tesina-L'antieroe

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    L'antieroe



    L’antieroe e le sue epoche

    • L’eroe nella grecità e l’antieroe nell’Ellenismo

    - Apollonio Rodio e la figura del Giasone delle

    Argonautiche

    - Il Giasone della Medea di Euripide e della Medea di

    Seneca

    • L’età Vittoriana in Inghilterra e Tennyson

    - Ulisse l’eroe romantico e Telemaco l’antieroe vittoriano

    • La filosofia positivista e la caduta degli ideali romantici

    - Comte e il Positivismo Sociale

    - Mill

    - Spencer e il Positivismo Evoluzionistico

    • Il Naturalismo francese e il Verismo italiano, il Verga e “I Malavoglia”

    - Ambientazione storica de “I Malavoglia”

    - ‘Ntoni l’antieroe verista

    • Francisco Goya y Lucientes: “Le fucilazioni del 3 maggio 1808”

    Per poter parlare dell’antieroe, è senza dubbio necessario precisare che cosa sia un eroe e da quale ambiente culturale possa essere generato. Un eroe è un uomo che si distingue per la sua straordinaria virtù e, grazie a questa, riesce a compiere imprese memorabili.

    Durante tutta la storia della cultura occidentale si incontrano molti personaggi di questo tipo e tutti hanno in comune una cosa: l’ambiente culturale in cui nascono. Infatti, è facile notare come tutti i modelli eroici nascano in epoche in cui l’elemento dominante del clima social-culturale è il sentimento e sono presenti grandi ideali.

    Prendiamo, ad esempio, i due poemi epici cardine e inizio della civiltà occidentale: l’Iliade e l’Odissea. In entrambe le opere domina l’ideale eroico della virtù, entrambe le opere sono impregnate e fondate sull’eroismo dei loro protagonisti. Nonostante la problematicità della collocazione cronologica delle due opere, possiamo senza dubbio inserirle all’interno dell’ambiente della grecità arcaica, in un’epoca, quindi, dominata dai sentimenti e dalle pulsioni, dove ancora non si aveva traccia della grande classicità greca del V secolo, fondata sull’equilibrio, sulla ponderazione e sul canone; nell’età omerica dominava un forte individualismo e la ragione era sopraffatta dai sentimenti.

    L’ideale eroico, con origini così remote, attraversa tutta la storia occidentale lungo le varie epoche e si afferma sempre quando il sentimento domina l’ambiente culturale. Un ottimo esempio si può osservare nel XIX secolo quando, come reazione alla centralità della ragione, imposta dall’Illuminismo, nasce quel grande movimento culturale che prende il nome di Romanticismo. Con il Romanticismo si assiste ad un vero e proprio fiorire del sentimento, delle sensazioni, di grandi ideali e con esso nascono nella letteratura grandi figure eroiche (Guglielmo Tell di Shiller, D’Artagnan e Dantès di Dumàs).

    Ma parallelamente alla storia e all’evoluzione dell’eroe, è nato e si è evoluto il suo opposto: l’antieroe. L’antieroe è un personaggio calato in un contesto eroico ma osservato con un’ottica realista. Anche l’antieroe si incontra lungo tutta la storia della cultura occidentale e anch’esso spicca in epoche dove a dominare è sempre uno stesso fattore: non il sentimento, proprio dell’eroe, bensì il suo contrario, la razionalità, il realismo e la mancanza di ideali.

    Se la figura dell’eroe si può trovare in periodi nei quali è presente un sostanziale clima di speranze e di ideali quali sono la grecità antica o il Romanticismo, al contrario l’antieroe spicca in epoche di crisi di ideali.

    Figura paradigmatica di antieroe è certamente il Giasone delle Argonautiche di Apollonio Rodio, che era già stato in qualche modo anticipato da quello che compare nella Medea di Euripide. Infatti, con Euripide si intravede l’inizio della perdita di quegli ideali di virtù che avevano resa grande la Grecia classica, mentre con Apollonio si nota chiaramente come nel III secolo a. C. quegli ideali fossero totalmente svaniti.

    Per quanto riguarda l’età contemporanea, in contrasto con l’eroe romantico, si trova l’antieroe verista o naturalista nato dal Positivismo. Nella letteratura italiana, antieroe verista è senza dubbio ‘Ntoni di padron ‘Ntoni ne “I Malavoglia” di Verga. ‘Ntoni, infatti, è calato in un contesto eroico: la sua famiglia è in crisi ed egli, giovane e in forze, con il suo lavoro potrebbe eroicamente salvare la situazione, ma veristicamente, attratto dalla realtà urbana, cade in una progressiva degenerazione, contribuendo in questo modo al definitivo crollo della sua famiglia. Anche in questo contesto antieroico si può notare come l’epoca, cioè gli anni dell’Italia postunitaria, sia priva di ideali, scettica, pessimistica e dominata da un crudo realismo.

    L’antieroe, dunque, nasce da un contesto culturale dove a dominare è la razionalità, e il sentimentalismo è assente a causa della mancanza di ideali. Un’epoca che presenta queste caratteristiche, come accennavo prima, è senza dubbio l’Ellenismo.

    L’Ellenismo è quel periodo storico che convenzionalmente si suole delimitare tra la morte di Alessandro Magno (323 a. C.) e la conquista romana dell’Egitto (30 a. C.). Il sogno di Alessandro di realizzare un unico impero che unisse i popoli in una grande koinh politico-culturale, fallì, ma solo in parte, infatti, dopo la morte del grande condottiero macedone, quel sogno si rivelò effimero dal punto di vista politico (l’impero venne diviso in vari regni), ma poté tuttavia pienamente realizzarsi sul piano culturale. Infatti, l’esportazione della civiltà greca in terre così lontane dalla madrepatria e la conseguente nascita di un’Ellade sovranazionale, dove il fulcro non è più nella polis, fa nascere nell’uomo greco due sentimenti contrastanti: il cosmopolitismo di un immenso mondo senza confini, dove razze e culture si incontrano, ma anche un forte individualismo volto a ricercare dentro se stesso quei valori perduti che erano propri della polis. Questa nuova situazione produsse una profonda mutazione nell’ambito sociale e culturale: le dottrine filosofiche si spostano principalmente verso la ricerca di una corretta etica individuale; la scienza conosce un grandissimo sviluppo; l’architettura manifesta una tendenza allo scenografico e al grandioso; le arti figurative abbandonano l'ordine e la misura classica per sposare un realismo esasperato della raffigurazione; la letteratura, infine, presenta una ricerca sempre più raffinata ed erudita, in cui importanza primaria assume la ricercatezza dell’elaborazione formale.

