PARAFRASI

tutte quelle che servono sono qui!!!

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    :increchamwx5.gif: :increchamwx5.gif: almeno il testo no?!!!!...va beh!!!

    Parafrasi di "Dove la luce"? (G.Ungaretti)

    DOVE LA LUCE (1930)

    Interpretata in maniera sensibilmente diversa da Baroni e Piccioni.

    Il primo: l'immagine aerea di fanciulla leggiadra da condurre in luogo appartato per smemorarsi nell'atto d'amore si sovrappone alla visione ultraterrena: questa assume, però, un aspetto pagano, ricorda l'età dell'oro (le colline). La stessa atemporalità (ora costante) è ricondotta al mito dell'eterna gioconda giovinezza dedita spensieratamente all'amore (lenzuolo), descrive un'effusione d'amore. Dunque, una poesia d'amore in una luce religiosa. "L'adesione religiosa di Ungaretti non è mai collegata a certe caratteristiche di umiliazione della carne e di rassegnazione, ma sempre fortemente legata ad una presenza vitale e vitalistica". Forse anche per influsso della religiosità islamica.

    da:http://www.homolaicus.com/Letteratura/ungaretti2.htm

    ciao la prossima volta ricorda di scrivere il testo!!! :Scuola%20(12).gif:

     
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    Parafrasi verso 1 - 21 della battaglia di Ronsisvalle


    L´episodio si svolge nelle terre della Spagna dove a guerreggiare sono l´imperatore Carlo Magno con i suoi Paladini di Francia da una parte e Il Re Marsilio di Spagna con i suoi saraceni dall´altra. Questa guerra dura da sette anni. Ormai quasi tutte le città spagnole sono cadute sotto il dominio dell´imperatore Carlo Magno che ha come comandante dell´esercito il famoso conte Orlando, primo paladino di Francia.
    Il Re Marsilio,vedendo ormai prossima la sua fine, finge di arrendersi a Carlo Magno e contemporaneamente di accettare il Battesimo nella valle di Roncisvalle ad opera dell´arcivescovo Turpino. Ma tutto questo è solo uno stratagemma per allontanare i Francesi dalla Spagna: infatti con l´aiuto del traditore Gano di Magonza, tende una tremenda imboscata ai cristiani nella valle di Roncisvalle. La battaglia è spietata e tutti i Paladini cadono nella trappola mortale senza scampo. Orlando fa strage della gente del Re Marsilio, ed alla fine, rimasto solo suona a lungo il suo famoso olifante, tossisce violentemente e rovescia sangue dalla bocca e muore assistito da San Michele Arcangelo che porta la sua anima al cospetto del Creatore.
    Fonti:
    google


     
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    Parafrasi Eneide: La morte di Eurialo e Niso (vv. 367 - 449)

