LA STORIA COMPLETA DEL VINO

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    STORIA DEL VINO



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    Le origini del Vino:


    Come bisogna andare lontano per raccontare la storia del vino!
    Sembra che la "vitis vitifera", a cui appartengono quasi tutte le moderne varietà a frutto bianco e rosso, abbia abitato il nostro pianeta sin dai tempi preistorici e che addirittura fosse una delle prime piante a crescere spontaneamente ben 50 milioni di anni fa.

    La Preistoria:


    Si pensava poi che il primo riferimento all’uso del vino fosse quello della Genesi, dove nel Capitolo 9 si racconta:

    “Noè agricoltore si mise a lavorare la terra, e piantò una vigna;
    Ed avendo bevuto del vino ne fu ubriacato, e restò scoperto nella sua tenda...”



    Si racconta sempre nella Bibbia che, essendo appunto la prima vigna piantata da Noè, sopravvissuto al diluvio, Satana si presentò al patriarca offrendogli il suo aiuto. Noè acconsentì e il diavolo prese un agnello, lo sgozzò e bagnò col sangue la zolla dissodata, quindi disse: “Ciò significa che chi berrà vino con moderazione sarà mite come un agnello”. Poi l’infernale aiutante uccise un leone e ne versò il sangue su un'altra zolla, aggiungendo: "Questo per dimostrare che chi berrà un po' più del necessario si sentirà forte come il re della foresta". Infine ammazzò un maiale, irrorò una terza zolla e concluse: "Chi ne berrà smodatamente, si rotolerà nel brago come un porco".
    Eppure recentemente, nella regione dell’antica Mesopotamia è stato rinvenuto un inno risalente al 4000 a.C. (quindi ad epoca prebiblica), composto in occasione dell’inaugurazione del tempio di Enki, dio della sapienza nella città di Eridu, in un passo del quale si legge:

    “Enki s'avvicinò alle provviste delle bevande inebrianti, s'accostò al vino;
    Mischiò con generosità birra di spelta;
    In una botte apposita,che la bevanda rende buona, mischiò;
    La sua bocca con miele e datteri in parti (uguali) trattò;
    Nel suo interno, miele, con generosità, sciolse in acqua fresca;
    Enki, al padre, in Nippur,
    A suo padre Enlil, pane diede a mangiare (preparò un banchetto)
    An sedette al posto d'onore,
    A fianco di An si pose Enlil;
    Nintu sedette su una poltrona,
    Gli Anunanki per ordine presero posto,
    Gli inservienti offrono birra, preparano vino...”



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    Ma allora il vino si produceva già da migliaia di anni, certo attraverso l’uso di vitigni selvatici e con tecniche assai diverse da quelle odierne. Inoltre, per gli antichi il vino non era tanto un prodotto caratterizzato a seconda dei vari vitigni, quanto un punto di partenza per ogni tipo di bevanda, a cui si potevano aggiungere acqua, miele, pece, resine e qualsiasi altro tipo di aroma. Molto probabilmente la "vitis vitifera" arrivò dall’India, dalla cui regione si espanse poi per il resto dell’Asia, fermandosi nella “mezzaluna fertile” racchiusa tra il Tigri e l’Eufrate e raggiungendo quindi le sponde del Mediterraneo. Alcuni studiosi affermano anche che il termine “vino” provenga dalla parola sanscrita "vena", che significava “amare” (da cui anche il nome Venere).

    Sembra però che la zona di primo interesse per quello che riguarda la pratica di far fermentare il mosto, sia stata la regione transcaucasica (le attuali Armenia e Georgia), dove già si praticava la spremitura delle uve. Una delle sei giare che contenevano vino resinato, ritrovate nella “cucina” di una residenza Neolitica a Hajji Firuz Tepe (Iran). Chiazze di residui rossastri coprivano la parete interna di questo contenitore (altezza 23,50 cm.)


    Periodo Neolitico



    Fu però soltanto a partire dal periodo Neolitico (8000-4500 a.C.) che per la prima volta nella storia dell’umanità si crearono le condizioni necessarie alla produzione del vino. Il primo elemento da considerare è il fatto che proprio allora le comunità del Medio Oriente e dell’Egitto si trasformarono da nomadi in stanziali, e gli insediamenti vennero così facilitati sia dalla coltivazione delle piante che dall’allevamento degli animali. Con la sicurezza dell’approvvigionamento del cibo, sconosciuta ai gruppi nomadi, e con una stabile base operativa, si affaccia nella storia dell’uomo il primo concetto di “cucina” neolitica. Con l’aiuto di una serie di tecniche e procedimenti (fermentazione, ammollo, cottura, condimento, ecc.) i popoli Neolitici furono i primi a produrre pani, birre e un assortimento di piatti a base di carni e cereali, che ancora oggi ritroviamo sulle nostre tavole.
    L’arte della preparazione dei cibi, così come nella conservazione e presentazione delle pietanze, avanzò di pari passo con la nuova cucina. Di particolare importanza fu la comparsa del vasellame, intorno al 6000 a.C. La natura plastica dell’argilla la rese materiale ideale per la creazione di tini e giare per la produzione e la conservazione del vino. Dopo aver cotto l’argilla ad alte temperature, il materiale che ne risulta è essenzialmente indistruttibile e la sua natura porosa favorisce l’assorbimento delle sostanze organiche. Infatti i primi vini venivano pigiati insieme a bacche di rovo, lampone e sambuco proprio in fosse scavate nella terra e rivestite di argilla per renderle impermeabili.
    Importantissima per capire le tecniche adottate nella produzione del vino in Età Neolitica è stata l’analisi dei residui presenti all’interno di una giara ritrovata nel 1968 dall’archeologa Mary M. Voigt, durante gli scavi a Hajji Firuz Tepe, sulle montagne di Zagros in Iran. La giara (con una capacità di 9 litri) fu ritrovata con altri 5 esemplari interrata nel pavimento lungo uno dei muri perimetrali della “cucina”, all’interno di una residenza Neolitica costruita con mattoni di argilla, risalente circa al 5400-5000 a.C. La vasta abitazione poteva accomodare un’ampia famiglia, e la dimostrazione che quel vano fosse adibito a cucina è stato il ritrovamento di vari pezzi di vasellame, probabilmente utilizzati per preparare e cucinare i cibi, e di un focolare.

    Riproduzione di un sigillo circolare impresso sul tappo di una giara, riportante il nome di Khasekhemwy, la Dinastia di due faraoni. Esso mostra una vite aggrappata a un graticcio o a un albero.

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    Gli Egiziani



    Sebbene i primi documenti riguardanti la coltivazione della vite risalgano al 1700 a.C., è solo con la civiltà egizia che si sviluppa la produzione del vino. Erodoto testimonia che il popolo egiziano normalmente beveva birra (da lui chiamata “vino di orzo”), precisando che essi usavano questa bevanda perché nelle loro terre non esistevano le viti. Erodoto ignorava che invece in Egitto si produceva vino il quale veniva offerto con le vivande a sacerdoti, alti funzionari e re.
    La vite selvatica non crebbe mai spontanea nel paese, eppure una fiorente industria del vino prosperò lungo il delta del Nilo (soprattutto grazie al traffico di commerci tra Egitto e Palestina – l’area attualmente occupata da Israele, West Bank, Gaza e Giordania - durante l’Era del Bronzo) per almeno tre Dinastie (ca. 2700 a.C.), all’inizio dell’Antico Regno.
    Le prime attestazioni dell'attività vinicola presso gli antichi Egizi sono giunte a noi da due affreschi conservati a Tebe provenienti dalla tomba di Nakt della XVIII dinastia (1420-1411) con riproduzione della vendemmia, e dalla tomba di Userhat, regno di Amenofi (1450-1425), con riproduzione della pigiatura e della registrazione delle giare.
    I vini prodotti erano soprattutto rossi, ne dà prova il fatto che le uve raffigurate sono solo di qualità nera, cioè quelle tipiche dei climi temperati. Il vino veniva conservato in anfore dallo stretto collo, solitamente a due manici, sigillate con un tappo circolare di terracotta e da un coperchio conico di argilla che veniva fortemente pressato lungo il bordo. Su questa copertura di argilla venivano solitamente impressi vari sigilli cilindrici riportanti il nome del faraone. Nell'antico Egitto la pratica della vinificazione era talmente consolidata che da tombe e palazzi, risalenti ad almeno 5.000 anni fa, gli archeologi hanno riportato alla luce anfore provviste di etichette che riportavano con la massima precisione caratteristiche e provenienza del contenuto. Questi sigilli di garanzia fornivano anche informazioni sul nome del vino, la regione di provenienza della vite, l'anno di produzione, il titolare della primordiale azienda vinicola e addirittura un giudizio di qualità della bevanda. In alcune di queste anfore è stato ritrovato anche del vino conservato da diversi anni, esempio dei primi tentativi di attuare la pratica dell’invecchiamento.

    Alcuni geroglifici risalenti al 2500 a.C. descrivono già la presenza di almeno cinque tipi di vino che costituivano parte degli approvvigionamenti – o come diremmo oggi, il “menù fisso” – che il defunto avrebbe portato con sé nell’aldilà. Inoltre esistono pitture murarie egizie rappresentanti banchetti e anche persone in stato di ubriachezza.
    Gli Egizi usavano il vino anche per i sacrifici, durante i quali accendevano il fuoco e versavano il vino sulla vittima (normalmente si usavano bovini o, in occasione di sacrifici particolari, il maiale), uccidendola e invocando il dio. Tali funzioni si eseguivano in quanto i mali, che altrimenti sarebbero ricaduti sui sacrificanti o sull'Egitto intero, dovevano invece ricadere sulla vittima.
    Dall'Egitto la pratica della vinificazione si diffuse presso gli Ebrei, gli Arabi e i Greci. Questi dedicarono al vino una divinità: Dionisio, Dio della convivialità.

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    I Greci - Nasce l'arte del vino:



    La penisola ellenica, madre della civiltà occidentale moderna, ha avuto il merito di diffondere la cultura del vino, la cosiddetta "bevanda di Dioniso”, nel resto dell'Europa.
    Nel mondo greco il saper produrre vino di qualità era segno di cultura e civiltà: "chi usa vino è civile, chi non ne usa è un barbaro", dicevano i greci. I cosiddetti "barbari", infatti, usavano prevalentemente la birra (le cui origini non sono meno antiche).
    In antichità i vini greci, in particolare quelli dolci, erano famosi ovunque, soprattutto nell'antica Roma, e gli antichi colonizzatori greci introdussero la vite e il culto del vino nelle terre in cui si stabilirono. Questa bevanda ha ricoperto un ruolo fondamentale sin dai primi periodi della formazione e dello sviluppo della civiltà ellenica, e fu proprio nell'antica Grecia che il vino assunse un ruolo importante, per poi diffondersi in tutto il bacino del Mediterraneo. Pare infatti assodato che siano stati i Greci, un millennio prima di Cristo, a introdurre la vite in Nord Africa, Andalusia, Provenza, Italia meridionale e Sicilia. Non a caso nel V secolo a.C. Sofocle proclamò l'Italia il paese “prediletto da Bacco”, mentre altri scrittori diedero il nome di "Enotria" ("paese dei pali da vite") alle terre abitate dalle antiche popolazioni illiriche stabilitesi sulle coste di Calabria, Lucania e sud della Campania. Esse infatti disponevano le viti, tenute basse, a tre a tre, legate in piccole piramidi.

