TERRA..il nostro pianeta

SCIENZE.

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    Lo strano caso dell'antica roccia terrestre venuta dalla Luna

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    ARRIVA dalla Luna una delle rocce più antiche della Terra, risalente al periodo della formazione dei continenti. È un frammento che risale a circa quattro miliardi di anni fa ed è stato scagliato verso il nostro satellite dal violento impatto con un asteroide. È una roccia “pura”. Secondo i ricercatori si potrebbe trattarsi del più antico esemplare mai rinvenuto preservato così, intatto, grazie proprio all’ambiente lunare.

    La scoperta si deve a un team di scienziati coordinato da David Kring, geologo lunare del Lunar and planetary institute di Houston, che hanno scovato il frammento tra i campioni riportati dalla missione Apollo 14, del 1971.

    •Andata e ritorno
    Quattro miliardi di anni fa un asteroide è entrato in collisione con il nostro giovane Pianeta. Era un periodo turbolento per il nostro quartiere del Sistema solare e gli scontri con quelli che erano i residui, gli scarti della formazione dei pianeti, erano piuttosto frequenti. Fu un impatto violento, che ha scagliato nello spazio una gran quantità di materiale. Tra questi, un pezzetto di roccia granitica lungo due centimetri, un mix di quarzi, feldspati e cristalli di zircone, è finito sulla superficie della Luna che all’epoca era molto più prossima, circa tre volte più vicina di quanto lo sia ora.

    Molto tempo dopo, Alan Shepard (quello che giocò a golf sulla Luna) ed Edgar Mitchell, raccolsero e riportarono indietro quel pezzo di Terra da dove era venuto in mezzo a oltre 40 chili di altre rocce. E dopo quasi cinquant’anni, gli scienziati lo hanno riconosciuto, era inglobato in un’altra roccia lunare finita tra i campioni, soprannominata “Big Bertha” per le sue dimensioni. Le analisi mostrano infatti che si è formato in un ambiente ricco di acqua e la pressione alla quale sono stati sottoposti i minerali sarebbe equivalente a una profondità di 19 chilometri sotto la superficie terrestre (o, in alternativa, 170 chilometri sotto quella della Luna, ipotesi che gli scienziati ritengono inverosimile).

    •L’origine scritta nelle pietre
    Per datarlo, il team di King ha misurato i livelli di decadimento dell’uranio contenuto nei zirconi e il risultato è stato quattro miliardi di anni. L’analisi dei livelli di titanio ha permesso di calcolare la pressione alla quale si è formato mentre il cesio è stato la spia per rivelare quanta acqua era presente. Un testimone, quindi, di un ambiente geologico primordiale, conservato tale e quale fino ad ora: “Non c’è dubbio che gli zirconi e la roccia si siano formati nello stesso momento – spiega King, primo autore della ricerca pubblicata su Earth and Planetary Science Letters – siamo sicuri che sia una roccia completa”.

    La roccia ha un’età quasi pari a quella delle più antiche trovate sulla Terra. Ma mentre queste ultime sono state modificate e gli zirconi sono stati “rimaneggiati” in nuove formazioni rocciose dai meccanismi geologici. L’ambiente lunare invece ha funzionato come una teca sotto vuoto, dove né agenti atmosferici né movimenti tettonici hanno alterato il materiale. Il ritrovamento “ci aiuta a dipingere un quadro migliore dell’antica Terra e del bombardamento che ha modificato il nostro Pianeta durante l’alba della vita”, spiega King.

    •La pioggia di meteoriti
    Secondo alcune ipotesi, l’intensa pioggia di meteoriti, alcuni talmente grandi da proiettare materiali fin sulla Luna, potrebbe infatti aver contribuito a ‘muovere’ le rocce terrestri nel periodo detto Adeano, e innescato anche la tettonica a placche. E il fatto che questo frammento sia finito tra i campioni di roccia lunare degli astronauti potrebbe significare che non si tratti di semplice fortuna, ma che sulla Luna ci siano molti piccoli meteoriti provenienti dalla Terra (così come sulla Terra se ne trovano diversi provenienti dalla Luna, così come da Marte o dagli asteroidi). E potrebbe essere proprio la Luna il posto ideale dove cercare, come in un archivio geologico, le più antiche tracce della formazione del nostro pianeta perfettamente conservate.



    (MATTEO MARINI, www.repubblica.it)
     
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    Queste strisce colorate rappresentano un problema universale

    clima


    By Flavia Cappadocia

    ''Le strisce sulla nostra copertina rappresentano l'aumento della temperatura media del mondo in ogni anno dalla metà del 19° secolo. La Terra è più calda di circa 1°C rispetto all'epoca in cui il nostro magazine era appena nato''. A scriverlo è l'account Twitter della rivista The Economist, che ha scelto quest'immagine come cover del numero dedicato interamente al riscaldamento globale.
    ''Rappresentare questo arco della storia umana come un insieme di strisce potrebbe sembrare riduttivo - si legge sul sito del magazine - Sono anni che hanno visto guerre mondiali, innovazioni tecnologiche, la nascita del mercato globale e una produzione enorme di beni. Eppure la lunga storia dell'umanità e queste strisce colorate così semplici hanno in comune la stessa causa. Sia la mutevolezza del clima che la notevole crescita della ricchezza umana derivano da miliardi di tonnellate di combustibili fossili impiegati per produrre energia industriale, elettricità, trasporti, riscaldamento e, più recentemente, i nostri device''.
    In Italia, dal 1901 al 2018, le temperature sono variate così:

