imbrogliato! Ci doveva dei soldi, e non poté pagarli e adesso per di più è morto, così non avremo più neppure un soldo. Per questo ci vogliamo vendicare, e lui giacerà come un cane fuori dalla chiesa!» «Ho solo 50 talleri» disse Giovanni «è tutta la mia eredità, ma ve li darò volentieri se mi prometterete sinceramente che lascerete in pace quel povero morto. Io ce la farò anche senza quei soldi, ho un fisico forte e sano e il Signore mi aiuterà.» «Va bene» risposero i malvagi «se proprio vuoi pagare il suo debito, non gli faremo niente, puoi stare certo» e presero i soldi che Giovanni offriva, ridendo sguaiatamente della sua bontà, poi se ne andarono. Giovanni ricompose il cadavere nella bara, gli giunse le mani, disse addio e si avviò felice nel grande bosco. Tutt'intorno, dove la luna splendeva tra gli alberi, vide i graziosi elfi giocare e divertirsi in libertà; non si sentivano disturbati perché sapevano che lui era una persona senza colpe, solo le persone cattive non riescono a vedere gli elfi. Alcuni non erano più alti di un dito e avevano i lunghi capelli biondi raccolti con dei pettini dorati; a due a due si dondolavano sulle grosse gocce di rugiada che si trovavano sulle foglie e tra l'erba alta. A volte la goccia scendeva giù, così anche loro cadevano tra i lunghi fili d'erba, e le altre creaturine ridevano facendo un gran chiasso. Com'era divertente! Cantavano e Giovanni conosceva molto bene tutte quelle belle canzoni, che aveva imparato da bambino. Grossi ragni variopinti con una corona d'argento in testa tessevano da un cespuglio all'altro i lunghi ponti pensili e palazzi che, quando cadeva la rugiada, brillavano al chiaro di luna come fossero di vetro. Tutto questo durava finché non sorgeva il sole. Allora i piccoli elfi rientravano nei boccioli dei fiori e il vento portava via i loro ponti e i loro castelli, che si agitavano all'aria come grosse ragnatele. Giovanni era uscito dal bosco quando una possente voce gridò: «Salve, compagno! Dove sei diretto?» «Per il mondo!» rispose Giovanni. «Non ho più né padre, né madre, sono un povero ragazzo, ma il Signore mi aiuterà.» «Anch'io sto andando per il mondo» esclamò lo straniero. «Potremmo proseguire insieme.» «Certo» rispose Giovanni, e così si unirono. Dopo breve tempo erano già molto affiatati, perché erano entrambi due brave persone. Ma Giovanni notò che lo straniero era molto più intelligente di lui, aveva già viaggiato per quasi tutto il mondo e sapeva raccontare di tutte le cose esistenti.

    Il sole era già alto quando sedettero sotto un grosso albero per fare colazione; in quel mentre giunse una vecchia. Era proprio vecchia e camminava tutta curva, si appoggiava a una stampella e portava sulla schiena un fascio di legna da bruciare, che aveva raccolto nel bosco. Il grembiule era sollevato e Giovanni vide che sotto c'erano tre grosse verghe di salice e felce intrecciate. Quando ormai era vicinissima a loro, le scivolò un piede; cadde gridando forte, perché si era rotta la gamba, quella povera vecchia. Giovanni disse subito che dovevano portarla a casa, ma lo straniero aprì il suo fagotto, tirò fuori un barattolo e spiegò che aveva un unguento che le avrebbe subito guarito la gamba, così sarebbe potuta andare a casa da sola, proprio come se non se la fosse mai rotta. Ma pretendeva che lei gli desse le tre verghe che aveva sotto il grembiule. «È un buon prezzo!» commentò la vecchia e fece un cenno strano con la testa. Non era contenta di separarsi dalle sue verghe, ma non era certo piacevole starsene con una gamba rotta. Così gli diede le verghe e non appena l'unguento venne spalmato sulla gamba, la vecchia si rialzò e poté camminare meglio di prima. L'unguento aveva questo potere, ma non era certo qualcosa che si potesse trovare in farmacia! «Cosa vuoi fartene delle verghe?» chiese Giovanni al suo compagno di viaggio. «Sono tre bei manici di scopa, e mi piacciono: sono un tipo strano, io.» Poi proseguirono un altro tratto. «Che tempo si prepara!» disse Giovanni indicando proprio davanti a loro. «Ci sono nuvole terribilmente cariche di pioggia.» «No!» spiegò il compagno di viaggio. «Non sono nuvole, sono montagne. Belle e alte montagne, su cui si sta sopra le nuvole, nell'aria fresca. È proprio splendido, credimi. Domani saremo certamente là.» Non era però vicino come sembrava; ci volle tutto un giorno di cammino prima che arrivassero alle montagne. Là i boschi scuri crescevano proprio verso il cielo, e le pietre erano grosse come villaggi interi. Sarebbe certo stata una bella fatica arrivare fino in cima: Giovanni e il compagno di viaggio si fermarono in una locanda per riposarsi e raccogliere le forze per la camminata dell'indomani. Nel salone della locanda c'erano molte persone perché un uomo faceva il teatro delle marionette. Aveva già preparato il teatro e la gente s'era seduta intorno per vedere lo spettacolo; davanti a tutti sedeva un vecchio e grosso macellaio, che si era assicurato il posto migliore. Il suo grosso mastino – oh! che aspetto feroce! – gli stava seduto accanto e faceva tanto d'occhi, come tutti gli altri … (segue) …