    Alcuni soldati provenienti da Laurento, mentre la gran parte dell’esercito aspettava schierato già sui campi, portavano un messaggio al re Turno: erano trecento giovani, tutti armati con scudo, guidati dal valoroso Volcente. Si avvicinavano al campo, erano sotto le mura, e vedono da lontano i due prendere in fretta un sentiero: l’elmo tradì l’incauto Eurialo splendendo a u raggio di luna nell’ombra pallida della notte.Quel brillio fu notato. Volcente grida forte stando fra i suoi soldati: “Altolà!Dove andate?Perché siete in marcia a tale ora? Chi siete?”.Nessuna risposta: i due corrono in fretta ponendo le loro speranze nel buio. I cavalieri si gettano qua e là verso i sentieri conosciuti bloccandone ogni sbocco con sentinelle armate. Era un bosco fittissimo, orrido per i suoi cespugli e per i lecci neri in tutta la sua larghezza, gremito di rovi pungenti. Solo pochi sentieri si aprivano nella foresta. L’ombra dei rami e la paura di essere catturato fecero sbagliare strada ad Eurialo. Intanto Niso se ne va via senza pensare a nulla. Egli aveva già lasciato quei luoghi detti albani dal nome di Alba (lì il re latino possedeva numerosi pascoli), quando si ferma attonito, cercando l’amico che non era più con lui. “Infelice Eurialo, dove ti ho lasciato? Dove ti posso cercare?”. Percorrendo nuovamente quei sentieri intricati attraverso quel bosco ingannevole segue a ritroso le tracce dei suoi passi e vaga tra i cespugli silenziosi. Poi sente i cavalli, il rumore, i richiami lanciati dagli inseguitori.Dopo non molto ode delle grida e vede Eurialo, tradito dalla foresta e dalle tenebre, spaurito dall’improvviso tumulto, chiuso da un manipolo di nemici viene portato via nonostante i suoi sforzi. Cosa fare? Con che armi si sarebbe potuto osare liberarlo? Forse è meglio gettarsi fra i nemici cercando una morte gloriosa in battaglia?
    Rapido, tratto indietro il braccio e oscillando il giavellotto, guardando la Luna dice: “Diana, sii propizia alla mia impresa, tu che splendi nel firmamento e proteggi le selve, o figlia taciturna di Latona. Se mio padre Irtaco ti offrì mai qualcosa, pregando per me, se io portai molte volte al tuo altare le prede delle mie cacce, lascia che sconfigga il nemico, guida il mio braccio armato!”. Con tutta la forza che aveva in corpo avventò il giavellotto: l’asta volando fende le ombre notturne e si configge nel petto di Salmone e, spezzandosi, gli trafigge il cuore con una scheggia di legno. Il guerriero già morto rantola a terra, facendo sgorgare sangue ancora caldo dal petto. I guerrieri italici si guardano attorno smarriti. Niso, orgoglioso del suo successo, sferra un secondo giavellotto all’altezza dell’orecchio. Gli Italici sono lì, tremanti: l’asta con un sibilo attraversa le tempie di Tago e si infigge nel cervello. Il feroce Volcente si adira ma non riesce a capire chi sia l’autore del colpo e non sa con chi prendersela e dice: “Tu pagherai con il sangue la morte dei miei compagni!”. Detto ciò si lancia verso Eurialo con la spada sguainata. Allora Niso,atterrito, fuori di sé, non può più nascondersi e sopportare tanto dolore. Esce fuori e grida: “Sono io il colpevole!Attaccate me: l’inganno è stato una mia idea. Costui non ha alcuna colpa, ne sono testimoni le stelle ed il cielo che sono a conoscenza della sua unica colpa: ha solo amato troppo me, il suo amico infelice!”Troppo tardi. La spadaia già squarciato le costole e trafitto quel petto bianco, da ragazzino. Eurialo è travolto dalla morte. Il sangue scende attraverso le belle membra e il collo ormai senza forza ricade sulle spalle: come un fiore purpureo reciso dallo stelo morendo si indebolisce, come abbassano il capo i papaveri perché stanchi della pioggia che li colpisce. Ma Niso si lancia tra i nemici, fra tutti cerca solo Volcente, vuole solo Volcente. Intorno a lui i guerrieri lo circondano , lo stringono fittissimi da ogni parte. Egli insiste ruotando la spanda come un fulmine, finché non trapassa la gola di Volcente. Niso mentre sta per morire,vendica l’amico uccidendo Volcente. Poi si getta sul corpo esanime dell’amico e qui trova infine riposo nella morte serena. Fortunati entrambi! Se i miei versi valgono qualcosa, se hanno qualche potere, non vi cancellerà dalla memoria dei Romani alcun giorno che scorra per il fiume del tempo, finché l’alta stirpe di Enea risiederà al Campidoglio e i Padri Romani terranno l’impero.

     
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    PARAFRASI
    "il primo incontro con beatrice"


    Dopo la mia nascita il sole girò attorno alla terra nove volte quando incontrai la donna che tutti chiamano beatrice, ma nesuno sa il signoficato del suo nome, e il cielo si era spostato di 1/12 di grado verso oriente quando lei vide me.. indossava un vesroto rosso adatto per la sua etá. In quel momento il mio cuore iniziò a battere così forte che sentì le pulsaziono in tutto il corpo e sentì kl mio cuore dire: ecco un dio più forte di me che viene a dominarmi. E il mio cervello, grazoe a quella apparizione disse: finalmente è apparsa la vostra beatitudine.. uno spirito nel mio fegato iniziò a piangere e a dire: povero me d'ora in poi sarò privato delle mie funzioni!

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    Fonti:yahoo.com

     
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    Commento : Ode a Venezia



    Ode a Venezia
    E’ fosco l’aere, il cielo e’ muto,
    ed io sul tacito veron seduto,
    in solitaria malinconia
    ti guardo e lagrimo,
    Venezia mia!

