ROMANI

personaggi che hanno lasciato un segno

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  1. gheagabry
     
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    "Volevo uccidere te. La mia mano ha errato e ora la punisco per questo imperdonabile errore"


    MUZIO SCEVOLA




    Secondo la leggenda ambientata nel 508 a.C., e riportata da antichi autori come Livio, quando gli Etruschi comandati da re Porsenna stavano assediando Roma, il giovane aristocratico romano Muzio Cordo propose al Senato di uccidere il capo dei nemici, offrendosi come volontario per portare a termine l’impresa. Ottenuta l’autorizzazione, il coraggioso eroe partì in missione. Si infiltrò, armato di pugnale, nell’accampamento etrusco e trovò Porsenna che stava distribuendo la paga ai soldati. Attese che rimanesse da solo e lo pugnalò. Scoprì di avere ucciso il segretario di re Porsenna anziché il sovrano stesso che lo fece catturare dai suoi soldati subito dopo l’omicidio.
    Il temerario Muzio Cordo, portato al cospetto di Porsenna, affermò che era lui che voleva uccidere e che la sua mano aveva sbagliato e per questo motivo l’avrebbe punita. Mise la mano destra su un braciere dove la lasciò fin quando non fu completamente consumata. Da quel giorno il coraggioso romano fu chiamato Muzio Scevola, in quanto il nome aveva la stessa radice di scaeva, mancino.
    Porsenna rimase così colpito dal suo gesto che decise di lasciarlo libero.
    Il furbo Muzio Scevola ebbe allora un’idea: gli disse che per ringraziarlo della sua clemenza gli rivelava che trecento giovani nobili romani avevano giurato di ucciderlo e il destino aveva voluto che lui fosse il primo di questi ma avendo lui fallito sarebbero presto passati all’azione gli altri duecentonovantanove e sicuramente tra di essi qualcuno sarebbe riuscito nell’intento.
    Il re etrusco rimase così spaventato da questa affermazione che prese la decisione di intavolare le trattative di pace con Roma, essendo stato colpito dal valore del suo popolo.



    "...se gli Etruschi avevano lo stesso coraggio che aveva avuto Porsenna
    e i loro antenati a costringere i Romani a combattere per la loro salvezza" …
    (Tito Livio, 296 a. C.)


    ......Porsenna......


    Il leggendario Porsenna è senza dubbio il personaggio più celebre dell'affascinante mondo etrusco. Lo abbiamo conosciuto, forse senza amarlo, fin da bambini, quando frequentavamo le scuole elementari, quando eravamo troppo piccoli per distinguere il vero dal falso. I nostri maestri, allora, lo abbinavano a Orazio Coclite, a Muzio Scevola o a Clelia, personaggi leggendari di Roma arcaica: per questo motivo probabilmente non era amato, ma sicuramente era stimato perché aveva dimostrato di apprezzare e riconoscere il valore, il coraggio e la lealtà sotto qualsiasi bandiera a prescindere dall'esercito al quale si appartiene....Il grande lucumone etrusco, per di più, non è affatto una comparsa e non può essere ignorato dalla Storia: egli è stato il primo che sia riuscito a conquistare Roma.

    Siamo nel 509 a.C.. Il re di Roma, Tarquinio detto il Superbo, cacciato dalla città , si rivolge alle lucumonie dell'Etruria affinché lo aiutino a riconquistare il trono. Nessuno accoglie, però, il suo appello: a rifiutare ogni aiuto è soprattutto Veio, spesse volte attaccata dal battagliero vicino. A capire che non è il caso di trascurare le vicende romane è Larth Porsenna, il lucumone di Chiusi che muove verso Roma, probabilmente al comando di un esercito nazionale, essendo quell'anno il "re" della dodecapoli etrusca.
    Porsenna assedia Roma, conquista la città e la disarma: gli episodi leggendari di Orazio Coclite, Muzio Scevola e Clelia sono solo un postumo tentativo retorico di occultare la realtà storica. Il re etrusco non rimette sul trono il defenestrato Tarquinio, ma detta condizioni di pace assai dure. Impone il completo disarmo e divieto di uso del ferro eccetto che per la costruzione di strumenti agricoli, mentre, in segno di omaggio e di riconoscimento della potestà del vincitore, i romani devono offrire un trono d'avorio, un manto regale, uno scettro ed una corona d'oro, tutti simboli della regalità etrusca..