    Proprio in quest’ultimo contesto, letterario-culturale, si inserisce la figura di Apollonio Rodio, autore delle Argonautiche, opera che presenta, come dicevo prima, un esempio di antieroe nella figura di Giasone.

    Le notizie riguardo alla vita di Apollonio sono incerte e spesso contraddittorie. Già il suo soprannome di “Rodio” suscita delle perplessità, visto che quasi sicuramente nacque ad Alessandria tra il 295 e il 290 a. C., e sembra derivare da un prolungato soggiorno del poeta sull’isola. Si può ipotizzare che rimase alla guida della biblioteca di Alessandria fino al 247, da quell’anno si trasferì a Rodi e lì vi rimase fino alla morte stimata intorno al 215 a. C.

    La fama di Apollonio è legata, come già detto, alle Argonautiche, un poema scritto in esametri e suddiviso in quattro libri. E’ il solo esempio di poema epico greco giuntoci integro delle produzioni comprese tra le opere omeriche e le Dionisiache di nonno di Panopoli del V secolo d. C. e ciò grazie alla notevole fortuna che ebbe l’opera in età romana e in età medievale.

    L’argomento è costituito dalla celebre spedizione panellenica a cui parteciparono i più valorosi guerrieri della generazione pre-troiana, fra cui Eracle, Polifemo, Peleo, Castore, Polluce e Orfeo; tutti costoro sono detti Argonauti dalla nave Argo con cui il viaggio viene effettuato e sono guidati da Giasone, figlio del re di Iolco cui il fratellastro Pelia ha però sottratto il trono: è proprio quest’ultimo che per sbarazzarsi del nipote gli affida il difficile compito di riprendere il vello d’oro.

    I primi due libri narrano del difficile viaggio degli Argonauti verso la Colchide, sede del vello d’oro, un viaggio ricco di insidie e avventure. Il terzo libro è incentrato principalmente su Medea e il suo amore per Giasone, che la spinge ad aiutare il presunto eroe nel superare le prove per conquistare il vello. Il quarto libro è dedicato al viaggio di ritorno e al rientro in patria degli Argonauti assieme a Medea, sposa di Giasone.

    Il poema è il documento di un continue ed evidente compromesso: fra la tradizione omerica, nella quale il poeta vuole deliberatamente inserirsi, e il desiderio di originalità. Infatti se da una parte sono impiegati tutti i mezzi che Omero aveva ormai reso canonici: interventi degli dei, sogni, prodigi, profezie, mostri; contese, duelli, battaglie; digressioni, descrizioni, catalogo; dall’altro lato queste strutture troppo spesso danno l’impressione di essere intimamente estranee al momento poetico e soprattutto non bastano non solo a far poesia, ma nemmeno un poema. Infatti l’argomento manca di una sua giustificazione e motivazione interiore, il racconto non ha un centro psicologico, gli avvenimenti si susseguono in una sequenza puramente cronologica: il poema è tutto episodico, dall’inizio alla fine, cioè sostanzialmente frammentario.

    La ragione fondamentale è che nel poema manca l’eroe. Giasone, infatti, è rappresentato è rappresentato come l’esatto contrario degli eroi epici omerici: nei momenti decisivi intervengono i filtri di Medea; anche nei vari ostacoli della spedizione c’è sempre qualcuno che provvede per lui. Con Medea, poi, si comporta in maniera spregevole, abusando senza scrupoli del suo ingenuo amore. Mentitore, profittatore, spergiuro, quando ha ottenuto dalla fanciulla ciò che gli serviva, medita certamente di sbarazzarsene, abbandonandola alla vendetta dei Colchi. E qualche accenno sembra mostrare che considera Medea, perdutamente innamorata di lui, nient’altro che un’esaltata pericolosa.

    Come Achille e Odisseo, anche Giasone è espressione coerente di una civiltà, che è quella contemporanea ad Apollonio e i cui valori di fondo egli esprime evitando di identificarsi in eroici ma superati stereotipi culturali. Ma questa visione fortemente antieroica e negativa di Giasone, che finisce col rendere Medea e il suo amore (con una sua descrizione che è la cosa forse poeticamente migliore dell’opera) i veri protagonisti del poema, deriva, oltre che dall’epoca in cui si trovava l’autore, anche dal condizionamento che Apollonio aveva ricevuto dalle opere precedenti, prima fra tutte la Medea di Euripide. Il poeta doveva, infatti, affrontare il non facile compito di far intuire, da una parte nella figura di Medea ancora fanciulla e ignara del suo del suo destino, la grande eroina tragica del dramma euripideo, e dall’altra, nel personaggio di Giasone, il germe di quell’insubordinazione, di quell’incapacità di affrontare direttamente le situazioni, che lo rende, umanamente e moralmente, tanto più debole di Medea. Questo secondo scopo era più facile da raggiungere, poiché, come abbiamo già visto, le caratteristiche principali della figura di Giasone sono l’esitazione, l’incertezza, la sfiducia nelle proprie capacità. Il poeta non dovette far altro che estendere queste peculiarità dal campo dell’azione anche a quello affettivo, attribuendo al protagonista una partecipazione emotiva molto meno intensa di quella di Medea, e suscitando nel lettore l’impressione che, per Giasone, l’eros non sia affatto una devastante passione, ma un utile mezzo per ottenere senza rischi un fine altrimenti irraggiungibile. E in questo intento Apollonio riuscì egregiamente, infatti il lettore riesce facilmente a collegare la figura di Giasone presente nelle Argonautiche con quella presente nella Medea di Euripide, entrambe figure antieroiche e, quindi, consequenziali.