    I Greci svilupparono da subito efficaci tecniche di viticoltura, favorendo la coltivazione della vite e la produzione di vino, fino a farli divenire parte integrante delle culture e dei riti dei popoli mediterranei. Però con molta probabilità il vino che si beveva nell'antica Grecia non era solamente quello prodotto nel paese; alcuni reperti archeologici, in particolare antichi vasi ritrovati a Micene non appartenenti all'arte e all'artigianato greco, suggeriscono che già a quei tempi si importava vino prodotto in altre zone. Durante il periodo classico la vite era ampiamente diffusa in tutto il paese e i Greci introdussero le loro specie di uve anche nei paesi colonizzati, in particolare l’Italia, dove sono ancora coltivate diverse specie che si ritiene abbiano una diretta derivazione greca.
    Anche il commercio del vino rappresentava un aspetto importante per la Grecia. Reperti archeologici scoperti nei vari paesi del Mediterraneo, ma anche in Medio Oriente, testimoniano che il vino costituiva un prodotto molto importante per l'economia greca ed era una preziosa merce di scambio.
    I Greci contribuirono enormemente alla viticoltura e all'enologia: già nell'antica Grecia si trovano in molti testi riferimenti precisi sulle pratiche di coltivazione dell'uva e sulle tecniche enologiche. Anche le decorazioni del ricco patrimonio di vasi e coppe di epoca antica testimoniano, con le loro illustrazioni, varie scene della vendemmia e dei metodi adottati nella produzione del vino. La frequenza delle citazioni letterarie e delle illustrazioni artistiche è così elevata da far pensare al vino come a un elemento quasi centrale nella vita e nella cultura degli uomini di quei tempi. Alcuni miti sull’origine della vite e della bevanda che da essa deriva, attribuivano loro caratteristiche dannose e benefiche al tempo stesso. Per questo motivo, quasi tutte le città stabilirono precise leggi volte a regolamentarne l’uso. Il vino puro era detto "¥kratoj" (non mescolato) e possedeva un carattere decisamente negativo, quindi berlo veniva considerato barbaro.
    Tra l'altro, il vino era elemento essenziale in uno dei più importanti eventi sociali dell'antica Grecia, il simposio (letteralmente “bere insieme”), che si svolgeva in una sala, solitamente di dimensioni ridotte, in cui erano generalmente ospitati dai sette agli undici partecipanti, sdraiati su dei sofà, ai quali veniva servito il vino. Tali cerimonie si diffusero anche in Italia e la loro popolarità rimase intatta praticamente fino alla fine dell'era antica. Il vino (che, come già si diceva, non veniva consumato puro, bensì mescolato ad acqua) era contenuto nel "cratere", cioè il vaso comune, l'oggetto in cui avveniva materialmente la diluizione con l'acqua, posto al centro della sala. Il delicato compito della diluizione spettava al "simposiarca", il maestro di cerimonia, che aveva anche il compito di regolare lo svolgimento del rito, stabilendo il momento in cui si doveva bere il vino e in che quantità. Il simposio era un evento della vita sociale greca in cui persone della stessa estrazione si riunivano in un momento di vita consociata allo scopo di scambiarsi idee e opinioni riguardo a vari argomenti, e un luogo di riflessione dove si cercava di comprendere meglio le pratiche sociali greche, dove si sviluppava la memoria collettiva, poetica e visiva, accompagnando le discussioni con cibo e vino. In quanto rivelatore di verità, il vino veniva anche concepito come strumento pedagogico: secondo Platone, si trattava di una sorta di esperimento che permetteva di conoscere veramente gli altri, rendendo così possibile il miglioramento della loro natura. Il proverbio "in vino veritas" è stato attribuito al poeta greco Alceo, e si riferiva proprio all'azione del vino quale forza liberatrice da ogni falso ritegno a dire la nuda verità, senza infingimento alcuno.

    Il vino prodotto nell'antica Grecia era piuttosto diverso dal vino che siamo soliti apprezzare ai giorni nostri. Normalmente i vini greci erano diversificati per il loro colore, proprio come avviene ancora oggi, e si classificavano come bianchi, neri o rossi, e mogano. Pare che i Greci ponessero particolare attenzione agli aromi del vino, che spesso definivano come “floreali”, tuttavia nella letteratura dell'epoca si descrivono alcuni vini in modo più dettagliato, facendo un riferimento esplicito a particolari fiori, come la violetta e la rosa. Il gusto del vino, o meglio il gusto che si preferiva nel vino a quei tempi, era dolce, anche molto, e non a caso l'abitudine di produrre la bevanda facendo uso di uva appassita era assai frequente. I vini passiti erano ampiamente apprezzati nell'antica Grecia e spesso la dolcezza veniva concentrata mediante l'ebollizione che ne riduceva la quantità d'acqua. Tuttavia a quei tempi non esistevano solo i vini dolci. Si hanno notizie di vini prodotti con uve acerbe e con un'acidità così pronunciata che facevano addirittura lacrimare gli occhi, così come vini secchi, sia bianchi che rossi, a conferma che l'enologia dell'antica Grecia era piuttosto varia. Il problema principale dei vini di quell'epoca era la loro poca capacità di conservazione a causa dei contenitori utilizzati e, soprattutto, alla scarsa tenuta all'aria. I vini si ossidavano piuttosto rapidamente e i Greci furono costretti ad adottare misure che garantissero una maggiore conservabilità del vino. L'aggiunta della resina di pino nel vino in fermentazione rappresentava uno di questi rimedi, che troviamo ancora oggi in uno dei prodotti più celebri in Grecia, il "Retsina", in quanto si riteneva che questo componente possedesse delle qualità conservanti.


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    I Greci - Dioniso e Ulisse:



    Il vino era per i Greci una bevanda sacra alla quale attribuivano un'importanza e una dignità assai elevata: reperti archeologici precedenti alla cultura Micenea, risalenti a prima del 1600 a.C., testimoniano che il vino era già a quei tempi utilizzato come bevanda per scopi rituali (vedi il simposio in “I Greci – Parte Prima”) e religiosi.
    Esso da subito divenne simbolo di amicizia tra gli uomini, come tra questi e gli dei, e proprio in tal senso può essere considerato una delle prime sostanze naturali usate a scopi religiosi.
    La mitologia greca riconosceva anche un dio del vino, Dioniso, che rivelò agli uomini i segreti della produzione della bevanda. L'iniziazione al culto di questa divinità prevedeva bere del vino e in suo onore si celebravano le cosiddette “orge dionisiache”, delle vere e proprie feste dedicate al nettare d’uva.
    Già in età micenea, il mito di Dioniso era diffuso in Grecia. Dio della vegetazione, della fertilità, della procreazione, della vite e del vino, il suo culto era originario della Tracia, della Frigia, oppure della Lidia (il nome "Bakcos" è di origine lidia). Il vino era usato nella liturgia delle feste dionisiache, nei culti orfici (nei quali Dio è equiparato a un vignaiolo) ed era, presso i Romani, consumato in abbondanza nei rituali di Bacco.
    Il popolo greco, forse dotato di immaginazione più degli altri, trovò giusto affidare ai narratori in versi e in prosa l'incarico di spiegare l'origine del mondo e della natura. I cantori di gesta crearono gli Dei a immagine e somiglianza umana e li colmarono di ogni dote fisica e spirituale, perciò gli Dei greci furono preda di virtù e vizi, passioni e amori, subirono lotte, sconfitte e vittorie. Nei poemi di Omero ed Esiodo essi, pur avendo una splendida irrequieta umanità, conservarono la dignitosa maestà dei dominatori del mondo e la formidabile potenza delle grandi forze della natura.

    Così la vite e il vino sono stati solennemente celebrati nelle opere letterarie poiché si considerava il vino un dono speciale delle divinità. Dioniso però istruisce gli uomini sul modo in cui servirsi del tanto prezioso dono: esso deve essere necessariamente mescolato all’acqua (anche perché il vino utilizzato dai Greci presentava un’altissima gradazione alcolica).
    Omero fu sicuramente il più grande poeta greco, nato intorno al VIII secolo a.C. Nell’Odissea egli racconta le vicende di Ulisse che, dopo aver combattuto e sconfitto la città di Troia grazie al famoso cavallo di legno da lui inventato, intraprese il viaggio di ritorno a Itaca, la sua terra d’origine. Fermatosi in un'isola chiamata Scheria (forse l'attuale Corfù), come ospite presso Alcinoo, re dei Feaci, viene invitato a un banchetto in suo onore, nel quale Ulisse racconta le sue avventure nella terra dei Ciclopi:

    "Giungemmo alla terra dei Ciclopi, prepotenti e selvaggi. Essi lasciano fare agli dei: non piantano un albero con le loro mani, non arano. Ma senza semine e senza colture tutto là viene su, il frumento e l'orzo, e viti che portano grappoli enormi, da vino: glieli ingrossa così la pioggia di Zeus…" Racconta anche la storia terribile del fortissimo Ciclope, che li tenne prigionieri nella sua grotta, cibandosi, di tanto in tanto, dei compagni di Ulisse: "Allora io mi feci avanti. Andai vicino al Ciclope, gli parlavo, tenendo fra le mani una ciotola colma di vino nero. Dicevo: 'Ciclope, to', bevi vino ora che hai mangiato carni d'uomo. Così saprai che sorta di bevanda è questa che la nave nostra teneva in serbo. Io ti portavo una libagione, se mai avevi pietà di me e mi rimandavi a casa. Ma tu fai il furioso, non sei più sopportabile. Sciagurato! e come potrà venir qui da te, un domani, qualche altro dei tanti uomini della terra? Non ti comporti a dovere.' Così dicevo. Egli prese la ciotola e bevve fino in fondo: e gustò visibilmente la dolce bevanda, e me ne chiedeva ancora, una seconda volta: 'Dammene ancora, da bravo. E dimmi il tuo nome subito, ora. Voglio fartelo, il dono ospitale: e tu ne sarai contento. Anche ai Ciclopi produce la terra vino da grossi grappoli: ma questo è uno zampillo di nettare e d'ambrosia.' Così diceva. E io gli porsi ancora una volta di quel vino rosso. Tre volte gliene diedi e tre volte egli bevve d'un fiato, nella sua stoltezza. E quando il vino gli andò giù, al Ciclope, fino ai precordi, mi rivolgevo a lui con dolci parole: 'Ciclope, tu mi domandi il mio nome. Ed io te lo dirò. Ma tu dammi il dono ospitale come promettesti. Nessuno è il mio nome: Nessuno mi chiamano la madre e il padre e anche tutti i compagni.' Così parlavo. Ed egli subito mi rispose, lo spietato: 'Nessuno, io, per ultimo me lo mangerò, fra i suoi compagni: quegli altri là, prima. Questo sarà per te il mio dono ospitale.' Così disse. E rovesciandosi indietro cadde supino. E là giaceva immobile, con la grossa cervice piegata da un lato. Lo soggiogava il sonno che tutto doma. E dalla gola gli venivano su sgorghi di vino e bocconi di carne umana. Ruttava e vomitava, ubriaco com'era…”

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    Sempre nell'Odissea, Omero nel libro IX dedica un intero passo al vino di Marone, che così recita:

    "Lascio i compagni della nava a guardia,
    E con dodici sol, che i più robusti
    Mi pareano e più arditi, in via mi pongo,
    Meco in otre caprin recando un negro
    Licor nettàreo, che ci diè Marone
    D'Evanteo figlio, e sacerdote a Febo,
    Cui d'Ismaro le torri erano in cura.
    Soggiornava del Dio nel verde bosco,
    E noi, di santa riverenza tocchi,
    Con la moglie il salvammo e con la prole.
    Quindi ei mi porse incliti doni: sette
    Talenti d'òr ben lavorato, un'urna
    D'argento tutta, e dodici d'un vino
    Soave, incorruttibile, celeste,
    Anfore colme; un vin ch'egli, la casta
    Moglie e la fida dispensiera solo,
    Non donzelli sapeanlo, e non ancelle.
    Quandunque ne bevean, chi empiea la tazza,
    Venti metri infondea d'acqua di fonte,
    E tal dall'urna scoverchiata odore
    Spirava, e sì divin, che somma noia
    Stato sarìa non confortarne il petto.
    Io dell'alma bevanda un otre adunque
    Tenea, tenea vivande a un zaino in grembo:
    Ché ben diceami il cor quale di strana
    Forza dotato le gran membra, e insieme
    Debil conoscitor di leggi e dritti,
    Salvatic'uom mi si farebbe incontra."




    Gli Etruschi - Etruria, terra del vino:



    Piano piano la vite si diffuse in Sicilia, in Puglia, in Campania, in Toscana, nel Lazio, fino ad arrivare all'antica Rezia, quella vasta regione che abbracciava Trentino, Valtellina e Friuli. I semi di vite trovati nelle tombe del Chianti proverebbero che gli Etruschi portarono questa pianta dall'oriente e l'acclimatarono in Italia, mentre invece secondo alcuni studi recenti sembra che la vite esistesse in Toscana già prima della comparsa dell'uomo. Trovandola, gli Etruschi (popolo ancora oggi dalle origini misteriose) colonizzatori dell'entroterra toscano e probabili primi abitatori delle zone del Chianti, l'avrebbero "addomesticata" da selvatica che era. Quindi, non sarebbero stati i navigatori fenici a portare la pianta in Toscana, dove esisteva già: lo dimostrerebbero i reperti di travertino affiorati nella zona di San Vivaldo, dove furono ritrovate impronte fossili della "vitis vinifera" che laggiù cresceva spontanea. Il vino, "miele del cuore" come lo definisce Omero, era bevuto dagli Etruschi nella "patera", una coppa ovoidale, con due manici per poterla portare alle labbra, in uso ben sette secoli prima di Cristo.
    Comunque sia, nella cultura degli Etruschi (così come nella maggior parte delle popolazioni antiche) il culto del vino si fondeva con i riti legati alla spiritualità e con la vita quotidiana. Col vino si onoravano i morti, insieme alla danza e al suono dei flauti. Soprattutto nel ceto aristocratico, erano diffuse pratiche religiose in onore di "Fufluns" (Bacco), il dio del vino. Questi riti segreti e strettamente riservati agli iniziati, grazie all’ebrezza provocata dalla bevanda, avevano il fine di raggiungere la “possessione” del dio nel mondo terreno, garantendo così in anticipo una sorte felice nell’aldilà. Sugli affreschi ritrovati nelle tombe etrusche, si ammirano coppie che brindano e su di un vaso di bucchero ritrovato a Chiusi, è possibile vedere una donna che porge un "cantàro" a due uomini che giocano a dadi seduti al tavolo. Infatti, contrariamente a quanto avveniva presso i Romani, dove ciò era considerato licenzioso e prova di scarsa moralità, le donne etrusche godevano di enorme libertà, potevano bere vino e perfino partecipare ai banchetti conviviali, adagiate sui "klinai" (sorta di divano) accanto al loro uomo.