    clima_1



    Autore delle Warming Stripes è Ed Hawkins, un climatologo dell'università di Reading, in Gran Bretagna, che ha trovato un modo di raccontare l'emergenza climatica attraverso un'immagine in grado di parlare da sola.
    Il grafico permette una visualizzazione immediata e comprensibile a tutti, tanto che le stripes sono diventate un vero e proprio tormentone su riviste, siti online ma anche muri delle città, cartelli dei manifestanti che sono scesi in piazza contro i cambiamenti climatici, e persino sui tram. Hawkins ha lanciato l'iniziativa #ShowYourStripes, invitando gli utenti a condividere gli scatti e le campagne legate al grafico.
    Hawkins è stato premiato dalla Royal Society per ''contributi significativi alla comprensione dei cambiamenti climatici per un vasto pubblico''. Un altro capolavoro di data visualization, sempre realizzato dal climatogo, è questa Gif che mostra la "spirale" delle temperature globali dal 1850 al 2016, proiettata anche durante la cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Rio 2016.
    https://it.mashable.com/scienze
     
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    Lo scioglimento dei ghiacci:
    in Groenlandia i cani da slitta corrono nell'acqua


    clima_12



    By Mark Kaufman

    Lo scioglimento dell'Artico è arrivato a un punto critico.
    Il ghiaccio dell'oceano Artico nel mese di giugno è al minimo storico per questo periodo dell'anno e lo scioglimento è particolarmente visibile intorno alla Groenlandia, sede della seconda calotta glaciale più estesa del pianeta. Steffen Olsen, ricercatore dell'Istituto meteorologico danese, ha scattato una foto di un immenso lago superficiale che si è formato con l'aumento delle temperature.
    Olsen ha attraversato il percorso inondato insieme ai cacciatori locali e i cani da slitta per recuperare le apparecchiature di monitoraggio dell'oceano. La foto è stata scattata in una baia chiamata Inglefield Bredning, nella Groenlandia nord occidentale. Il ghiaccio presente sotto lo strato di acqua è di 1,2 metri. Olsen ha scritto in un post che per potersi muovere in sicurezza la sua squadra dipende in toto dalla conoscenza indigena del territorio.
    Le temperature hanno subìto una vera propria impennata nelle ultime settimane, causando lo scioglimento non solo del ghiaccio marino ma anche della metà di quello che ricopre la superficie dell'isola. Nonostante altri episodi pregressi, quello in atto è sicuramente il più estremo.
    Anche se le ondate di riscaldamento variano ogni anno, nel complesso possiamo dire che l'andamento globale dello scioglimento è chiaro. L'Artico è in assoluto la regione che si riscalda più velocemente: l'aumento delle temperature rende le ondate di caldo ancora più estreme e la Groenlandia, sebbene sia coperta di ghiaccio, è metaforicamente immersa nell'acqua calda.
    "Ora l'isola si sta sciogliendo più velocemente rispetto a qualsiasi altro momento degli ultimi tre secoli e mezzo e probabilmente degli ultimi sette o otto millenni", ha spiegato a Mashable Usa lo scorso dicembre Luke Trusel, geologo della Rowan University.
    L'Artico sta cambiando a un ritmo che alcuni scienziati faticano a spiegare.
    "Non sono più in grado di comunicare la potenza di questo cambiamento - ha detto a Mashable Usa Jeremy Mathis, un ricercatore di lunga data e attuale direttore del consiglio presso le Accademie Nazionali delle Scienze - Non ho più gli aggettivi per descrivere la portata di quello che sta avvenendo''.
    https://it.mashable.com/scienze
     
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    Amedeo Balbi:
    "Prendiamoci cura della Terra perché non esiste nessun pianeta B'




    Il 24 dicembre 1968 William Anders, uno degli astronauti che partecipò alla missione dell'Apollo 8, scattò la foto che passò alla storia come Earthrise, letteralmente il sorgere della Terra. L'immagine fu ripresa dall'orbita lunare - la "passeggiata" di Neil Armstrong sarebbe avvenuta solo il 20 luglio del 1969 - e il nome che le venne attribuito si spiega facilmente: nello scatto la Terra appare parzialmente in ombra e ricorda il sorgere del sole osservato dal nostro pianeta. "É stata definita la fotografia ambientalista più importante di tutti i tempi, perché ci ha fornito per la prima volta la rappresentazione del nostro pianeta solo, fragile, nel buio dell'universo".