    Il personaggio di Giasone descritto nel dramma euripideo è infatti anch’esso ricco di caratteristiche negative, prima fra tutte il tradimento ai danni di Medea che compie sposando la figlia del sovrano della città, e poi anche il modo in cui cerca di giustificare la sua scelta con Medea, usando la retorica e l’oratoria, mettendo a frutto la sua abilità argomentativa, rinunciando del tutto all’appello genuino e sincero al sentimento; nel celebre agone nel secondo episodio della tragedia, queste caratteristiche spiccano notevolmente ed è forse quella la parte dell’opera in cui la figura di Giasone si manifesta più apertamente facendo trasparire tutte le sue virtù negative e cancellando l’immagine di eroe valoroso che recuperò il vello d’oro.

    Quest’immagine che prima Euripide e poi Apollonio Rodio danno di Giasone, si riflette senza dubbio sui loro posteri, influenzandoli notevolmente. Tra questi, primo fra tutti è Seneca che scrive una Medea che, pur mantenendosi assai vicino al modello euripideo, presenta indubitabili caratteristiche di originalità. Tutte le tragedie senechiane sono ricche di analisi psicologica, di ispirazione morale, di pensiero; Seneca tende a esasperare ogni passione fino all’eccesso, indaga e rappresenta ciò che è più atroce e violento e dà frequentemente nel macabro. Nella Medea, quindi, l’autore latino esaspera la gelosia fino all’eccesso e fino a sfociare nel macabro; in questo modo la figura di Medea acquista una ancor maggiore centralità rispetto alla tragedia euripidea, togliendo contemporaneamente vitalità tragica a Giasone, che qui risulta ancora più inerte e insensibile e scompare quasi totalmente l’abilità retorica che mostrava nella tragedia di Euripide. Qui Giasone sembra sommerso dall’ira di Medea e qui la figura antietroica si esprime totalmente: il grande condottiero, conquistatore del vello d’oro, ricco di eroismo e virtù, è totalmente scomparso per fare posto a un personaggio inerte, incapace e insensibile. Ma anche Seneca, come Euripide e Apollonio, vive in un’epoca particolare, un’epoca che le sue opere, sia “filosofiche”, sia tragiche, rispecchino fedelmente. L’età in cui l’autore latino si trovò a vivere, è storicamente uno dei periodi più critici, sul piano dei valori dello spirito, che Roma abbia attraversato: un’età che assisteva al progressivo disgregamento di ogni senso morale, percorsa dalle più torbide passioni, travolta da un vortice di vita sfrenata. I delitti più atroci erano esemplarmente forniti dalla stessa casa imperiale, dove è possibile trovare l’incesto, il fratricidio, l’uxoricidio e il matricidio impunemente perpetrati; i potenti si compiacevano di far valere la loro forza attraverso le più infami macchinazioni, sapevano intervenire con il veleno dove la spada era meno sicura; e il tradimento era l’arma più certa, l’odio norma di vita.

    I miti tragici che Seneca rispolverava per le sue finzioni drammatiche, prendendoli in prestito dai Greci, si trovavano, quindi, perfettamente ambientati nella Roma dei Cesari: erano simboli facilmente ravvisabili in una realtà storica e in una società che oltretutto si compiaceva di questi riferimenti intellettualistici.

    Così, abbiamo visto che tutti i personaggi antieroici presi in considerazione fino ad ora, nascono in epoche simili per la perdita di valori, più o meno accentuata, e per il conseguente abbandono degli ideali. Se volessimo seguire il corso cronologico delle epoche, ne troveremmo molte simili a quelle citate, ma continuiamo la nostra analisi dell’antieroe analizzando invece l’epoca che in Inghilterra segue il Romanticismo: l’età Vittoriana, Victorian Age.

    Victoria ascended the throne of Great Britain in 1837, when she was only 18. During the “Age of Empire”, as Victorian Age was called, the process of industrialisation, which had started in the previous century, went on unhindered. Britain’s empire continued to prosper and to gather strength and towards the end of the century. But at home the situation was less positive. In the 1870s the country entered a period of political flux, social tensions and economic depression which lasted for the rest of the century because of increased competition from other industrial countries . In 1901 Victoria, the queen whose reign had witnessed so many political and social changes, died.

    The Victorian Age was an age full of contradictions, of widespread industrialisation and technological progress, of extreme poverty and exploitation of factory workers and of affluence for factory owners, of unprecedented social reforms, of scientific discoveries and religious unrest. When queen Victoria came to the throne, the nation could be divided into: the aristocracy, mainly large landowners who held power in Parliament , the middle class, whose increasing wealth and respectability were opening the way to power, and the working class. Industrialisation and technological progress further advanced the position of middle class. By the end of century, they held the power previously held by the aristocracy, and class distinction became more financial then hereditary. The Victorian middle classes were very proud of the nation’s triumphs in technology and engineering which had so changed the look of environment, as well as of its political stability the freedom of its press, its legal system and its position as the most powerful and the wealthiest in the world. Optimism was their dominant mood. They believed their way of life could be exported to all parts of the growing Empire.

    In this period the artists had to conform oneself to the exigencies of this new predominant class, because the susses of the poems or novels or dramas depended completely on sales.

    About poetry, people expected that a poet could reconcile faith and progress, and throw a colouring of romance over the unromantic materialism of modern life.

    The major poet of this age was Alfred Tennyson (with also Robert Browning and Gerard Hopkins).

    Alfred Tennyson was born in 1809 from a traditional family background (his father was a clergyman of Church of England). He was parted educated at home, but later went to Trinity College, Cambridge where he made a particular friend of Arthur Henry Hallam. In 1833 Hallam died suddenly aged only 22. This was perhaps the most important event in Tennyson’s life. He began to make a reputation as poet in 1840s, and in 1850 he was made Poet Laureate, in succession to Wordsworth. He married in the same year and shortly after, settled in the Isle of Wight, he had a peaceful life until his death (1892). His principal works are “In memoriam” (1850, a series of elegies inspired by the Hallam’s death) and “Idylls of the king” (1859-1872, a cycle of tales drawn from the legends of King Arthur); his early works are substantially unimportant, but some poems are different, in particularly “Ulysses”.