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    Il vino era legato anche a momenti di gioco e di svago. In affreschi tombali tarquinesi, si osservano i convitati che al termine del banchetto, sdraiati sui klinai, a turno lanciano il vino contenuto in una coppa contro un piattello metallico tenuto in equilibrio su un'asta alta circa due metri. Probabilmente il fine era quello di ottenere dei suoni che venivano poi imitati. Il gioco, noto come il "kottaboi", richiedeva una particolare destrezza interpretativa. Alla fine al vincitore veniva assegnato un premio.
    Fra i tanti oggetti rinvenuti nei corredi funerari, è stata ritrovata una piccola grattugia di bronzo, usata probabilmente dagli Etruschi per preparare una delizia simile al "kykeion", la mistura bevuta dagli “eroi omerici”. Degustata come aperitivo, veniva preparata con vino forte, orzo, miele e con l’aggiunta di formaggio grattugiato.
    I piaceri del vino etrusco furono cantati da poeti antichi, quali Plinio e Virgilio. Ecco ad esempio un passo delle Georgiche dove Virgilio celebra la ricca terra di Etruria, fertile d'uva e di vino:

    "Salve, grande genitrice di messi, terra Saturnia,
    grande madre di eroi.
    Ma il suolo grasso e ricco di fecondi umori e il campo coperto d'erba,
    fertile e ubertoso...
    ti offriranno un giorno viti rigogliose e fluenti
    di molto Bacco..."
    (Georg. II, 173)




    Gli Etruschi - I Vitigni, il commercio e i Celti



    Per quanto riguarda le zone e i vitigni coltivati dagli Etruschi, alcuni scritti di Plinio testimoniano in modo abbastanza preciso la produzione vitivinicola in Etruria. A Populonia, Gravisca (antico porto di Tarquinia) e nell'antica Statonia (nel territorio di Vulci) già nel 540-530 a.C. i vigneti erano in grado di fornire una produzione sufficiente ad alimentare un rilevante commercio esterno.
    Plinio, nell'inventario dei vitigni italiani, parla anche di quelli coltivati nell'area etrusca, dove troviamo la Sopina, vitigno dai tralci rovesciati; l'Etesiaca, vite precoce e ingannatrice poiché più produce tanto migliore è il vino; la Talpona, varietà nera che dà un mosto bianco; le Alpiane, che danno un vino molto dolce, inebriante, adatto alla produzione del passum (passito) "lasciando dorare a lungo al sole sulla pianta i grappoli o immergendoli in olio bollente"; e infine la Conseminia, varietà a bacca nera e a maturazione tardiva che probabilmente era una associazione di piante diverse, il suo vino si conservava pochissimo, l'uva molto di più, era infatti anche molto usata come uva da tavola. Comunque i vigneti allora coltivati sono difficilmente identificabili con quelli attuali, poiché nel tempo si sono avute sicuramente delle evoluzioni per incroci tra varietà o per modificazioni genetiche.
    Il primo mosto ottenuto dalla vendemmia veniva in genere consumato subito, mentre il restante veniva versato in contenitori di terracotta con le pareti interne coperte di pece o di resina. Il liquido veniva lasciato riposare, schiumato per circa sei mesi e a primavera, infine, poteva essere filtrato e versato nelle anfore da trasporto. Il liquido così ottenuto veniva quindi mescolato, all'interno di crateri, con acqua e miele, e travasato nelle coppe dei commensali.

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    Il vino bevuto dagli Etruschi era ovviamente molto diverso da quello di oggi: denso, fortemente aromatico, a elevata gradazione alcolica. Sembra che essi amassero un vino particolarmente dolce, del tutto simile al moscato, ottenuto con l'apporto di miele. Con l'aggiunta della pece, invece, si otteneva il "vinum picatum", mentre in occasione di alcuni banchetti particolari al vino venivano mischiate delle droghe, ottenendo così dei potenti afrodisiaci.
    La produzione enologica etrusca fu molto importante per i commerci che essi effettuarono tra il 625 e il 475 a.C. al di là delle Alpi, tanto che il vino era la moneta di scambio necessaria per ottenere materie prime (metalli, sale, corallo) e schiavi. I commerci avvenivano in gran parte via mare e l'anfora costituiva il migliore recipiente per il trasporto marittimo attraverso il Mediterraneo. Infatti, tra la fine del VII e la fine del VI sec. a.C. nel territorio di Vulci nacque una fiorente industria di anfore, costruite proprio per tale scopo. Le grandi produzioni di vino, destinate all’esportazione, erano in mano ai grandi proprietari terrieri aristocratici che probabilmente smerciavano il prodotto attraverso le proprie navi. Anfore etrusche per il trasporto del vino sono state ritrovate nel Lazio, in Campania, in Sicilia e in grandissima quantità nella Francia meridionale. Per l'Etruria i risultati di questi commerci furono innanzitutto un'economia interna molto specializzata nei settori della viticoltura e della metallurgia, e poi una garanzia di approvvigionamento, sia in materie prime che nel settore alimentare.

    Particolarmente appassionati del vino etrusco furono i Celti, gli antichi abitatori della Gallia meridionale. Dell'amore di questo popolo per il vino scrive Plutarco: pare che essi, avendo assaggiato per la prima volta il nettare, furono talmente entusiasti del suo sapore inebriante che presero armi e famiglie e si diressero verso le Alpi per cercare la terra che produceva un simile frutto, a confronto della quale il resto del mondo sembrava loro sterile e selvaggio. Comunque sia, da quel momento inizia il commercio con le popolazioni galliche. Nelle tombe celtiche principesche è numeroso il materiale etrusco rinvenuto. Nei banchetti, i principi celti utilizzavano infatti lo stesso vasellame da vino che si usava in Etruria. I vasi contenenti il "vinum picatum" erano poi utilizzati come urne cinerarie dove ossa calcinate e vino etrusco erano volontariamente mescolati.
    Altra particolarità: già ai tempi degli Etruschi esisteva la pratica di usare il vino come ingrediente per cucinare. Testimonianze del passato, tempi in cui non si conoscevano ancora le tecniche del freddo, raccontano che il vino era utilizzato anche come conservante dei cibi e in modo particolare della carne. Lasciata immersa nel vino per molte ore, talvolta anche giorni, la carne subiva così la tecnica gastronomica conosciuta come marinata. Ben presto si cominciò anche a cuocere con il vino per dare maggiore sapore alle pietanze, e così nacquero alcune ricette che ancora oggi consumiamo sulle nostre tavole, ad esempio il brasato...


    I Romani -



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    I Romani, nei loro rapporti di incontro e scontro politico, economico e culturale con gli Etruschi, appresero le tecniche vitivinicole fin dall'epoca dei primi re. Dopo la conquista del Lazio e la fine delle Guerre Puniche, la viticoltura si sviluppò al punto da indurre Catone il Censore (234-149 a.C.) a suggerire, come buona abitudine nell'acquisto di un buon podere, di dare importanza prioritaria alla vite e quindi, prima dell'olivo, alla coltivazione dei salici per produrre i vimini necessari per le legature dei tralci.
    Nel periodo compreso tra Catone e Plinio il Giovane (61-113 d.C.) la vitivinicoltura raggiunse livelli molto elevati e il vino era consumato anche in locali pubblici di vendita ("thermopolia"). Molto rilevante era l'esportazione, tanto che il porto di Ostia divenne un vero emporio vinario.
    Agli inizi dell'Età Imperiale la viticoltura era molto estesa e praticata anche in terreni fertili per ottenere più elevate produzioni, necessarie per soddisfare l’esportazione e l’aumento del consumo interno. La conseguente riduzione di altre coltivazioni, quali quella dei cereali, secondo quanto riferisce Svetonio nel "De vita Caesarum", indusse Domiziano a vietare nel 92 la costituzione di nuovi vigneti e imporre lo spiantamento della metà delle vigne esistenti nelle "provinciae" romane.
    Il progresso tecnico vitivinicolo venne illustrato e favorito anche da un'ampia letteratura, la quale si arricchì delle conoscenze ed esperienze di altri popoli del bacino Mediterraneo raggiungendo livelli significativi con opere importanti di autori illustri: Marco Porcio Catone, che nel suo "De agricoltura"espose il patrimonio di conoscenze accumulate in cinque secoli dal popolo latino, Marco Terenzio Varrone con "Res rusticae", Publio Virgilio Marone che nel IV libro delle "Georgiche" esortava i Romani alla vita agricola, Plinio il Vecchio che nel suo trattato scientifico Naturalis Historia dedicò capitoli interi alla potatura delle viti, alla concimazione, alle malattie, sino alle numerazioni delle qualità dei vitigni, e soprattutto il "De re rustica" di Lucio Moderato Columella, in cui sono esposti anche concetti biologici e direttive tecniche ancora oggi considerati validi ed efficaci.
    Notevole era anche il patrimonio varietale, suddiviso in vitigni da tavola e da vino, quest'ultimi distinti in tre classi a seconda della qualità del vino ottenibile. Columella indicava 58 vitigni, di cui 12 da tavola; Plinio distingue tra circa 80 vini di alta qualità, destinati alla nobiltà, e un centinaio di vini di media e bassa qualità, destinati per lo più alla plebe.

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    In questo grande periodo della civiltà del vino non solo scrittori teorici dedicarono pagine al vino, ma anche grandi poeti come Tibullo, Ovidio, Marziale, Catullo, Giovenale e infine, ma non ultimo, Orazio.
    Secondo le tecniche dell’epoca, i vendemmiatori insieme ai portatori staccavano i grappoli con un falcetto, li raccoglievano in cesti adatti per essere trasportati su carri, animali da soma o sulle spalle degli schiavi. Dopo la vendemmia si selezionava l'uva a seconda che venisse impiegata per essere consumata a tavola o per vino di buona qualità, o ancora per vino mediocre destinato agli schiavi. Le uve venivano pigiate all'aperto, talvolta sotto una tettoia; solo più tardi fu creato un apposito locale chiamato "calcatorium" in cui le uve venivano schiacciate in vasche di pietra o legno. La prima spremitura produceva il mosto vergine, "lixivium", che veniva servito insieme al miele come aperitivo, poi avveniva la pigiatura vera e propria ad opera dei "calcatores" che, reggendosi su appositi bastoni, saltellavano spesso al ritmo di strumenti musicali. Il mosto ottenuto, il "calcatum", e il "lixivium" venivano raccolti in grandi vasi, mentre le vinacce andavano al torchio dal quale veniva estratto un mosto tanninico con cui si produceva un vino scadente chiamato anche circumsitum". Dalle vinacce rimaste, con l'aggiunta di acqua, si otteneva invece il vinello.
    Il mosto raccolto nei "dolium" fermentava e dopo pochi giorni, o a volte anche un mese, i vini pregiati venivano raccolti in recipienti più piccoli, mentre gli altri rimanevano a fermentare fino al momento del consumo.La raccolta dei vini da invecchiamento avveniva in primavera e questi venivano degustati dagli assaggiatori e classificati in base al sapore e al colore. Tali vini erano portati in un locale chiamato "aphoteca" situato nel piano alto degli edifici, sopra le cucine e i bagni, in modo che il fumo e il calore provenienti dai fuochi accesi per cucinare o scaldare l'acqua ne accelerassero la stagionatura.
    Un altro metodo era quello di esporre i vasi al sole. I vini già maturi venivano portati poi nel "tabulatum", generalmente un locale fresco. Il vino di maggio, ancora giovane, veniva versato in anfore dal collo sottile e cilindrico infilato in appositi buchi nella sabbia in modo da mantenere la posizione verticale. Tali anfore avevano una capacità di trenta litri e su di esse veniva riportata l'annata "consolare", il nome del vino e del produttore. Le anfore, chiuse ermeticamente con tappi di sughero o coperchi di cotto saldati con la pece, venivano impiegate dunque sia per il trasporto marittimo che per l'invecchiamento. Il buon Falerno andava bevuto dopo 10 anni, i vini Sorrentini invece dopo 25.