    A parlare è Amedeo Balbi, astrofisico, professore associato all’Università di Roma Tor Vergata, i cui interessi di ricerca spaziano dalla cosmologia alla ricerca di vita nell’universo. Lo abbiamo incontrato nel corso dei Visionary Days che si sono tenuti alle Officine Grandi Riparazioni di Torino, dove 1500 under 35 hanno cercato di rispondere alla domanda: "Quali Forme per il Prossimo Pianeta?". Qui Amedeo Balbi ha affrontato un tema caro da sempre al vasto pubblico (e non solo ai fan di Stanley Kubrick) ovvero se sia o meno immaginabile per l'uomo vivere su un pianeta diverso dalla Terra.

    A dispetto di quanto si potrebbe pensare - sulla scia di quella bizzarra tendenza che spesso ci porta a sovrapporre scienza e fantascienza - la risposta è un secco no. "La fotografia scattata da Anders ci mette una volta di più di fronte al fatto che la Terra è l'unica casa che abbiamo e della quale dobbiamo prenderci cura, perché con ogni probabilità non ne troveremo mai un'altra", assicura Balbi.

    Questo, tiene a sottolineare l'astrofisico, non significa che l'uomo debba rinunciare a sognare o all'esplorazione dello spazio, ma che per risolvere i problemi della Terra non si può e non si deve limitarsi a guardare fuori dal nostro pianeta. Dobbiamo restare coi piedi ben piantati al suolo. "Non possiamo pensare di trovare una soluzione ai problemi della Terra andando a vivere sulla Luna o su Marte", assicura Amedeo Balbi. Che, per rendere meglio l'idea, passa poi in rassegna le difficoltà che dovrebbe affrontare l'uomo per vivere in un pianeta diverso dal nostro.
    Ad oggi la cosa più vicina per l'uomo al vivere nello spazio è la Stazione spaziale internazionale (Iss), gestita congiuntamente da cinque agenzie spaziali tra le quali figurano la Nasa e l'Esa. L'Iss viaggia a una velocità media di 27 mila chilometri all'ora, completa circa 15 orbite al giorno e si trova a un'altitudine di 400 chilometri dal livello del mare. "Non si tratta di una distanza enorme, se ci pensate è più o meno quella che separa Roma e Milano (in orizzontale)". Eppure a bordo delll'Iss la vita non è poi così semplice. Da quando è in orbita è abitata continuativamente da un equipaggio composto dai 2 ai 6 astronauti le cui condizioni fisiche vengono continuamente monitorate. "La letteratura scientifica prodotta fino ad oggi ci spiega che nello spazio l'organismo va incontro a una serie di problematiche - spiega - Le ossa si indeboliscono, il cuore ne risente, inoltre fuori dall'orbita terrestre si è esposti a continue radiazioni".

    Quel sogno dell'uomo di vivere sulla Luna
    Lasciando per il momento da parte la Stazione internazionale passiamo all'unico altro luogo celeste su cui abbia mai camminato l'essere umano. La Luna. "A dispetto di quel che si crede il numero di astronauti che hanno passeggiato sul nostro satellite è piuttosto esiguo - assicura l'astrofisico - Se ne contano appena 12 e l'ultima camminata lunare risale al 1972. Da allora non ci è più tornato nessuno".

    Insieme alla Luna, Venere e Marte sono i principali corpi celesti sui quali l'uomo ha fantasticato di creare delle proprie colonie. "A Venere e Marte pensiamo spesso come a dei pianeti fratelli, dei cugini della Terra. Il problema è che nonostante alcune somiglianze superficiali - ad esempio la loro dimensione - sono entrambi estremamente diversi dal nostro pianeta", spiega Amedeo. "Su Venere la temperatura media si aggira attorno ai 500 gradi e la pressione al suolo è di 90 atmosfere: più o meno quella che troviamo a un chilometro di profondità degli oceani terrestri", spiega l'astrofisico. Anche le sonde che in passato hanno provato ad atterrare sul pianeta hanno resistito per pochi minuti. "Le condizioni di Venere sono tremende per le apparecchiature elettroniche, figuriamoci per gli esseri umani", assicura.

    Lo stesso discorso vale per Marte. "Somiglia a un deserto terrestre ma le sue condizioni sono peggiori: la temperatura è molto più bassa, l'atmosfera (al contrario di Venere) è molto sottile ed è bombardato da una quantità di radiazioni che alla lunga risulterebbero letali", spiega Amedeo Balbi. Senza considerare la distanza che lo separa dalla Terra: con le tecnologie odierne impiegheremmo sei o sette mesi per raggiungere il suolo marziano. Insomma, nonostante personaggi come Elon Musk suggeriscano soluzioni bislacche come il bombardare la calotta polare di Marte con la atomiche per liberare Co2 e creare un'atmosfera artificiale compatibile con la sopravvivenza dell'uomo, per ora siamo costretti ad accantonare l'idea di una colonizzazione a breve termine del pianeta rosso. "Se andremo a vivere su Marte sarà solo protetti da ambienti artificiali e per eseguire esperimenti ad hoc", assicura l'astrofisico.