    (H.C.Andersen)

    Favole Classiche

    Il compagno di viaggio (parte II)

    Lo spettacolo cominciò; era una bella storia, con un re e una regina che sedevano su un trono bellissimo, con la corona d'oro in testa e lunghi strascichi ai vestiti, dato che se lo potevano permettere. Le più belle marionette di legno, con occhi di vetro e grandi baffi, stavano alle diverse porte che aprivano e chiudevano per far entrare aria fresca nella stanza. Era proprio una bella commedia, e non era affatto triste; ma quando la regina si alzò e avanzò sul pavimento, il grosso mastino, Dio solo sa che cosa pensava, dato che non era tenuto dal macellaio fece un balzo proprio nel teatrino, prese la regina per la vita sottile e “cric! crac!”: fu proprio terribile! Il povero burattinaio si spaventò molto e si rattristò per la regina, che era la sua marionetta preferita; e ora quel brutto mastino le aveva staccato la testa con un morso! Quando la gente se ne fu andata, lo straniero che era arrivato con Giovanni disse che l'avrebbe riaggiustata. Prese il suo barattolo e unse la marionetta coll'unguento che aveva aiutato la vecchietta con la gamba rotta. Non appena la marionetta fu spalmata, tornò sana e tutta intera, e in più si poteva muovere da sola, senza che si dovessero tirare i fili: era come una persona viva, se solo avesse saputo parlare! Il proprietario del teatro si rallegrò moltissimo di non doverla più guidare, ora che sapeva danzare da sola. Nessuno degli altri era in grado di farlo.

    A notte inoltrata, quando tutti nella locanda erano andati a letto, ci fu uno che sospirò così profondamente e così a lungo che tutti si alzarono per vedere chi fosse. Il burattinaio si diresse verso il teatrino, perché era lì che qualcuno sospirava. Tutte le marionette di legno giacevano una sull'altra, anche il re e il suo seguito; erano loro che sospiravano disperati, con i grandi occhi di vetro spalancati. Volevano anch'essi venire unti un pochino come la regina, affinché anche loro potessero muoversi da soli. La regina era inginocchiata e sollevò la sua bella corona d'oro, pregando: «Prendila, ma ungi il mio sposo e la mia corte!»; il povero burattinaio e tutte le altre marionette non poterono fare a meno di piangere, perché soffrivano veramente. Il burattinaio promise subito al compagno di viaggio che gli avrebbe consegnato tutto l'incasso dello spettacolo della sera dopo, se avesse unto quattro o cinque delle marionette più belle. Il compagno di viaggio replicò che non voleva altro che la grossa spada che lui aveva al fianco; ottenutala, unse sei marionette che subito si misero a danzare così bene che tutte le ragazze, quelle vere, vedendole, si misero a ballare anche loro. Ballarono il cocchiere e la cuoca, ballarono il cameriere e la cameriera, tutti gli stranieri e anche le molle del camino e le palette, ma queste caddero al primo salto. Fu proprio una notte allegra!