    .......il " Labirinto di Porsenna ".......


    ...secondo quanto riportato da Plinio il Vecchio , vissuto nel I sec.a.C., Porsenna venne sepolto in un mausoleo situato sotto la città di Chiusi, al centro di un intricatissimo percorso di cunicoli ipogei. Plinio riporta in verità la descrizione che il bibliotecario di Cesare, Terenzio Varrone ( 116 - 27 a.c. ) fa della gigantesca tomba etrusca (90 m di lato di base) che avrebbe avuto un'architettura davvero avveniristica per quei tempi....
    Nessun cocchio dorato trainato da cavalli d'oro, come Varrone ancora tramanda, nessuna chioccia d'oro con 5000 pulcini - d'oro anch'essi- a vegliare la tomba. Anzi non c'è nessuna tomba! E le gallerie rappresentano un sistema idrico etrusco della larghezza di un metro per 2,5 di altezza, disposto su più livelli in cui l'acqua, filtrata dalle rocce, veniva posta in grandi bacini di raccolta per poter essere prelevata attraverso i pozzi...Chiusi è infatti una città percorsa da una fitta rete di gallerie sotterranee, che si intersecano tra loro, sono collegate da antichi pozzi e cisterne, che furono riadattati a magazzini e cantine dei palazzi soprastanti nel corso dei secoli. Di queste gallerie si erano perse le tracce e la memoria; erano infatti state totalmente riempite in epoca romana da materiale di scarico e seppellite in tal modo sotto cumuli di detriti....Sono stati molti gli studiosi e gli appassionati che nel corso del tempo si sono interessati al mitico labirinto di re Porsenna, che in virtù del fatto di aver esercitato un brillante ruolo militare nei confronti della potente Roma si sarebbe meritato, a ricordo immemore, un sì degno mausoleo.




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    Edited by gheagabry1 - 11/11/2023, 17:23
     
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  2. gheagabry
     
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    I NOMI DEGLI ANTICHI ROMANI



    Nell’antica Roma si usava una formula di tre nomi: il praenomen, il nomen gentilicium e il cognomen.
    Il praenomen è quello che corrisponde al nostro nome comune come Lucius, Tiberius, Flavius, Marcus, Titus, Quintus e così via. Alcuni di questi nomi sono ancora in uso nella nostra epoca, per esempio: Lucio, Flavio (Flavia al femminile), Marco. Il nomen gentilicium, il secondo nome, rappresenta invece il "clan" di appartenenza (la gens), la "famiglia allargata".
    La gens era un clan, un gruppo di famiglie (familiae), che condividevano, appunto, lo stesso nomen. È un po’ l’equivalente di un cognome allargato che appartiene a tante famiglie che molto probabilmente non erano riconducibili ad un antenato comune.
    Il cognomen, che possiamo considerare il terzo nome, inizialmente compare come soprannome, è una sorta di appellativo che sta a sottolineare qualche tratto fisico o morale della persona, una sua caratteristica. Il cognomen diventa infatti il solo elemento veramente personale ma non compare nei documenti ufficiali fino al 100 a.C. circa mentre durante la Repubblica e l’Impero si trasmette da padre in figlio come il nostro attuale cognome.
    A questi tre nomi, si aggiunse anche un quarto o un secondo cognomen (agnomen) che distingueva personaggi più importanti e nuclei più ristretti all’interno della gens. Spesso veniva usato come soprannome per ricordare un’impresa importante dove il soprannominato si era distinto. Facciamo l’esempio di Publio Cornelio Scipione detto l’Africano.
    Nel tempo i romani cambiarono il loro modo di chiamarsi in pubblico. Durante la Repubblica bastava semplicemente citare il praenomen e il cognomen mentre in seguito si usava citarli tutti e tre. Nell’epoca Imperiale, invece, bastava citare soltanto il terzo ed è per questo che noi quando parliamo di un antico romano ci viene spontaneo parlare semplicemente di Scipione e non di Publio Cornelio Scipione oppure di Traiano e non di Marcus Ulpius Traianus.
    (Fonti: "Una giornata nell’antica Roma" di Alberto Angela)