    I Romani - PARTE II:



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    Esistevano anche pratiche per migliorare il mosto, per esempio le polveri di marmo per togliere l'asprezza e l'argilla o l'albume o il latte di capra per chiarificarlo; per rendere durevole il vino, invece, si aggiungevano resine, pece e mirra. Spesso al momento di essere servito a tavola, il vino subiva ulteriori filtrazioni con una sorta di colino di metallo.
    Quando l'anfora giungeva ai commensali veniva versata in un vaso, il "cratere", e, a seconda degli usi e della qualità, veniva annacquato; poi attraverso il "simpulum", una specie di mestolo, veniva travasato nei bicchieri. Il vino di solito era bevuto utilizzando la "pàtera", ampio e basso vaso sacrificale, o il "khantàros" etrusco, elegante coppa di bucchero o altro materiale, dotata di un piede a due manici, o ancora il "cyatus", destinato ai brindisi.
    L'industria enologica era praticata anche separatamente dall'azienda agraria, come dimostrato da varie notizie di vendita all'asta di uve pendenti. Nel territorio dei "municipia di Arretium" e di "Cortona" sono state trovate vasche per la pigiatura dell'uva, in muratura e monòliti, di notevole capacità e quindi destinate a un impiego industriale.
    Nei Paesi del Mediterraneo, tra la fine della Repubblica e l'inizio dell'Impero, erano prodotti numerosi vini come risulta dalla "Geographica" di Stradone. Dall'Italia poi il vino si diffuse nelle province che venivano via via conquistate e annesse all'Impero Romano. Allora si bevevano Falerno e Massico, vini campani, il Cecubo del Lazio, il Mamertino siciliano, il Rethico veneto, ma anche il vino d'Alba, di Taranto, d'Ancona e di Sezze. Anche in Gallia, specie in quella zona oggi chiamata Côte du Rhône, si produceva un buon vino, così come in Spagna, a Valencia e Terragona. A partire dal II secolo d.C. vennero costituiti i vigneti della Còte d'Or, destinati a divenire col tempo i grandi vini di Borgogna.
    Il vino era utilizzato anche in molteplici ricette della cucina romana. Esistevano inoltre vini particolari, variamente profumati e aromatizzati, ottenuti con l'infusione di varie specie di piante e con l’aggiunta di particolari sostanze, a taluni dei quali erano attribuiti specifici effetti, quali indurre l'aborto, oppure rendere feconde le donne, determinare impotenza negli uomini, ecc. Esisteva anche un "vinum murratum", che veniva dato ai condannati a morte per annebbiare la loro coscienza prima dell'esecuzione.
    Il vino comunque si beveva sempre allungato con acqua, in quanto aveva la consistenza di uno sciroppo. A tale scopo esisteva la figura del "Magister Simposii" (o "Arbiter Bibendi") che decidevano la quantità d'acqua da aggiungere al vino prima di mescerlo. Bere il vino puro ("merum") era considerato, come già presso i Greci, un atto barbarico: si racconta che l'imperatore Tiberio avesse questo “vizietto”, infatti veniva soprannominato dai suoi legionari Biberius Caldius Merum (bevitore di caldo merum), invece di Tiberius Claudius Nero. Solo alla fine dell'epoca imperiale, cambiando anche la consistenza del vino, si cominciò a berlo puro.



    Gli Ebrei: il vino kosher nella tradizione ebraica:




    Il vino presso gli ebrei era invece diverso dagli altri. Coltivato e prodotto seguendo specifiche regole di Kasherut (il corpus di norme che tuttora regolano l’alimentazione ebraica), non poteva essere mischiato con quello degli altri popoli, destinato alle divinità pagane.

    Questa esigenza portò allo sviluppo di peculiari tecniche, volte a produrre una viticoltura esclusiva. Così concepito, il vino ebraico entrò a far parte, come elemento importante, della liturgia religiosa, che ne fa tuttora uso nelle festività più sacre e nei momenti più gioiosi.

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    La vite, ritenuta sacra nell'antica Cananea, fu dagli Ebrei considerata albero messianico. E' stato anche ipotizzato che l'albero del Paradiso fosse la vite. Nell’antico Testamento Israele è la vigna del "Signore delle schiere", che sarà abbandonata "allo squallore, non sarà più né potata, né sarchiata", perché, mentre Dio aspettava che "facesse uve, fece invece lambrusche" (Isaia, 5).
    Centinaia sono le citazioni della vite e del vino nell’antico e nel nuovo Testamento. La parola "yayin", con la quale viene indicato il succo di uva fermentato, compare oltre 140 volte nell’antico Testamento. Il vino è stato, inoltre, protagonista di celebri avvenimenti biblici: da Noè (Gn 9, 20-25), che piantò la vite con la conseguenza della più famosa ubriacatura della storia, a Lot che, ubriacato dalle figlie, venne indotto all'unione incestuosa da cui nacquero Noab e Ben-Ammi, capostipiti delle tribù dei Noabiti e degli Ammoniti (Gn 19, 1-11); dal grappolo d’uva di enormi dimensioni, simbolo della fertilità della terra della Valle di Escol (Nm 13, 23), a Cristo, che paragona se stesso alla vite e gli uomini ai tralci (Gv 15, 5) e che nel miracolo delle nozze di Cana trasforma l’acqua in vino (Gv 2, 1-12). Nell’ultima cena, infine, Gesù affidò al pane e al vino, attraverso il mistero della transustanziazione, il ritorno agli uomini del suo corpo e del suo sangue.
    Nella religione ebraica, le libagioni erano fatte con vino di pura uva, versando il vino alla base dell'altare e con offerta dell'agnello (che doveva essere di un anno ed esente da imperfezioni fisiche) oppure con fior di farina intrisa di olio vergine.
    Ancora oggi, l’inizio e la conclusione dello Shabbat (giorno sacro agli ebrei, che inizia al tramonto del venerdì e si conclude con quello del sabato) è segnato, ad esempio, dalla benedizione del pane e di una coppa di vino, sulla quale si recita la "berachà" (“benedizione” in ebraico): “Benedetto sei Tu, Signore Dio nostro, re dell’universo che hai creato il frutto della vite”. Nel rito del matrimonio, durante le grandi feste e soprattutto durante la Pasqua, il vino si rende presente quale elemento santificatore e portatore di letizia. Il cristianesimo eredita dalla tradizione ebraica questa cultura, pur attribuendole un significato completamente nuovo, indissolubilmente legato al sangue di Cristo versato sulla croce, e segno tangibile della Sua presenza nella Chiesa, mediante l’Eucaristia.
    La regole ebraiche per fare il vino Kosher sono tuttora molto rigorose: non deve contenere ingredienti proibiti, come grassi, vitamine, conservanti ricavati da animali proibiti (al massimo è ammessa la chiarificazione con l'albume dell'uovo sbattuto), bisogna evitare qualunque elemento di lievitazione, e deve essere lavorato esclusivamente da ebrei. Il vino proibito dalla Toràh, detto "yayin nèsekh" (vino di libagione) è il vino consacrato a divinità straniere. Infatti non si può godere in alcuna forma di ciò che è usato per atti di culto estranei o in contrasto con la Toràh, ovvero la Legge ebraica. La tradizione rabbinica proibisce il consumo e il commercio di qualsiasi altro vino, detto "stam yenàm" *, anche se non consacrato a culti estranei all’ebraismo, che sia stato toccato da non ebrei o, secondo l’opinione più rigorosa, da ebrei non osservanti del Sabato. Tutto questo per prevenire la perdita di controllo morale e sociale conseguente allo stato di ebbrezza.

    Può sembrare strano che nell’ebraismo a un alimento così potenzialmente dannoso, sia stato dato un ruolo sacro. Per questo l’atteggiamento tradizionale ebraico è stato quello di una scelta tra i due estremi: proibizionismo assoluto e totale permissivismo. Da una parte uso sacrale moderato e dall’altra limitazione al consumo.
    Se un vino prodotto sotto il controllo rabbinico rimane sempre sotto controllo, è sottoposto a cottura (a temperature di 75,5° C secondo le opinioni più moderate) o ad aggiunta di sostanze che ne modificano il sapore (miele, spezie), rimane Kosher e può essere trasportato o versato da chiunque.
    (* Sono considerati "stam yenàm" tutti i vini, l’alcool, l’aceto, le bevande alcoliche derivate dal vino come vermut, grappa, brandy e anche il succo d’uva, se non ancora fermentato, che non sono contrassegnati e sigillati dal marchio Kosher. Ciò risale alle origini del divieto: un vino che, attraverso la cottura, modifica il suo sapore non è più adatto alle libagioni).


    Il Medioevo - PARTE I:



    L'immenso Impero Romano viene diviso nel 395 d.C. quando l'imperatore Teodosio trasferisce la capitale da Roma a Costantinopoli, dando così l'avvio all'Impero Romano d'Oriente, detto anche Impero Bizantino (che durerà fino al 1453, quando la città verrà definitivamente conquistata dai Turchi). Pochi anni dopo, l'Impero Romano d'Occidente comincia a sgretolarsi sotto i colpi delle prime invasioni barbariche: nel 451 Attila "Flagellum Dei", re degli Unni, attacca i Germani ai confini dell'Impero, invade l'Italia, espugna la città di Aquileia e distrugge il Veneto (452). Gli Hsiung Nu - la popolazione allora conosciuta dai Romani con il nome di Unni - arrivavano dalle lontane steppe della Mongolia situate nel nord della Cina, ed erano pastori nomadi estremamente feroci. Abituati alle difficili condizioni climatiche delle loro terre di origine, avevano affinato tecniche di combattimento velocissime e spietate. Oltre all'abilità a cavallo, erano agilissimi nell'uso dell'arco: magnifici tiratori, essi ricorrevano a tecniche di guerriglia assai efficaci, con attacchi improvvisi, repentine ritirate strategiche e improvvisi nuovi attacchi a distanza. Ma essi furono solo i primi...
    Nel 455, col primo sacco di Roma ad opera di Gianserico, re dei Vandali, la già traballante struttura politica romana - ormai minata da eccessi e corruzione morale - riceve il colpo mortale. Sarà Odoacre, re dei Rutuli, a deporre l'ultimo imperatore romano, Romolo Augustolo, e a decretare così la fine dell'Impero Romano d'Occidente.

    DAL "PRIVILEGIO" DELLA FAME AL "LUSSO" DELLA SETE
    Il paese inizia un buio periodo di carestie ed epidemie, causate dalla distruzione delle coltivazioni e dai sacheggi di città e villaggi. Durante questi primi anni del Medioevo, il rapporto con i cibo diventa instabile e, in qualche modo, "morboso". Secondo lo studioso francese Leo Moulin, questo è un momento storico caratterizzato da "l'ossessione del cibo, l'importanza del mangiare e, come contropartita, la sofferenza (e i meriti) rappresentati dalle mortificazioni alimentari". E' così che non solo il cibo, ma anche la fame diventa "oggetto di privilegio" (Massimo Montanari).
    A causa del generale sconquasso politico e sociale, nei territori precedentemente occupati dai Romani la produzione di vino diminuisce. Per questo, soprattutto nel primo Medioevo, lo sviluppo della viticoltura si deve in gran parte ai conventi, diventati in seguito veri e propri centri vitivinicoli, ad opera di monaci che sin dall'inizio si dedicarono alla nobile arte del vino in quanto elemento indispensabile durante la messa come simbolo liturgico del sangue di Cristo. Questo contribuì notevolmente all'espansione della viticoltura anche in quelle zone dove essa non era propriamente parte delle tradizioni locali. I centri monastici costituirono dei nuclei importantissimi per il mantenimento delle attività, sia culturali che economiche, dei villaggi vicini: la coltivazione della vite è solo uno dei tanti aspetti e dei tanti lavori portati avanti nei monasteri. Interessantissime documentazioni in proposito arrivano dal monastero di Vallombrosa, in Toscana, dove anche grazie alla posizione isolata e protetta si svilupparono e migliorarono le tecniche di coltivazione dei vitigni.
    Il vino medievale era suddiviso in tre qualità. La prima - il "vino" vero e proprio - era ottenuta con una blanda spremitura e produceva un succo naturale e corposo; era il prodotto migliore e solo i ricchi potevano permetterselo. La seconda spremitura, più vigorosa, offriva un succo di qualità inferiore, il "vinello" probabilmente bevuto dal clero. Infine la terza, che generava un quasi vino chiamato "acquerello", consumato dai poveri e ricavato aggiungendo acqua alla poltiglia delle vinacce. Per rinforzare gli aromi, il vino medievale era "condito" ripetutamente - così come in passato - con erbe, spezie, miele e assenzio, mentre per essere conservato fino a tre o quattro anni veniva bollito, pena la perdita dei tre quarti della sua qualità.