    Esiste un pianeta simile alla Terra nello spazio?
    Una delle scoperte più importanti degli ultimi vent'anni anni è stata l'individuazione di stelle che "ospitano" pianeti che orbitano in quella che è nota come zona abitabile - termine usato per indicare la regione intorno a una stella dove è teoricamente possibile per un pianeta mantenere acqua liquida sulla sua superficie - e che quindi potrebbero supportare la vita così come noi la conosciamo. Essere simile alla Terra, insomma. Dobbiamo però ricordare che ad oggi non esistono immagini reali di questi pianeti, l'uomo non è ancora riuscito a fotografarli. "Sappiamo pochissime cose di loro - assicura Amedeo Balbi - ad esempio che hanno le stesse dimensioni della Terra e che la loro distanza dalla stella lascia presupporre che la loro temperatura possa essere compatibile con la presenza di acqua". Ma come abbiamo visto nel caso di Venere e Marte le cose sono incredibilmente più complesse di così. "Anche questi due pianeti si trovano all'interno della zona abitabile del sistema solare, ma come abbiamo visto risultano inospitali per le più svariate ragioni: temperatura, atmosfera, radiazioni".

    Quello che l'astrofisico tiene a sottolineare insomma è che scovare altri pianeti sui quali l'uomo possa stabilirsi in pianta stabile in alternativa alla Terra non è una prerogativa dell'esplorazione spaziale ne' tanto meno della scienza in generale. A differenza di quanto ipotizzato da film e romanzi di genere - che per quanto credibili e allettanti, restano sempre mero esercizio di fantasia - la permanenza dell'uomo su un pianeta diverso dal nostro è ipotizzabile solo in prospettiva di studi scientifici che dovrebbero comunque avvenire all'interno di ambienti artificiali. "L'unico pianeta in cui l'uomo può vivere è la Terra - assicura Amedeo Balbi - Non esiste nessun pianeta b. Quindi prendiamocene cura". Parola d'astrofisico.

    Alessandra del Zotto, https://it.mashable.com/
     
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    Se ‘salta’ la Corrente del Golfo l’Europa sarà investita dal gelo.
    E il paradosso è che la colpa sia del riscaldamento globale


    Circolazione-atlantica

    L’alba del giorno dopo, un film campione di incassi nel 2004 diretto da Roland Emmerich, aveva una trama che sembrava scritta in questi giorni: un paleoclimatologo assiste al distacco di una immensa porzione di ghiaccio polare. Preoccupato, avverte che a causa di questo fenomeno si potrà piombare in un’era glaciale, ma il vicepresidente americano risponde dichiarando che l’economia non è abbastanza florida per poter affrontare il cambiamento climatico. Nessuno ascolta l’allarme e dopo poco New York e tutti gli Stati della costa orientale degli Stati Uniti finiscono nel gelo, flagellati da uragani, trombe d’aria e montagne di neve. Il film è celebre per gli effetti speciali che hanno reso la situazione esagerata e paradossale.
    Purtroppo non siamo lontani da questo scenario fantascientifico. Durante questa estate calda anche la Groenlandia si sta sciogliendo a ritmo sostenuto e gli scienziati sostengono che, a causa di ciò, la Corrente del golfo, il grande fiume oceanico che trasporta a nord il calore tropicale, potrebbe interrompersi. Se accadesse, l’emisfero nord piomberebbe esattamente in una morsa di freddo, una conseguenza assurda perché è dovuta proprio al riscaldamento globale.

    Nel corso di questa estate la stessa onda di calore che ha raggiunto l’Europa, ha portato le temperature al circolo polare artico ad alzarsi costantemente oltre la media. Oltre 190 miliardi di tonnellate di ghiaccio groenlandese si quindi sono trasformate in acqua e hanno raggiunto l’oceano Atlantico. Secondo Polar Portal, un sito della ricerca polare danese, il giorno peggiore è stato il 31 luglio, quando 10 miliardi di tonnellate sono state prodotte in un giorno, e il ghiaccio si è assottigliato ovunque in media di un millimetro. Quanto è finito nel mare solo in questo mese è già stato in grado di alzarne il livello di 0,5 millimetri. Salirebbe a 7 metri, spazzando via tutte le città costiere se l’intero strato, strato spesso 3 chilometri, si sciogliesse del tutto.
    In passato, nel 2012, c’era già stato un episodio simile: il 97 per cento della copertura nevosa era scomparso. E a quell’epoca aveva dato avvio a una serie di temporali e all’uragano Sandy, che aveva colpito 24 stati americani e inondato d’acqua le strade e la metropolitana di New York provocando danni per 70 miliardi di dollari.

