ALBERI e ARBUSTI DA FRUTTO e a volte ....

PESCO, CILIEGIO,PERO, ALBICOCCO ECC

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  1. gheagabry
     
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    Il CARRUBO


    Il carrubo appartiene alla famiglia delle cesalpinacee, ordine delle leguminose, classe dicotydonea divisione delle angiosperme.La pianta del carrubo può raggiungere anche i dodici metri di altezza, la chioma è sempreverde e globosa, il tronco si presenta rugoso e tortuoso, con diametro medio di oltre 50 centimetri ed è costituito da midollo, legno di cui vi è la parte interna detta "durame" e la parte esterna detta "alburno", cambio e corteccia. Se il tronco non cresce sano e robusto o diventa vecchio si spacca e si svuota a causa delle acque piovane, quindi, le parti di tessuto si cariano, si disseccano, si sgretolano e diventano polvere. La corteccia è spessa e ruvida di colore rossiccio o grigiastro e screpolata verso la base del tronco, è abbastanza liscia nelle ultime ramificazioni. I rami sono eretti;ma flessuosi e quelli inferiori più vecchi e più robusti, s'inarcano verso il basso fino a toccare il terreno. Le radici sono costrette a cadere in profondità è si sviluppano lateralmente con numerose ramificazioni. Le foglie sono persistenti, simmetriche, composte paripennate, formate normalmente da quattro cinque coppie di foglie, quasi alterne, con un picciuolo di circa tre millimetri. Le radici possiedono speciali acidi capaci di attaccare, penetrare, spaccare e frantumare la dura e forte roccia calcarea, fornite di noduli che ospitano colonie di milioni di batteri. Il frutto è un baccello pendente, lungo da dieci n venti centimetri, largo da due a quattro centimetri circa, spesso da cinque a quindici millimetri di colore verde chiaro prima della maturazione, più o meno striato di rossiccio e quindi nerastro alla maturazione.
    A duecento anni è considerato giovane e produce fino a trenta quintali di frutti. Col passare dei secoli il carrubo non invecchia, diventa più robusto, gigantesco, più chiomato, più possente e fruttificante.
    (ragusa.net)

    E’ destino di molte cose che hanno avuto un passato importante, ritrovarsi, oggi, ai margini della storia. Lo è per tante macchine e strumenti come per popoli e nazioni; lo è per molte piante e animali utilizzati dall’uomo. Questo è toccato al carrubo, un tempo preziosa risorsa di tutto il Mediterraneo, l’oro nero di Cipro, oggi sporadica presenza nei paesaggi rurali più integri. Questo è toccato a molte piante che la moderna agricoltura raggruppa nei cosiddetti “Frutti minori”. Nonostante il ruolo nobile prima descritto, anche il carrubo rientra nella lista degli alberi incriminati di aver offerto un ramo per il suicidio di Giuda; nel caso specifico si tratta di una tradizione popolare siciliana che riguarda, più precisamente, il carrubo selvatico. In Siria e nell’Asia Minore, invece, la specie era sotto la protezione di San Giorgio; ancora oggi si possono incontrare chiesette dedicate al Santo, protette dalla rassicurante ombra del carrubo.
    Il carrubo esisteva come albero spontaneo nelle terre del bacino orientale del Mediterraneo. La sua coltivazione pare ebbe inizio soltanto al tempo dei Greci, che la estesero in Sicilia, ma furono gli Arabi che ne intensificarono la coltivazione e la propagarono fino in Marocco e in Spagna. Altri Autori sostengono che l'originaria diffusione del carrubo in Sicilia sarebbe dovuta ai Fenici, che della Sicilia furono i colonizzatori più antichi e provenivano da territori, quali il Libano, dove il carrubo può considerarsi originario. Questa pianta per le sue proprietà e caratteristiche fu sicuramente uno degli alberi da frutto più apprezzati dai Fenici e dai Cartaginesi. Nei tempi medioevali furono certamente gli Arabi a interessarsi del carrubo, diffondendolo e intensificandone la coltivazione in tutto il bacino del Mediterraneo. Sul finire del periodo medioevale il carrubo sicuramente doveva essere coltivato in tutte le terre del Mediterraneo accessibili alla sua coltura. Il suo frutto, noto a tutte le popolazioni cristiane d'Europa, veniva utilizzato per la preparazione di prodotti medicinali e di dolci. Nella seconda metà del Settecento interessanti notizie sulla coltura del carrubo in Sicilia vengono fornite dall'abate Sestini, il quale elenca tra le zone di maggiore produzione i territori di Modica, Ragusa, Scicli, Comiso, Noto e Avola. A quel tempo, la produzione siciliana di carrube era valutata in 60 mila quintali l'anno. Di questa enorme produzione, circa 40 mila quintali venivano esportati, mentre il resto era utilizzato come alimento per il bestiame e per la povera gente, oltre che per usi medicinali. Nel comune di Gallipoli tra gli oliveti della masseria Pacciana vive uno dei più antichi esemplari di carrubo d’Italia, certamente tra i più grandi ancora presenti nel Mediterraneo. ...questo patriarca arboreo può datare più di 500 anni; con poco meno di 14 metri di circonferenza alla base; nodoso e scavato, dalla chioma ormai sempre più rada presiede, austero ed imponente.
    (dal web)
     
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  2. gheagabry
     
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    Il BABACO



    Il babaco appartiene alla famiglia delle Caricacee, al genere Carica ed alla specie pentagona; è un ibrido naturale tra la papaia delle montagne (Carica pubescens) e il Chamburo (Carica stipulata).
    È una pianta erbacea ed arbustiva, caratterizzata da un rapido sviluppo, dopo un anno dalla messa a dimora può essere alta 3 m. Le radici sono carnose e tuberose e colonizzano i primi 30-40 cm di terreno dopo sei mesi di coltivazione, in seguito si approfondiscono diventando più grosse. Il fusto è spugnoso, fibroso, grigiastro e presenta un diametro decrescente dalla base all’apice. Le foglie sono concentrate nella parte alta, alterne, palmate, presentano 5-7 lobi ed un apice appuntito; la foglia ha una dimensione piuttosto considerevole, può essere lunga 50 cm e larga 45 cm, con un picciolo lungo 55 cm. I fiori sono solo femminili, campanulacei, bianco-verdastri, solitari o riuniti in gruppi di 2-3 ed inseriti all’ascella delle foglie.
    Il frutto è una bacca senza semi, lunga 30 cm e larga 10, con l’apice tondeggiante appuntito e presenta una sezione pentagonale. La buccia è verde scura sulle bacche non ancora mature, con delle striature gialle su quelle parzialmente mature, mentre è completamente gialla sui frutti del tutto maturi. A maturità la polpa è di color bianco crema, acquosa, profumata ed ha un sapore intermedio tra l’ananas e l’arancia. I frutti raggiungono la massima grandezza due mesi prima della raccolta.
    Una bacca ha un peso medio di 1 kg, però sulla stessa pianta ce ne possono essere altre che pesano 2 kg; ciascuna pianta porta più o meno 35-40 frutti.
     
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  3. gheagabry
     
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    I MELI ORNAMENTALI



    I meli da fiore sono un gruppo molto eterogeneo, formato da piante dotate di frutti che in natura raggiungono un diametro massimo di 5 cm. Si tratta di circa 25 specie, tutte originarie dell’emisfero settentrionale della terra, che si ibridano spontaneamente con facilità se vengono accostate fra loro, mantenendo un elevato grado di variabilità genetica. Ciò spiega perché si siano potute ottenere centinaia di varietà, sempre più belle e soprattutto sempre più robuste. Le loro caratteristiche di robustezza, resistenza alle malattie e generosità nelle fioriture li hanno promossi da sempre come impollinatori nei frutteti industriali, ma lo spettacolo migliore lo danno nei giardini, dove dall'inizio della primavera alla fine dell'inverno, sono una successione di sorprese: le copiose e prolungate fioriture che ad aprile ricoprono completamente gli alberelli, sono seguite, a partire da Settembre, da grappoli di mele in miniatura dai colori più sgargianti – giallo dorato, arancione, rosso ciliegia, viola – che decorano la pianta per buona parte dell'inverno, trasformandola, ormai spoglia, in un’allegra ghirlanda colorata.
    Le foglie, alterne e caduche, sono generalmente ovate anche se in alcune specie sono profondamente e variamente lobate e, in autunno, prima della loro caduta, riccamente colorate; alcune varietà, riunite in un gruppo particolare chiamato "Purpurea Group", hanno il fogliame, appunto, porpora scuro che, in certi casi, mantiene la colorazione per tutta la stagione. I fiori semplici e dolcemente profumati, tra i 2 e i 5 centimetri di diametro, sono riuniti in densi corimbi il cui colore va dal bianco candido al rosa profondo. I frutti che seguono hanno dimensioni diverse, da 5-6 mm a 2- 2,5 cm di diametro, e sapori più o meno piacevoli al palato anche se sempre piuttosto acidulo. Sono, comunque, molto ricchi di pectina, caratteristica che li rende insostituibili nella preparazione domestica di marmellate e gelatine.