    Il mattino dopo Giovanni e il suo compagno di viaggio salutarono gli altri e si incamminarono verso le alte montagne attraverso grandi boschi di abeti. Giunsero così in alto che i campanili che stavano in basso, sotto di loro, sembravano piccole bacche rosse, in mezzo a tutto quel verde, e potevano vedere lontano, per miglia e miglia di distanza, dove non erano mai stati! Tante bellezze di questo mondo meraviglioso Giovanni non le aveva mai viste in una volta sola, il sole scaldava l'aria fresca e si sentivano i cacciatori soffiare i corni tra le montagne. Tutto era così bello e benedetto che gli vennero le lacrime agli occhi per la gioia e non poté trattenersi dall'esclamare: «Oh, buon Signore! Vorrei poterti baciare, perché sei così buono con noi tutti e ci hai donato tutta questa meraviglia che c'è nel mondo!». Anche il compagno ammirava, con le mani giunte, il paesaggio al di là del bosco e delle città, nel caldo sole. In quel momento, sopra di loro, si sentì un suono straordinariamente dolce, guardarono verso l'alto: un grande cigno bianco volava nell'aria, era splendido e cantava come mai avevano sentito cantare nessun uccello, ma divenne sempre più debole, piegò il capo e cadde lentamente ai loro piedi. Lì giacque morto, quel meraviglioso uccello. «Due ali così belle!» esclamò il compagno di viaggio. «Ali così grandi e bianche come quelle di questo uccello valgono molto, le voglio portare con me. Vedi che è stato un bene aver preso la spada» e con un colpo solo tagliò via le due ali del cigno morto e le conservò Camminarono poi per molte altre miglia, oltre le montagne, e alla fine videro davanti a loro una grande città, con più di cento torri che brillavano come argento alla luce del sole. In mezzo alla città si innalzava uno splendido castello di marmo, ricoperto di oro rosso; lì abitava il re. Giovanni e il compagno non vollero entrare subito in città, si fermarono in una locanda un poco fuori, per rimettersi dal viaggio, preferendo apparire in ordine quando fossero andati per le strade. L'oste raccontò che il re era proprio una brava persona e non aveva mai fatto del male a nessuno. Sua figlia invece, Dio ci protegga! era proprio una pessima principessa. Era più che bella, nessuna era graziosa e affascinante come lei, ma a cosa serviva? era proprio cattiva, una strega malvagia, e era colpa sua se molti ottimi principi avevano perso la vita. Aveva permesso a tutti gli uomini di chiederle la mano; chiunque lo poteva, principe o straccione, era lo stesso. Doveva solo indovinare tre cose che lei gli chiedeva; se avesse indovinato, l'avrebbe sposata e sarebbe diventato re di tutto il paese, alla morte del re suo padre, ma se non riusciva a indovinare le tre cose, sarebbe stato impiccato o decapitato; tanto era cattiva la bella principessa! Suo padre, il vecchio re, ne era molto addolorato, ma non poteva impedirle di essere così malvagia, perché una volta aveva dichiarato che non avrebbe mai voluto avere a che fare con i suoi pretendenti: doveva pensarci lei stessa e fare quello che voleva. Nessun principe che aveva tentato di indovinare c'era riuscito, e quindi erano stati tutti impiccati o decapitati. Erano sempre stati avvertiti in tempo, e avrebbero potuto evitare di presentarsi. Il vecchio re era così addolorato per tutte quelle morti e quei drammi che ogni anno per un giorno intero restava in ginocchio con tutti i suoi soldati a pregare affinché la principessa diventasse buona, ma lei non lo voleva affatto. Le vecchie abituate a bere l'acquavite la coloravano di nero, prima di berla, per sembrare anche loro in lutto. Di più non potevano fare. «Che principessa malvagia!» disse Giovanni. «Dovrebbe prendersi qualche vergata, le farebbe bene. Se fossi il vecchio re, allora gliel'insegnerei io!» In quello stesso momento si sentì la folla gridare: Urrà! La principessa passava di lì e era così bella che tutti dimenticarono quanto fosse cattiva, perciò gridavano: Urrà! Dodici graziose damigelle, vestite di seta bianca e con un tulipano giallo in mano, le cavalcavano al fianco montando cavalli neri come il carbone. La principessa invece aveva un cavallo bianco come il gesso, ornato di rubini e diamanti; il suo vestito era d'oro zecchino e la frusta che teneva in mano sembrava fatta coi raggi del sole. La corona d'oro era come fatta da stelline del cielo e il mantello era cucito con più di mille splendide ali di farfalla, ma nonostante tutto, lei era molto più bella dei suoi vestiti.

    Quando Giovanni la vide, divenne tutto rosso in volto, come se colasse sangue, e non poté dire una sola parola. La principessa sembrava proprio quella graziosa fanciulla con la corona d'oro che lui aveva sognato la notte in cui il padre era morto. Gli parve così bella che non poté evitare di volerle bene. Non poteva essere vero, pensava, che fosse una strega malvagia che faceva impiccare o decapitare chi non era in grado di risolvere i suoi indovinelli. «Ciascuno può chiederle la mano, anche il più straccione; voglio andare al castello, non posso farne a meno!» Tutti dissero che non avrebbe dovuto farlo, che gli sarebbe successo come a tutti gli altri. Il compagno di viaggio stesso gli consigliò di rinunciarvi, ma Giovanni era sicuro che sarebbe andata bene; spazzolò le scarpe e il vestito, si lavò il viso e le mani, si pettinò i bei capelli biondi e s'incamminò da solo per la città verso il castello. «Avanti» disse il vecchio re quando Giovanni bussò alla porta. Giovanni aprì e il vecchio re, in vestaglia e con le pantofole ricamate, gli andò incontro. Aveva la corona d'oro sul capo, lo scettro in una mano e il globo imperiale nell'altra. «Aspetta un momento!» disse, e mise il globo sotto l'altro braccio per poter dare la mano a Giovanni. Ma non appena ebbe saputo che era un pretendente, cominciò a piangere così forte che sia lo scettro che il globo gli caddero sul pavimento, e lui dovette asciugarsi gli occhi nella vestaglia. Povero vecchio re! «Lascia perdere!» esclamò «finirai male, come tutti gli altri! Vieni a vedere!» e portò Giovanni nel giardino della principessa. Che orrore! A ogni albero pendevano tre, quattro figli di re che avevano chiesto la mano della principessa ma che non avevano saputo risolvere gli indovinelli. Ogni volta che si alzava il vento, gli scheletri si agitavano e gli uccellini si spaventavano talmente che non osavano più tornare nel giardino. Tutti i fiori avevano come sostegni ossa umane e nei vasi sghignazzavano i teschi. Era proprio un giardino per una principessa! «Vedi!» disse il vecchio re «ti succederà come a tutti gli altri; rinuncia, è meglio! Mi faresti molto infelice, perché io soffro tanto per queste cose!» Giovanni baciò la mano al buon vecchio re e disse che sarebbe certo andato tutto bene, poiché lui amava tanto la bella principessa. In quel mentre la principessa, con tutte le sue damigelle, entrava cavalcando nel cortile del castello, così andarono a salutarla. Era molto graziosa e quando diede la mano a Giovanni, lui la amò ancora più di prima: non poteva essere una strega malvagia, come tutti dicevano di lei. Andarono nel salone dove i paggetti offrirono marmellata e panpepato, ma il vecchio re era così afflitto che non poté assolutamente mangiare nulla: il panpepato poi era troppo duro per lui. Decisero che Giovanni sarebbe tornato al castello il mattino dopo, allora i giudici e tutto il consiglio si sarebbero riuniti per sentire come se la sarebbe cavata con gli indovinelli. Se ci fosse riuscito, sarebbe venuto altre due volte; ma non c'era mai stato nessuno che aveva indovinato la prima volta e così avevano tutti perso la vita.