    Though “Ulysses” first appeared in 1842, it had been written in 1833, the year of his friends Hallam’s death. The poem is a dramatic monologue in which Ulysses is an old king who is bored with the commonplace life, he leads on Ithaca where he is surrounded by an “aged wife”, a conformist son and a “savage race”. His dissatisfaction with his present life, his regret for his adventurous past and his thirst for knowledge, drive him to “sail out into the west”. He is still a brilliant speaker as he persuades his aged crew to join him. In the poem we can find the typical Tennyson’s delicate ear for the musical value of vowels and consonants and the extremely skill in matching sounds and meanings, and also a theme who symbolised the romantic conception of heroic spirit. But with this heroic conception, that Ulysses impersonate with his refusal of conformity of a Victorian life style, his desire of new adventures and experiences, there’s another idea that Telemachus, the Ulysses’ son, impersonate. In fact in the central part of the poem appear the figure of the son. This figure is what isn’t Ulysses, is the opposite of Ulysses, if Ulysses is a Romantic hero, Telemachus is the typical man of Victorian age, with a quiet temper and a reflective behaviour, if Ulysses is a hero, Telemachus is an antihero. Thelemachus is the good and wise king that Ulysses had never succeeded to embody. So Ulysses is the Romantic hero that people in Victorian Age asked to a poet and is the character in which Tennyson recognise himself, but Telemachus embodies the real man of Victorian Age. With his “Ulysses”, Tennyson wants to said that Romanticism is an age with good ideals, but his age is Victorian Age, with is materialism and positivism.

    Quest’epoca, in cui è proiettato il messaggio di Tennyson, nasce dal tramonto, attorno agli anni ‘40-’50 del XIX secolo, della cultura romantica e dalla sua progressiva sostituzione con quella Positivista. Questo profondo cambiamento della cultura dagli anni Cinquanta in poi, avvenne sotto la spinta di due grandi fenomeni: l’uno fu l’ascesa vertiginosa della borghesia liberale, con la sua ottimistica fiducia nel progresso; l’altro fu l’affermarsi della scienza che aprì grandiosi orizzonti allo sviluppo e alla possibilità per l’uomo di dominare la natura. Il progresso materiale e il benessere apparvero allora prospettive possibili, se collegati allo sviluppo della scienza e ai suoi metodi di conoscenza. Il Positivismo fu il rifiuto di ogni ideale astratto, di ogni retorica, di ogni elemento metafisico, di ogni forma di attività e di pensiero che non si richiamasse alla scienza; fu la negazione di ogni idealizzazione e quindi anche dell’eroe, l’uomo calato in un contesto eroico non diventa un eroe, ma si comporta in modo strettamente realista e diventa un antieroe.

    All’esaltazione degli ideali e delle grandi utopie che avevano permeato la mentalità romantica, subentrò nel secondo Ottocento l’esigenza del reale, del dato di fatto, del positivo.

    Sul piano strettamente filosofico, il Positivismo fu una teoria della conoscenza della realtà, che, utilizzando i metodi della scienza, li applicò poi all’uomo e al suo mondo spirituale. La filosofia del Positivismo, dunque, esalta a dismisura la scienza, vera religione dei tempi moderni, con una fiducia nella liberazione dell’uomo da tutti i suoi mali, nella sua infinita possibilità di progredire e migliorare. Il termine “positivismo” deriva dall’aggettivo “positivo”, inteso come ciò che è realmente esistente, in contrasto con ciò che crea l’uomo. Il Positivismo non è, però, una corrente filosofica omogenea, presenta, infatti, tradizioni di culture differenti tra loro (Francia, Germania, Inghilterra, Italia); nonostante ciò, è però possibile delineare in questa corrente di pensiero dei tratti di fondo comuni:

    - la scienza è l’unica conoscenza possibile e il suo metodo è l’unico valido;

    - la filosofia coincide con la totalità del sapere positivo, la filosofia deve realizzare una conoscenza unificata e generalissima;

    - il metodo della scienza va esteso a tutti i campi, compresi quelli sociali.

    Questa corrente filosofica non nasce, però, senza basi, ha, infatti, analogie sia con l’Illuminismo, sia con il Romanticismo. Dall’ambito illuminista vengono ripresi la fiducia nella ragione e nel sapere, come strumenti di progresso, l’esaltazione della scienza a discapito della metafisica, una forte visione laica della vita, anche se sono indubbie molte differenze come la minor carica polemica positivista, una diversa concezione della filosofia e un'assulutizzazione positivista della scienza. Del romanticismo, invece, si può ritrovare l’esaltazione del sapere positivo, assunto come unica guida e verità della vita umana e il considerare il finito come il manifestarsi di una realtà infinita.

    Il Positivismo presenta due movimenti di fondo: il Positivismo Sociale, tipico della prima parte del secolo, rappresentato da Comte e da Stuart Mill (anche se secondo concezioni divergenti) e il Positivismo Evoluzionistico, rappresentato da Spencer.

    Nato a Montpellier da una famiglia modesta, allievo della famosa Ecole Polytechnique, versato in matematica, August Comte (1798-1857), è l’iniziatore del positivismo francese, il padre ufficiale della sociologia e l’esponente, per certi aspetti, più rappresentativo dell’inizio del pensiero positivista. Comte considera l’evolversi sia della storia, sia di ciascuna branca della conoscenza umana, attraverso tre stadi teorici: lo stadio teologico, lo stadio metafisico e, infine, lo stadio scientifico o positivo. Nello stadio teologico, l’uomo crede che le cause dei fenomeni siano fattori sovrannaturali e in campo politico, esso corrisponde a un sistema monarchico e militare. Nello stadio metafisico, la causa è attribuita a una supposizione astratta o deduttiva e in campo politico ciò corrisponde a un predominio della classe popolare. Nello stadio positivo, lo spirito umano, riconoscendo l’impossibilità di raggiungere nozioni assolute, rinuncia a cercare l’origine e il destino dell’universo e a conoscere le cause intime dei fenomeni e si applica unicamente a scoprire, mediante l’uso del ragionamento e dell’osservazione, le loro leggi effettive; allo stadio positivo, in campo politico, corrisponde l’affermarsi della scienza dell’industria.