    Una tra le varietà più conosciute ed amate è Malus 'Red Sentinel', un alberello snello ed elegante in cui gli opulenti grappoli di frutti, dapprima giallo limone ed in seguito rosso ciliegia, rimangono sulla pianta per tutto l’inverno, mettendo quasi in ridicolo la splendida e candida fioritura primaverile. Una delle poche specie originarie del nostro paese è il Malus florentina il cui areale di diffusione è concentrato sull’Appennino tosco-emiliano. È un affascinante alberello dal particolare fogliame grigiastro, molto simile a quello del biancospino, che in autunno assume variopinte e calde tonalità rossastre. Alla fioritura bianca e profumata segue la formazione di piccoli frutti ovali, rosso scuro molto apprezzati dagli uccelli. Tra i più decorativi c’è un piccolo e aggraziato melo originario del Giappone, il Malus sargentii dal particolare fogliame che, invecchiando, si loba profondamente e, in autunno assume tonalità dorate. I piccoli e numerosi frutti rosso scarlatto, che si formano dopo una candida e indimenticabile fioritura primaverile, pendono da lunghi piccioli e rappresentano un banchetto appetitoso per molti uccelli selvatici.
    Un’altra specie, il Malus floribunda, chiamato Melo del Giappone, data la sua provenienza, dalla spettacolare e precoce fioritura di varie sfumature di rosa che si apre da allungati boccioli rosso magenta, ha frutti piccoli e pendenti da eleganti piccioli allungati che sono, forse per il loro colore, che è di un caldo giallo aranciato, assolutamente disprezzati dalla fauna selvatica, così come quelli di un’altra magnifica specie proveniente dalla Cina e cioè il Malus transitoria, un maestoso cespuglione che può raggiungere, come il Malus floribunda 6 o 7 metri di sviluppo: alla fioritura, bianco puro, segue una profusione di piccole ma perfette melette giallo dorato, anch’esse poco apprezzate dagli uccellini. Il fogliame, particolarmente colorato in autunno, è allungato e profondamente lobato.
    Il fatto che gli animali selvatici abbiano una specie di repulsione nei confronti dei frutti gialli, ha decretato il successo del Malus ‘Golden Hornet’ - le cui origini rimangono oscure - che, come lascia presagire il nome, si ricopre, dalla metà di settembre di tondi frutti dorati, talmente abbondanti da incurvare i rami. Questa decorativa varietà, conosciuta fin dalla metà del 1900, ha sempre avuto un ruolo da protagonista nei giardini. Un suo coetaneo, questa volta di origini certe, essendo stato creato, in Olanda, da Doorenbos, noto vivaista e ibridatore del tempo e che prende il nome di Malus ‘Professor Sprenger’, assume le stesse imponenti dimensioni, arrivando ad avere una chioma anche di 7 metri di larghezza; in autunno - e così rimane per buona parte dell’inverno - si riveste di piccoli frutti arancione rossastri riuniti in eleganti mazzetti. La fioritura bianca spicca in maniera spettacolare tra il fogliame minuto e lucido.
    Anche se il bianco è la norma tra le fioriture dei meli ornamentali, ci sono alcune varietà in cui il rosa, ed in particolare il rosa scuro, dei loro fiori li rende particolarmente attraenti; solitamente alla colorazione intensa dei fiori si accompagna un’altrettanto intensa colorazione – come abbiamo accennato a proposito del "Purpurea Group" - del fogliame: Malus ‘Rudolph’, un ibrido canadese, dalla prorompente fioritura rosa intenso che si confonde con il rosso fuoco delle nuove foglie, matura, in settembre, graziosi frutti il cui colore varia dall’arancione al magenta. L’alberello che raggiunge i 6 – 7 metri d’altezza ha un portamento eretto ed elegante. La varietà che, però, ha la fioritura più esclusiva, è quella che prende il nome di Malus ‘Van Eseltine’, ibrido conosciuto dal 1930 dall’accrescimento compatto, i cui fiori, rosa scuro con svariate sfumature fino al bianco, sono stradoppi, formati, cioè, da più di cinque petali; l’effetto spettacolare della fioritura ricompensa dalla poco decorativa, anche se abbondante, fruttificazione arancione ruggine.
    (Maurizio Feletig, giardini.biz)
     
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  4. gheagabry
     
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    Il COTOGNO


    Il cotogno appartiene alla famiglia delle Rosacee, alla sottofamiglia delle Pomoidee, al genere Cydonia, che comprende diverse specie: il cotogno comune (Cydonia oblunga), il cotogno giapponese da fiore (C. japonica), utilizzato a scopo ornamentale ed il cotogno cinese (C. sinensis). Il cotogno comune è un albero di bassa taglia, alto non più di 4-6 m, che tende ad assumere un aspetto cespuglioso. Le radici si sviluppano in superficie, il fusto è tortuoso con una scorza molto scura che si stacca a pezzetti ed i rami sono di colore bruno, pelosi, inermi, con lenticelle più o meno evidenti. Le foglie sono caduche, alterne, di forma obovata, ellittica, ovale o rotonda a seconda della cultivar, di colore verde cupo e lisce sulla pagina superiore, verde più chiaro e pelose nella pagina inferiore; il margine è intero, dentato o ondulato. I rami misti di un anno portano le gemme miste, da cui si originano germogli lunghi 5-10 cm, provvisti di 3-6 foglie, che portano ai loro apici i fiori solitari, grandi, ermafroditi e di color bianco o rosa. La fioritura si verifica generalmente da fine aprile alla prima quindicina di maggio, l’impollinazione è entomofila, operata dalle api o da altri insetti pronubi. Molte varietà di cotogno sono autosterili, per cui necessitano di impollinatori. Il frutto è un pomo di forma variabile a seconda delle cultivar, con buccia di colore verde giallo e pelosa, a maturazione diviene giallo dorato e la peluria tende a sparire; il frutto è caratterizzato da un aroma fragrante. La polpa, di colore giallo-crema, è dura e granulosa per la presenza di numerose sclereidi, specialmente in prossimità dei semi. Il sapore piuttosto acido ed astringente rende il frutto non consumabile fresco, infatti viene utilizzato per la preparazione di confetture e gelatine. La maturazione si verifica da settembre ad ottobre.
    Non è possibile il consumo allo stato fresco dei frutti, hanno polpa dura anche a maturità, pochissimo dolce ed astringente. Il frutto è usato per la preparazione di confetture, gelatine, mostarde, distillati e liquori. La condizione di limitata dolcezza della polpa non significa assenza di zuccheri, ma la loro presenza sotto forma di lunghe catene glucidiche, che danno l'effetto soggettivo della scarsa dolcezza; con la cottura, nella preparazione di confetture, e quindi con la frammentazione dei polisaccaridi la polpa assume una dolcezza intensa, e la liberazione di un profumo di miele. L'elevato contenuto di pectina produce un veloce addensamento della confettura o della gelatina, limitando i tempi di cottura. In epoca precedente la diffusione dello zucchero raffinato la confettura semisolida di cotogne era con il miele (costosissimo) uno dei pochi cibi dolci facilmente disponibili e soprattutto ben conservabili. I frutti venivano anche posti negli armadi e nei cassetti per profumare la biancheria. Un liquore a base di Cotogna denominato sburlon viene prodotto nel parmense e in particolare più precisamente nella Bassa vicino a Roccabianca (PR). La cosiddetta Cotognata, gelatina semisolida in piccoli pezzi, è famosissima nel "Ragusano" e nel Basso Lodigiano, soprattutto a Codogno.
    La parola marmellata viene dal portoghese marmelo che è il nome del cotogno.

    ...storia, miti e leggende....


    Unica specie del genere Cydonia, simile ai peri ed ai meli, il cotogno è un piccolo albero tortuoso che produce un grosso frutto profumato: la cotogna. Il cotogno può entrare sicuramente di diritto nella categoria dei “frutti dimenticati”. Coltivato fin dall’antichità, non ha avuto tuttavia una diffusione paragonabile ad altre specie da frutto. Ai giorni nostri è generalmente poco conosciuto, tanto che spesso viene confuso per una varietà di melo o pero mentre, in realtà, appartiene ad una specie distinta ed è classificato in un diverso genere.
    I Greci lo conoscevano almeno dal VII sec. a.C. L’origine botanica di questo piccolo albero è l’Asia Minore, in cui si trovava una città dal nome di Cotonium. Presso gli antichi le cotogne furono forse apprezzate dapprima per il profumo: le mele nelle Esperidi della mitologia greca non erano rappresentate come delle arance, ma come cotogne (gli agrumi vennero introdotti più tardi nel bacino mediterraneo); i frutti che Eracle riceve dalle mani di Atlante nelle metope del tempio di Zeus ad Olimpia (450 a.C.) sono chiaramente delle cotogne. A Sparta, secondo Pamfito citato da Ateneo nei suoi “Deipnosophistes”, si offrivano agli dei certi pomi che “hanno un profumo soave ma che non sono molto buoni da mangiare”. Questi frutti passavano tra il popolo anche come pegno d’amore e infatti, dice Plutarco, un decreto di Solone obbligava le giovani spose a mangiare una mela cotogna prima di salire per la prima volta sul letto nuziale. La cotogna non è un frutto che si morde volentieri: aspra, molto astringente anche a perfetta maturità, essa ha bisogno di zucchero e cottura per poter piacere al palato. Ma questi suoi difetti le hanno procurato la reputazione di medicinale: Ippocrate consigliava le cotogne in caso di “sgomberi intestinali”. I medici del Medioevo e del Rinascimento la prescrivevano sia per uso interno, sottoforma di succo fresco, che per uso esterno come cataplasmi di polpa cruda. La polpa masticata era inoltre riconosciuta anche come potente antiveleno. I Romani, i quali apprezzavano molto questi frutti, conoscevano altri modi di conservarli: Columella (De re rustica) nel I sec. d.C. parla di “melomeli”: “a metà luna calante, con cielo sereno, ben pulite dalla loro lanugine, le cotogne vengono disposte in un vaso di terracotta a collo largo e coperte di miele molto liquido; si conservano a lungo e il miele, profumato dal loro contatto, diventa un medicamento contro la febbre”.