    Giovanni non era affatto preoccupato di come gli sarebbe andata, era così contento, pensava solo alla bella principessa e era certo che il buon Dio lo avrebbe aiutato, anche se non sapeva che cosa avrebbe dovuto fare e neppure voleva pensarci. Ballò per la strada maestra tornando alla locanda dove lo aspettava il compagno di viaggio. Giovanni non finiva mai di raccontare quanto la principessa era stata gentile con lui, e quant'era bella; aspettava con ansia il giorno dopo, perché sarebbe andato al castello a tentare la sorte con l'enigma. Il compagno scrollò il capo con molta tristezza. «Ti voglio bene» disse «avremmo potuto stare ancora tanto tempo insieme, e invece devo già perderti. Povero caro Giovanni! Vorrei piangere, ma non voglio rovinare la tua gioia l'ultima sera in cui, probabilmente, saremo insieme. Dobbiamo stare allegri, il più possibile. Domani, quando te ne sarai andato potrò finalmente piangere.»

    Tutti gli abitanti della città vennero subito a sapere che era giunto un nuovo pretendente per la principessa, e ci fu per questo grande afflizione. Il teatro venne chiuso, le venditrici di dolci legarono nastri neri ai loro porcellini di zucchero, il re e i preti si inginocchiarono in chiesa; c'era tanta disperazione perché a Giovanni non poteva certo andar meglio che a tutti gli altri pretendenti. A tarda sera il compagno di viaggio preparò un buon punch e disse a Giovanni che dovevano divertirsi e brindare alla principessa. Ma non appena Giovanni ne ebbe bevuti due bicchieri, gli venne un tale sonno che non riuscì a tenere gli occhi aperti; così si addormentò. Il compagno di viaggio lo sollevò dolcemente dalla sedia e lo portò a letto, quando poi fu buio, prese le due grandi ali che aveva staccato dal cigno e se le fissò alle spalle, infilò in tasca la più grossa delle verghe che aveva ricevuto dalla vecchia, aprì la finestra e volò in città, fino al castello. Lì si fermò in un angolo proprio sotto la finestra che portava nella camera da letto della principessa. In tutta la città c'era una quiete straordinaria; la campana batté le undici e tre quarti e la finestra si aprì. La principessa volò, avvolta in un gran mantello bianco e con grandi ali nere sulla città, verso un'alta montagna; il compagno di viaggio si rese invisibile così che lei non lo potesse vedere, e la seguì in volo, colpendola con la verga, finché non uscì sangue dove lui picchiava. Oh! che volo fu quello: il vento soffiava nel suo mantello e lo gonfiava da ogni parte, come fosse stato una grande vela, e la luna brillava attraverso le pieghe. «Come grandina! come grandina!» esclamava la principessa a ogni colpo di verga; le stava proprio bene! Finalmente arrivò alla montagna e bussò. Sembrava che tuonasse quando la montagna si aprì; la principessa entrò e il compagno di viaggio la seguì, dato che nessuno poteva vederlo poiché era invisibile. Passarono attraverso un lungo e ampio corridoio dove le pareti brillavano in modo molto strano: erano ricoperte da migliaia di ragni lucenti che correvano su e giù, facendo luce come il fuoco. Entrarono poi in un grande salone fatto di oro e di argento, con fiori rossi e blu, grossi come girasoli, che brillavano alle pareti. Ma nessuno poteva cogliere quel fiori, perché i gambi erano in realtà ripugnanti serpenti velenosi e i fiori erano il fuoco che usciva dalle loro bocche. Il soffitto era ricoperto di lucciole splendenti e di pipistrelli azzurri che battevano le ali sottili. Che strana visione! In mezzo al salone c'era un trono, sorretto da quattro carcasse di cavallo i cui finimenti erano formati da ragni color rosso fuoco; il trono era di vetro bianco latte e i cuscini per sedersi erano topolini neri che si mordevano la coda a vicenda. Sopra c'era una tettoia di ragnatele rosa, ornata con bei moscerini verdi che brillavano come pietre preziose. Sul trono sedeva un vecchio Troll, con la corona sull'orribile testa e uno scettro in mano. Baciò la fronte della principessa e la fece sedere accanto a lui su quel trono prezioso; in quel momento cominciò la musica.