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    Edited by gheagabry1 - 11/11/2023, 17:23
     
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    GENS FABIA

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    La gens Fabia fu un'antichissima famiglia patrizia romana, inclusa fra le cento gentes originarie ricordate dallo storico Tito Livio. L'antichità dei Fabii è dimostrata anche dal fatto che uno dei collegi sacerdotali più antichi, quello dei Luperci (anteriore al V secolo a.C. e dedicato al culto dei Lupercalia), era costituito esclusivamente da membri delle gentes Fabia e Quinctia; infatti i Luperci erano distinti in due gruppi in base alla provenienza familiare: i Fabiani ed i Quinctiales. La gens Fabia deve il nome alla faba, cioè le fave, legumi la cui coltivazione era assai diffusa in età arcaica. In proposito, Plinio il vecchio ricorda che molte antiche famiglie romane derivarono il proprio nomen dai legumi che prediligevano, o alla cui coltivazione erano dediti maggiormente; ad esempio i Lentuli (da lentes, "lenticchie"), ramo dei Cornelii, i Pisoni, ramo dei Calpurnii, ed ancora i Ciceri.
    La gens Fabia comprendeva diversi rami. Il più illustre fu quello dei Fabii Massimi, che presero il cognomen dall'Ara Massima di Ercole, presso la quale avevano la propria dimora (nell'area dell'attuale basilica di Santa Maria in Cosmedin). I Fabii Massimi si vantavano di discendere da un Fabius o Fabio figlio del dio Ercole, nato sotto il regno del mitico re Evandro. Si ricordano inoltre i Fabii Ambusti, i Fabii Pittori, i Fabii Vibulani.
    I membri di questa illustre gens ricoprirono durante la repubblica tutte le magistrature, e in particolare il consolato per ben 66 volte rappresentando nel senato una forza molto conservatrice, tendente ad escludere i plebei dalle magistrature. Notevole fu la loro forza ed influenza anche sul piano militare; ne è prova il fatto che i Fabii assunsero la difesa del territorio di Roma contro la minaccia etrusca di Veio, ed in quella circostanza subirono una tremenda disfatta nella battaglia del Cremera (477 a.C.) nella quale furono quasi sterminati, restandone uccisi più di trecento.