    Fra i rotti nugoli dell’occidente
    il raggio perdesi del sol morente,
    e mesto sibila per l’aria bruna
    l’ultimo gemito della laguna.

    Passa una gondola della città.
    “Ehi, dalla gondola, qual novità ?”
    “Il morbo infuria, il pan ci manca,
    sul ponte sventola bandiera bianca!”



    No, no, non splendere su tanti guai,
    sole d’Italia, non splender mai;
    e sulla veneta spenta fortuna
    si eterni il gemito della laguna.
    Venezia! l’ultima ora e’ venuta;
    illustre martire, tu sei perduta…
    Il morbo infuria, il pan ti manca,
    sul ponte sventola bandiera bianca!

    Ma non le ignivome palle roventi,
    ne’ i mille fulmini su te stridenti,
    troncaro ai liberi tuoi di’ lo stame…
    Viva Venezia!
    Muore di fame!

    Sulle tue pagine scolpisci, o Storia,
    l’altrui nequizie e la sua gloria,
    e grida ai posteri tre volte infame
    chi vuol Venezia morta di fame!
    Viva Venezia!
    L’ira nemica la sua risuscita
    virtude antica;

    ma il morbo infuria, ma il pan le manca…
    Sul ponte sventola bandiera bianca!

    Ed ora infrangasi qui sulla pietra,
    finché e’ ancor libera,
    questa mia cetra.
    A te, Venezia,
    l’ultimo canto,
    l’ultimo bacio,
    l’ultimo pianto!

    Ramingo ed esule in suol straniero,
    vivrai, Venezia, nel mio pensiero;
    vivrai nel tempio qui del mio core,
    come l’imagine del primo amore.

    Ma il vento sibila,
    ma l’onda e’ scura,
    ma tutta in tenebre
    e’ la natura:
    le corde stridono,
    la voce manca…

    Sul ponte sventola
    bandiera bianca!

    ARNALDO FUSINATO

    COMMENTO

    Ode a Venezia è una poesia sul Risorgimento che narra la sfortunata sollevazione di Venezia nel 1848, in appoggio al tentativo di unificazione dell'Italia iniziato (con prudenza e diffidenza) da Carlo Alberto (I Guerra di Indipendenza).
    Dopo la sconfitta di Carlo Alberto ad opera del generale austriaco Radetzky (il re fu poi costretto all'esilio) Venezia e Roma continuarono, com’è noto, l’insurrezione, proclamando la Repubblica.
    Roma fu soverchiata dalle forze armate del Regno delle Due Sicilie, di Francia e di Spagna, mentre Venezia, assediata dagli austriaci, fu colpita anche da un’epidemia di colera: "il morbo", più volte citato in questo malinconico componimento.”
    Fusinato prende parte all’insurrezione di Venezia del ’48, ma, dopo cinque mesi di assedio, la più bella città del mondo, ormai stremata dalla fame, dal colera e profondamente segnata dalla cannonate, deve arrendersi all’Impero Austriaco per evitare la totale distruzione. E’ in questo contesto che nasce la poesia.

    http://milocca.wordpress.com/2009/10/28/ode-a-venezia/


    :c023.gif: ho trovato solo questo.spero ti sia d'aiuto!!! :36_1_9.gif: :36_1_9.gif:

     
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    Parafrasi "Canto notturno di un pastore errante dell'Asia" di Leopardi