    Enormi cavallette nere suonavano lo scacciapensieri e il gufo, non avendo un tamburo, si batteva la pancia. Era proprio uno strano concerto. Folletti neri ballavano nel salone, tenendo un fuoco fatuo nel berretto. Nessuno poté scorgere il compagno di viaggio, che si era messo dietro il trono e da lì poteva vedere e sentire ogni cosa. I cortigiani che entrarono in quel momento erano proprio belli e distinti, ma chi era in grado di guardar bene scopriva com'erano fatti. Non erano altro che manici di scopa, con un cavolo in testa; il Troll li aveva stregati dando loro la vita e ricoprendoli di abiti ricamati. Tanto non cambiava niente, erano usati solo per le feste. Quando ebbero ballato un po', la principessa raccontò al Troll che era arrivato un nuovo pretendente e gli chiese a che cosa avrebbe dovuto pensare l'indomani, quando lo avesse ricevuto al castello. «Ascolta!» disse il Troll. «Adesso te lo dico! Devi scegliere qualcosa di molto semplice, così non indovina di certo. Pensa a una tua scarpa: non indovinerà! Poi fagli tagliare la testa, ma non dimenticare, quando domani notte tornerai a trovarmi, di portarmi i suoi occhi, così me li mangio!» La principessa si inchinò profondamente e disse che non avrebbe dimenticato gli occhi. Il Troll riaprì la montagna e lei se ne volò di nuovo a casa, ma il compagno di viaggio la seguì e la colpì con una tale forza con la verga, che lei sospirò profondamente per quella violenta grandinata e si affrettò più che poté a raggiungere la finestra della sua camera; allora il compagno di viaggio tornò alla locanda dove Giovanni ancora dormiva, si tolse le ali e si mise a letto: era stanco e aveva ragione di esserlo.

    Giovanni si svegliò presto il mattino dopo, anche il compagno si alzò e raccontò di aver fatto quella notte un sogno strano con la principessa e la sua scarpa; poi lo pregò di chiedere alla principessa se per caso non aveva pensato alla sua scarpa. Era naturalmente quello che aveva sentito dal Troll nella montagna, ma non voleva raccontarlo a Giovanni, così gli disse solo di chiederle se aveva pensato alla sua scarpa. «Per quanto mi riguarda, posso chiederle qualunque cosa» disse Giovanni «forse è vero quello che hai sognato, e io credo proprio che il Signore mi aiuterà! Ma adesso ti dico addio: se sbaglierò a indovinare, non mi rivedrai mai più.» Si baciarono e Giovanni andò in città, fino al castello. Tutta la sala era piena di gente, i giudici erano seduti in poltrona con cuscini di piuma dietro la testa: avevano tante cose a cui pensare! Il vecchio re si stava asciugando gli occhi con un fazzoletto bianco. Entrò la principessa, era molto più bella del giorno prima e salutò con affetto tutti quanti; a Giovanni invece diede la mano e disse: «Ciao!» Ora Giovanni doveva indovinare quello a cui lei aveva pensato. Lei lo guardava con molto affetto, ma non appena lo sentì pronunciare quella sola parola “Scarpa” impallidì in volto e si mise a tremare per tutto il corpo; ma nessuno poteva aiutarla, perché lui aveva indovinato! Accidenti, come fu contento il vecchio re! Fece una capriola come non aveva mai fatto e tutti batterono le mani sia a lui che a Giovanni, che aveva superato il primo indovinello. Anche il compagno di viaggio fu contento quando venne a sapere che era andata così bene, ma Giovanni giunse le mani e ringraziò il buon Dio che certamente lo avrebbe aiutato anche le altre due volte. Il giorno dopo doveva indovinare di nuovo. La sera andò come quella precedente. Quando Giovanni si addormentò il compagno volò dietro la principessa fino alla montagna e la picchiò ancora più forte del giorno prima: aveva preso due verghe. Nessuno lo vide, ma lui sentì ogni cosa. La principessa doveva pensare al suo guanto, e lui lo raccontò a Giovanni come se fosse stato un sogno; Giovanni indovinò di nuovo e ci fu grande allegria al castello. Tutta la corte fece le capriole, come il re aveva fatto la prima volta, ma la principessa giaceva sul divano e non volle dire una sola parola. Tutto dipendeva dal fatto che Giovanni indovinasse la terza prova. Se ci fosse riuscito, avrebbe sposato la bella principessa e ereditato il regno alla morte del vecchio re; se avesse sbagliato avrebbe perso la vita e il Troll avrebbe mangiato i suoi occhi azzurri. La sera Giovanni andò a dormire presto, recitò la preghiera della sera e dormì abbastanza tranquillo; il compagno di viaggio invece si fissò le ali alla schiena, legò la spada al fianco e prese con sé le tre verghe, poi volò al castello.