    Eventi come questi non sono nuovi per il nostro Pianeta, ma di solito accadono ogni 250 anni. Ora ne sono passati solo 7. Secondo le immagini satellitari, il ghiaccio che copre la regione oggi è il 30 per cento in meno di quello del 1979. A differenza della volta precedente, quest’anno la perdita è solo del 56 per cento, ma le temperature sono di 9 gradi maggiori di quelle del periodo 1981-2010. All’estremità nord dell’Isola di Ellesmere, nell’artico canadese, a metà luglio sono stati raggiunti i 21 gradi, quando normalmente non si superano i 12. Lo scioglimento è molto consistente ed è partito molto prima del solito, fin da maggio, in particolare nella parte rivolta verso l’oceano Pacifico, dove si sono aperti grandi specchi d’acqua. E persino sulle montagne più alte, oltre i 3 mila metri di quota, si è raggiunto lo zero termico per più giorni.
    Il problema non è dovuto solo al riscaldamento globale dell’aria. C’è una ulteriore aggravante. In queste condizioni infatti il ghiaccio viene colonizzato dalle alghe. Il bianco abbagliante, che è in grado di riflettere l’energia solare diventa marrone e verde, con il risultato che i colori scuri assorbono luce e calore che prima venivano rispediti verso lo spazio. A causa della situazione generale anche le aree verdi, dove crescono alberi e arbusti, sono state colpite da incendi, con il risultato che altra anidride carbonica è stata emessa: solo in giugno la quantità è stata di 50 megatonnellate, quanto emesso ogni anno da un Paese come la Svezia. Noi siamo intorno a 400.
    Purtroppo il nostro pianeta non segue una logica lineare. E’ governato invece da dinamiche caotiche. Quello che accade in una regione non ha effetti solo locali, ma si ripercuote su tutto il sistema. E a volte anche una piccola variazione in più può scatenare un danno che non è riparabile.
    La conseguenza più preoccupante della diminuzione del ghiaccio artico è che potrebbe avere effetti sulla circolazione oceanica. Uno studio del 2017 pubblicato su Nature che ha utilizzato modelli climatici, ha rivelato che nei prossimi decenni la quantità di acqua sciolta potrebbe rallentare l’Amoc, nota anche come Corrente del Golfo.
    L’Amoc è una delle più grandi correnti sottomarine del mondo. Il suo compito è quello di trasportare acqua calda dai tropici verso il nord. Nasce nell’Atlantico meridionale e scorre verso la costa degli Stati uniti, poi poco sopra capo Hatteras si separa in flussi diversi, uno dei quali si avvicina all’Europa occidentale. Un altro sale verso la Norvegia e arriva in Groenlandia. Nel percorso l’acqua si raffredda e diventa più densa, salata, profonda. Affonda del tutto in prossimità della Groenlandia creando un vuoto che attira altra acqua. La spinta permette di mettere in modo e far riprende il giro verso sud, riprendendo circolazione globale. E’ chiaro che se proprio in questo punto c’è una continua diluizione provocata da acqua tiepida e dolce, il motore potrebbe fermarsi.
    Segnali che la corrente stesse rallentando c’erano già: un altro studio pubblicato su Nature sostiene che si sia indebolita del 15 per cento dalla metà del secolo scorso (anni 50) proprio in relazione all’aumento dell’anidride carbonica.
    Se accadesse l’irreparabile avremmo, proprio come racconta il film, inverni rigidissimi sia in Europa che negli Usa.
    (Mariella Bussolati)

    corrente

    La circolazione delle correnti oceaniche nell’Atlantico, fondamentale per regolare il clima a livello planetario, ha subito una decelarazione storica. Essa è infatti ai livelli più bassi degli ultimi 1.600 anni: un fenomeno dovuto, almeno in parte, al riscaldamento globale e ai cambiamenti climatici. A spiegarlo sono due studi pubblicati dalla rivista scientifica Nature, che confermano la teoria di un rallentamento cominciato moltissimo tempo fa. In particolare, i risultati indicano che le correnti sono state relativamente stabili tra l’anno 400 e il 1850. Poi, proprio quando è cominciata l’era industriale, il flusso ha cominciato a diminuire di intensità. Tale calo della velocità delle correnti note con la sigla Amoc (Atlantic meridional overturning circulation, ovvero Capovolgimento meridionale della circolazione atlantica) è infatti una conseguenza dello scioglimento della calotta artica e dei ghiacciai montani di tutto il mondo, che provocano a loro volta il riversamento di acqua dolce nei mari, soprattutto nell’Atlantico settentrionale. In questo modo – ha spiegato all’agenzia Afp David Thornalley, dello University College di Londra “la corrente Amoc si indebolisce poiché il mescolamento impedisce all’acqua di diventare sufficientemente densa da colare nei fondali”.

    La circolazione permanente oceanica, infatti, consiste in una risalita delle acque calde nelle zone tropicali dell’Atlantico verso Nord, grazie alla corrente del Golfo. Il che garantisce un clima temperato all’intera Europa occidentale (e non solo). Una volta arrivata nelle zone più settentrionali dell’oceano, l’acqua si raffredda progressivamente, diventa più densa e pesante, scende nei fondali e riparte verso Sud.


    Circolazione-atlantica2-1140x800

    La circolazione atlantica, che comprende la Corrente del Golfo,
    ha rallentato ai livelli di 1.600 anni fa, secondo due studi apparsi su Nature © Ipcc

    Secondo la Woods Hole Oceanographic Institution, che ha contribuito agli studi sul fenomeno, “se il meccanismo continuerà a rallentare, ciò potrebbe perturbare le condizioni meteorologiche dagli Stati Uniti all’Europa, fino al Sahel, nonché accelerare il processo di innalzamento del livello dei mari, soprattutto sulla costa orientale americana”. Ma non si tratta della sola conseguenza del cambiamento di ritmo dell’Amoc: il rischio è che sia colpita anche la capacità degli oceani di immagazzinare CO2, ovvero il principale gas responsabile del riscaldamento globale. La cui concentrazione nell’atmosfera potrebbe così crescere ulteriormente.