    O luna, cosa fai tu nel cielo? Dimmi silenziosa luna, cosa fai? Sorgi di sera e vai contemplando i deserti; infine poi scompari. Non sei ancora sazia di ripercorrere sempre gli stessi percorsi? Non ti sei ancora nauseata, sei ancora desiderosa si osservare queste valli? La vita del pastore somiglia alla tua vita. Si alza alle prime luci dell’alba , spinge il gregge attraverso i campi, e vede greggi, fonti d’acqua ed erbe; poi giunta la sera si riposa ormai stanco: altro non spera. Dimmi, o luna: che valore ha per il pastore la sua vita, la vostra vita per voi? Dimmi: dove porta questo mio vagare breve, il tuo viaggio eterno?
    Un vecchietto con i capelli bianchi, malato, mezzo vestito e senza scarpe, con un grosso peso sulle sue spalle, corre via, corre, si affatica attraverso montagne e valli, su sassi pungenti, e sabbia alta, e sterpaglie, al vento e alla tempesta, e quando il tempo diventa caldo, e quando arriva il gelo, attraversa torrenti e stagni, cade, si rialza, e sempre più si affretta senza mai riposarsi o consolarsi, ferito, sanguinante; finché non arriva là dove la strada e tutta la sua fatica lo dovevano condurre: abisso orrido, immenso, precipitando nel quale egli tutto dimentica. O vergine luna, così è la vita degli uomini.
    L’uomo nasce con fatica, e la nascita rappresenta un rischio di morte. Per prima cosa prova pena e tormento; e all’inizio stesso la madre e il padre si dedicano a consolarlo per essere nato. Quando inizia a crescere il padre e la madre lo sostengono, e via di seguito sempre con gesti e con parole si impegnano ad incoraggiarlo, e a consolarlo di essere uomo.: altro compito più gradito non si compie da parte dei genitori verso i figli. Ma perché far nascere, perché mantenere in vita chi poi deve essere consolato per il suo stato? Se la vita è una sventura perché da noi dura? O luna intatta, questa è la situazione umana. Ma tu non sei mortale, e forse di ciò che io sto dicendo ti importa poco.
    Tuttavia tu, solitaria, eterna pellegrina, che sei così pensosa, tu forse riesci a comprendere che cosa sia questa vita terrena, le nostre sofferenze, il sospirare; che cosa sia questa morte, questo supremo impallidire del volto, e il venir meno ad ogni amata compagnia. E tu certamente comprenderai il perché delle cose, e vedrai il frutto del mattino, della sera, del silenzioso, tranquillo trascorrere del tempo.
    Tu certamente sai, tu, a quale suo dolce amore sorrida la primavera, a chi faccia comodo il caldo, e che cosa ottenga l’inverno con i suoi ghiacci. Mille cose sai tu, mille ne scopri, che sono nascoste al semplice pastore. Spesso quando io ti osservo stare così muta stare su nella pianura deserta, che in lontananza confina con il cielo; oppure con il mio gregge ti vedo seguirmi e spostarti pian piano; e quando osservo in cielo brillare le stelle; dico dentro di me pensando perché tante scintille? Che cosa significa lo spazio infinito e quel profondo cielo infinito? Cosa vuol dire questa interminabile solitudine? E io cosa sono? Così penso tra me e me e non riesco a trovare nessuna utilità, nessuno scopo ne dello spazio infinito e superbo, ne delle famiglie numerose , poi di tanto darsi da fare, di tanti moti, di ogni astro e di ogni cosa terrena. MA tu certamente, o giovinetta immortale, conosci tutto ciò. Questo io conosco e sento, che delle eterne rotazioni, che della mia esistenza fragile, forse qualcun altro ricaverà qualche vantaggio o qualche bene; per me la mia vita è dolore.
    Oh mio gregge che ti riposi, beato te, che credo non sei cosciente della tua miseria! Quanta invidia ho nei tuoi confronti! Non solo perché sei quasi priva di sofferenza; dato che ti dimentichi subito ogni stento, ogni danno ogni timore forte; ma più di tutto perché nn proverai mai noia. Quando tu stai all’ombra, sopra l’erba, tu sei calma e contenta; e in quello stato trascorri gran parte dell’anno senza provare noia. E anche io siedo sopra l’erba, all’ombra, e un fastidio mi occupa la mente, e un bisogno quasi mi stimola così che, sedendo, sono più che mai lontano da trovar pace e riposo.

    Eppure non desidero nulla, e fino ad ora non ho motivo per piangere. Di che cosa o quanto tu goda non lo so certamente dire; ma sei fortunato. E io, o mio gregge, godo ancora poco, né mi lamento solamente di questo. Se tu sapessi parlare , io ti chiederei: dimmi: perché giacendo comodamente senza fare nulla ogni animale si appaga; ma se io giaccio e mi riposo vengo assalito dalla noia?
    Forse se io avessi le ali per volare sopra le nuvole, e contare le stelle ad una d una, o come il tuono potessi viaggiare di montagna in montagna, sarei più felice, mio dolce gregge, sarei più felice, o candida luna. O forse il mio pensiero si discosta dalla verità, riflettendo sulla condizione degli altri: forse in qualunque forma avvenga, in qualunque forma o condizione, dentro una tana o una culla, il giorno della nascita è funesto a tutti.

    dal web

     
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  7. sasusaku
     
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    scusate non c'è la parafrasi del discorso fra agamennone e achille?
     