    Era una notte veramente buia, c'era una tempesta che staccava le tegole dai tetti, e gli alberi del giardino da cui pendevano gli scheletri ondeggiavano come canne al vento; lampeggiava continuamente e i tuoni si susseguirono senza sosta tutta la notte. Si aprì la finestra e la principessa volò fuori, era pallida come la morte, ma rideva per il brutto tempo; pensava addirittura che non fosse abbastanza cattivo; il suo bianco mantello svolazzava nell'aria come una vela, ma il compagno la colpì così forte con le tre verghe, che il sangue gocciolò sul terreno e lei non riuscì quasi a proseguire il volo. Finalmente giunse alla montagna. «Grandina e c'è tempesta!» disse «non sono mai stata fuori con un tempo simile!» «È vero, il troppo può far male!» commentò il Troll. Lei gli raccontò che Giovanni aveva indovinato anche la seconda volta, e che se l'avesse fatto anche il mattino dopo avrebbe vinto, e lei non sarebbe più potuta venire alla montagna, non avrebbe più potuto compiere i sortilegi, e per tutto questo era molto triste. «Non deve indovinare!» disse il Troll. «Troverò io qualcosa a cui non ha mai pensato! A meno che non sia un mago più potente di me. Ma adesso stiamo allegri!» Prese per mano la principessa e si mise a ballare con tutti i folletti e i fuochi fatui che erano nel salone. I ragni rossi cominciarono a saltare su e giù dalla parete e sembrò che i fiori di fuoco facessero scintille. Il gufo batté il tamburo, i grilli fischiarono e le cavallette nere soffiarono nei loro scacciapensieri. Era proprio un ballo allegro! Quando ebbero ballato abbastanza, la principessa dovette tornare a casa, altrimenti al castello si sarebbero accorti della sua assenza. Il Troll disse che l'avrebbe accompagnata, così sarebbero stati insieme più a lungo. Volarono nel brutto tempo e il compagno consumò le tre verghe sulle loro schiene; mai il Troll aveva provato una tale grandinata! Giunti al castello, egli salutò la principessa e le sussurrò: «Pensa alla mia testa!», ma il compagno sentì ugualmente e non appena la principessa fu entrata di nuovo nella sua stanza, quando il Troll stava girandosi per andarsene, lo afferrò per la lunga barba nera e gli tagliò via l'orribile testa con la spada: il Troll non ebbe neppure il tempo di vederlo. Poi gettò il corpo ai pesci del lago e sciacquò nell'acqua la testa che avvolse nel suo fazzoletto di seta. La portò con sé alla locanda e se ne andò a dormire.

    Il mattino dopo diede a Giovanni quel fazzoletto, ma gli raccomandò di non aprirlo prima che la principessa avesse chiesto a che cosa aveva pensato. C'erano tantissime persone nel grande salone del castello e stavano una sull'altra, come ravanelli legati a mazzi; il consiglio aveva preso posto sulle sedie con quei morbidi cuscini e il vecchio re indossava abiti nuovi, e aveva la corona d'oro e lo scettro lucidati. Stava proprio bene! La principessa invece era pallidissima e indossava un abito nero, come se fosse stata a un funerale. «A che cosa ho pensato?» chiese a Giovanni, che subito aprì il fazzoletto e si spaventò enormemente nel vedere quella orribile testa del Troll. Tutti quanti rabbrividirono, perché era ripugnante a vedersi, ma la principessa impietrì e non riuscì a dire una sola parola; alla fine, si alzò e diede la mano a Giovanni, perché aveva indovinato. Non guardò nessuno, e sospirò profondamente: «Tu sei il mio signore! Stasera celebreremo il matrimonio». «Questo mi piace!» esclamò il vecchio re. «Così deve essere.» Tutti gridarono: Urrà, la banda militare suonò per le strade, le campane suonarono e le venditrici di dolci tolsero i nastri neri ai maialini di zucchero: ora bisognava stare allegri! Tre grossi buoi arrostiti e ripieni di anatre e polli vennero portati in piazza, e ognuno poté prendersene un pezzo; nelle fontane cominciò a scorrere il vino più buono; e se si comprava una ciambellina da un soldo si ricevevano in dono sei grossi panini con l'uva sultanina. Di sera la città venne tutta illuminata, i soldati spararono coi cannoni e i ragazzi i loro petardi, si mangiò e si bevve, si brindò e si ballò al castello, tutti i distinti cavalieri e le graziose damigelle ballarono insieme; fin da molto lontano si poteva sentir cantare:

    Qui ci sono molte graziose fanciulle,
    che vogliono ballare,
    seguono il suono del tamburello
    bella fanciulla girati un po',
    balla e batti il tempo
    finché i tacchi perderai.