    Interessanti le ricette fornite da Olivier de Serres, autore di Le théâtre d'agriculture et mesnage des champs (1600), il quale consiglia di candire le cotogne con succo di uva fresco per ottenere le cotogne candite; egli dà poi varie ricette per la cotognata e per il ratafià (liquore dolce a base di succo di cotogne). Sempre Olivier de Serres ci insegna che le mele cotogne, “che non si conservano mai oltre il Natale, si possono mantenere quanto si vuole nella feccia di vino che rimane in fondo alle botti”. Ai giorni nostri, dopo la raccolta, le cotogne vengono conservate nella paglia per 2/3 settimane ma il loro profumo è così forte che spesso può risultare nauseabondo, come scrive anche Antonio Targioni Tozzetti nel suo Corso di Botanica medico-farmaceutica (1847): “ l’odore che mandano questi frutti è assai grande; tenuti in una camera possono produrre delle cefalee e delle vertigini per questi loro effluvi”.
    (Giulia Bartalozzi)
     
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  5. gheagabry
     
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    Il MANDORLO


    Il mandorlo (detto anche: Amygdalus communis L.; Prunus amygdalus Stokes; Prunus communis) è un albero appartenente alla famiglia delle Rosacee, ordine delle Rosales,genere Amygdalus.
    Si distingue dal pesco per il maggiore sviluppo vegetativo e si caratterizza per la sua longevità: spesso, il mandorlo supera, in ottime condizioni, il secolo di vita. Resta comunque una pianta a medio sviluppo che non supera quasi mai i 10m di altezza ed il cui tronco presenta un diametro che, talvolta, può raggiungere la decina di decimetri. Il portamento dei rami può variare notevolmente: dalle piante che presentano rami aperti, a quelli praticamente pendenti fino alle piante con rami perfettamente dritti ed eretti. Le foglie, lucide nella parte superiore ed opache in quella inferiore, sono di un bel verde intenso, leggermente seghettate e lanceolate.
    La fioritura è precoce, addirittura prima di quella dell'albicocco, e precede anche la nascita delle foglie. In Italia, la fioritura ha inizio, a seconda delle zone, tra la seconda decade di gennaio ed i primi giorni di aprile.
    Il frutto del mandorlo, di forma ovoidale, è, ovviamente, la mandorla; anche se, sarebbe meglio definirla non il frutto, bensì il seme della pianta. Sono delle drupe contenute in un esocarpo carnoso, dal colore verde pallido e leggermente peloso; l'endocarpo, invece, quello che noi conosciamo come 'guscio', è legnoso e di consistenza varia. Il seme all'interno è ricoperto da una sottile membrana semicoriacea e, di solito, si presenta come seme solitario, anche se non sono rari i casi in cui si possono trovare due semi all'interno dello stesso guscio.
    Le radici della pianta, che si adattano molto facilmente ai più diversi tipi di terreno, possono raggiungere anche una notevole profondità ed un grande sviluppo se si trovano in un terreno ricco ed ospitale.
    A seconda delle caratteristiche del suo seme, i mandorli si distinguono nelle seguenti varietà: amara, i cui semi risultano, appunto amari e tossici per la presenza dell'amigdalina .. dulcis, è forse la varietà più coltivata poiché i suoi semi sono largamente utilizzati in molte preparazioni: preparazione di piatti salati, preparazione di dolci ed estrazione dell'olio di mandorla utilizzato in cosmetica ...fragilis, presenta il seme dolce ma, a differenza delle varietà precedente, l'endocarpo non è legnoso.

    ...la storia....


    Il mandorlo è una pianta dal passato affascinante e dalla storia veramente molto antica; basti pensare che, nelle regioni del mediterraneo, viene coltivata con successo da oltre tre millenni. Eppure le sue origini sono tanto antiche quanto lontane: sembra, infatti, che questa pianta sia originaria delle regioni dell'Asia Centrale o Occidentale e che, marginalmente, possa trarre origine anche dai territori dell'attuale Cina. Queste piante, ovviamente selvatiche, sono state addomesticate ed i frutti, che originariamente contenevano l'amigdalina (che si trasforma nel mortale acido cianidrico), furono resi commestibili grazie alle straordinarie capacità degli agricoltori. I primi esempi di mandorli domestici appaiono già nella prima parte dell'Età del Bronzo (dal 3000 al 2000 a.C.), dato che possiamo riferire cojn una certa sicurezza in quanto alcuni frutti, ritrovati nella tomba del faraone Tutankamon, risulterebbero essere proprio delle mandorle, molto probabilmente importate dall'oriente. L'espansione del mandorlo nel bacino del mediterraneo, comunque, è ancora incerta o, meglio, viene contesa tra due popolazioni: Greci e Fenici. Quello che, per certo, possiamo dire è che, prima fra tutti, ad ospitare sul suo territorio questa meravigliosa pianta, fu la Sicilia. Anche qui però esistono due versioni discordanti poiché molti autori affermano che in questa regione esistessero già delle specie, amare, di mandorlo spontanee.
    (mandorlo.it)

    ...miti, leggende e simbolismo...


    I fiori di mandorlo sono i primi a sbocciare in primavera, talvolta nel tardo inverno, e per questo simboleggiano la speranza, oltre che il ritorno in vita della natura ma, sfiorendo nell’arco di un breve lasso di tempo, rappresentano anche la delicatezza e la fragilità. Hanno ispirato miti e leggende, promosso la nascita di tradizioni, diffuso parole sacre, cultura e folclore, che affondano le radici in tempi lontani nell’area geografica a clima mediterraneo in cui la pianta è coltivata. La fioritura precoce sul ramo di mandorlo appare come un segnale di rinascita al profeta Geremia, nella Bibbia; nell’Esodo, Dio indica a Mosè di prenderne i fiori a modello per forgiare l’oro con il martello in modo da ottenere l’antico candelabro ebraico (Menorah) a sette bracci. Nel testo biblico dell’Ecclesiaste, i fiori di mandorlo sono l’emblema di quanto la vita scorra velocemente fino all’invecchiamento. Entro poco più di una settimana mutano di tonalità dal bianco rosato al bianco candido prima di cadere dai rami. L’interpretazione del versetto è duplice: i petali bianchi rappresentano i capelli canuti oppure la vigilanza che accompagna la vecchiaia.

    Nella mitologia greca, il mandorlo è collegato all'attesa del compimento di una speranza e della costanza. Diverse sono le versioni tramandate attorno alla vicenda della principessa Fillide (o Filli), figlia di Sitone, re della Tracia, trasformata in un mandorlo spoglio dalla dea Atena, per compassione, dopo essersi uccisa per il dolore temendo d'essere stata abbandonata da Demofonte (o Demofoonte, o suo fratello Acamante, o Acamante, figlio di Antenore e di Teano), figlio di Teseo e di Fedra, il quale non era ritornato da lei nel tempo stabilito per le nozze. L'albero rimase spoglio e sterile fino a quando l'eroe non ritornò in Tracia e venne a conoscenza del tragico destino di Fillide. Allora egli andò ad abbracciare il mandorlo piangendo e le sue lacrime di pentimento si trasformarono in una nube di candidi petali che adornarono i rami della pianta, che così finalmente fiorirono, ma rimasero privi di foglie, come poi continuò a succedere all’annuncio di ogni primavera. Quest'antica epopea greca di Fillide venne ripresa da Ovidio nell’opera erotico-mitologica intitolata ‘Eroidi’ (Heroides), composta tra il 25 a.C. e il 16 a.C., pubblicata tra l’8 a.C. e il 5 a.C. Si trattava di una raccolta di 21 lettere poetiche immaginarie, d'amore e di dolore, tra le quali 15 scritte da eroine abbandonate dai loro innamorati o mariti, tre da eroi con abbinate le tre risposte.
    Questa commemorazione di Ovidio venne ripresa dallo scrittore e poeta inglese Geoffrey Chaucer (circa 1343-1400) nel poema epico dal titolo ‘La Leggenda delle donne virtuose’ (The Legend of Good Women), nel quale narrò in forma onirica la tragica storia di Fillide, oltre a quella di altre protagoniste storiche e mitologiche rattristate per essere state lasciate dall’amato. Nel 1882, Fillide e Demofonte vennero rappresentati nella loro speranza appagata, abbracciati e nudi, davanti a un albero di mandorlo fiorito, nell’olio su tela dal titolo 'L'albero del perdono' (The Tree of Forgiveness), dipinti dall’inglese Edward Coley Burne-Jones (1833-1898), uno dei migliori Preraffaelliti in Inghilterra. L’opera, di notevole potenza espressiva, fu anticipata da un acquerello nel 1870, nel cui retro comparivano citate le ‘Eroidi’ di Ovidio.