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    Okjökull è stato dichiarato "dead-ice" nel 2014: ha smesso di muoversi e le sue dimensioni si sono ridotte così tanto che non è più possibile definirlo un ghiacciaio. Per gli scienziati, tutti i ghiacciai d'Islanda subiranno presto lo stesso destino.

    di Giulia Trincardi

    25 luglio 2019, 12:43pm

    okjkull

    Okjökull era uno degli oltre 400 ghiacciai che costellano l’Islanda ed è stato il primo di loro a essere dichiarato ufficialmente “morto” in conseguenza all’attuale crisi climatica, nel 2014. Ciò che resta di lui—meno di un chilometro quadrato di ghiaccio spesso appena 15 metri—si trova sulle montagne occidentali dell’isola, che ospitano ghiacciai mastodontici come Langjökull, Eiríksjökull e Þórisjökull.
    Ora, la Rice University di Houston, Texas, in collaborazione con il geologo islandese Oddur Sigurðsson—lo scienziato che ha per primo dichiarato il “decesso” di Okjökull—e allo scrittore islandese Andri Snær Magnason, ha realizzato una lapide commemorativa da ergere il prossimo mese dove una volta si estendeva il ghiacciaio.
    Okjökull non è mai stato un grande ghiacciaio, ma un secolo fa misurava 15 km quadrati per uno spessore di 50 metri, il minimo perché una formazione nevosa perenne possa essere definita come ghiacciaio. Su Google Timelapse—uno strumento che permette di guardare “indietro nel tempo” grazie a immagini satellitari che risalgono fino ai primi anni Ottanta—si vede chiaramente come è mutato drasticamente anche solo negli ultimi 35 anni: banalmente, nel 1984 era ancora lì. Oggi non c’è più.

    Okjökull nelle immagini satellitari del 1984 e in quelle del 2018. Immagine via: Google Timelapse

    Sulla targa memoriale—che è stata rivelata in anteprima la settimana scorsa dall’università americana—si legge l’elogio funebre scritto da Magnason e diretto ai posteri:
    “Ok è il primo ghiacciaio islandese a perdere il proprio status come ghiacciaio. Nei prossimi 200 anni, tutti i nostri ghiacciai andranno incontro allo stesso destino. Questo monumento è la testimonianza del fatto che sappiamo cosa sta succedendo e cosa dobbiamo fare. Solo voi saprete se ci siamo riusciti.”

    Okjokull_glacier_commemorative_plaque
    La targa commemorativa. Immagine: Dominic Boyer/ Cymene Howe/Rice University

    Nel 2018, Okjökull era stato il soggetto di un documentario intitolato “Not Ok” e realizzato dagli antropologi della Rice University Cymene Howe e Dominic Boyer. “Ok è stato il primo ghiacciaio a sciogliersi del tutto per colpa di come gli esseri umani hanno trasformato l’atmosfera del pianeta,” ha commentato la professoressa Howe nel comunicato dell’università, insistendo sulla necessità di ridurre drasticamente le emissioni di gas serra. “Segnando il suo passaggio, speriamo di dare attenzione a cosa si perde quando i ghiacciai della Terra scompaiono. Questi accumuli di ghiaccio costituiscono le riserve di acqua dolce più importanti del pianeta.”
    Okjökull, oggi, è definito come dead-ice (“ghiaccio morto”), un termine con cui si identifica un ghiacciaio o una calotta di ghiaccio quando smette di muoversi—cioè scivolare lentamente verso valle—e inizia a sciogliersi inesorabilmente dove si trova.
    “I monumenti funebri non sono per i morti, sono per i vivi,” ha detto nelle parole di un collega la professoressa Howe. “Con questa lapide vogliamo sottolineare che tocca a noi, i vivi, rispondere rapidamente agli impatti del cambiamento climatico. Per il ghiacciaio Ok è già troppo tardi.”