    Nel 477 a.C. , un intera famiglia fu massacrata fino all’ultimo uomo dagli Etruschi di Veio. Verrebbe spontaneo diffidare dei racconti di Tito Livio e di Dionigi di Alicarnasso, che ci narrano questo episodio agli albori della Repubblica romana, invece si scopre che nella lista dei consoli romani di epoca repubblicana, negli anni successivi al massacro, mancano del tutto esponenti della gens Fabia, che nei 7 anni precedenti aveva piazzato un proprio membro alla suprema magistratura della repubblica. Il cronista Diodoro Siculo, quattro secoli dopo, è il solo a scrivere che da Roma partì un esercito che comprendeva 306 “fabii”. Per i Romani, la famiglia era molto allargata e includeva clientes e altri aderenti. Resta il fatto una delle gentes che aveva in mano le redini del potere a Roma rischiò l’estinzione. Tutto cominciò con un’idea che il console Cesone Fabio Volusiano espose in Senato ne 479 a. C., esattamente trent’anni dopo la cacciata dell’ultimo re, Tarquinio il Superbo, e l’istituzione della repubblica. A quei tempi, Roma non doveva ancora vedersela con Unni, Goti e Vandali, ma era ugualmente minacciata. Non dai barbari, ma dai vicini dell’aera laziale: Etruschi, Volsci, Equi e Sabini in particolare. Le due legioni di cui era dotata non erano più sufficienti per tutti i fronti di guerra. Così, Cesone lanciò la trovata: propose di lasciare alla sua famiglia l’onore di far rispettare il nome dell’Urbe lungo il confine di Veio, la città etrusca situata a circa 17 km da Roma e da sempre spina del fianco. Lo Stato non avrebbe dovuto farsi carico di nulla: ci avrebbero pensato i Fabii, sosteneva Cesone, a chiudere un conflitto che si trascinava da anni senza andare al di là di razzie e scaramucce. La “guerra privata” di Cesone aveva le sue ragioni molte delle proprietà dei Fabii si trovavano lungo il confine settentrionale di Roma, verso Veio, e la sua gens era interessata a limitare incursioni e sconfinamenti sui propri possedimenti. Inoltre in ballo c’era il monopolio del commercio di sale, possibile soltanto a chi avesse il controllo del medio corso del Tevere.
    Il Senato accettò e poco dopo la colonna dei presunti 306 armati partì da Roma attraverso l’arco di destra della porta sacra del Campidoglio, detta Carmentale (e dopo la strage chiamata scelerata), tra le acclamazione della folla; la guidavano lo stesso Cesone e suo fratello Marco, anch’egli già console due volte. A Roma rimase un solo Fabio maschio, il figlio più piccolo di Marco, di nome Quinto e in futuro uno dei più grandi condottieri romani della sua epoca.
    I Fabii come prima cosa costruirono una massiccia fortezza dotata di doppia recinzione e di un fossato su una delle tante alture tufacee nella zona di confine con Veio, a circa 8 km dall’Urbe, alla confluenza del Tevere e del suo affluente Cremera (oggi Fossa di Fornello e nel corso inferiore Valchetta). Da lì diedero a devastare il territorio etrusco. Il bottino non consisteva in oro e argento, ma in greggi e mandrie. Si andò avanti così per l’intero autunno poi, in inverno, le armi tacquero. Le provocazioni romane indussero Veio a chiamare in causa le undici città etrusche con cui era confederata e si passò presto dalle razzie alla guerra. Al nuovo console Lucio Emilio Mamerco toccò affrontare in battaglia un’armata di Etruschi confederati. Allo stesso parteciparono anche i Fabii e Roma, quella volta, vinse. Ma non servì a niente: il console non ottenne alcun vantaggio territoriale per l’Urbe e il Senato si rifiutò di accordagli il trionfo. I Fabii, in compenso, ripresero a tormentare il territorio di Veio. Si rifiutarono di lasciare la fortezza sul Cremera, come chiedevano gli Etruschi. Trascorse così, tra razzie e fasi di stallo, l’intero 478 a. C. La guarnigione finì col trasformare in terra bruciata tutto il territorio circostante: per racimolare bottino dovette spingersi sempre più vicino a Veio. La scarsa resistenza di Veio rese Cesone, Marco sempre più audaci ed imprudenti. Quando sentirono che un gregge di pecore pascolava indifeso in un territorio particolarmente lontano dal Cremana, non esitavano a uscire con una forte colonna di armati per andare a impossessarsene. Era una trappola. Non appena i Fabii avvistarono gli animale da pascolo, dalle colline adiacenti sbucarono centinaia di ospiti etruschi, che si avventarono sulla colonna. I legionari del tempo combattevano a falange, e vestivano come i loro colleghi greci. Ma i Fabii stavano conducendo una guerra privata, ed è probabile che solo pochi di essi fossero armati in modo adeguato: non c’erano ancora gli standard di efficienza che Roma avrebbe imposto in seguito ai loro eserciti. Ebbero così la peggio e riuscirono a sottrarsi alla completa distruzione riparando su un’altura, sulla quale il nemico rinunciò a inerpicarsi, preferendo affrontare il contingente di soccorso uscito dalla fortezza sul Cremena. La nuova colonna non fece molta strada. Gli Etruschi la attaccarono: non rimase nessuno vivo. Solo allora i Veieni tornarono , implacabili, a dedicarsi ai resti del primo contingente . I penultimi Fabii opposero una fiera resistenza, prima di soccombere anch’essi. Rimaneva il presidio della fortezza, alla quale gli Etruschi si avvicinarono per assalirla. I pochi difensori rimasti preferirono lanciarsi in una sorta suicida, piuttosto che asseragliarsi. Caddero sul campo. Non è ben chiaro in che giorno avvenne la carneficina: la tradizione dice 8 luglio. La stessa data di un’altra sonora sconfitta romana, quella contro i Galli Senoni di Brenno, sul fiume Allia nel 390 a.C. Secondo Ovidio, invece era il primo giorno d’inverno, il 13 febbraio.