    Ma la principessa era ancora una strega e non voleva affatto bene a Giovanni. Il compagno di viaggio lo sapeva e quindi diede al suo amico tre piume delle ali del cigno e una bottiglietta contenente alcune gocce. Gli disse che doveva preparare vicino al letto nuziale una grossa vasca piena d'acqua; quando la principessa voleva andare a letto, doveva darle una spinta e farla cadere nell'acqua, poi doveva immergerla tre volte dopo aver gettato nell'acqua le tre piume e le gocce. In questo modo si sarebbe liberata dall'incantesimo e gli avrebbe voluto molto bene.Giovanni fece tutto quello che il suo compagno gli aveva consigliato. La principessa gridò forte quando venne immersa nell'acqua e gli sfuggì dalle mani nelle sembianze di un grande cigno nero con gli occhi lucenti. Quando poi uscì dall'acqua per la seconda volta era diventata un cigno bianco con un unico anello nero intorno al collo. Giovanni pregò devotamente il Signore e gettò per la terza volta nell'acqua il cigno che in quel momento si tramutò in una splendida principessa. Era ancora più bella di prima e lo ringraziò con le lacrime perché era stata liberata dall'incantesimo.

    Il mattino dopo arrivò il vecchio re con tutta la sua corte e ci furono congratulazioni per quasi tutta la giornata. Per ultimo giunse il compagno di viaggio di Giovanni, col bastone in mano e il fagotto sulle spalle. Giovanni lo baciò più volte e gli chiese di non partire, di rimanere con lui, dato che a lui doveva tutta la sua felicità. Ma il compagno scosse il capo e gli disse con dolcezza e affetto: «No, il tempo a mia disposizione è finito Ho semplicemente pagato il mio debito. Ricordi il morto a cui quegli uomini malvagi volevano fare del male? Tu desti loro tutto quel che possedevi affinché egli potesse riposare in pace nella sua tomba. Quel morto sono io.» In quello stesso momento era sparito!

    I festeggiamenti per il matrimonio durarono un mese intero. Giovanni e la principessa si vollero molto bene e il vecchio re visse molti giorni felici lasciando che i suoi nipotini gli saltassero sulle ginocchia e giocassero col suo scettro; Giovanni diventò re di tutto il paese.

    (H.C.Andersen)
     
    Top
    .
  15. gheagabry
     
    .