    Islanda, un 'funerale' per la scomparsa del ghiacciaio Okjökull CondividiTweet 17 agosto 2019L'Islanda celebra un 'funerale' per la scomparsa del primo ghiacciaio del Paese dovuta al cambiamento climatico innescato dall'attività dell'uomo. L'idea è di un gruppo di scienziati e ambientalisti degli Stati Uniti e dell'Islanda, tra cui i membri della Società islandese per l'escursionismo. I partecipanti all'iniziativa scaleranno i 1.400 metri che portano in cima al vecchio ghiacciaio dell'Okjokull, dove renderanno omaggio al 'defunto' affiggendo una targa per richiamare l'attenzione sulla minaccia climatica. "Nei prossimi 200 anni si prevede che tutti i nostri principali ghiacciai saranno scomparsi. Questo monumento dimostra che sappiamo cosa sta succedendo e cosa deve essere fatto. Solo tu saprai se ce l'abbiamo fatta", è il messaggio, scritto in islandese e in inglese, pensato dall'ambientalista e scrittore Andri Snaer Magnason. L'origine del progetto risale a cinque anni fa, quando il geologo islandese Oddur Sigurosson dichiarò il ghiacciaio ufficialmente morto. "Era qualcosa che stava arrivando da molto tempo. Non era in buona salute, si stava restringendo molto velocemente. Volevo salire per controllare e ho scoperto che era ben al di sotto dei limiti", spiega Sigurosson. La calotta glaciale aveva un'estensione di 15 chilometri quadrati e uno spessore di 50 metri all'inizio del XX secolo: nel 2014 si è ridotto a meno di un chilometro quadrato e 15 metri di spessore, il che lo ha fatto considerare dal geologo "un pacco di ghiaccio morto". La scomparsa dell'Okjokull è avvenuta anche nella denominazione: il vecchio ghiacciaio è ora chiamato la montagna Ok, un nome che ha permesso il gioco di parole con cui è stato battezzato un documentario ("Not ok") presentato in anteprima l'anno scorso. Il documentario è il risultato degli sforzi di due antropologi della Rice University (Stati Uniti), Dominic Boyer e Cymene Howe, che - interessati alla storia del ghiacciaio - hanno contattato Oddur Sigurosson. Il passo successivo è stato quello di organizzare il viaggio commemorativo al "non-ghiacciaio", com'è stato denominato oggi. "Il fatto che un piccolo ghiacciaio islandese scompaia non fa molta differenza, ma è un'indicazione di ciò che sta accadendo in tutto il mondo. E' qualcosa che avrà un impatto enorme sulla maggior parte dei Paesi e delle persone", spiega il geologo. Sigurosson sottolinea che, in effetti, diverse decine di ghiacciai sono scomparsi in Islanda negli ultimi decenni, sebbene più piccoli di Okjokull. E se le previsioni di un innalzamento della temperatura di due gradi al secolo venissero mantenute, tra 200 anni gli oltre 300 ghiacciai esistenti sull'isola saranno solo storia. "E' un fatto allarmante. L'Islanda sarà molto diversa per le nuove generazioni. Dobbiamo ricordare che il suo nome significa terra di ghiaccio", ammonisce Sigurosson. - www.rainews.it

     
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    "Addio al ghiacciaio Pizol", il funerale degli ambientalisti


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    Una cerimonia funebre a 2600 metri e più. E' l'addio al ghiacciaio Pizol, nel cantone di San Gallo (sul confine tra l'Austria e il Lichtenstein), vittima del cambiamento climatico. Di questo passo, secondo gli esperti, la riserva di ghiaccio svizzera sparirà del tutto entro il 2030. Nell'ultima decade ha già perso l'80-90% della sua superficie, ridotta ora a poco più di cinque campi di calcio o una ventina di piste di ghiaccio.
    "Vogliamo attirare l'attenzione sui cambiamenti climatici e sulle conseguenze che possono avere, anche in Svizzera", spiega Stefan Salzmann, tra gli organizzatori dell'evento di commemorazione, "e abbiamo scelto un simbolo, il ghiacciaio del Pizol, dove i mutamenti del clima sono visibili qui come in tanti altri luoghi".
    "Ho scalato il ghiacciaio una quantità infinita di volte" - racconta Matthias Huss, glaciologo dell'ETH (il Politecnico federale di Zurigo) che ha partecipato al "funerale" - "è come perdere un amico".

    ghiacciaio-Pizol

    In tanti, circa 200 persone vestite a lutto, hanno camminato fino ai lembi ormai ristretti del ghiacciaio per recitare un'ultima preghiera in memoria delle acque scomparse. Il Pizol "ha perso così tanto ghiaccio che, da un punto di vista scientifico, non è più un ghiacciaio", ha spiegato a France 24 Alessandra Digiacomi, attivista dell'Associazione svizzera per la tutela del clima, che ha organizzato la marcia e la 'veglia' in concomitanza del forum sul Clima all'Onu.

    Il raduno organizzato in Svizzera, sulle Alpi Glaronesi, ricorda la commemorazione islandese per il ghiacciaio Okjokull, dove ad agosto è stata posta una targa per ricordare i danni del riscaldamento globale. Come in quel caso la preghiera è rivolta soprattutto a noi stessi, invitati a riconsiderare l'impatto sull'ambiente in un momento così delicato per la conservazione.

    "Non possiamo più salvare il ghiacciaio Pizol", commenta Huss. Ma se le persone agissero ora, molti degli effetti negativi dei cambiamenti climatici potrebbero essere limitati. Stiamo facendo tutto il possibile perché tra cent'anni i nostri figli e nipoti possano ancora vedere i ghiacciai in Svizzera".

     
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    Antartide una foresta pluviale di 90 milioni di anni


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    Scoperti in Antartide i resti fossili di una foresta pluviale di 90 milioni di anni fa: è l'indicazione che durante il Cretaceo il clima al Polo Sud era eccezionalmente caldo, con temperature medie annuali di 12°C. Lo studio, pubblicato sulla rivista Nature, è coordinato dal Centro Helmholtz per la ricerca polare e marina dell’Istituto tedesco Alfred Wegener, con Johann Klages e l’Imperial College di Londra.