    Il sacrificio, come in tanti altri casi simili, fu inutile. La fortezza del cremera era stato un baluardo contro le ambizioni di Veio, e la sua caduta aprì agli Etruschi la via Roma. Che rischiò grosso. I nemici storici dell’Urbe conquistarono il Gianicolo, appena fuori dalla presunta cinta muraria. Fu la minaccia più seria dai tempi di Porsenna, il re che aveva imposto il dominio estrusco ai Romani, e prima del saccheggio imposto dai Galli Senoni di Brenno. Certo, con Veio l’avrebbero spuntata i Romani, alla fine. Ma dopo altri novant’anni di guerra. Tuttavia, se il sacrificio fu inutile, la lezione servì. Dopo quel disastro, Roma non affidò più la propria difesa a un esercito privato. E la fine dei Fabii spianò la strada al nuovo modello di esercito romano repubblicano: non più in base tribale, bensì costituito da cittadini organizzati dalla Stato, e sempre più professionale. (Andrea Frediani, tratto da Focus storia giugno 2014)


    Edited by gheagabry1 - 11/11/2023, 17:20
     
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  5. gheagabry
     
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    A cena con i gladiatori
    Fagioli, orzo e "bevanda di cenere":
    i combattenti dell'antica Roma erano vegetariani
    ma in forma.




    di Rebecca Rupp, dal blog The plate



    La sorte dei gladiatori non era tra le migliori. La maggior parte di loro erano prigionieri, criminali, schiavi, o Romani liberi ma caduti in rovina, tanto da essere disposti a rischiare la morte pur di avere qualcosa da mangiare.

    I gladiatori non avevano diritti. I Romani che lo diventavano volontariamente dovevano pronunciare un sinistro giuramento, rinunciando al loro status di cittadini: “Sopporterò di venire bruciato, legato, picchiato e di essere ucciso dalla spada”. “Non c'era condizione più penosa di quella del gladiatore”, disse Calpurnio Flacco, oratore romano del II secolo d.C. Per un gladiatore, l'aspettativa di vita era minima e la morte quasi sicuramente cruenta e sanguinosa. Questo non vuol dire, però, che non ci fossero occasionali gratifiche.

    Un gladiatore che sopravviveva a diversi combattimenti poteva ottenere fama e libertà e magari, alla fine, ritirarsi dall'arena con un generoso gruzzolo, o magari trascorrere i suoi ultimi anni come rispettato allenatore presso una scuola per gladiatori. I gladiatori famosi e di successo erano adorati dai cittadini romani. I migliori avevano addirittura devoti fan club. I bambini giocavano a fare i gladiatori, fingendo di essere i loro combattenti preferiti. “Quando si entra in aula”, scriveva lo storico Tacito, seccato, dei suoi studenti ossessionati dai gladiatori, “di cosa si sente parlare tra i giovani?”. I gladiatori erano per i Romani quello che le squadre di calcio sono per gli italiani di oggi. Possiamo scommettere che scoppiassero litigi tra tifosi di gladiatori rivali negli equivalenti romani dei nostri bar.

    I gladiatori vittoriosi erano veri e propri sex symbol (in latino gladius era anche un termine gergale per indicare il pene). In un poema satirico di Giovenale, la moglie di un senatore abbandona marito e figli per fuggire insieme a un gladiatore in Egitto. Alcuni graffiti sulle pareti di Pompei esaltavano le prodezze sessuali dei gladiatori (“Calado il Tracio, tre volte vincitore e tre volte incoronato, idolo delle giovani fanciulle”, oppure “Crescenzio, colui che di notte fa incetta di giovani donne”). Meno gratificante era la credenza, diffusa tra i Romani, che il sangue di un gladiatore fosse un rimedio contro l'impotenza.