    I fiori di mandorlo ispirarono anche più di una decina di quadri al pittore olandese Vincent van Gogh (1853-1890). Uno dei più famosi fu l’olio ‘Ramo di mandorlo in fiore’, dipinto a Saint Remy de Provence prima di morire, in occasione dell’annuncio della nascita del nipote Vincent Willem, figlio di suo fratello Theo. La posizione dei fiori e la precisione delle linee indicano che fonte di ispirazione per il pittore impressionista fu l’arte dell’incisione giapponese, mentre il soggetto simboleggia l’affacciarsi di una nuova vita.
    (giadinaggio.net)
     
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  6. gheagabry
     
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    Il PERO CORVINO


    Il pero corvino altri non è che un Amelanchier, genere di piante ornamentali, incluso nella famiglia delle Rosacee, che annovera circa venti specie, tutte americane ad eccezione di due. Una di queste, Amelanchier ovalis, volgarmente detta pero corvino, originaria dell’Europa centrale e meridionale, è presente ovunque nel nostro paese allo stato spontaneo, con maggior frequenza nella zona centro settentrionale degli Appennini, fino ad un’altezza massima di 1.600 metri.
    Di aspetto dimesso, di natura discreta, più complemento che protagonista, il pero corvino solo a primavera è capace di attirare l’attenzione dei passanti perché la sua fioritura precede in montagna quella dei biancospini ed è fra i primi segni concreti del cambio di stagione. Gli esili rami sono capaci di resistere al vento e piegarsi senza troppo subire sotto pesanti coltri di neve. Si tratta di un piccolo albero, alto fino a tre metri, spesso in forma di arbusto o cespuglio, presente dove il terreno è povero e le condizioni ambientali consentono solo una breve stagione vegetativa, come i fianchi delle montagne, freddi e coperti di neve fino a tarda primavera, troppo secchi alla fine dell’estate, magari radicando in una fenditura fra le rocce.
    Le foglie in fase giovanile sono cotonose, caratteristica che col tempo si attenua fino a perdersi. Di forma ovale hanno il margine dentato. In autunno prima di cadere virano al rosso dorato.
    I fiori, bianchi, solo raramente rosati, hanno cinque petali e si aprono, secondo l’esposizione e dell’andamento stagionale, nel periodo aprile-maggio.
    I frutti compaiono già alla fine di luglio, sono maturi a settembre, e, se non beccati dagli uccelli, restano sulla pianta fino a primavera. Lunghi circa 1 cm sembrano pere miniaturizzate che dal rosso iniziale, quando diventano mature, si colorano di un blu così intenso da sembrare nero. Ogni frutto contiene dieci semi ed ha una polpa dolce e di buon sapore. . Un tempo il pero corvino, oltre a crescere spontaneo nei boschi soleggiati si coltivava anche negli orti per la facilità di coltivazione. Con i frutti si producono marmellate, gelatine e si conservano sotto grappa o spirito. Con i frutti fermentati si ottine un'ottima bevanda abassa gradazione simile al sidro che per distillazione dà acquavite.
     
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  7. gheagabry
     
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    Il MIRTILLO


    Piccolo arbusto a foglie caduche, originario dell'Europa settentrionale; molte specie di vaccinium sono diffuse in gran parte delle regioni fresche o temperate dell'Emisfero settentrionale. Si tratta di piccoli arbusti densamente ramificati, talvolta rampicanti o tappezzanti, che si mantengono al di sotto dei 40-50 cm di altezza. Le foglie sono ovali o lanceolate, spesse e cuoiose, di colore verde brillante, assumono colorazione giallo-oro o rossastra in autunno e tendono a rimanere sulla pianta anche dopo essere appassite; in primavera inoltrata produce piccoli mazzetti di fiori campanulati, lievemente cerosi, di colore bianco, all'ascella fogliare. All'inizio dell'estate o all'inizio dell'autunno, a seconda della specie, maturano i frutti tondeggianti, di colore viola, ricoperti da uno strato di pruina che li rende opachi. Esistono molte specie di vaccinium, con frutti di dimensione variabile: V. corymbosum, originario dell'America settentrionale ha frutti con diametro vicino ai due cm; V. macocarpon ha frutti rossi, come V. vitis-idaea. In generale i mirtilli maturano in successione, nell'arco di 3-4 settimane. Questi frutti sono molto apprezzati da consumare freschi o in confettura e vengono anche utilizzati sia in erboristeria che nell'industria farmaceutica, essendo ricchi di vitamine e di flavonoidi.
    In Italia è reperibile nelle Alpi e negli Appennini fino a un'altezza di circa 2300 m. Anche il mirtillo rosso è diffuso nelle Alpi e nell'Appennino settentrionale; le sue bacche sono rosse e hanno un sapore amarognolo. Il mirtillo blu cresce in modo spontaneo in Europa, l'altezza della pianta può raggiungere i 25 cm; le sue bacche sono di colore nero-bluastro e sono molto più insipide rispetto al mirtillo rosso e nero. Il vaccinium arboreum è la specie più grande fra i mirtilli, cresce nel nord America e può arrivare anche all’altezza di 8-9 m.

    ...storia, miti e leggende...


    In Svizzera, negli scavi di una città del Napoleonico, sono stati rinvenuti reperti tessili tinti in malva-violetto con succo di mirtillo. La bacca era usata anche dai Galli e dai Celti per colorare gli abiti. Le donne dell’antico Impero romano facevano il bagno diluendo nell’acqua un decotto di foglie di mirtillo per favorire l’abbronzatura.
    Sempre nell’antichità, il mirtillo nero veniva consigliato da Dioscoride per curare la dissenteria. Nel Medioevo si attribuivano ai mirtilli proprietà astringenti, toniche e depurative, mentre si riteneva che le foglie dell’arbusto fossero in grado di curare le emorroidi, la cura consisteva nel sedersi su un cuscinetto di foglie di mirtillo e di rosa bollite. I medici del 700 consigliavano il consumo di questo frutto per moderare l’ardore di una bile infiammata.
    In America settentrionale i mirtilli erano ingredienti portanti della dieta della popolazione indigena che li consumava freschi in estate e seccati in inverno. Le bacche dalla varietà rossa erano ritenute un simbolo di pace degli indiani Delaware, che le impiegavano per tingere sia i corpi che i tappeti.
    La leggenda americana racconta che i Padri pellegrini appena sbarbati, utilizzassero i mirtilli che crescevano particolarmente abbandonati in quelle regioni. I mirtilli divennero protagonisti anche nella Seconda guerra mondiale, si dice che i piloti della Raf, la flotta aerea inglese, ne facessero incetta per migliorare le loro capacità di visione notturna.
    In Irlanda e In Scozia, da sempre si celebra la “domenica del mirtillo”, uomini, donne e bambini percorrono boschi e campagne alla ricerca delle bacche che serviranno a preparare costate, confetture e sciroppi. Per consuetudine le bacche accompagnano il tacchino servito ne giorno del Ringraziamento, sembra che durante la guerra di secessione il generali Ulysses Grant avesse ordinato di servire ai soldati una salsa di mirtilli per arricchire il modesto pranzo del Rinascimento delle truppe. Secondo una tradizione nordica il mirtillo protegge dalla malasorte, In Scandinavia i suoi rami sono utilizzati nella cerimonia del “Piccolo Yule”, il 13 Dicembre, un rito associato alla stella del solstizio d’inverno, conosciuta nella tradizione nordica come “portatore di torcia”.
    (irishcoffee.net)
     
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  8. gheagabry
     
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    Il ROVO



    Il rovo appartiene alla famiglia delle Rosacee ed al genere Rubus; le specie più importanti sono: il rovo che cresce spontaneo in luoghi incolti e sui cigli stradali (Rubus fruticosus), Rubus procumbens, R. hispidus, R. trivialis, R. laciniatus e R. ulmifolius; da queste specie, di provenienza americana, derivano le varietà coltivate, alcune con tralci spinescenti ed altre prive di spine. Arbusto perenne, sarmentoso, semisempreverde, originario dell'Europa centro-meridionale. Costituisce una grossa ceppaia, da cui si dipartono numerosissimi fusti sottili, costoluti e arcuati, ricoperti da moltissime piccole spine arcuate; ogni anno produce molti polloni, che si possono sviluppare anche per alcuni metri in una sola stagione; i fusti sono densamente ramificati e talvolta prostrati, a formare un intrico spesso e impenetrabile.
    Le foglie sono composte, costituite da piccole foglie ovali, dentate, di colore verde scuro sulla pagina superiore, bianco sulla pagina inferiore. I fusti di un anno producono, a fine primavera, o all'inizio dell'estate, delle infiorescenze terminali a forma di pannocchia, costituite da piccoli fiori bianchi o rosati; in estate inoltrata produce i piccoli frutti verdi, che divengono neri a maturazione, commestibili. Sono tondeggianti, costituiti da alcune piccole drupe tonde, che contengono un singolo seme; dopo la fruttificazione i fusti disseccano. L’impollinazione è facilitata dal fatto che le more sono autofertili, ma viene enormemente favorita dalla presenza di api e dal vento; la fioritura è scalare, da maggio a giugno. Le more sono frutti molto apprezzati crudi, oppure utilizzati per la produzione di confetture o di liquori.