    I metodi teologici e metafisici non sono più impiegati in nessun campo, eccetto quello dei fenomeni sociali. La filosofia positiva deve, quindi, sottoporre la società a una rigorosa indagine scientifica, poiché unicamente una società scientifica potrà “essere considerata la sola base solida per la riorganizzazione sociale, che deve chiudere lo stato di crisi in cui si trovano da lungo tempo le nazioni più civili. Per passare da una società di crisi all’ordine sociale, c’è bisogno di sapere. La conoscenza è fatta di leggi provate sui fatti. Quindi occorre trovare le leggi della società, se vogliamo risolvere la crisi”.

    E’ quindi possibile per la sociologia positivista stabilire, attraverso il ragionamento e l’osservazione, le leggi dei fenomeni sociali. La sociologia, o fisica sociale, è divisa da Comte in statica sociale e dinamica sociale, corrispondenti a Ordine e Progresso. La statica sociale studia le condizioni di esistenza comuni a tutte le società, in tutti i tempi. La dinamica sociale consiste nello studio delle leggi di sviluppo della società.. Le vie per il raggiungimento della conoscenza sociologica, sono, ad avviso di Comte, l’osservazione, l’esperimento e il metodo comparativo. Come in biologia, così in sociologia, i casi patologici, alterando il normale nesso degli eventi, sostituiscono in certo qual modo l’esperimento.

    La sociologia si pone al vertice dell’ordinamento delle scienze. A partire dalla loro piattaforma matematica, le scienze positive sono gerarchizzate secondo un grado decrescente di generalità e crescente di complicazione: astrologia, fisica, chimica, biologia, sociologia. Teologia e metafisica non sono scienze positive; la morale è risolta nella sociologia. La psicologia è ridotta in parte alla biologia e in parte alla sociologia. La matematica è la base di tutte le scienze. La filosofia ha il compito di riassumere tutte le scienze secondo caratteri comuni.

    Il concetto fondamentale e conclusivo della filosofia di Comte è quello dell’Umanità, che deve prendere il posto di Dio. Gli individui sono il prodotto dell’umanità, la quale deve essere venerata come una volta lo erano gli dei pagani.

    Il Positivismo di Comte parte dai fatti per giungere alla legge che, una volta formulata, viene dogmatizzata. Diversa è però l’opinione di Stuart Mill (1806-1873), l’altro esponente principale del Positivismo Sociale. Per Mill il richiamo ai fatti è necessariamente continuo, non si può dogmatizzare una legge poiché l’esperienza ci fa osservare solo casi singoli. In questo modo, non essendo possibile formulare leggi universali, il sillogismo diviene privo di senso e sterile. Ogni proposizione universale è, dunque, la generalizzazione di fatti osservati. Che cosa giustifica questa generalizzazione, dato che non potremo mai osservare tutti i fatti? E’ il problema dell’induzione. L’induzione è quell'operazione della mente con cui assumiamo che ciò che sappiamo vero in uno o più casi singoli, sarà vero per tutti i casi rassomiglianti ai primi. Ma qual è il fondamento dell’induzione? Le più ovvie generalità scoperte inizialmente, suggeriscono il principio di uniformità della natura; tale principio, una volta formulato, è posto a fondamento delle generalizzazioni induttive; queste, quando vengono scoperte, attestano il principio di uniformità, per il quale “è una legge che ogni evento dipenda da qualche legge”. La legge che regola l’induzione è dunque l’induzione stessa.

    Dopo la prima metà del XIX secolo, la dottrina positivista da sociale evolve in evoluzionistica. Questo indirizzo assume il concetto di evoluzione come il fondamento di una teoria generale della realtà naturale e scorge nell’evoluzione stessa il manifestarsi di una realtà infinita e ignota. Tale seconda corrente positivista pone il suo fondamento nella teoria evoluzionistica di Darwin. Questa teoria si basa su due fatti:

    - l’esistenza di piccole variazioni organiche che si verificano negli esseri viventi nel corso del tempo e al variare delle condizioni ambientali;

    - la lotta per la vita che si verifica necessariamente tra gli individui viventi.

    Da qui segue la legge della selezione naturale. Partendo da queste basi, Herbert Spencer si propose di elaborare la dottrina del progresso universale e mettere in luce il valore infinito, e quindi religioso, del progresso. Spencer sostiene che la realtà ultima è inconoscibile e che l’universo è un mistero. Questo è attestato, afferma Spencer, sia dalla religione, sia dalla scienza. Infatti, la verità ultima inclusa in ogni religione è che l’esistenza del mondo è un mistero che sempre esige di essere interpretato. Tutte le religioni falliscono nel dare questa interpretazione, poiché le diverse credenze con cui esse si esprimono non sono logicamente difendibili. Anche la scienza, però, urta contro il mistero che avvolge la natura ultima della realtà, di cui essa studia le manifestazioni. Ciò accade perché la nostra conoscenza è chiusa entro i limiti del relativo. In questo modo i fatti vengono spiegati e le spiegazioni vengono a loro volta spiegate, ma ci sarà sempre una spiegazione da spiegare; per questo la realtà ultima è e rimarrà per sempre inconoscibile. Così Spencer concepisce l’Assoluto come la forza misteriosa che si manifesta in tutti i fenomeni naturali e la cui azione è sentita dall’uomo positivamente. Per tutto ciò, religione e scienza sono conciliabili, infatti, ambedue riconoscono l’Assoluto. Però, mentre compito della religione è di mantenere desto il senso del mistero, compito della scienza è di estendere sempre oltre, senza mai cogliere l’Assoluto, la conoscenza del relativo. Considerate la religione e la scienza, Spencer passa ad analizzare le filosofia. La filosofia è la scienza dei primi principi, dove si porta all’estremo limite il processo di unificazione della conoscenza, è la conoscenza completamente unificata. La filosofia deve, perciò, partire da dove si ferma la scienza, ovvero i principi più generali. La sintesi di tutti questi principi è la Legge dell’evoluzione: “L’evoluzione è un’integrazione di materia accompagnata da dispersione di moto; in cui la materia passa da un’omogeneità indefinita, incoerente ad un'eterogeneità definita, coerente, mentre il moto trattenuto subisce una trasformazione parallela”. E’ importante notare, all’interno del pensiero di Spencer, la sua concezione della sociologia. Questa è molto orientata verso l’individualismo e quindi verso la difesa di tutte la libertà individuali. Lo sviluppo sociale deve essere abbandonato alla forza spontanea, poiché l’intervento dello stato all’interno della società ne rallenta l’evoluzione. Importante è anche ricordare come Spencer, a differenza di Comte, ritenga possibile una psicologia oggettiva che studi i fenomeni psichici nel loro substrato materiale e una psicologia soggettiva che si fonda sull’introspezione.