    Dal punto di vista storico, gran parte di ciò che sappiamo sullo stile di vita dei gladiatori lo dobbiamo a Galeno, medico e studioso di anatomia nel II secolo d.C., che per un periodo curò anche i gladiatori. Galeno scrive che la loro dieta dei gladiatori era a base di orzo e pasta di fagioli: questi due alimenti base venivano somministrati sia sotto forma di puré di fagioli con orzo decorticato, sia di densa zuppa da bere in tazze di coccio. Per il palato di un intenditore non erano piatti particolarmente appetitosi, ma erano sostanziosi ed economici. Galeno, però, non ne era convinto, preoccupato che una tale dieta, invece che irrobustire la carne e rinforzare il corpo, rendesse gli uomini mollicci e grassi. Nel 1993 è stato scoperto in Turchia un cimitero di gladiatori, vicino all'antica città di Efeso, un tempo capitale romana dell'Asia Minore, dimora di 200.000 abitanti e sede del favoloso tempio di Artemide, una delle Sette Meraviglie del mondo antico. Vi erano sepolti 68 uomini, tutti di età compresa tra i venti e i trent'anni, assieme a una donna (una schiava) e un uomo di mezza età, che, in base alle condizioni “ammaccate” del suo scheletro, si ipotizza fosse un ex-gladiatore diventato allenatore.

    Stando alle analisi chimiche dei resti, forse i gladiatori erano davvero quei vegetariani grassocci di cui parlava Galeno. Gli antropologi Fabian Kanz e Karl Grossschmidt dell'Università di Medicina di Vienna hanno trovato nelle ossa dei gladiatori livelli di stronzio doppi rispetto a quelli riscontrati nei resti di altri abitanti di Efeso: segno di una dieta volte la quantità che si trovava nelle ossa di un normale abitante di Efeso, a indicare una dieta molto ricca di vegetali. Plinio il Vecchio scrive che i gladiatori erano soprannominati hordearii, cioè “uomini d'orzo”. Normalmente una dieta a base di orzo, fagioli e frutta secca dovrebbe causare carenze di calcio, ma le analisi di Kanz e Grosschmidt non ne hanno riscontrate. Evidentemente i gladiatori beneficiavano di una fonte supplementare di calcio e di stronzio: con ogni probabilità si trattava della misteriosa “bevanda di cenere” citata nella letteratura romana coeva. Sembra che i gladiatori trangugiassero un intruglio di ceneri di legna o di ossa e aceto come tonificante post-allenamento o al termine dei combattimenti: una sorta di antico Gatorade, ma meno gustoso.

    Una dieta simile, secondo Kanz e Grossschmidt, potrebbe essere stata causa di sovrappeso, dato l'apporto calorico. Un po' di “imbottitura” in eccesso, però, avrebbe prtetto i loro organi interni dalle ferite e dai colpi che erano inevitabili nella vita di un gladiatore. D'altra parte, le analisi mediche mostrano che i gladiatori non erano affatto pigri pantofolai. La densità delle loro ossa era simile a quella degli atleti professionisti di oggi; e le tracce di muscoli ingrossati sulle ossa delle braccia e delle gambe indicano che partecipavano a programmi di esercizio ginnico intensi e continui. In pratica questi gladiatori mangiatori di fagioli vivevano in palestra.

    A Roma i combattimenti tra gladiatori si tenevano una decina di volte l'anno. Nel Circo Massimo, davanti a folle oceaniche, potevano esibirsi in un giorno solo centinaia e persino migliaia di gladiatori, che combattevano tra loro in coppia o squadre, o venivano contrapposti alle belve feroci. Il giorno prima dell'evento ai gladiatori veniva offerto un lauto banchetto, chiamato coena libera, nello stesso spirito con cui oggi viene concessa l'ultima cena ai condannati a morte. Alcuni mosaici rappresentano i morituri mentre mangiano, bevono e fanno baldoria, concedendosi per una volta rare leccornie come cinghiale arrosto, salsiccia di maiale, pesce, fichi e vino dolce.



    www.repubblica.it

    Edited by gheagabry1 - 11/11/2023, 17:13
     
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    Decimo Giunio Giovenale (circa 55/60 – 135/140 d.C.)
    è stato un poeta ed un retore latino.