    La pianta è utilizzata per delimitare proprietà e poderi con funzione principale difensiva. Altre funzioni delle siepi a rovo sono nella fornitura di nettare per la produzione del miele (in Spagna), nella associazione di specie antagoniste di parassiti delle colture (ad esempio le viticole), nella formazione di corridoi ecologici per specie animali.

    Il Rovo evoca il simbolismo funereo e infernale. Un roveto in una foresta costituisce anche un ostacolo impenetrabile, un sinistro, imoto scenario di morte simbolica. Spesso, infatti, nelle favole è l’arbusto che strappa le vesti del bimbo o della bimba. Secondo la tradizione popolare la corona cristica è fatta di rovo e, avendo ferito il capo di Cristo, ha evocato simboli negativi..L’Ingiuria era una giovine donna dall’aspetto orribile. Aveva occhi infiammati...in mano reggeva un mazzo di rovi e sotto i piedi aveva una bilancia a significare la volontà di sopraffare gli altri, forse secondo la parabola dei Giudici. Nel linguaggio dei fiori, quello del rovo è simbolo dell’Invidia. Per la Spagiria (arte di curarsi con le erbe), il Rovo è la pianta di Venere per eccellenza, che manifesta le sue benefiche virtù. Il Rovo insegna ad osare, dona estroversione e la virtù dell’auto-difesa.
     
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  9. gheagabry
     
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    Il LUPPOLO



    Il luppolo (Humulus lupulus) è una pianta perenne appartenente alla famiglia delle Cannabaceae, che può raggiungere anche i sette metri di altezza; le foglie di questa pianta sono cuoriformi e picciolate, con la parte superiore ruvida e quella inferiore resinosa. È una specie dioica e quindi i fiori sono presenti su individui separati; i fiori maschili sono riuniti in pannocchie, mentre quelli femminili presentano un cono membranoso; entrambi sono di colore verde e la fioritura avviene in estate.
    Il luppolo ama gli ambienti freschi e terreni fertili, non a caso cresce spontaneamente vicino ai corsi d’acqua, lungo le siepe e ai margini dei boschi; viene usato soprattutto per la produzione della birra .. è l'amaricante e aromatizzante più diffuso nella birra al giorno d’oggi. Utilizzato per la prima volta nel XI secolo dai birrai Svizzeri, (le prime testimonianze sono quelle di santa Ildegarda) soppiantò ben presto ogni altra spezia o erba per la sua grande capacità conservante, oltre per il gusto secco che bilanciava il dolce del malto, rendendo la birra più beverina. Pianta della famiglia della Cannabis, coltivata solo in particolari zone geografiche (l’Hallertau in Germania, la zona di Saaz in Boemia, la Stiria, il confine tra belgio e francia, la zona nordoccidentale degli Stati uniti, il sud dell’inghilterra) produce escrescenze floreali dette “coni”, ricche di resine e di acidi, che, estratti tramite ebollizione, conferiscono il classico gusto amarognolo alla nostra birra. Vi sono poi luppoli, detti “nobili”, che, oltre alle resine, contengono una elevata quantità di oli essenziali, che conferiscono alla birra toni agrumati, fruttati, di tabacco o spezie. Tra le varie tipologie di luppolo possiamo riconoscere oltre 50-70 toni diversi: lo speziato “marino” del luppolo di Saaz, il tono fiorito dell’Hallertau Hersbrucker, quello pinoso del luppolo Cascade, fino al tropicale fruttato del Fuggle inglese.

    Il luppolo era noto già agli antichi egizi che lo usavano come erba medicinale, ne parla anche Plinio il Vecchio (23/24-79 d.C.) paragonando ad un lupo essendo nocivo per l’albero come un lupo per un gregge di pecore. La prima esperienza di coltivazione in Italia risale intorno al 1850.


    "Può stupire l'apprendere che il luppolo appartiene alla stessa famiglia della Cannabis; in effetti questa pianta è conosciuta sin dai tempi più remoti per i suoi effetti soporiferi e calmanti. I lavoratori delle vecchie fabbriche di birra, trattando il luppolo, dopo lungo tempo accusavano sonnolenza e dovevano interrompere il lavoro periodicamente per evitare di cadere addormentati!
    Nella Memoria letta da Gaetano Baroni, socio ordinario dell’Accademia dei Georgofili, nella seduta del 10 giugno 1838, si leggono alcune informazioni sulla coltivazione del luppolo, osservata dall’autore nel Nord-Europa, nell’intento di suggerirla anche ai coltivatori toscani “… in certi luoghi bassi, dove la vite scarseggia di frutto, o è di poco sapore e che in conseguenza dà un vino di poco valore”. Scrive il Baroni che “il luppolo ama un terreno di buon fondo, di terra friabile, non tanto argillosa o tenace, né tanto sabbiosa o di rena pura … per preparare il terreno, si lavora in primavera e si pulisce dall’erbe e si torna a lavorare nell’estate facendo altra pulitura; per non perdere raccolta in questo terreno, si potranno coltivare le barbabietole o le rape, ché i lavori necessari a questa coltura potranno essere di preparazione a quella dei luppoli, … che potranno essere piantati nella seguente primavera”.
    In cucina i getti apicali della pianta di luppolo selvatico vengono raccolti in primavera ed utilizzati esattamente come gli asparagi. In medicina il luppolo viene ancora oggi utilizzato per curare stati di ipereccitabilità, insonnia di origine nervosa, stati di tensione, dispepsie. In virtù delle proprietà amare ed aromatiche viene impiegato come stomachico, per stimolare l’appetito e nella dispepsia nervosa. Nella tradizione i fiori di luppolo venivano usati per riempire i cuscini come aiuto per dormire bene"
     
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  10. gheagabry
     
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    DA LUSSY

    Fragola

    fragole
    generalita'

    E' una pianta di origine europea che si trova spontanea nei nostri boschi. Le varietà coltivate sono degli ibridi la cui produzione è iniziata verso la fine del Settecento, e vengono classificate in cultivar a frutto piccolo e cultivar a frutto grande. La Fragola appartiene alla Famiglia delle Rosaceae, sottofamiglia Rosoideae, genere Fragaria. Molte sono le specie, tra cui: Fragaria chiloensis, di origine sudamericana, Fragaria virginiana, originaria del sud degli Stati Uniti e Fragaria ovalis, originaria delle Isole Kurili.
    Tutte le specie di origine extraeuropea sono ottoploidi, mentre la Fragaria vesca è diploide. Le varietà coltivate sono quasi tutte incroci tra Fragaria chiloensis e Fragaria virginiana.
    La fragola è una pianta perenne, acaule, il cui fusto è stato trasformato in un corto rizoma. Le foglie sono ternate, ovato-oblunghe, dentato-seghettate, lungamente picciolate. i fiori, bianchi, ermafroditi, sono riuniti in gruppi di 3-8 a costituire dei racemi e hanno lunghi piccioli. Il frutto è in realtà un falso frutto: è costituito dal ricettacolo fiorale che si accresce e si fa succulento e presenta sulla superficie dei piccoli acheni (veri frutti).
    La riproduzione è utilizzata esclusivamente per miglioramento genetico mentre la moltiplicazione, essenzialmente di tipo agamico, può avvenire mediante un vivaio tradizionale in cui vengono coltivate piante madri per la produzione di stoloni oppure mediante la riproduzione meristematica delle piantine denominate "super-élite" e la loro moltiplicazione in ambiente controllato e successiva moltiplicazione su terreno.


    varieta'

    Le varietà di fragola possono essere classificate in:
    - unifere o brevidiurne o non rifiorenti: differenziano i fiori con un periodo di luce inferiore alle 12 ore e con un sufficiente termoperiodo. La differenziazione dei fiori avviene da settembre fino al verificarsi delle prime gelate e la maturazione dei frutti si ha in primavera nell'arco di circa 4 settimane. alcune varietà unifere possono diventare, occasionalmente, bifere, cioè rifiorenti;
    - bifere o longidiurne o rifiorenti:differenziano i fiori con un periodo di luce superiore alle 14 ore e producono dalla primavera all'autunno. Non hanno mai avuto una buona diffusione a livello industriale, ma sono impiegate quasi esclusivamente a livello familiare per la loro lentezza di riproduzione: si moltiplicano infatti per divisione del ceppo e molto poco per stoloni;
    - day neutral o fotoindifferenti: differenziano gemme a fiore con qualsiasi condizione di luminosità, purché sia rispettato il termoperiodo.