    Quindi le dottrine dei tre filosofi presi in considerazione, anche se, come abbiamo visto, presentano concezioni e caratteri diversi e a volte in netto contrasto fra loro, si fondano su una base che è comune, su un forte ottimismo e su una volontà di scientifizzazione della conoscenza.

    Questo clima culturale e soprattutto questa dottrina filosofica, considerata in tutte le sue sfaccettature ed evoluzioni, condiziona fortemente tutti gli ambiti culturali, non solo le scienze positive, ma anche quelle umanistiche. Tra queste ultime si può osservare la nascita di una nuova letteratura, il Naturalismo in Francia e poco dopo il Verismo in Italia. Entrambe queste correnti, anche se con differenze sostanziali, si propongono di compiere una rappresentazione della realtà del tutto oggettiva; è quindi una letteratura che nega l’eroe e fa dei suoi protagonisti, o meglio dei personaggi calati in contesti eroici, degli antieroi.

    Il trionfo del naturalismo narrativo è il frutto di una vera e propria battaglia condotta in Francia da diversi scrittori; questa battaglia ha le sue prime origini nella difesa del realismo, che si svolge con vigore negli anni Cinquanta e vide come protagonisti i fratelli Jules e Edmond Goncourt, che aprono la letteratura al mondo del proletariato urbano ed esprimono la volontà di un rigoroso studio di ambienti e soprattutto di casi patologici, e Gustave Flaubert che ipotizza uno scrittore che anatomizzi e intervenga sui personaggi con la stessa impersonalità con cui il medico interviene sul corpo dei pazienti, uno scrittore che esclude ogni traccia esplicita della sua presenza. A partire da queste premesse, Emile Zola pubblicò nel 1880 il saggio “Il romanzo sperimentale”, nel quale si definisce il metodo narrativo naturalistico, che segue da vicino gli orientamenti della scienza positivista e mira a sviluppare la narrazione per via “sperimentale”, da premesse che, col loro intreccio, determinano il destino di personaggi e di gruppi sociali. Zola si rivolge in primo luogo, con sguardo lucido e sicuro, allo studio degli aspetti più crudi della realtà, analizzando la vita del proletariato e le diverse forme dello sviluppo industriale borghese; ha un’impronta laica, democratica e progressista e mira, attraverso la conoscenza della realtà sociale, a un miglioramento delle condizioni di vita.

    La produzione narrativa francese e le discussioni ad esso collegate, suscitarono echi continui nel nostro paese, costituendo un punto di riferimento essenziale per la nuova narrativa italiana, tutta più o meno attratta nell’orbita del naturalismo.

    Il Verismo, la cui poetica si viene elaborando tra il ’70 e l’’80, riprende, dunque, modelli e strumenti della cultura del Realismo-Naturalismo francese, non accetta però acriticamente queste influenze culturali, ma le ripensa e le adegua alle condizioni storico-sociali della realtà italiana. Il nostro Verismo, quindi, pur fondandosi su una concezione positivista della realtà e pur trasferendo nell’arte il metodo della scienza, presenta profonde differenze del Naturalismo francese: in primo luogo opera in un contesto agreste, di gran lunga più arretrato dell’ambiente urbanizzato e industrializzato della Francia; in secondo luogo il verismo non accetta il concetto di ereditarietà, né lo scientismo esasperato di Zola.

    La letteratura verista trovò nel mezzogiorno d’Italia un terreno fecondo, essa germogliò rigogliosamente e diede i migliori frutti in Sicilia, col De Roberto, col Capuana e soprattutto col Verga, mentre trascurabile apparve l’apporto letterario delle altre regioni meridionali.

    Giovanni Verga nacque il 2 settembre 1840 a Catania, da una famiglia di piccola nobiltà agraria, di orientamenti liberali e antiborbonici. Da giovane, per lui, politica e letteratura furono, secondo i modi cari della tradizione romantico-risorgimentale, le passioni dominanti. Si impegnò quindi nella duplice attività di scrittore di romanzi storici e patriottici (“I carbonari della montagna”, “Sulle lagune”) e di giornalista politico. Ma nel clima prosaico dell’Italia postunitaria, Verga sperimenta la delusione dei suoi entusiasmi politici e l’inadeguatezza di quella mitologia romantico-passionale che condizionava il suo rapporto con la realtà. Trasferitosi a Firenze nel 1865, si inserì nei salotti intellettuali, partecipando alla vita elegante e mondana. Qui pubblicò il romanzo “Una peccatrice” e “Storia di una capinera”. Nel 1872 si trasferì a Milano, dove rimase fino al 1893. In questa città Verga frequentò gli ambienti artistici legati alla Scapigliatura ed entrò in contatto con la cultura e la narrativa europea; scrisse in questo periodo “Eva”, “Tigre reale” ed “Eros”. Nel 1874, però, con la novella “Nedda”, lo scrittore aveva mutato ambiente e tema. Ma è solo con la raccolta di novelle “Vite dei campi” (1879), con la pianificazione del ciclo de “I vinti” e con la pubblicazione de “I Malavoglia”, che l’adesione alle tesi veriste si espresse nella sua forma più completa. Seguono, poi, altre opere legate al verismo, come le “Novelle rusticane” e il secondo romanzo del ciclo de “I vinti”, “Mastro-don Gesualdo”. Dopo quest’ultimo romanzo, si ritirò a vita privata a Catania, abbandono l’attività di scrittore, vivendo i suoi ultimi anni in modo schivo e riservato.