    Nella Satira III, Giovenale esterna il rammarico dovuto alla partenza da Roma del suo amico Umbricio che a malincuore ha deciso, insieme alla famiglia, di lasciare la città per stabilirsi a Cuma, in quanto non riesce più a mantenersi a Roma diventata troppo cara ed invivibile.

    "Anche se sono turbato per la partenza di un vecchio amico, tuttavia lo approvo per il fatto che ha deciso di stabilirsi nella solitaria Cuma, e di donare almeno un cittadino alla Sibilla.
    Cuma, porta di Baia, è un approdo piacevole, luogo di rifugio delizioso. Io poi alla Suburra preferisco persino Procida.
    Infatti quale luogo, tanto misero, tanto desolato abbiamo visto, da non ritenere che sia peggio aver timore degli incendi, dei continui crolli, dei mille pericoli di questa città tremenda, e dei poeti che recitanto i loro versi in pieno agosto? Mentre tutta la casa trovava posto su un carro solo, Umbricio si fermò presso gli archi antichi e l’umida porta Capena.
    Qui, dove di notte Numa dava convegno alla sua amica, ora tempio e bosco della sacra fonte s’affittano ai guidei, i cui unici beni sono un cesto e del fieno (ogni albero infatti deve pagare la sua tassa al popolo e la selva, dopo che sono state allonanate le Camene, è ridotta in miseria); scendiamo nella valle di Egeria e nelle sue grotte, differenti da quelle naturali. Come sarebbe più presente la volontà del dio nelle acque, se l’erba chiudesse ancora con una cornice verde le unde e i marmi non violassero il tufo nativo.
    E qui Umbricio dice:
    «A Roma non c’è piú posto per un lavoro onesto, non c’è compenso alle fatiche; meno di ieri è ciò che oggi possiedi e a nulla si ridurrà domani; per questo ho deciso di andarmene là dove Dedalo depose le sue ali stanche, finché un accenno è la canizie, aitante la prima vecchiaia e a Lachesi resta ancora filo da torcere: mi reggo bene sulle gambe e senza appoggiarmi a un bastone: giusto il tempo per lasciare la patria. Artorio e Càtulo ci vivano, ci rimanga chi muta il nero in bianco, chi si diverte ad appaltare case, fiumi e porti, cloache da pulire, cadaveri da cremare e vite da offrire all’incanto per diritto d’asta. Un tempo suonavano il corno, comparse fisse delle arene di provincia, ciarlatani famosi di città in città; ora offrono giochi e quando la plebaglia abbassa il pollice decretano la morte per ottenerne il favore; poi, di ritorno, appaltano latrine. E perché mai non altro? Sono loro quelli che la fortuna, quando è in vena di scherzi, dal fango solleva ai massimi gradi.
    Ma io a Roma che posso fare? Non so mentire. Se un libro è mediocre non ho la faccia di lodarlo o di citarlo; non so nulla di astrologia; non voglio e mi ripugna pronosticare la morte di un padre; non ho mai studiato le viscere di rana; passare ad una sposa bigliettini e profferte dell’amante lo sanno fare altri, e di un ladro mai sarò complice: per questo nessuno mi vuole quando esco, come se fossi un monco, un essere inutile privo della destra. Chi si apprezza oggi, se non un complice, il cui animo in fiamme brucia di segreti, che mai potrà svelare? Niente crede di doverti e mai ti compenserà chi ti fa parte di un segreto onesto; ma a Verre sarà caro chi sia in grado di accusarlo quando e come vuole. Tutto l’oro che la sabbia del Tago ombroso trascina in mare non vale il sonno perduto, i regali che prendi e con stizza devi lasciare, la diffidenza continua di un amico potente.
    La gente che piú cerco di evitare, quella amatissima dai nostri ricchi, faccio presto a descriverla e senza riserve. Una roma ingrecata non posso soffrirla, Quiriti; ma quanto vi sia di acheo in questa feccia bisogna chiederselo. Ormai da tempo l’Oronte di Siria sfocia nel Tevere e con sé rovescia idiomi, costumi, flautisti, arpe oblique, tamburelli esotici e le sue ragazze costrette a battere nel circo. Sotto voi! se vi piace una puttana forestiera con la mitra tutta a colori! O Quirino, quel tuo contadino indossa scarpine e porta medagliette al collo impomatato! Lasciano alle spalle Sicione, Samo, Amídone, Andro, Tralli o Alabanda, tutti all’assalto dell’Esquilino o del colle che dal vimine prende nome, per farsi anima delle grandi casate e in futuro padroni.
    [...] Ed io? non dovrei evitare la porpora di questa gente? che prima di me firmi un documento o sul letto migliore alle cene si stenda chi a Roma è giunto con lo stesso vento che porta prugne e fichi secchi? Non conta proprio niente, nutriti d’olive sabine, aver respirato sin dall’infanzia l’aria dell’Aventino? Adulatori senza pari, questo sono, gente pronta a lodare le chiacchiere di un inetto, le fattezze di un amico deforme, a confrontare il collo oblungo di un invalido con quello di Ercole mentre da terra solleva Anteo, ad ammirare con voce strozzata che piú stridula non è nemmeno quella del gallo quando copre la sua gallina. Adulazioni simili anche a noi sarebbero permesse, ma a quelli per lo piú si crede.
    [...] Del resto, diciamo la verità, in gran parte d’Italia la toga s’indossa solo da morti. Persino quando le solennità festive vengono celebrate in un teatro d’erba e sulla scena torna una farsa ben nota, mentre tremano i marmocchi in grembo alle madri per il ghigno livido delle maschere, vestiti tutti a un modo puoi vederli, dai posti d’onore a quelli del popolo; e agli edili, come segno dell’alta carica, basta una tunica bianca per primeggiare. Fra noi invece l’eleganza dell’abito è tutto e il superfluo si attinge a volte in borse altrui. Male comune questo: viviamo tutti da straccioni pieni d’arie. Ma perché farla lunga? a Roma tutto ha un prezzo. Per salutare Cosso qualche volta o perché Veiento, sia pure a labbra chiuse, ti getti uno sguardo, tu quanto paghi? Chi si rade, chi ripone la chioma dell’amato e la casa trabocca di focacce in vendita: prendile e tienti stretta questa fregatura. Come clienti, non c’è verso, siamo costretti a versare tributi, ad aumentare i redditi di servi perbenino. [..]"
     