    fragoladibosco


    Tecniche colturali
    Il terreno ideale del la coltivazione della fragola deve essere subacido (pH ottimale: 5,5-6,5; tollera fino a pH 7,5 in un buon terreno agrario), sciolto e ricco di sostanza organica. E’ possibile comunque ottenere ottimi risultati in quasi tutti i tipi di terreno purché ben lavorati e preparati.
    Necessita di acqua in quantità moderate ma costanti durante tutto il suo ciclo colturale, in particolare nel post- trapianto e durante la produzione dei frutti.
    Gli apporti di sostanza organica e di elementi fertilizzanti devono essere attentamente valutati, in base alla fertilità e dotazione del terreno, alle esigenze della varietà ed al tipo di coltivazione.
    La distanza delle file è di circa 125 cm; sulla fila 35-35 cm se doppia, 15-20 cm se fila semplice.
    Per aumentare la produzione, contenere le avversità e facilitare la raccolta vengono molto impiegati sistemi di coltivazione senza suolo.
    Produzioni
    Il periodi di raccolta varia a seconda se in coltura protetta o in pieno campo, della latitudine e della varietà (rifiorente o non). In autunno per le produzioni fuori stagione ottenute con piante frigoconservate di varietà unifere; dalla primavera all’autunno con varietà rifiorenti.
    La produzione è molto variabile ed oscilla dai 100 ai 300 q.li/ha.
    La produzione è destinata al consumo fresco, alla surgelazione, alla produzione di marmellate, sciroppi, liquori, gelati, ecc.
    Avversità
    Virosi: Arricciamento, Arrotolamento e Maculatura.
    Micosi: Oidio, Vaiolatura, Muffa grigia e marciumi radicali.
    Danni possono essere provocati da acari, afidi e nematodi.
    Fragolina di bosco (Fragaria vesca L.)
    La fragola selvatica o fragola di bosco (Fragaria vesca) è una pianta erbacea perenne, alta 10-20 cm, con radici rizomatose e lunghi stoloni, striscianti e radicanti, che danno origine a nuove piantine. I fiori sono formati da 5 petali bianchi. Originaria dell'Europa e della Siberia e diffusa in tutte le regioni del mondo, in Italia è comune ovunque. Cresce nei boschi, nelle radure e nei luoghi erbosi, dal piano a 1800 m. Dalla specie originaria sono state selezionate varietà che producono nel corso di tutta l'estate frutti molto profumati ad aroma molto gradevole. E' il più esclusivo frutto di bosco: si utilizza per profumare e decorare gelati, macedonie e torte di frutta.
    Viene coltivata soprattutto in Trentino e il periodo di raccolta va da giugno a settembre.
    Le foglie si possono utilizzare in gradevoli tisane primaverili.


    Fosseno_Raccolta_delle_Fragole_60s
     
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  11. gheagabry
     
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    Il CARRUBO


    E’ destino di molte cose che hanno avuto un passato importante, ritrovarsi, oggi, ai margini della storia. Lo è per tante macchine e strumenti come per popoli e nazioni; lo è per molte piante e animali utilizzati dall’uomo. Questo è toccato al carrubo, un tempo preziosa risorsa di tutto il Mediterraneo, l’oro nero di Cipro, oggi sporadica presenza nei paesaggi rurali più integri. Questo è toccato a molte piante che la moderna agricoltura raggruppa nei cosiddetti “Frutti minori”.

    Il nome scientifico del carrubo (Ceratonia siliqua L.) deriva da greco Keras, che significa corno e dal latino siliqua con riferimento al tipo e alla forma del frutto che, come per tutte le specie della stessa famiglia, è rappresentato da un legume. Il nome comune, invece, deriva dal termine arabo Kharrub da cui Algarrobo, in Spagna, Caroubier, in Francia, Alfarrobeira, in Portogallo e Charaoupi in Grecia. Anche per le regioni italiane è interessante vedere i diversi nomi con cui viene indicata la specie. Così abbiamo Garrubaro o Garrubbo in Calabria, Sciuscella in Campania, Carrua o Carrubbi in Sicilia, Asceneddha in Basilicata e Cornola o Cornula in Puglia. Il carrubo è una pianta originaria della Siria e dell’Asia Minore; il suo arrivo in Europa è incerto; alcuni autori sostengono che sia avvenuto nel medioevo, attraverso la Spagna, dove era stato portato dagli arabi. La sua presenza, allo stato spontaneo, in alcune regioni meridionali come la Sicilia, è considerata, da questi autori, un processo di inselvatichimento a partire da forme coltivate. Altri, invece, sostengono che il carrubo ha, in Europa, una storia molto più antica e che la presenza cercedelle forme spontanee e delle tipiche associazioni vegetali con altre piante autoctone, rappresentano una prova dell’indigenato della specie in Italia meridionale In tempi più recenti il carrubo, come altre specie mediterranee, si è diffuso in altre regioni del Mondo: in Sud Africa e in India, portato dagli inglesi, in Australia dagli emigranti mediterranei, in California, Messico, Argentina, Cile grazie agli spagnoli. Fino agli anni sessanta l’Italia era uno dei paesi di maggiore produzione, al secondo posto dopo la Spagna, tra i paesi del Mediterraneo. Il crollo della produzione, avvenuto negli anni successivi, è stato inesorabile; la sostituzione con colture più redditizie e, soprattutto, la scomparsa dei piccoli allevamenti familiari nei quali erano utilizzati i frutti per l’alimentazione del bestiame ne hanno sancito il netto abbandono. Vetusti carrubi negli oliveti terrazzati lungo la nostra costa sono sempre più il ricordo di raccolte difficili e faticose, di sacchi sulle schiena di contadini che, come capre, salivano e scendevano tra i fazzoletti di terra strappati alla roccia. L’odore dei depositi era penetrante, con i portoni aperti sulla strada dove mercanti e intermediari stagionali facevano visita, alla fine dell’estate, presso le famiglie contadine per contrattare il prezzo e ritirare il carico. Fatta salva la scorta di carrube per l’alimentazione invernale del proprio bestiame, rimanevano le quelle destinate, insieme ai fichi secchi, al mercato dei prodotti per le distillerie.

    I frutti, per il loro alto contenuto di zuccheri si sono prestati utilmente per la produzione di alcool; nelle distillerie pugliesi la lavorazione delle carrube si alternava a quella dei fichi secchi.
    Il procedimento usato per la distillazione consisteva nella frantumazione delle carrube, quindi si pressava la polpa ed il liquido ottenuto veniva sottoposto a fermentazione previa l’aggiunta di lieviti specifici. La resa in alcool, variabile a seconda delle varietà, oscilla tra il 20 ed il 25%.
    Alimento molto gradito agli animali, i frutti del carrubo hanno trovato largo impiego nelle produzione dei mangimi oltre che naturalmente nel consumo diretto, semplicemente sminuzzati, nei piccoli allevamenti familiari.
    Un interessante utilizzo è quello dell’industria farmaceutica e della medicina popolare.
    La farina di carrube ha azione antidiarroica; questa azione, spiegano alcuni autori è dovuta ad un triplice meccanismo d’azione: fisico, per il contenuto di idrati di carbonio che hanno la capacità di assorbire forti quantità di liquido; chimico, l’elevato potere tampone della farina che quindi è in grado di combattere l’acidosi nelle enteriti diarroiche; ed infine un’azione chimico-fisica per l’azione adsorbente della farina sulle tossine presenti nell’intestino. Da tale prodotto si sono, quindi, ricavati preparati farmaceutici come “Arabon” ed “Intromycin”. La medicina popolare fa uso diretto dei frutti in un dolcissimo decotto, utile per la tosse e le bronchiti; viene preparato con 5-6 carrube, altrettanti fichi secchi, qualche foglia di alloro e, in alcuni paesi 50 grammi di orzo, il tutto lasciato bollire per mezz’ora in un litro d’acqua. Quello che ne viene fuori è senza dubbio una bevanda dolce e gradevole da provare anche indipendentemente dalla stato di malattia.
    Dai semi, invece, si ottiene un speciale farina utilizzata nei campi alimentare e farmaceutico per le sue proprietà. Si usava, per esempio, nella fabbricazione di addensanti, emulsionanti, flocculanti, stabilizzanti, in varie preparazioni alimentari e farmaceutiche...Dalle foglie si sono ottenute sostanze tanniche utili per la concia delle pelli. Mentre il legno è utilizzato per lavori di ebanisteria ed anche nella fabbricazione delle barche....Non sono che alcuni dei tanti utilizzi passati, attuali e possibili di cui il carrubo è oggetto; si parla anche di pane di carrube, sciroppo di carrube, surrogato del caffè di carrube, vinello di carrube, liquore di carrube (noto in Turchia con il nome di “Scherbet” ed ottenuto dalla polpa), cioccolato di carrube ecc.., ecc…