    L'analisi è stata condotta sui sedimenti raccolti nel 2017 nel mare di Amundsen, nella regione occidentale dell’Antartide, a una trentina di metri al di sotto del fondale oceanico, grazie all’impiego della nave rompighiaccio tedesca Polarstern. Le analisi condotte da allora, come complesse Tac ai raggi X, hanno a sorpresa riportato alla luce i resti incontaminati del suolo di una foresta del Cretaceo, con tracce di pollini, spore vegetali e radici. E' stato così possibile ricostruire un paesaggio palustre simile a quello delle odierne foreste pluviali in Nuova Zelanda.



    I ricercatori tedeschi spiegano che «In un nucleo di sedimenti raccolto nel Mare di Amundsen, nell’Antartide occidentale, nel febbraio 2017, il team ha scoperto il suolo forestale incontaminato del Cretaceo, compresa una ricchezza di pollini e spore di piante e una fitta rete di radici. Queste piante confermano che, circa 90 milioni di anni fa, la costa dell’Antartide occidentale ospitava foreste pluviali temperate e paludose dove la temperatura media annuale era di circa 12 gradi Celsius: un clima eccezionalmente caldo per una posizione vicino al Polo Sud».
    Secondo gli autori dello studio, a rendere in passato le temperature così miti, un’anomalia per il Polo Sud, era l’elevata concentrazione dei livelli atmosferici di anidride carbonica.

    I ricercatori hanno ipotizzato che questo caldo fosse possibile «solo perché non esisteva una calotta glaciale antartica e perché la concentrazione atmosferica di biossido di carbonio era significativamente più elevata di quanto indicato finora dai modelli climatici». Lo studio, oltre a fornire i dati ambientali e climatici sul Cretaceo mai raccolti finora, pone nuove sfide per i modellatori climatici di tutto il mondo».

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    Il medio cretaceo, da 115 milioni a 80 milioni di anni fa, era non solo l’era dei dinosauri, ma è stato anche il periodo più caldo degli ultimi 140 milioni di anni. Allora, le temperature della superficie del mare ai tropici erano probabilmente circa 35 gradi Celsius e il livello del mare era 170 metri più elevato di oggi. «Eppure – evidenziano i ricercatori – sappiamo ancora molto poco delle condizioni ambientali nel Cretaceo a sud del circolo polare, dal momento che non esistono praticamente archivi climatici affidabili che si estendano così indietro nel tempo».

     
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    Mappa interattiva di com’era la Terra milioni di anni fa
    Ecco com’era il pianeta Terra quando c’erano i dinosauri e come si è evoluto nei successivi milioni di anni. Scopri la mappa in 3D

    https://dinosaurpictures.org/ancient-earth#750

    Una mappa interattiva della Terra sulla quale ci si può spostare semplicemente selezionando i milioni di anni. No, non è un videogioco, ma un portale creato dalla Dinosaur Pictures nel quale si può fare un vero e proprio viaggio nel tempo. Cliccando sull'indirizzo, infatti, verrete catapultati nel passato della nostra Terra: potrete selezionare fino a 750 milioni di anni fa e muovervi per il globo per vedere come era il pianeta all’epoca. Nella barra di ricerca, inoltre, avrete la possibilità di scrivere il nome della vostra città per vedere dove si trovava in base al periodo storico che avete scelto.

    https://www.passioneastronomia.it/mappa-in...MihA5x0Dhp0Zohs
     
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    Sessantasei milioni di anni fa, un asteroide largo quasi 15 chilometri si scontrò con la Terra, innescando un’estinzione di massa che spazzò via la maggior parte dei dinosauri e tre quarti delle specie animali e vegetali del pianeta. Ora sappiamo che anche il cosiddetto asteroide Chicxulub ha generato un enorme “megatsunami” con onde alte più di un chilometro e mezzo. Nello studio, pubblicato su AGU Advances, gli scienziati sono stati in grado di ricostruire digitalmente l’impatto dell’asteroide e il successivo tsunami che ha provocato inondazioni in tutto il mondo.

    https://youtu.be/Dcp0JhwNgmE

    Dopo l’impatto dell’asteroide, l’inondazione si sarebbe sviluppata in due fasi: ci sarebbe stata un’onda d’urto iniziale e onde successive che si sarebbero propagate in tutto il pianeta. “È come quando fai cadere un sasso in una pozzanghera” – dice Molly Range, scienziata dall’Università del Michigan e autrice dello studio – “c’è prima uno spruzzo iniziale e poi si formano dei cerchi tutto intorno sull’acqua”. Ebbene, queste onde potrebbero aver raggiunto un’altezza di quasi un chilometro e mezzo, e questo prima che lo tsunami iniziasse davvero a propagarsi. Dopo i primi 10 minuti dall’impatto, tutti i detriti rilasciati nell’aria dall’asteroide hanno smesso di cadere nel Golfo del Messico e si sarebbero sparsi negli oceani a causa di queste immense onde.

    Il Nord America e la costa settentrionale dell’Africa hanno visto facilmente onde di 8 metri e dato che non c’erano terre fra il Nord e il Sud America, l’onda si è propagata anche nel Pacifico.

    sciencesource_ss22538069

     
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