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    Dopo l'anno Mille, l'iniziale severo regime alimentare che regola i pasti all'interno dei conventi, subisce un radicale cambiamento: si moltiplicano le occupazioni da svolgere, crescono i patrimoni da gestire soprattutto a seguito di imponenti lasciti testamentari, le proprietà si espandono e tutto ciò allontana i monaci dalla dimensione di una vita semplice e frugale. Il vino, ma soprattutto il "buon" vino, è ancor più sinonimo di ricchezza e prestigio, e l'eccellere nella produzione di qualità diventa per alcuni ordini ecclesiastici quasi una ragione di vita. I Benedettini, diffusi in tutta Europa, erano famosi per il loro vino e per il consumo - non proprio moderato - che ne facevano.
    Il potere clericale della "vermiglia bevanda", diventa ben presto bersaglio satirico del popolo costretto alla sua astinenza. Con il consueto lazzo di spirito popolare, ecco una versione "alcolica" del Pater Noster, tradotta dal latino:

    "Padre Bacco che sei nei boccali,
    sian santificate le tue vendemmie,
    venga il tuo tempo di fermentazione,
    facci ben bere del buon vino quotidiano,
    offri a noi grandi bevute come noi le rioffriremo ad altri,
    inducici con le tue tentazioni aromatiche,
    e liberaci dall'acqua."



    Sempre dopo il Mille, accanto alla viticoltura ecclesiastica e signorile, si affianca quella della nascente borghesia mercantile che intravedeva nella produzione e nel commercio dei vini nuove strade per profitti sicuri e redditizi. Da genere destinato all'alimentazione e agli usi liturgici, il vino diviene un bene ricercato, moneta di scambio e fonte di ricchezza per produttori e commercianti.


    Il Medioevo - Vino e Vini medicinali



    Tra i più famosi vini del Medioevo possiamo citare quelli del nord d'Italia, dell'Istria, i triestini Ribolla (dal latino "rubeolus", rossastro, anche se è diffusa, soprattutto nella zona di Udine, una varietà gialla che dà un vino bianco, leggero e fresco), Terrano (di color rosso carico, con profumo di lampone, frizzante e asprigno), e Malvasia; i vini veronesi, la Vernazza bresciana e i vini della Valtellina. In Liguria era già conosciuto il vino delle Cinque Terre ed erano molto stimati anche i vini del bolognese, del modenese e dell'attuale Romagna in generale. In Toscana vi erano il Trebbiano (la cui denominazione risale al XIV secolo e indicava un vitigno che dava, com'è ancor oggi, un'uva bianca di color giallo-verdastro, usata per la preparazione di numerosi vini), la Malvasia, l'Aleatico (originario della Toscana, ma oggi diffuso anche nel Lazio e in Puglia), il Sangiovese (vitigno famoso per la produzione di celebri vini come il Chianti o il Brunello di Montalcino), la Vernaccia di San Gimignano (forma antica di Vernazza da dove proviene, coltivato anche in Sardegna: da questo vitigno si ricavano sia bianchi secchi, specialmente in Toscana, sia vini liquorosi e dolci, soprattutto in Sardegna) e i vini di Montepulciano. Particolarmente apprezzati anche i Moscati, dolci e piacevoli, e le Malvasie di Lipari, per quanto riguarda le isole tirreniche dell'arcipelago delle Eolie.
    Ma già fin dalle sue origini, il vino era usato anche a scopi medicinali e Ippocrate (IV secolo a.C.), uno dei più eminenti medici greci dell'antichità, lo prescriveva per curare le ferite, come bevanda nutriente, antifebbrile, purgante e diuretica. Galeno (II secolo d.C.) a sua volta faceva grande uso di vini medicinali e fu grazie alla diffusione delle sue opere in epoca bizantina che l'uso del vino come medicinale riuscì a sopravvivere al crollo dell'Impero Romano d'Occidente.
    La raccomandazione di Galeno di ricorrere al vino per le ferite, per rinvigorire i fisici debilitati e come febbrifugo fu ampiamente seguita nell'Europa del Medioevo, soprattutto da monaci e Cavalieri Ospitalieri. Ma fu il "Liber de Vinis" di Arnaldo da Villanova (XIII secolo) a stabilire con fermezza l'uso del vino come sistema terapeutico riconosciuto. Fra l'ampia lista dei suoi usi medicamentosi, il Villanova ne sottolineava le qualità antisettiche e corroboranti, e ne consigliava l'uso nella preparazione di impiastri. Per tutto il periodo medievale, il vino fu uno dei pochi liquidi capaci, per effetto del suo contenuto alcolico, di sciogliere e nascondere il sapore delle sostanze ritenute curative dai medici dell'epoca. Le “teriache”, una sorta di vini medicati, entrarono così in uso per le affezioni più diverse.

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    L'uso del vino a scopo terapeutico, soprattutto nella pratica chirurgica, continuò per tutto il Medioevo. I medici della Scuola di Bologna, che già contestavano l'opinione allora largamente diffusa che per il risanamento delle ferite fosse necessaria la suppurazione, erano convinti che una fasciatura imbevuta di vino portasse alla cicatrizzazione e alla guarigione della ferita. Guy de Chauliac, noto chirurgo del Medioevo, usava pulire le ferite del torace con lavaggi a base di vino fino a che questo non risultasse pulito e chiaro...
    Così come cantava Eubulus alla sua tavola: "Tre tazze di vino io preparo per gli uomini temperati: una per la salute, la seconda per l’amore e il piacere, la terza per il sonno. Quando questa tazza è vuota, gli ospiti saggi vanno a casa."
    E un po' per tutti - popolo, principi e prelati - era già famosa e assai usata la ricetta del "vin cotto", per risollevare i corpi e rallegrare gli spiriti nei lunghi e bui inverni medievali... provare per credere!
    "Un litro di vino rosso, 300 gr. di miele di corbezzolo o di acacia, 2 stecche di cannella, 3 chiodi di garofano. Bollire il vino lentamente con tutti gli ingredienti, fino a quando non si sarà ristretto di un terzo. Bere caldo".


    Il Rinascimento - PARTE I: dalla tavola al banchetto:



    Nella lunga e affascinante storia del vino, il Rinascimento ci permettere di conoscere i più fini degustatori della nobile bevanda: Lorenzo il Magnifico (con la sua canzone dedicata a Bacco e Arianna), Michelangelo (che nella Cappella Sistina dipingerà la colossale sbornia di Noè), Luca Signorelli (che accetterà di affrescare il Duomo di Orvieto a patto che sul contratto, accanto alla retribuzione, siano aggiunti due boccali di buon vino), Caravaggio (autore di “Bacco adolescente” in cui l’uva viene esaltata in una lussuriosa rappresentazione), Monsignor Giovanni Della Casa (che inserisce nel suo “Galateo” anche il rito del brindisi), e come loro tanti altri.

    Naturalmente, i motivi dello sviluppo enologico dopo il Medioevo furono in primis di carattere economico-sociale. Tra la fine del Basso Medioevo e il Rinascimento iniziò lo sviluppo della viticoltura "borghese". I ceti arricchiti con l'artigianato e il commercio investirono le loro risorse finanziarie nella viticoltura, che risultava economicamente conveniente anche perché il consumo del vino era in aumento per l'incremento demografico, l’accentramento della popolazione nelle città e le aumentate disponibilità economiche di più ampie classi sociali. Inoltre la maggiore sicurezza nelle campagne e la diffusione della mezzadria e di altre forme di compartecipazione, stabilizzando i contadini sulla terra consentivano la coltivazione di specie arboree a lungo ciclo biologico, come la vite, che richiedono notevoli investimenti finanziari e frequenti, diligenti cure colturali.
    Durante il Rinascimento la viticoltura fu favorita anche dallo sviluppo di un'ampia letteratura dedicata alla vite, caratterizzata da uno spirito nuovo che, esistente allo stato embrionale già nel "Liber Commodorum Ruralium" scritto da Pietro de Crescenzi nel 1308-1309, si manifestò pienamente nelle opere di Bacci, Porta, Alamanni, Soderini, Del Riccio e Micheli. In esse si rileva, infatti, l'intento di osservare e descrivere i fenomeni con l'esperienza valorizzata dalla ragione, secondo una nuova concezione filosofica, che recuperava la dimensione terrestre dell'uomo, il quale aspirava a realizzare se stesso, senza trascurare il valore del corpo e dei beni di consumo. Contemporaneamente si sviluppavano i germi della ricerca sperimentale e nasceva l'ampelografia (la vera e propria carta d'identità di un vitigno che ne descrive minuziosamente le caratteristiche), destinata a divenire una delle basi fondamentali per il futuro progresso della viticoltura.
    Dal punto di vista culturale, invece, l’affermarsi delle Signorie e dei Principati nell’Italia centro-settentrionale trovò un chiaro riscontro anche nelle abitudini alimentari e, come conseguenza, portò all’anelito verso un “bere” diverso da quello che si era consolidato ormai da tempo, sia sulle tavole dei ricchi che su quelle dei poveri. Ogni classe sociale, senza distinzioni, prese a desiderare un vino di più prestigiosa qualità. Sino a quel momento, tra il popolo era diffusa la Vernaccia, ricordata da Dante, Salimbene de Adam, Boccaccio e Sacchetti, diffusa in tutta Italia e così nota che ovunque ormai ne venivano piantati i vitigni. Era così diffusa che di frequente, quando un vino era mediamente buono veniva comunque chiamato “vernaccia”, anche se proveniente da altro vitigno.
    Poveri e ricchi degustavano soprattutto vini giovani, perché di conservazione e invecchiamento si sapeva ancora poco e le tecniche di mantenimento utilizzate avevano prodotto scarsi risultati. Ciò che distingueva la “bottiglia” della gente comune da quella del signore, stava comunque nella qualità e nella varietà del nettare contenuto. L’artigiano, il borghese o l’artista generalmente si accontentavano di vini locali, mentre la cantina dei signori o dei principi della Chiesa era rifornita anche di prodotti provenienti da altre zone geografiche.

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    Ci volle però ancora un po’ di tempo prima che la “moda” dei vini di qualità si affermasse definitivamente e la Vernaccia restò a lungo nelle abitudini della provincia e delle aree lontane dalle grandi città. L’eccezione in questo senso era costituita da Veneziani e Genovesi che disponevano, specialmente i primi, di un prodotto migliore proveniente dai loro possedimenti in territorio ellenico, a cominciare dalla Malvasia il cui nome aveva origine proprio dalla cittadina greca di Monemvasia. Infatti alla fine del Quattrocento, secondo i loro gusti, un buon pasto avrebbe dovuto cominciare con una “pignocata” (dolce piramidale con sciroppo di miele, zucchero e pinoli) e “Malvasia grande” (cioè “forte”).
    Il vino diventerà presto uno dei personaggi principali nei lussuosi banchetti della Corte Estense, ricchissimi di cibi elaborati e bevande prelibate e splendidi nelle scenografie, diventati veri e propri spettacoli con un complesso ornamentale ricercatissimo. Molti dei più noti artisti del Rinascimento si sono infatti cimentati proprio con le scenografie di tali eventi, pensiamo ad esempio ai banchetti “a tema”, vere citazioni della tradizione classica greca e latina. Un esempio memorabile si ebbe a Ferrara per le nozze tra Alfonso II e Barbara d’Austria, celebrate nel 1565.