    Tra i romanzi di Verga prendiamo in considerazione “I Malavoglia”, per analizzarne il contrasto tra coppie di personaggi, in un contesto eroe-antieroe. Innanzitutto è necessario considerare il ruolo del romanzo all’interno di quello che avrebbe dovuto essere il ciclo de “I vinti”. Operando una critica ragionata del Positivismo e del Naturalismo francese, Verga accoglieva esclusivamente i metodi di indagine, ma rifiutava la fiducia nel cambiamento e nel progresso. Egli, infatti, portava l’attenzione, diversamente da altri, non sulle conquiste dello sviluppo, ma sul prezzo che queste comportavano, più che celebrare i vincitori, Verga pone la sua attenzione “ai deboli che restano per via, ai vinti che levano le braccia disperate e piegano il capo sotto il piede brutale dei sopraggiungenti”. I cinque romanzi che dovevano comporre il ciclo, dei quali furono completati solo i primi due e alcuni capitoli del terzo, dovevano rappresentare, a livelli sociali diversi, una serie di esistenze stroncate dal desiderio di affermarsi nella lotta per la vita.

    “I Malavoglia” è il primo romanzo del ciclo e, infatti, si svolge all’interno dello strato sociale più basso: si rappresenta la vita dei pescatori di Aci Trezza e si narra la vicenda della famiglia Toscano, detta Malavoglia, negli anni successivi all’unità d’Italia. La famiglia è guidata dal vecchio padron ‘Ntoni, la barca da pesca “Provvidenza” e la casa patriarcale “del nespolo” costituiscono i mezzi essenziali e i valori di vita della famiglia; ma una serie di disastri (che inizia col tentativo di commerciare un carico di lupini e col naufragio della “Provvidenza” in cui muore il figlio di padron ‘Ntoni, Bastianazzo), porta la rovina economica e la disgregazione della famiglia. I Malavoglia perdono la barca e la casa, il nipote ‘Ntoni, venuto a contatto con l’ambiente urbano in seguito al servizio militare, rifiuta di ritornare al duro lavoro tradizionale che potrebbe risollevare le sorti della famiglia e antieroicamente si dà al contrabbando, a una vita dissipata e finisce in carcere. L’altro nipote, Luca, muore nella battaglia di Lissa; la nipote Lia fugge a Catania dandosi alla prostituzione. Solo dopo lunghi sacrifici, il nipote Alessi riesce a riacquistare la casa del nespolo e a ricostruire gli essenziali valori familiari, ma ciò è funestato dalla morte di padron ‘Ntoni in ospedale, mentre ‘Ntoni, uscito dal carcere, capisce di non poter più restare e abbandona tristemente il suo paese.

    Un elemento fondamentale, sia per capire la vicenda narrata nel romanzo, sia per comprendere l’ambiente in cui si muoveva l’autore, sia per chiarire la vicenda di ‘Ntoni, personaggio che seguiremo per il suo atteggiamento antieroico, è senza dubbio l’epoca in cui si svolge il romanzo. I riferimenti temporali sono pochi ma abbastanza precisi da permetterci di inquadrare la vicenda lungo un intervallo di circa quindici anni a partire dal 1863.Ci troviamo, quindi, nel periodo immediatamente successivo all’unificazione d’Italia, durante il governo della Destra Storica e precisamente la vicenda ha inizio durante il primo governo Minghetti. Un’epoca quindi di grosse difficoltà per il neonato stato italiano, dove innumerevoli erano i problemi e il maggiore di questi era sicuramente la cosiddetta “questione meridionale”. Il sud era, infatti, in tutti i settori, estremamente arretrato rispetto al nord e compito dei governi che si susseguirono in questo periodo fu quello di cercare di colmare questo difetto del meridione. Si cercò di unificare il mercato attraverso l’abolizione dei sistemi doganali tra i vari stati che una volta formavano quella che ora è l’Italia, ma questo significava la non protezione delle economie più deboli e soprattutto di quelle meridionali. Infatti gli industriali del nord consideravano il sud come uno sbocco industriale, i meridionali prima si difendevano con la barriera doganale, che, eliminata, non fece che peggiorare la situazione. Inoltre l’unificazione prevedeva un aumento della pressione fiscale che gravò più sui ceti meno abbienti con una forte imposizione di tasse, ad esempio quella sul macinato. Ad acuire la posizione del sud fu anche l’imposizione del servizio militare obbligatorio che, come vediamo nella vicenda del romanzo, oltre a togliere braccia importanti alle famiglie, spesso traviava i giovani che venivano a contatto con il nuovo mondo urbano borghese. Per tutte queste ragioni la popolazione del mezzogiorno faticò a riconoscersi nel nuovo stato unitario, considerandolo come un estraneo che esigeva tasse e che obbligava i giovani uomini alla leva militare, togliendo braccia all’agricoltura, alla pesca, alle saline e alle miniere di zolfo, unici sostentamenti. L’opposizione sfociò nello sviluppo del brigantaggio e del commercio di contrabbando, altro elemento che ritroviamo nella vicenda e che favorisce ulteriormente l’antieroismo di ‘Ntoni.

    Quest’ultimo, come già accennato, ha una vicenda travagliata di progressivo declino che lo rende un perfetto antieroe, egli non si può considerare protagonista, perché protagonista è l’intera famiglia Malavoglia, ma avrebbe potuto contribuire in modo decisivo al pagamento del debito dei lupini. La partenza iniziale per lo svolgimento del servizio di leva, vuole essere una denuncia del Verga della politica della Destra Storica e delle enormi difficoltà che conobbe il sud dopo l’unificazione. ‘Ntoni, infatti, ritorna dal servizio militare e ritrova la famiglia in grave difficoltà, senza più la “Provvidenza” e costretta a lavorare a giornata per pagare il debito. Ma a Napoli, dove aveva svolto il servizio di leva, aveva avuto agio di guardarsi attorno e di scoprire che tutto il mondo non era come Trezza, che esistevano persone che stavano molto meglio e si era indugiato ad ascoltare le sirene di un possibile miglioramento. Tornato al villaggio, a servizio militare finito, continuava a sentirsi echeggiare nell’orecchio il canto di quelle sirene. Comincia quindi il graduale e lento processo di traviamento del personaggio. I primi accenni si vedono nel capitolo VI del romanzo, dove ‘Ntoni lavora a giornata sulla barca di padron Cipolla mentre parla delle bellezze e delle fortune del mondo urbano. In seguito il processo di sradicamento del personaggio, si fa sempre più evidente. Alle domande rabbiose che sempre più frequentemente il nipote pone, il nonno non sa dare risposta e continua a sostenere l’eroismo del sacrificio, il suo ostinato esempio di virtù. Ma ‘Ntoni rifiuta questo eroismo e parte alla ricerca di fortuna, dando il colpo di grazia alla famiglia. ‘Ntoni, in seguito, ritorna in paese come uno straccione e nonostante la sua famiglia lo accolga a braccia aperte, egli continua il suo inesorabile processo di sradicamento, dandosi prima alla nullafacenza e all’alcool, cadendo, in seguito, nel contrabbando e finendo poi in carcere.