    I semi, di forma lenticolare, duri e lucidi, grazie alla loro relativa uniformità di peso, erano utilizzati, in passato, come unità di misura per metalli e preziosi. In greco erano chiamati Keration e da qui l’origine del termine Carato che ancora oggi si identifica nell’unità di misura del grado di purezza di alcuni preziosi.
    Nonostante il ruolo nobile, anche il carrubo rientra nella lista degli alberi incriminati di aver offerto un ramo per il suicidio di Giuda; nel caso specifico si tratta di una tradizione popolare siciliana che riguarda, più precisamente, il carrubo selvatico. In Siria e nell’Asia Minore, invece, la specie era sotto la protezione di San Giorgio; ancora oggi si possono incontrare chiesette dedicate al Santo, protette dalla rassicurante ombra del carrubo.
    Nel comune di Gallipoli tra gli oliveti della masseria Pacciana vive uno dei più antichi esemplari di carrubo d’Italia, certamente tra i più grandi ancora presenti nel Mediterraneo. Come riportano gli autori del libro “Gli alberi monumentali del Salento” questo patriarca arboreo può datare più di 500 anni; con poco meno di 14 metri di circonferenza alla base; nodoso e scavato, dalla chioma ormai sempre più rada presiede, austero ed imponente, un’area dove altre presenze arboree, frutto di vecchi rimboschimenti, rendono l’ambiente di grande interesse e carico di suggestioni.
    Il Carrubo ( Ceratonia siliqua ) è l’albero nazionale del Principato di Monaco. Noto anche come Pane di San Giovanni Battista, Fava di Pitagora, o Fico d’Egitto.

    I frutti, per il loro alto contenuto di zuccheri si sono prestati utilmente per la produzione di alcool; nelle distillerie pugliesi la lavorazione delle carrube si alternava a quella dei fichi secchi.
    Il procedimento usato per la distillazione consisteva nella frantumazione delle carrube, quindi si pressava la polpa ed il liquido ottenuto veniva sottoposto a fermentazione previa l’aggiunta di lieviti specifici. La resa in alcool, variabile a seconda delle varietà, oscilla tra il 20 ed il 25%.
    Alimento molto gradito agli animali, i frutti del carrubo hanno trovato largo impiego nelle produzione dei mangimi oltre che naturalmente nel consumo diretto, semplicemente sminuzzati, nei piccoli allevamenti familiari.
    Un interessante utilizzo è quello dell’industria farmaceutica e della medicina popolare. La farina di carrube ha azione antidiarroica; questa azione, spiegano alcuni autori è dovuta ad un triplice meccanismo d’azione: fisico, per il contenuto di idrati di carbonio che hanno la capacità di assorbire forti quantità di liquido; chimico, l’elevato potere tampone della farina che quindi è in grado di combattere l’acidosi nelle enteriti diarroiche; ed infine un’azione chimico-fisica per l’azione adsorbente della farina sulle tossine presenti nell’intestino. Da tale prodotto si sono, quindi, ricavati preparati farmaceutici come “Arabon” ed “Intromycin”. La medicina popolare fa uso diretto dei frutti in un dolcissimo decotto, utile per la tosse e le bronchiti; viene preparato con 5-6 carrube, altrettanti fichi secchi, qualche foglia di alloro e, in alcuni paesi 50 grammi di orzo, il tutto lasciato bollire per mezz’ora in un litro d’acqua. Quello che ne viene fuori è senza dubbio una bevanda dolce e gradevole da provare anche indipendentemente dalla stato di malattia.
    Dai semi, invece, si ottiene un speciale farina utilizzata nei campi alimentare e farmaceutico per le sue proprietà. Si usava, per esempio, nella fabbricazione di addensanti, emulsionanti, flocculanti, stabilizzanti, in varie preparazioni alimentari e farmaceutiche.
    Dalle foglie si sono ottenute sostanze tanniche utili per la concia delle pelli. Mentre il legno è utilizzato per lavori di ebanisteria ed anche nella fabbricazione delle barche (chiedere ai maestri d’ascia di Marittima per ulteriori dettagli).
    Non sono che alcuni dei tanti utilizzi passati, attuali e possibili di cui il carrubo è oggetto; si parla anche di pane di carrube, sciroppo di carrube, surrogato del caffè di carrube, vinello di carrube, liquore di carrube (noto in Turchia con il nome di “Scherbet” ed ottenuto dalla polpa), cioccolato di carrube ecc.., ecc…
    (Francesco Minonne)

    ....nella storia.....


    Il carrubo esisteva come albero spontaneo nelle terre del bacino orientale del Mediterraneo. La sua coltivazione pare ebbe inizio soltanto al tempo dei Greci, che la estesero in Sicilia, ma furono gli Arabi che ne intensificarono la coltivazione e la propagarono fino in Marocco e in Spagna. Altri Autori sostengono che l'originaria diffusione del carrubo in Sicilia sarebbe dovuta ai Fenici, che della Sicilia furono i colonizzatori più antichi e provenivano da territori, quali il Libano, dove il carrubo può considerarsi originario. Questa pianta per le sue proprietà e caratteristiche fu sicuramente uno degli alberi da frutto più apprezzati dai Fenici e dai Cartaginesi. Nei tempi medioevali furono certamente gli Arabi a interessarsi del carrubo, diffondendolo e intensificandone la coltivazione in tutto il bacino del Mediterraneo. Sul finire del periodo medioevale il carrubo sicuramente doveva essere coltivato in tutte le terre del Mediterraneo accessibili alla sua coltura. Il suo frutto, noto a tutte le popolazioni cristiane d'Europa, veniva utilizzato per la preparazione di prodotti medicinali e di dolci. Nella seconda metà del Settecento interessanti notizie sulla coltura del carrubo in Sicilia vengono fornite dall'abate Sestini, il quale elenca tra le zone di maggiore produzione i territori di Modica, Ragusa, Scicli, Comiso, Noto e Avola. A quel tempo, la produzione siciliana di carrube era valutata in 60 mila quintali l'anno. Di questa enorme produzione, circa 40 mila quintali venivano esportati, mentre il resto era utilizzato come alimento per il bestiame e per la povera gente, oltre che per usi medicinali.
     
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  12. gheagabry
     
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    OLIVELLO SPINOSO



    La particolare denominazione deriva dal suo tronco, che presenta delle spine. Il nome botanico, Hippophae rhamnoides deriva dal greco "Hippo" che significa cavallo e "phao" che significa "io uccido", questo perchè si riteneva in modo errato che i frutti della pianta fossero tossici.
    l genere Hippophae è presente in una vasta area che va dall'Europa all'Asia, includendo Cina, Mongolia, India, Nepal, Pakistan, Russia,Italia, Inghilterra, Francia, Danimarca, Olanda, Polonia, Romania, Finlandia, Svezia e Norvegia. Più del 90%, circa 1.5 milioni di ettari si possono trovare in Cina, dove la pianta viene impiegata per conservare acqua e terra.[1. L'arbusto raggiunge 0.5–6 m di altezza, e raramente arriva fino a 10 m nell'Asia centrale in zone asciutte e sabbiose. Sono resistenti al sale nell'aria e nella terra, ma richiedono abbondante sole per una buona crescita e non sono adatte a luoghi in ombra vicino ad alberi.
    La Hippophae più diffusa è l'Olivello Spinoso che si estende dalle coste dell'Atlantico dell'Europa fino ad attraversare la zona nord est della Cina. Nei paesi dell'Europa occidentale si trova soprattutto confinata nelle zone costiere dove il sale proveniente dal mare non permette ad altre piante più grandi di competere con loro per il territorio. Nell'Asia centrale si trovano distribuite in zone con un clima arido e semi-deserto dove altre piante non riescono a sopravvivere. Nell'Europa centrale ed in Asia si trova anche in una zona subalpina, fino a 1500 m, dove è possibile trovare la Linea degli alberi sulle montagne ed altri luoghi soleggiati come agli argini dei fiumi.


    Quasi nessuno lo sa: l’olivello spinoso (Hippophae rhamnoides L.) non è pianta tipica delle nostre regioni, e non fa parte della macchia mediterranea come il nome potrebbe suggerire. Non troviamo citazioni nella letteratura antica, ma Linneo, proprio lui, il famoso classificatore, riportava come dal succo concentrato delle bacche i popoli nordici preparassero una salsa da accompagnare al salmone.

    Riconoscere l’olivello spinoso è piuttosto facile. Le bacche di colore arancione non possono essere confuse. Persistono lungamente sui rami spogli durante la stagione invernale. Non tutti gli individui portano frutti perché si tratta di una pianta a sessi separati. I fiori, molto precoci e ad impollinazione anemofila, sono poco appariscenti. Le foglie sono quasi sessili e questo, insieme alla geometria dei rami, contribuisce a conferire alla pianta un aspetto quasi primitivo comune a molte piante pioniere. Sono lineari e lanceolate, di colore verde nella lamina superiore e di colore argento in quella inferiore. Cadono in concomitanza con la maturazione dei frutti. La corteccia dei rami rigidi, spinosi e intricati è di colore grigio argento, quella del tronco è chiara.
    Ama i luoghi soleggiati e prospera lungo le scarpate, i terreni franosi, i margini delle strade fino a quando non viene dominata dall’arrivo delle latifoglie. Abbastanza rara nel sud della penisola può essere trovata al nord fin verso i 1.500 metri d’altezza.