    Il Rinascimento - Lancerio, il "BOTTIGLIERE DEL PAPA"



    sante-lancerio



    Sante Lancerio può essere ricordato come uno dei più grandi esperti di enologia. Figura dotta e poliedrica del Rinascimento, a lui papa Paolo III affidò la cura della sua tavola raffinata, sempre imbandita di cibi e vini pregiati. Nel XVI secolo (periodo che si è meritato l’appellativo di “età delle grandi bevute”) Lancerio, storico e geografo ma soprattutto “bottigliere del papa”, era un attento conoscitore ed esperto di vini, e ha condensato le sue conoscenze in una lettera, scritta molto probabilmente nel 1559 e indirizzata al cardinale Guido Ascanio Sforza, nipote del papa, e in due relazioni sui viaggi e i giudizi enologici di Paolo III, documenti considerati il primo vero e proprio trattato enologico italiano. Il manoscritto inedito Della qualità dei vini venne poi dimenticato e fu quindi ritrovato e prodotto a stampa da Giuseppe Ferraro nel 1876. La lunga esperienza pratica venne così tradotta in un memoriale di impressioni gustative controllate sulla base di prove alterne, ora dello stesso papa ora del bottigliere. Nella sua opera Lancerio analizza, con intuito deciso, gusto e retrogusto, aspetto e profumo, con tale competenza da risultare un‘autentica autorità nell’uso e nella conoscenza del vino. Nella terminologia utilizzata, ricca e precisa, riconosciamo molti termini del gergo dei sommelier e degli enologi contemporanei: per definire il gusto egli impiega parole come “tondo”, “grasso”, “asciutto”, “fumoso”, “possente”, “forte”, “maturo”; per il colore utilizza “incerato”, “carico”, “verdeggiante”, “dorato” e così via.
    E’ sempre Lancerio a testimoniare che già nel Rinascimento si cominciò a manifestare, seppur sommariamente, la ricerca dei possibili abbinamenti tra vino e cibo. Nei menù dell’epoca si delinea infatti una progressione che va dai vini bianchi leggeri per l’inizio del pasto, ai vini forti o inebrianti per i dessert, passando attraverso i rossi degli arrosti. Come nel Medioevo chiudeva il pranzo l’Ippocrasso, vino aromatizzato alle spezie, considerato anche un ricostituente per malati e puerpere. La corte papale nel periodo Rinascimentale non era nuova alla ricerca di raffinatezze, e Paolo III Farnese (pontefice dal 1534 al 1549) era un attento degustatore, anche se è ricordato più per i suoi atti politici, come la scomunica di Enrico VIII, l’inaugurazione del Concilio di Trento e l’approvazione dell’ordine dei Gesuiti.



    Un documento unico
    Bisogna ricordare che all’epoca di Lancerio il vino era anche una componente fondamentale del banchetto, parte essenziale del nutrimento inteso come ricerca di perfezione e di equilibrio, piacere da non perdere e da coltivare con arte e moderazione. Lancerio seguiva il papa nei suoi viaggi e, così come quando era in sede, procurava di allestire una tavola perfettamente imbandita, servendosi di maestri della cucina quali Giovanni de Rosselli e Bartolomeo Scappi. Era soprattutto attento alla scelta dei vini, affinché durante gli spostamenti del papa questi non “avessero a soffrire” durante il trasporto. La sua opera, unica nel suo genere tra quelle in materia enogastronomica, è anche uno spaccato di storia della vita rinascimentale: oltre il racconto sui viaggi del papa, il trattato analizza circa 50 qualità di vino che sono da degustare a seconda dello stato d’animo, delle circostanze contingenti, del periodo dell’anno e persino dell’ora del giorno.

    A ognuno il suo vino
    I vini che impreziosivano le tavole, nel segreto degli appartamenti privati erano invece utilizzati, come nell’antichità, per uso medico, a scopo preventivo come in gargarismi e spugnature, e come lenitivo per irritazioni e pruriti. Il papa non era da meno a questo uso terapeutico.
    Lancerio stabilisce anche una classifica dei vini italiani più appropriati ad ogni categoria sociale: il moscatello ideale per osti e “imbriaconi”; il Greco della Torre, che diventa subito scuro, buono per la servitù, ma non per gli alti prelati; il rosso di Terracina ottimo per notai e copisti; il Mangiaguerra di Napoli pericoloso per il clero, ma ideale per “incitare la lussuria delle cortigiane”.
    Analisi dei vini italiani ed esteri
    Lancerio loda i vini italiani e dà un giudizio su quelli stranieri, per esempio sul vino spagnolo per il quale non ha opinione molto favorevole, ritenendolo troppo forte. I vini francesi, naturalmente, sono ritenuti ottimi, anche se egli nota che risentano troppo del terreno di provenienza, in particolare il vino di Provenza. I vini italiani sono naturalmente in testa alla classifica: Malvasia, Greco d’Ischia, Nobile di Montepulciano e Vernaccia di San Geminiano. Un giudizio molto brillante quello di Lancerio su questo vino toscano, che richiese nel 1541 al Comune nella misura di ottanta fiaschi, rammaricandosi che nella zona si desse grande importanza all'arte e alla scienza, ma non abbastanza alla superba qualità del vino, una considerazione fra le tante che si può trovare nella sua opera.


    Le Cantine Pontificie



    Nei tre secoli che vanno dal 1500 al 1800, si avrà un periodo storico durante il quale la maggior parte delle norme che disciplinano la produzione e la vendita del vino saranno emanate principalmente dallo Stato Pontificio. Ecco che gli editti e i bandi fissano i prezzi di vendita al barile o al minuto, regolamentano le professioni e dispongono restrizioni al consumo. Il vino era già stato protagonista nella storia del Cattolicesimo, ma possiamo sicuramente affermare che spesso esso acquisiva anche un ruolo materiale. Infatti la "famiglia pontificia" pagava le prestazioni dei suoi dipendenti anche in natura, corrispondendo loro parti di vino. Le cantine dei palazzi pontifici dovevano pertanto essere sempre ben fornite e ben tenute, per cui si affidavano compiti ben precisi a cantinieri e bottiglieri che ad esse lavoravano.
    Le cantine si distinguevano in "comuni" e "segrete". In queste ultime erano conservati i vini di maggiore pregio, come quello di Scalea in Calabria o il Chiarello di Cirella. Sia dalle cantine comuni che da quelle segrete proveniva il vino da distribuire ai componenti della Famiglia Pontificia, ossia all'insieme di ecclesiastici e laici che, nominati "familiares et continui commensales Romani Pontificis", rivestivano le diverse cariche nell’ambito dell'amministrazione.
    Il vino era, insieme ad altri alimenti, assegnato quale complemento degli emolumenti in denaro. Sia le parti di pane che quelle di vino erano distribuite agli "officiali" di Palazzo, secondo precise disposizioni della Camera Apostolica. Il Maggiordomo, o il Maestro di Casa, avevano il compito di emanare di continuo editti per evitare frodi nella distribuzione e norme ben precise riguardo l'approvvigionamento del vino dei Castelli Romani, in modo da impedire a mercanti, osti, cardinali e nobili di recarsi nei luoghi di produzione prima che la cantina del Palazzo Apostolico fosse ben provvista per la "distribuzione delle parti".
    Il vino destinato al Palazzo era inoltre esente dal pagamento di dazi doganali, così come i Cardinali, gli Uditori del Tribunale della Sacra Romana Rota, i membri di alcuni ordini religiosi e cavallereschi, o di collegi ecclesiastici. Oltre alla distribuzione, il vino del Palazzo era chiaramente destinato alla mensa papale; venivano inoltre donate bottiglie pregiate ad ambasciatori o a personaggi di alto rango in visita al pontefice.
    Relativamente all'ubicazione delle cantine del Palazzo Vaticano, ci è pervenuta una descrizione di Giovanni Pietro Chattard che, nel t omo secondo della "Nuova descrizione del Vaticano", cita: "...Quarantotto spaziose cantine, oltre grotte, stalle e rimesse...". Le maggiori in cui veniva conservato il vino ad uso del Palazzo erano situate nel Cortile del Belvedere "... nei sui portici [...] la porticella, che di sopra si disse esistere nell'angolo sinistro con lunga feritoia [...] introduce alla gran cantina di Palazzo con altre quattro minori ed una grotta quali tutte dietro la medesima cantina risiedono. Entrati adunque in un corridore, e saliti quattro gradini si perviene ad un cantinone a due navate con volta a crociera lunettata, suoi peducci, con due pilastroni nel mezzo, che reggono la medesima. Illuminato esso viene su la sinistra da due finestre a lume con ferrate corrispondenti nel piano del cortile del Pappagallo. A capo del detto cantinone esiste porta tonda, per cui ascesi tre gradini si passa alla seconda cantina, con volta un poco cantinata [...]. A capo di questa cantina esiste una porta a diritto dell'altra, la quale mette in una scala, per cui scesi otto gradini con suo parapetto per la diritta si entra in una grotta per mantenere il vino più fresco con volta a crociera e rosone nel mezzo, con finestrino su la dritta da ferrata munito corrispondente nel cortile di Belvedere. Per una porta grande con sesto tondo si passa alla terza cantina con volta a due crociere lunettata e suoi peducci con finestra a lume bislunga da ferrata munita di corrispondente nel cortiletto dietro il teatro del Belvedere, in cui esistono sette cordoni a padiglione, i quali fanno invito ad una scala a cordonata di due branchi, che conduce al di sopra alle stanze del Cantiniere, ed alla porta, che nel cortile di S. Damaso riferisce. Su la diritta di questa terza cantina risiede un arcone, che mette nella quarta cantina più grande con volta simile, e finestra su la manca a lume con ferrata corrispondente nel sopraddetto cortiletto; E su la dritta accanto l'angolo in testata saliti due gradini vi è porta che introduce alla quinta cantina dell'altre più piccola, ed oscura" Sempre sul Cortile del Belvedere si apre la porta che dà accesso "in due stanze ad uso di cantina per servizio della Famiglia di Sua Santità tutte a volta, con finestre esistenti l'una sopra la predetta porta, e l'altra poco distanti, ambedue con sua ferrata. Passata la suddetta porta, e finestra vedesi altra porta con finestra sopra e ferrata simile, la quale introduce in altra cantina [...] per servizio di Palazzo; e la medesima prende lume da una finestra grande con ferrata situata nella facciata dell'ingresso".

    La Chiesa cattolica ha sempre considerato con attenzione la viticoltura. Nel 1562 l'Arcivescovo di Parigi scomunicò i "diablotinos", insetti che danneggiavano le viti, e fino al XVIII secolo il Municipio di Torino comprava a Roma una "maledittione" che l'Arcivescovo, in una cerimonia pubblica, scagliava contro i parassiti delle vigne.
    Nel 1987 è stato fondato in Italia un Gruppo di Studio Internazionale, denominato "Il vino sull’altare", che svolge studi sulla storia, la liturgia e la scienza del "Vino da Messa" e sul ruolo delle religioni nella diffusione della vite. Il Gruppo organizza seminari di studio e promuove ricerche per la produzione di un "Vino da Messa ideale". Recentemente è stato ottenuto, con la Malvasia di Schierano, un vino denominato "Malvaxia Sincerum". E’ anche allo studio un altro vino da Messa di Moscato d’Asti, che sarà chiamato "Alleluja".



    I Cinesi: il vino dell'Oriente



    La coltivazione della Vitis Vinifera fu introdotta in Cina dall'Asia centrale ad opera del generale Zhang Qian nel II secolo a.C., ma fu solo sotto i Tang (618-907) che cominciò la sua diffusione. Nuovi tipi di uva da vino vennero introdotti in Cina dal Turkestan e con essi la conoscenza dell'arte della vinificazione dell'uva. Il tipo più spesso menzionato dagli antichi testi cinesi è quello chiamato, per la sua forma allungata, "capezzoli di cavalla", di color porpora, distinto dal tipo "perle di drago", di forma sferica.

    Alla vite coltivata preesisteva in Cina una varietà selvatica (Vitis thumbergii) che ancora cresce nella regione dello Shandong, anch'essa valorizzata in seguito per la vinificazione e per usi terapeutici: gli erbari di epoca Tang parlano infatti di un vino ottenuto da questo frutto. Sempre ad esso si riferisce, probabilmente, la leggenda sulla "Valle dell'Uva" dove questo frutto poteva essere raccolto liberamente, ma colui che lo mangiava perdeva facilmente la strada. L'uva era così già diffusa nel VII secolo da meritare l'attenzione dei dietologi del tempo: Meng Shen, per esempio, afferma che "mangiarne troppa provoca sintomi di ansietà e oscuramento della vista", mentre il succo d'uva è utile per abbassare un feto che preme contro il cuore... Aggiungi l'uva al vino e bevilo durante le epidemie: eviterai piaghe e ascessi".