    Il giovane ‘Ntoni, dunque, una volta segnato dal contatto col mondo cittadino, perde le sue radici, non riesce più a riconoscersi nei valori tradizionali della famiglia e del lavoro e percorre una lunga parabola che lo porta all’esclusione, alla partenza senza ritorno. ‘Ntoni non si rassegna alla miseria e decide di andare via, ma è sconfitto poiché – ed è l’idea fissa del ciclo de “I vinti” – chi cerca di cambiare la propria posizione, lasciando il suo ambiente familiare, quasi sempre viene calpestato (così le ostriche – dice Verga –, se si staccano dallo scoglio, muoiono).

    Alla fine del romanzo ‘Ntoni ritorna a Trezza e trova Alessi che ha riacquistato la casa del nespolo e ha ristabilito l’antico ordine famigliare, ‘Ntoni riconosce e capisce finalmente “la santità del focolare domestico” e per lui c’è l’autoesilio, capisce che non può restare perché non c’è posto per gli infedeli alla religione della famiglia. Il romanzo, quindi, così come si apre, si chiude con una partenza, questa volta, però, definitiva, di ‘Ntoni. La decisione finale di ‘Ntoni di ripartire nasce dalla presa di coscienza di un sentimento irreversibile, del distacco da una visione del mondo dove legge del lavoro e codice d’onore coincidono. Prima non sapeva, non conosceva il valore delle radici familiari e della tradizione patriarcale, e voleva partire per inseguire dorate utopie di felicità, per vivere nell’ozio e nel benessere. Poiché, ora, ha perso le sue radici, deve morire per rinascere diverso. Sul tema folclorico e antropologico della morte-resurrezione, si chiude la circolarità del romanzo. La battuta finale di ‘Ntoni (“il primo di tutti a cominciar la giornata è stato Rocco Spatu”) allude, appunto, alla vita del villaggio che continua indifferente e ripetitiva nel suoi ritmi eterni, un mondo di cui egli non può più far parte, perché ne ha infranto l’armonica totalità.

    Durante tutta la narrazione troviamo, quindi, un’etica eroica, che è anche l’affermazione di una fede e di una speranza, le uniche possibili e reali. Contro questo sistema e modello di vita e contro gli ideali che lo giustificano e lo sorreggono, si sviluppa in termini sempre più decisi e oltranzistici la ribellione di ‘Ntoni, il quale simboleggia le inquietudini e gli smarrimenti delle nuove generazioni, che tornano dal servizio militare disadattate alle vecchie consuetudini, recando in quella patriarcale e immobile società, i fermenti dissolventi di una scontentezza amara, di una prima sconosciuta insofferenza, di una torbida e oscura ansia di evasione; l’aspirazione, pericolosa per tutto il sistema, ad una vita diversa e migliore. In conclusione, abbiamo visto come ‘Ntoni rappresenti la forte crisi di valori avvenuta in seguito alla caduta dei grandi ideali romantici e risorgimentali. Verga, con questo personaggio, derivato da quelli che sono gli ideali del Verismo, vuole dimostrare che l’eroe non può esistere e lo sostituisce con il suo contrario: l’antieroe.

    Ripercorrendo, quindi, il percorso che abbiamo finora compiuto, troviamo, in epoca ellenistica, il Giasone delle Argonautiche di Apollonio Rodio, protagonista che non compie alcuna impresa, che abbiamo visto avere qualche relazione con il Giasone della Medea di Euripide ed essere in qualche modo precursore di quello della Medea di Seneca, scritta sotto l’impero di Nerone. Abbiamo poi analizzato l’"Ulysses" di Tennyson, con la figura di Telemaco che rappresenta le nuove generazioni dell’età vittoriana, età che coincide con il superamento del Romanticismo e con il nascere del Positivismo. Nasce, quindi, il Naturalismo in Francia e il Verismo in Italia, dove Verga scrive “I Malavoglia” che presentano la figura di ‘Ntoni, giovane antieroe dell’Italia postunitaria.

    Chi è, dunque, l’antieroe? E’ un personaggio di denuncia, un personaggio che esprime una crisi di ideali, è un personaggio, comunque, pessimista, che non offre soluzioni, anzi, con il suo negare l’eroicità, vuole togliere ogni speranza di miglioramento.

    Per concludere è bene osservare un’opera di Francisco Goya y Lucientes (1746-1828): “Le fucilazioni del 3 maggio 1808”. Nel 1808 le truppe napoleoniche costringono Carlo IV, re di Spagna, e suo nipote Ferdinando ad abdicare in favore di Giuseppe Bonaparte. Goya assistette all’eroica resistenza del popolo madrileno, contro le truppe francesi. Il dipinto raffigura una delle tante esecuzioni sommarie effettuate dalle truppe napoleoniche. A destra, di spalle, è schierato il drappello del plotone d’esecuzione. Dei loro volti, non solo non è possibile percepire l’espressione, ma anche i lineamenti appaiono inghiottiti dalla notte. Goya caratterizza i soldati come un gruppo compatto e minaccioso che, piuttosto che da uomini, sembra composto da automi. A sinistra vi sono i partigiani, rappresentati con un realismo carico di tragica pietà. Il patriota con la camicia bianca, leva le braccia al cielo in un gesto che è di disperazione, di rabbia e di paura; in lui come nei suoi compagni vi è la disperata paura della morte, quella che non abbiamo mai visto negli impassibili eroi classici e neoclassici. I partigiani spagnoli rappresentano il crollo degli ideali della Rivoluzione Francese, esprimendo tutta la loro disperazione di eroi mancati, di antieroi.
     
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