    User deleted






    C’era una volta un ago da stuoie, era convinto d’essere sottile, che per poco non si credeva un ago da cucire.
    - Attenzione a tenermi stretto! – disse alle dita che lo tirarono fuori. – Non lasciatemi cadere, altrimenti, per terra, sarà ben difficile trovarmi, sono così sottile!…
    - Andrà come andrà! – risposero le dita, e presero l’ago a mezzo corpo.
    - Ammirate, eh! Ora salgo su con il mio bravo seguito! – disse l’ago da stuoie, e si tirò dietro una lunga gugliata, ma nel filo non c’era nodo.
    Le dita infilarono l’ago proprio nella babbuccia della cuoca, perché la parte superiore della ciabatta era scoppiata e bisognava darvi due punti.
    - E’ un lavoro troppo grezzo – disse l’ago da stuoie – non ne verrò mai a capo! Mi spezzo! Mi spezzo!
    E si ruppe davvero.
    - Ve l’ ho detto! – esclamò – Sono troppo sottile, troppo fino!
    - Ora, non è più buono a nulla! – esclamarono le dita, ma lo tennero stretto ancora un po’, perché la cuoca vi fece cadere delle gocce di cera lacca, e se ne servi come spilla per lo scialle.
    - Sono diventato uno spillo da signora! – disse l’ago da stuoie – immaginavo che avrei fatto carriera! Quando si crede in se stessi si giunge sempre!
    E sorrise pian pianino, tra se, ma non si può mai vedere quando gli aghi ridono. Se ne stava, lì fiero al suo nuovo posto come se conducesse un tiro a quattro e si guardava intorno.
    - Permettete una domanda: siete d’oro? – chiese l’ago allo spillo suo vicino.
    – Fate una splendida figura, si vede che avete testa, anche se siete piccolo. Bisogna che cerchiate di crescere; non a tutti capita la fortuna che la cera lacca piova sul capo!
    L’ago da stuoie alzò la testa con tanta boria, che cadde fuori dallo scialle, e finì proprio dentro l’acquaio, dove la cuoca stava pulendo.
    - Eccomi, partito per un nuovo viaggio! – disse l’ago – speriamo che non mi perda …
    E infatti andò perduto.
    - Sono troppo sottile per questo mondo! – pensava, mentre era in fondo allo scarico. – Ma almeno so chi sono, ed è una consolazione.
    Così l’ago mise da parte i suoi modo superbi, e non perdette il buon umore. Sopra di lui galleggiavano oggetti di tutti i tipi, fuscelli di paglia, vecchi giornali, cenci …
    - Ma guarda come galleggiano! – esclamava l’ago – loro non sanno chi è qui sotto! Ed io sono qui, e resto fermo. Ecco, una pezza che passa, in tutto il mondo trovar altro di meglio a cui pensare che se stesso … una pezza! Un pezzetto di paglia … come gira! E rigira … intorno a se stessa!… pensa a qualcos’altro, piccola! Non avere occhi solo per te stessa o andrai a battere contro qualche pietra … Un pezzetto di giornale che nuota . quello che c’è scritto sopra è bel dimenticato da tutti, e pure si dà certe arie di importanza! Solo io sono qui tranquillo, e paziente. Perché so chi sono, e tale rimango!
    Ma un giorno, gli si posò qualcosa accanto, che luccicava, l’ago lo credette un diamante, ma, non era altro che un pezzetto di vetro di una bottiglia rotta. Ma luccicava … l’ago gli rivolse la parola, e si presentò come spillo da cravatta.
    - Immagino che voi siete un diamante….
    - Si, qualcosa di simile.
    Ognuno dei due credeva che l’altro fosse un oggetto di gran valore, ed iniziarono a parlare di quanta arroganza c’era in giro.
    - Abitavo in una scatola di una signora – narrò l’ago – Questa signora era la cuoca, e aveva cinque dita per ogni mano, e non ho veduto mai tanta boria come in quelle dita, nell’adoperarmi, per tirarmi fuori dalla scatola e nel ripormi, non c’erano che loro.
    - Almeno erano di buona famiglia? Ma eccellevano in qualche virtù? … - chiese il fondo di bottiglia.
    - Che cosa? – esclamò l’ago. – Ma avevano una alterigia … erano dieci fratelli, tutti appartenenti alla famiglia delle dita, ed erano molti uniti fra loro, sebbene fossero di altezza diversa, il signor Pollice, il maggiore, era grasso e piccolo; aveva un solo movimento nella schiena e sapeva fare solo un inchino, e sosteneva che senza di lui nella mano, l’uomo non poteva andare in guerra. Il secondo il signor Leccapiatti, si infilava in tutto, nell’amaro e nel dolce, indicava persino il sole e la luna, e imponeva le sue impressioni quando si scriveva. Il signor Lungo, il terzo, vedeva tutti dall’alto e dal basso. Il quarto Fasciadoro, si vantava perché aveva una cintura dorata stretta alla vita. Il quinto Pierino Balocchino, non aveva nulla da fare tutto il giorno ma era un vanitoso, in quella famiglia non si udivano altro, per questo sono andato via.
    - Ed ora, siamo qui che brilliamo! – disse il fondo di bottiglia.
    In quel momento, entrò più acqua del solito tanto che il fondo di bottiglia fu trasportato via dalla corrente.
    - Lui ha trovato la sua strada – disse l’ago. – Io resto qui sono troppo sottile. Ma è il mio orgoglio.
    E restava lì pensieroso. “ Posso affermare d’essere nato da un raggio di sole, per quanto sono sottile! Tanto che mi pare che i raggi del sole cerchino me, sott’acqua. Sono così sottile, che neanche mia madre riesce a trovarmi! Se avessi ancora il mio vecchio occhio, quello che si è rotto piangerei … no … non lo farei … piangere non è da persone sottili.
    Ma un giorno, due bambini gettati per terra, esploravano nella fogna, dove molte alte volte avevano trovato soldini, vecchi chiodi ed altri tesori.
    - Ahi! … - grido un bambino, che si era punto con l’ago. – Ecco ho trovato un affare per te!
    - Non sono una cosa, sono un signore! – disse l’ago.
    Ma i bambini non l’ascoltarono. La cera lacca si era staccata e lui era diventato nero, ma il nero snellisce, ed egli si sentiva ancora più sottile.
    - Guarda un guscio d’uovo, che naviga! – esclamarono i ragazzi, e appuntarono l’ago in mezzo al guscio d’uovo.
    - Le pareti bianche dell’uovo fanno notare la veste nera. Così va meglio! – disse l’ago felice. – Così mi noto! Speriamo che non soffra il mal di mare!
    Ma non lo soffrì neanche per un attimo.
    - Contro il mal di mare ci vuole uno stomaco d’acciaio e la certezza di avere qualcosa in più degli altri. Così non si soffre e più si è persone sottili, si è più resistenti.
    Ma il guscio d’uovo fece “ Crac”, perché un barattolo che passava di lì l’aveva urtato.
    - Santo Cielo! Come si rimane delusi! – esclamò l’ago – Ora sì che avrò il mal di mare … mi rompo … mi rompo!
    Ma non si ruppe, sebbene una ruota di bicicletta gli passasse sopra. Rimase lì disteso, per molto tempo.

    sii Hans Christian Andersen
     
    Top
    .
36 replies since 31/5/2011, 11:47   3131 views
  Share  
.