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    «Tutta la regione della Gallia è divisa in tre parti: la prima è abitata dai Belgi, la seconda dagli Aquitani, la terza da quelli che nella loro lingua si chiamano Celti, nella nostra Galli. Tutte queste popolazioni differiscono tra loro per lingua, per istituzioni, per leggi. Il fiume Garonna divide i Galli dagli Aquitani, la Marna e la Senna li dividono dai Belgi. Di tutti costoro i più forti sono i Belgi, perché sono i più lontani dalla civiltà e dalle raffinatezze della provincia, e quasi mai i mercanti vi giungono per portarvi quelle merci che servono a rendere più effeminati gli animi; sono prossimi ai Germani, che abitano al di là del Reno e con i quali sono continuamente in guerra. Per questa ultima ragione anche gli Elvezi superano in valore gli altri Galli, perché combattono quasi quotidianamente con i Germani, quando o li scacciano dal loro territorio o essi stessi portano guerra nel territorio di quelli. [Una parte della regione che, come si è detto, è abitata dai Galli, ha principio dal fiume Rodano; è limitata dal fiume Garonna, dall’Oceano, dal territorio dei Belgi; dalla parte dei Sequani e degli Elvezi tocca anche il fiume Reno; indi si estende a settentrione. Il paese dei Belgi ha principio dagli ultimi confini della Gallia; si stende verso la parte inferiore del fiume Reno, guarda a settentrione e ad oriente. L’Aquitania va dal fiume Garonna alla catena dei Pirenei e a quella parte dell’Oceano che tocca la Spagna; è volta tra l’Occidente e il Settentrione].»
    (Cesare, De Bello Gallico, I, 1-7)
     
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