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    Il Classico della farmacopea di Shen Nong afferma: "L'uva fa bene ai muscoli e alle ossa, potenzia il flusso vitale, rende resistenti alla fame, immuni ai raffreddori e se mangiata a lungo fa dimagrire, tiene lontana la vecchiaia e ringiovanisce. Puoi inoltre farne vino". "L'uva è diuretica" è scritto nelle Memorie di Medici Famosi.
    Il "vino" più antico e più diffuso in Cina in tutte le epoche è quello ricavato dalla fermentazione dei cereali, soprattutto ottenuto da una varietà di riso diversa da quella commestibile (si tratta più precisamente di una sorta di birra prodotta con il liquido di cottura dei cereali ai quali veniva aggiunto lievito di farina per la fermentazione). Secondo la leggenda, artefice dell'invenzione del "vino" cinese (di riso) fu I Ti, la figlia del mitico imperatore Yu (2205-2198 a.C.) che la elogiò per l'eccellenza della bevanda, ma la punì anche per aver dato al genere umano una fonte di mali. La storia fa invece risalire l'invenzione del "vino" di riso a un'epoca un po' più tarda, attribuendola a Du Kang, ricordato e celebrato dai produttori di alcolici cinesi.
    Huang jiu ("vino giallo") è il nome generico di un vino di riso o di miglio ampiamente usato in Cina. Esso si trova in molte varietà locali, di cui la più famosa - descritta nel Jiu Jing o Classico dei vini - è il "vino Shaoxing", ottenuto dal riso glutinoso nella località omonima della regione del Jiejiang. Tra le bevande alcoliche di origine straniera molto noti erano il kumiss, di origine mongola, ottenuto dalla fermentazione del latte di cavalla e soprattutto il vino d'uva. Anche il processo di distillazione è di origine straniera: si dice che un distillato, chiamato shao jiu o baigan jiu, sia stato introdotto in Cina dall'Asia centrale durante la dinastia Yuan (1279-1368).
    La farmacopea cinese attribuisce l'origine del vino d'uva all'espansionismo dei Tang (618-906) che lo introdussero dal Turkestan. Pur essendo molto apprezzato, il vino d'uva non divenne però mai una bevanda popolare in Cina: persino a Dunhuang, avamposto occidentale sulla via della seta, era una bevanda di lusso riservata ad importanti celebrazioni, proprio come lo champagne nelle nostre feste.
    Una coppa di questo vino fu offerta all'imperatore Mu Zong (821-825) ed egli osservò: "Quando lo bevo sono immediatamente conscio dell'armonia che soffonde le mie membra; è il vero Principe della Grande Tranquillità!". Quest'ultima definizione allude al titolo onorifico di Lao Zi, il padre del Taoismo, e sembra anche echeggiare la nozione greca de vino come divinità.
    Fu precisamente dal nuovo protettorato di Qoco che l'arte della vinificazione dell'uva fu introdotta nella Cina Tang e gli "otto colori" (o varietà) di questa bevanda fortemente aromatica e pungente divennero noti alla popolazione del nord.

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    L'uva chiamata "capezzoli di cavalla" sembra avere avuto una parte importante in questa nuova industria, e certamente ad essa alludono i versi della Canzone dell'Uva che così concludeva: "...i fiori si aprono come frange di seta, i frutti pendono come grappoli di perle... Noi uomini di Tsin queste uve così belle coltiviamo come gemme tra le più rare e di esse facciamo un vino delizioso di cui gli uomini non estinguono mai la sete". Ma per lo più il "vino" di cui parlano i poeti Tang, il"vino" bevuto dai taoisti per attuare il ritorno al Tao, quello usato dagli alchimisti e dai medici per esaltare l'efficacia delle droghe e dei farmaci, non è il vino d'uva del mondo occidentale.
    Nelle Memorie di Medici Famosi è scritto: "Il vino dà potenza alle droghe, annienta i cento influssi nocivi. I suoi nomi sono: vino primaverile di lunga durata, vino di cenere, vino di digitale, vino bianco, vino amaro, vino distillato, vino d'uva, vino di miele, vino d'oro. Puoi anche far fermentare il latte di vacca, l'osso di tigre, la bile di un immortale, l'aralia, la soia, le bacche e altro ancora per ottenerne vino. Il vino disperde la malinconia, annulla la passione; per questo se ne beve molto e ci si ubriaca, ma se viene aggiunto senza moderazione in medicina non è di alcun giovamento. Per aumentare l'efficacia dei farmaci devi fare molta attenzione alle dosi. Il vino che userai è soltanto quello che si ottiene facendo fermentare il riso glutinoso".
    "Il vino di gelso è un rimedio per le cinque viscere, rende più acuto l'udito e rischiara la vista. Il vino di cipolla è un rimedio per le forze indebolite. Il vino d'uva giova al soffio vitale e lo rende più armonico, fa più resistenti nelle carestie, rafforza la volontà. E' buono anche il vino che si ottiene facendo fermentare il succo dei viticci", è scritto sulle Memorie di Medici Famosi (VI sec.). E ancora: "Il vino di primavera fa ingrassare e rende più chiara la pelle".


    Edited by gheagabry1 - 1/11/2019, 19:37
     
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    "ll vino è bono perciò l'acqua avanza":
    parola di Leonardo che amava il "divino licore dell'uva"

    di Gastone Saletnich


    leonardo_uva

    Sono numerose le leggende e i miti che ruotano attorno alla figura di Leonardo da Vinci. Ingegnere, scienziato, artista e artigiano, quasi ogni aspetto della sua vita è stato scandagliato e approfondito. Raccontare "Lionardo di ser Piero di Anchiano di Vinci", significa però anche confrontarsi con i suoi aspetti più intimi e personali. Scorrendo tra le righe delle moltissime pagine giunte sino a noi e osservando alcuni dei suoi grandi capolavori, emerge, infatti, un dato inequivocabile, una passione che pochi conoscono: Leonardo era fortemente legato al vino.

    Il suo profondo rapporto con l'uva e il suo "nettare" ci consegna un aspetto del genio del Rinascimento fatto di passione e competenza, spesso dimenticato o il più delle volte del tutto sconosciuto, che merita di essere raccontato.

    Una curiosità spontanea quella di Leonardo per la natura e per i suoi frutti, una predisposizione che parte da lontano e che nasce sin dalla sua fanciullezza, trascorsa tra le colline di Vinci, piccolo borgo vinicolo toscano a ridosso di Firenze, dove la famiglia da cui proveniva aveva una tradizione nella produzione del vino.

    Il padre Piero, notaio fiorentino che godeva di una certa fama, possedeva alcuni poderi nei comuni di Vinci e Bacchereto, nei pressi di Carmignano, con una produzione di 84 barili annui, come testimoniano documenti del catasto fiorentino del 1498. Affascinato da ogni manifestazione della natura, Leonardo amava il vino perché prodotto della terra, sintesi di perfetto equilibrio tra funzionalità e bellezza, tanto da celebrarlo nel corso della sua vita in molti dei suoi scritti e disegni. Proprio dalle sue opere emerge in modo chiaro, l'importanza che il Genio gli attribuiva, fino a conferirgli un ruolo quasi spirituale: "il beuto vino elevò l'anima sua inverso il celabro".

    LeonardoeilvinoByLucaMaroni

    Di questo rapporto autentico troviamo molte testimonianze autografe: "Et però credo che molta felicità sia agli homini che nascono dove si trovano i vini buoni". Dai suoi manoscritti e dalle sue annotazioni, risultano evidenti la quotidiana dimestichezza e il consumo "il vino è bono ma (perciò) l'acqua avanza".

    L'intimità che aveva con il "divino licore dell'uva" è tale, che infatti lo troviamo regolarmente nelle sue note d'ordine accanto ad altri alimenti; ma non solo, Leonardo, da esperto qual era, fornisce preziosi consigli anche in merito alla sua qualità e alla sua assunzione: "et vin sia temperato, poco e spesso. Non fuor di pasto né a stomaco voto" (Cod. At. fol.195v.) e ancora, riflettendo sull'abuso e sugli effetti dannosi che possono derivare da un suo uso sconsiderato afferma "Il vino consumato dall'imbriacoso, esso vino col bevitore si vendica" (Cod. Foster III fol. 21r.).

    Non ci stupisca quindi se il Maestro lo abbia accettato anche come forma di pagamento per i suoi capolavori. E' il caso de l'Adorazione dei magi, che fu in parte saldato dai frati del convento di San Donato a Scoperto con "uno barile di vino vermiglio".

    A questo si aggiunga che in alcune occasioni Leonardo dimostra di conoscere le diverse varietà di uva, nei suoi scritti ne cita esplicitamente tre: Malvasia, Passerina, Moscado.

    Quanto detto trova una conferma nei suoi numerosi disegni. Nel Codice Atlantico, fol. 500r, Leonardo riproduce ad esempio una piccola botte di legno; nel Codice A, fol. 57v., conservato presso l'Institut de France a Parigi, troviamo la raffigurazione di un getto di vino che fuoriesce da una botte accompagnato da quello di una pompa per trattamenti agronomici.

    Merita un approfondimento il disegno contenuto nel Codice L fol. 77r. Siamo nel 1502; Leonardo in quel periodo era in Romagna, al seguito del duca Cesare Borgia, come ingegnere militare. Incantato dalle lussureggianti colline di quella terra e incuriosito dalle tecniche di viticoltura che vi si praticavano, riproduce con un rapido schizzo il modo usato in quelle contrade per appendere i grappoli d'uva e conservarli durante l'inverno.

    Per quanto si definisse "omo sanza littere" (non conosceva il latino) Leonardo faceva dello studio e dell'osservazione momenti fondati di ogni sua attività, anche in questo caso, incuriosito da ciò che aveva visto, decide di ricercare fra i testi dell'antica biblioteca Malatestiana di Cesena un raro trattato di viticoltura di cui ha notizia. L'intuizione si rivela giusta e tra i codici della biblioteca trova il prezioso codice trecentesco di Pier de' Crescenzi "De ruralibus commodis", da cui trae importanti informazioni in merito alla coltivazione dell'uva e alla produzione di vino.

    LeonardoeilvinoByLucaMaroni3

    Leonardo era soprattutto un genio umano le cui scoperte, almeno nelle sue intenzioni, avevano quasi sempre un risvolto pratico ed effettivo. Si può quindi immaginare che oltre ad amare il vino, lo producesse, secondo metodi precisi. Del resto come già detto in precedenza, proveniva da una famiglia dalla forte tradizione vinicola.

    Nel 1515, mentre si trova a Milano, riceve dal fattore del podere di Fiesole, dove aveva comprato diversi appezzamenti di terreno nel 1503, un campione della nuova svinatura ancora fresca di mosto. Leonardo lo assaggia; è un vino imbevibile e senza corpo, che a causa del viaggio è diventato aspro come l'aceto. Profondamente insoddisfatto e rammaricato scrive quindi al suo castaldo:

    "Da Milano a Zanobi Boni, mio Castaldo
    Li 9 Xbre 1515

    Non furono secondo le espettatione mie le quattro ultime caraffe (bottiglie) et ne ho auto rammarico. Le vite de Fiesoli in modo migliori allevate, furnire devriano all'Italia nostra del più ottimo vino, come a ser Ottaviano. Sapete che dissi etiamdio che sarebbe a cuncimare la corda quando posa in el macignio con la maceria di calcina di fabriche o muralie demoliti, et questa assiuga le radicha; e lo stelto e le folie dall'aria attranno le substantie convenienti alla perfezione del grappolo.
    Poi pessimamente alli dì nostri facemo il vino in vasi discoperti, et così per l'aria fugge l'exentia in el bullimento, et altro non rimane che un umido insipiente culorato dalle bucice et dalla pulpa; indi non si muta come fare si debbe di vaso in vaso, et percioché viene il vino inturbidato et pesante nei visceri.
    Conciosiacosaché si voi ed altri faciste senno di tali raggioni, berremo vino excellente.
    M.N.D vi guardi Leonardo".

    La lettera in questione è di straordinaria importanza. In essa Leonardo suggerisce miglioramenti per la coltivazione della vite e per la produzione e la conservazione del vino, anticipando, anche in questa materia, accorgimenti che saranno applicati nel futuro. Non a caso questo documento è considerato il primo "trattato" enologico di contenuto tecnico, testimonianza della competenza e dell'approccio scientifico che Leonardo ha per quel che concerne la produzione vinicola.

    Leonardo richiama inoltre l'attenzione sull'ottimizzazione agronomica del frutto dell'uva e sull'ottimizzazione del procedimento di trasformazione enologica ideale, per trasferire i suoi componenti nel vino. Lamentandosi che le caraffe ricevute (bottiglie) non rispondevano alle sue aspettative, dà precise indicazioni accompagnate da accorgimenti da applicare; spiega ad esempio il problema dell'ossidazione e di come si debba proteggere il vino durante la fermentazione, si sofferma poi sull'utilità dei travasi per evitare contaminazioni che possano portargli danno.