    L’olivello spinoso potrà esserci d’aiuto anche quando vorremo tingere tessuti con coloranti naturali. Le parti da impiegare sono le foglie e i rametti per ottenere tinte dal nocciola dorato al marrone rosato. Il succo delle bacche era utilizzato in passato per dare lucentezza al mantello dei cavalli.


    La vera particolarità sono indubbiamente le bacche, che rimangono sui rami per tutto l'inverno e che potrebbero essere assunti come medicina contro i malanni di stagione visto il loro elevato contenuto di Vitamina C, ma anche Vitamina A, E, P e numerose altre del gruppo B se non fossero così acidule. Inoltre possiedono numerosi flavonoidi e diverse sostanze minerali, come ferro, calcio, magnesio e rame. Sicuramente è meglio ingerirle tramite sciroppi o decotti che, pur conservandone le proprietà terapeutiche, ne camuffano in parte lo sgradevole sapore. Basti pensare che un tempo erano utilizzate nelle vigne, per tenere lontani "i morsi degli animali e la mano degli uomini", come ci racconta la tradizione. E quando il noto illuminista francese Jean Jacques Rousseau, esperto naturalista, scrisse "Sogni di un solitario passeggiatore", raccontò di aver mangiato delle bacche di olivello spinoso così amare da temere che fossero mortali. Eppure le proprietà di questi frutti sono numerose e davvero sorprendenti. In Europa settentrionale erano note da tempo le virtù terapeutiche delle "olivelle". Nella seconda metà del Cinquecento un medico tedesco ne prescrisse l'uso contro il mal di mare e i disturbi allo stomaco, perchè capaci di togliere la sete e di svolgere un effetto purgante. I Paesi Scandinavi conoscevano ed usavano tali bacche già secoli prima, non solo nella medicina popolare, ma anche in cucina, dove venivano impiegate nella preparazione di marmellate, di composti di frutta secca con miele e di condimenti, conservandole, in quest'ultimo caso, sotto sale o aceto.
    “L’alimentazione del popolo in tempo di guerra” è il titolo del volume del Prof. A. Herlitzka che ci illustra le virtù alimentari dell’olivello spinoso, non è possibile trovarlo perché quando fu pubblicato costava soltanto 10 centesimi, di lira e non di euro, per dare un’idea di quanto può essere vecchio.
    I tedeschi nella guerra del 15-18 fecero incetta di bacche lungo le rive del fiume Piave da distribuire alla truppa come energetico. La scelta si rivelò una scelta felice perché gli studi successivi confermarono questa valenza e l’interessantissimo apporto di vitamina C.
    I frutti sono ricchissimi di vitamina C e, ancora più importante, sono privi dell’enzima che porta alla degradazione dell’acido ascorbico. La naturale acidità, un pH inferiore a 3, contribuisce a proteggere questo prezioso componente presente in una concentrazione quattro volte superiore a quella del limone.
    (dal web)
     
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  13. gheagabry
     
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    Il noce

    La mia testa è una nuvola schiumosa,
    il mare è nel mio petto.
    Io sono un noce nel parco Ghiulkhan,
    cresciuto, vecchio, ramoso – guarda! -
    ma né la polizia né tu lo sapete.

    Io sono un noce nel parco Ghiulkhan.
    E le foglie, come pesciolini, vibrano dall’alba alla sera,
    frusciano come un fazzoletto di seta; prendi,
    strappale, o mia cara, e asciuga le tue lacrime.

    Le mie foglie sono le mie mani, centomila mani verdi,
    centomila mani io tendo, e ti tocco, Istanbul.
    Le mie foglie sono i miei occhi, e io guardo intorno,
    con centomila occhi ti guardo, Istanbul.

    Le mie foglie battono, come centomila cuori.
    Io sono un noce nel parco Ghiulkhan,
    ma né la polizia né tu lo sapete.



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    Arancio spinoso, albero da frutto

    arancio-spinoso

    L’Arancio spinoso o Arancio trifogliato (nome scientifico Poncirus trifoliata) è un albero da frutto originario della Cina, ma ormai diffuso in tutte le zone a clima temperato del Pianeta. Si tratta di una pianta che non supera i sette metri di altezza, tanto che nella maggior parte dei casi viene coltivato in vaso alla stregua di un albero nano. Presenta fusti molto ramificati e rami ricoperti di lunghe e pungenti spine. Le foglie sono costituite a loro volata da tre foglioline di colore verde più o meno chiaro.


    I fiori sono singoli, di colore bianco, e fanno la propria comparsa nel corso della stagione primaverile. I frutti sono costituiti da bacche di 4-5 centimetri, tondeggianti e ruvidi, di colore verde o arancio a seconda del grado di maturazione. L’Arancio spinoso si coltiva per lo più come pianta ornamentale o come portainnesto per altri tipi di agrumi.

    Arancio spinoso (Poncirus trifoliata)
    Fioritura: nel corso della stagione primaverile
    Impianto: in primavera
    Tipo di pianta: arborea perenne
    Altezza max: sette metri
    Esposizione
    L'Arancio spinoso va collocato in una zona luminosa del giardino, in modo che possa ricevere il sole diretto del diverse ore nel corso della giornata. Tollera il freddo intenso della stagione invernale ed è per questo che può essere tenuto all'esterno delle mura domestiche per gran parte dell'anno.
    Terreno
    Si adatta a qualunque tipo di terreno, pur preferendo quello sciolto, profondo e ben drenato. Per una crescita ottimale è meglio evitare un terreno calcareo e puntare invece su quello acido o neutro.
    Innaffiatura
    L'Arancio spinoso si accontenta dell'acqua piovana, richiedendo l'intervento umano solo in presenza di esemplari giovani o coltivati in vaso. E' opportuno evitare i ristagni idrici ed attendere che il terreno si asciughi completamente tra un intervento e l'altro.
    Malattie e avversità
    Può essere colpito da virosi a parassiti vari. In caso di attacco è necessario intervenire con tempestività, utilizzando prodotti specifici.
    Concimazione
    In primavera e nel corso della stagione autunnale è consigliabile utilizzare dello stallatico maturo per arricchire il terreno e favorire lo sviluppo della pianta.
    Moltiplicazione
    Si propaga per semina o per talea nel corso della stagione primaverile.

     
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    Durio, albero da frutto

    jpg

    Il Durian o Durio zibethinus è un albero da frutto poco coltivato alle nostre latitudini, trovando il suo habitat ideale in India, nelle Filippine, in Thailandia ed in alcune zone della Cina e dell’Australia. Si tratta di una pianta appartenente alla famiglia delle Bombacacee, caratterizzata da fusti che allo stato naturale possono raggiungere i 40 metri di altezza. Le foglie sono lunghe fino a 25 centimetri e presentano una colorazione verde-lucido sulla pagina superiore, grigio-argentea su quella inferiore.
    durio_zibethinus_flowers_small
    I fiori sono di colore bianco e fanno la propria comparsa nel corso della tarda primavera, inondando l’ambiente circostante con il loro particolare odore. I frutti sono costituiti da capsule globose o ellittiche, ricoperte da un epicarpo spinoso. La particolarità dei frutti sta nella curiosa diversità tra odore e sapore, il primo assolutamente disgustoso, il secondo gradevole. Come detto in precedenza, la coltivazione del Durio è assai rara nelle nostre regioni, poiché è dfficile ricreare l’ambiente adatto per la crescita della pianta.

    Durian (Durio zibethinus)
    Fioritura: nel corso della tarda primavera
    Impianto: in primavera
    Tipo di pianta: arborea perenne
    Altezza max: in natura può raggiungere i 40 metri di altezza
    Esposizione
    Il Durio va collocato in posizione luminosa, facendo in modo che il sole diretto colpisca la pianta solo per alcune ore nel corso della giornata. Essendo una pianta tropicale, non ama il freddo e teme in modo particolare i venti gelidi.
    Terreno
    Il substrato deve essere profondo, fertile e ricco di sostanza organica per garantire il corretto sviluppo alla pianta.
    Innaffiatura
    Necessita di irrigazioni regolari specie nella stagione più calda dell'anno e nei periodi di siccità elevata.
    Malattie e avversità
    Può essere colpito da marciumi radicali e da malattie fungine nel caso di umidità eccessiva. Uno scarso grado di umidità può provocare gravi danni alla fruttificazione.
    Concimazione
    Nella fase di messa a dimora è necessario arricchire il terreno con dello stallatico maturo per garantire alla pianta uno sviluppo equilibrato.
    Moltiplicazione
    Il Durio si propaga per semina o per innesto nel corso della stagione primaverile.

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