    Nel racconto del profondo legame tra il Genio toscano e "l'odorifero e soave licore" un posto di primo piano è occupato da quella che fu per alcuni anni la sua dimora milanese nei pressi della Porta Vercellina, oggi nota come la casa degli Atellani.
    Siamo nel secondo scorcio degli anni Novanta del Quattrocento, solo qualche anno prima, Ludovico il Moro aveva chiamato Leonardo, presente in città sin dal 1482, ad affrescare il refettorio del convento dei domenicani che reggevano la chiesa delle Grazie, scelto come mausoleo della propria famiglia.

    Le Grazie si trovavano allora ai margini della città, fuori da porta Vercellina e, quindi, sostanzialmente in campagna. Sulla destra della chiesa, a poche centinaia di metri, si trovava un terreno chiamato la Vigna grande di San Vittore. Ludovico, per remunerare i preziosi servigi del Maestro e rinforzarne i legami con la casa sforzesca, gliene fa omaggio.

    La donazione, avvenuta nel 1498, fu ufficializzata il 26 aprile dell'anno successivo, così come risulta da alcuni documenti, conservati oggi presso l'Archivio di Stato di Milano:

    "Ludovicus Maria Sfortia dux Mediolani dono dedit d. Leonardi Vincio Florentino pictori celeberrimo pert. 16 pert. (pertiche) soli seu fundi ejus vineae quam ab abate seu Monasterio S. Victoris in suburbano porte Vercelline proxime acquisierat, ut eo spatio soli pro ejus arbitrio aedificare, colere hortus, et quidquid ei, vel posteris ejus, vel quibus dederit ut supra libuerit, facere ed disponere possit."

    Il terreno, così come lo stesso Leonardo annota (Codice Atlantico fol. 426 r) misurava 15 pertiche e ¾ "cento braccia di largeza e 294 di lunghezza". Un appezzamento di forma rettangolare - quindi - di circa un ettaro, 60x175 metri.
    Possiamo immaginare Leonardo, al termine di una giornata di lavoro, mentre lascia il cantiere del Cenacolo, ormai praticamente concluso e transitare per la casa degli Atellani, per controllare lo stato della sua vigna.
    Peccato che, a settembre di quello stesso anno, le truppe del re di Francia entrarono a Milano per rivendicarne il possesso, costringendo Ludovico a riparare a Innsbruck e mettersi sotto la protezione dell'imperatore Massimiliano I d'Asburgo.

    Quanto a Leonardo, nel 1500, dopo il velleitario tentativo del "Moro" di riprendere il potere a Milano, rientrò a Firenze, presumibilmente senza poter realizzare il sogno di una vendemmia. Ma Leonardo teneva davvero molto a quel piccolo appezzamento di terreno vignato. Così quando nel 1506 Carlo d'Amboise, luogotenente di Luigi XII, gli chiese di tornare in città per completare dei lavori, lui come condizione pose la restituzione di quella proprietà, che gli era stata confiscata nel 1502.

    Fu accontentato, tanto che il nobile francese il 20 aprile 1507 impartiva ai Maestri delle entrate straordinarie della città il seguente ordine "..Tocando il caso de magistro Lionardo fiorentino ve dicemo e commetemo che lo remettiate nel primo stato, come esso era, de la vigna sua inante che la gli fusse da voi tolta, et non gli fareti chel ne habia a patire pur de uno soldo".

    La risposta dei solerti funzionari non tardò ad arrivare, così il 27 aprile replicavano alla direttiva ricevuta: "declaramus magistrum Leonardum...in et ad actualem possessionem et tenutam seu quasi petite illius vinee site extra Portam Vercellinam Mediolani...., de qua ipse Leonradus donationem habuerat ab illustrissimo dom. Ludovico Sfortia".

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    Il passo in questione, riportato nel libro dell'enologo e analista sensoriale Luca Maroni, "Leonardo e il Vino" è particolarmente significativo, perché ci restituisce una dimensione più intima e personale del grande Maestro, deciso a non perdere il suo vigneto milanese, l'unico bene immobile insieme ai suoi preziosi libri ed ai suoi appunti a cui tenesse davvero, al punto da citarlo nelle sue disposizioni testamentarie dell'aprile 1519:

    ".... A Battista de Vilanis suo servitore la metà zoè medietà de uno iardino che ha fora a le mura de Milano, et l'altra metà de epso iardino ad Salay suo servitore nel qual iardino il prefato Salay ha edificata et constructa una casa, la qual sarà e resterà similmente a sempremai pepetudine al dicto Salai.....".

    La storia di questa vigna, che oggi si trova nel cuore di Milano, non finisce qui. Grazie al lavoro dello stesso Maroni e al contributo dell'Università degli Studi di Milano, nelle persone della genetista Serena Imazio e del professor Attilio Scienza, è stato possibile ritrovare nel giardino della casa degli Atellani alcune radici e rintracciare il DNA della vite originaria, che sembrava essere definitivamente perduto a causa dei bombardamenti alleati del 1943. Con un paziente lavoro scientifico si è così stabilito che si trattava di Malvasia Aromatica di Candia, reimpiantata nel sito originario in occasione dell'EXPO 2015.

    Volendo trarre delle conclusioni a quanto sin ora raccontato possiamo affermare che nel profondo rapporto che unisce Leonardo al vino troviamo una sintesi perfetta tra l'uomo e lo scienziato, tra le applicazioni tecniche e scientifiche e la passione più pura Un amore durato tutta la vita in cui ritroviamo l'anelito più intimo di un'anima complessa, la sua sensibilità e la sua profonda umanità.



    (29 maggio 2019) © RIPRODUZIONE RISERVATA
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    “Il vino, il divino licore dell’uva”: è così che, cinque secoli fa, Leonardo da Vinci, il genio italiano per eccellenza, parlava del vino, conferendo all’uva un ruolo quasi spirituale. Vino che, insieme ad arte, scienza, architettura era tra le sue passioni, al punto da studiarne, già allora, le tecniche di vinificazione, come racconta una lettera del 1515, al fattore del suo Podere di Fiesole. Quasi un trattato viticolo ed enologico, dove si indicano aspetti oggi dati per certi, ma all’epoca pionieristi, come l’ottimizzazione della qualità dell’uva, la concimazione della vite con sostanze basiche e la vinificazione in botti chiuse. “Conciosiacosache si voi et altri faciesti senno di tali ragioni, berremmo vino excellente”, scriveva Leonardo.

    Indicazioni assunte come linee guida dallo staff tecnico, agronomico ed enologico della Leonardo da Vinci Spa per la definizione di un metodo che, grazie all’utilizzo delle moderne tecniche vitienologiche, permetta di realizzare l’obiettivo di Leonardo: ottenere prima uve, quindi vini di eccellente qualità. Ovvero, il “Metodo Leonardo”, un capitolato viticolo ed enologico, esclusivo e segreto, messo a punto con il supporto di un comitato scientifico di enologi e studiosi, come Alessandro Vezzosi, importante studioso di Leonardo Da Vinci, per l’indagine storico-culturale, e Luca Maroni, noto analista sensoriale che ha saputo tradurre le indicazioni di Leonardo nelle tecniche odierne. Da cui nasce una linea di vini che è solo una parte del progetto della Leonardo da Vinci dedicato a Leonardo, nei 500 anni dalla sua dipartita, nato da un lavoro di ricerca partito anni fa e ripreso nel 2017, per arrivare oggi alla sua prima presentazione al pubblico (con l’anteprima nazionale del documentario “Leonardo da Vinci e il vino”, e le ricette della chef stellata Cristina Bowerman ispirate a forme e visioni di Leonardo) per l’anno Leonardiano.

    Eravamo alla vigilia Expo 2015, con Luca Maroni, grande appassionato di Leonardo che stava riportando alla luce la vigna di Leonardo a Milano, che gli regalò Ludovico il Moro. Da lì nacque l’idea di non parlare solo della vigna, perché è evidente che chi ha una vigna produce vino, e lì scopri che Leonardo era un proprio e vero winemaker e l’idea è stata quella di portare alla luce questo aspetto di Leonardo, ancora poco conosciuto, per far innamorare le persone di Vinci, dei vini e dell’Italia. Leonardo era un antesignano dei suoi tempi: studiò il volo 300 anni prima che altri capissero come funzionava il volo degli uccelli e delle macchine, ed imparò come fare un buon vino 300 anni prima di altri che iniziarono a fare le stesse sperimentazioni. Quando ci approcciamo al suo genio dobbiamo avere un grande rispetto, non siamo capace di andare più avanti di lui, ma possiamo trarre sputo dai suoi insegnamenti per fare un vino che a lui oggi piacerebbe, e di cui Leonardo andrebbe fiero. E lui vorrebbe un vino che ricordasse bene il frutto da cui deriva.

    “Il metodo di Leonardo - spiega Luca Maroni - è un susseguirsi di attenzioni mirate a due obiettivi fondamentali. Come diceva Leonardo nella sua lettera, la prima cosa fondamentale è quella di mettere la pianta nella condizione di trarre dalle sue stesse foglie le sostanze convenienti alla perfezione del grappolo. E questo già denota un’attenzione e una sensibilità straordinaria di Leonardo per la vitalità della vite. Non bisogna darle quello di cui ha bisogno, ma metterla in condizione di stare in un ambiente salubre e di essere autonoma ed indipendente. E poi il secondo indirizzo è quello enologico: Leonardo si lamenta dal fatto che durante il “bullimento, per aver condotta questa fermentazione a vasi discuoperti, tutto l’aroma se ne è fuggito con l’essenza”, e questo è un grave danno. Per questo Leonardo vuole un frutto integro, mantenuto intatto dal punto di vista ossidativo, vuole un vino pulito, che venga travasato di frequente. E quindi da questi indirizzi il metodo di Cantine Leonardo da Vinci è stato quello di selezionare ed applicare passo per passo nel capitolato gli insegnamento di Leonardo, e questo ha dato vita a vini straordinariamente piacevoli, in cui la fragranza del frutto primo è intatto, e la naturalità del processo è il denominatore comune che parte dalla ricezione dell’uva alla sua trasformazione”.


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    La bottiglia di vino di Spira (o "Römerwein") è un recipiente sigillato, all'interno del quale c'è del vino, e così chiamato perché dissotterrato da una tomba romana trovata nei pressi di Spira, Germania.

    E' considerato il vino più antico del mondo conservato in una bottiglia datata 325 d.C. Fu ritrovata nel 1867, in quella che oggi è nota come la regione di Renania-Palatinato in Germania vicino Spira, uno degli insediamenti più antichi dell'area.
    E' stata scoperta durante uno scavo, all'interno di una tomba di un aristocratico romano del IV secolo d.C. La tomba conteneva due sarcofagi romani, uno con all'interno un corpo di un uomo e l'altro di una donna. Una fonte racconta che l'uomo fu un legionario romano e il vino era una provvista per il suo viaggio nell'aldilà. Delle sei bottiglie nel sarcofago della donna e delle dieci in quello dell'uomo, solo una conteneva del liquido; un liquido chiaro sul fondo, e un miscuglio simile alla colofonia sopra di esso.

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    Attorno agli anni della I Guerra mondiale furono esfiltrati campioni del liquido per analisi che confermarono si trattasse di vino, prodotto probabilmente in loco, un tipo di vino rosso o rosato miscelato con erbe e spezie, come usavano i romani, e coperto da una spessa coltre di olio aggiunto per evitare l'ossidazione. I tappi di sughero, già conosciuti, erano però rari e costosi. Lo scrittore Petronio (circa 27-66 d.C.) descrive nel Satyricon bottiglie sigillate con un colmo di cera allo stesso modo della bottiglia di Spira. Circa un terzo del contenuto - un impasto nebuloso - era probabilmente anche in origine olio di oliva posto a galleggiare sopra al vino per preservarlo dall'ossidazione. L'uso del vetro per la bottiglia è inusuale; tipicamente il vetro romano era troppo fragile per essere adatto alla conservazione. Il recipiente, di un litro e mezzo, ha manici simili ad un'anfora, di colore giallo-verde, a forma di delfino.

    Tra il Reno e la Mosella vi è una rete di vigneti tra borghi, castelli e monasteri, enoteche, musei del vino. I coloni romani impiantarono la viticoltura, già consolidata nel bacino del Mediterraneo - il vino più antico del mondo fu prodotto 8.000 anni fa - che in seguito perfezionarono i monaci cristiani.

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