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    CITAZIONE (sasusaku @ 17/11/2012, 16:54) 
    scusate non c'è la parafrasi del discorso fra agamennone e achille?

    La contesa tra Achille e Agamennone
    Parafrasi



    Detto questo Calcante, si sedette; quindi fra loro si alzò il potente Agamennone, figlio di Atreo, infuriato; i precordi erano pieni d’ira, e gli occhi sembravano lampeggiare di fuoco; gridò, guardando male Calcante:
    - Indovino del male, non dici mai buoni auguri per me, il cuore ti suggerisce sempre dei mali, non dici mai buona parola, non la porti mai a compimento! E adesso che sei fra i Greci profetizzi che per questo motivo Apollo dà loro delle disgrazie, perché io non ho voluto accettare il riscatto della giovane Criseide: desidero tanto averla in casa, la preferisco a Climnestra, anche se sposa legittima, perché non la supera in niente, non di corpo, non di aspetto, non di mente, non di opere.
    Ma acconsento di renderla anche così, se è meglio; voglio un esercito sano, e che non soccomba. Però preparatemi subito un dono; in modo che non resti solo io privo di doni fra i Greci, non è equo.
    Quindi guardate quale altro dono mi deve toccare.
    Allora intervenne Achille, dal piede veloce:
    -Gloriosissimo figlio di Atreo, avidissimo più di tutti, in che modo ti daranno un dono i magnanimi Greci? Da nessuna parte vediamo un ricco tesoro comune; quelli delle città bruciate sono stati divisi. I guerrieri non possono rimetterli in comune. Quindi, ora, dai al dio la giovane Criseide; poi noi ti daremo un compenso tre o quattro volte maggiore, se Zeus vorrà darci di abbattere ***** dalle mura fortificate.
    Ma Agamennone rispose, ricambiandolo:
    -Per quanto tu valga, Achille pari agli dei, non nascondere ciò che pensi veramente, perché non mi sfuggi né puoi persuadermi. Così pretendi – e intanto la tua parte ce l’hai – che me ne lasci privare in questo modo, facendomela rendere? Ma se i Greci dal grande animo mi daranno un dono, adattandolo al mio desiderio, che compensi la perdita, sta bene; se non sarà così, io verrò a prendere il tuo, o dono di Aiace, o quello di Odisseo.
    Ma via, queste cose potremo trattare anche dopo:
    ora spingiamo nel mare divino una nave nera di catrame,
    raccogliamo rematori in numero giusto, imbarchiamo qui il sacrificio di cento buoi, facciamo salire la figlia di Crise, guancia graziosa; la guìdi uno dei capi consiglieri,
    o Aiace, o Idomeneo, oppure Odisseo luminoso, o anche tu, Achille, il più tremendo di tutti gli eroi, che tu ci renda amichevole Apollo, compiendo il rito.
    Ma guardandolo minaccioso Achille dal piede rapido disse:
    - Ah vestito di spavalderia, avido di guadagno, come può volentieri obbedirte un greco, o marciando o battendosi contro guerrieri con forza? Davvero io sono venuto
    a combattere qui non per i Troiani bellicosi, non sono colpevoli contro di me: mai le mie vacche o i cavalli hanno rapito, mai hanno distrutto il raccolto a Ftia dai bei campi, in cui nascono e crescono eroi, poiché molti e molti nel mezzo ci sono monti ombrosi e il mare potente.
    Ma seguimmo te, o del tutto sfacciato, perché tu gioissi, cercando soddisfazione per Menelao, per te, brutto cane, da parte dei Troiani, e tu non pensi a questo, non ti preoccupi, anzi, minacci che verrai a togliermi il dono per il quale ho sudato molto, che i figli dei Greci me l’hanno dato. Però non ricevo un dono pari a te, quando i Greci gettano a terra un villaggio ben popolato dei Troiani; ma le mani mie governano il più della guerra tumultuosa; se poi si venga alle parti,
    a te spetta il dono più grosso. Io, dopo che peno a combattere, mi porto indietro alle navi un dono piccolo e caro. Ma ora andrò a Ftia, perché è molto meglio
    andarsene in patria sopra le concave navi. Io non intendo raccogliere beni e ricchezze per te, restando qui umiliato.
    Allora lo ricambiò Agamennone il signore degli eroi:
    - Vattene, se il cuore ti spinge; io non ti pregherò davvero di restare con me, con me ci sono altri che mi faranno onore, soprattutto c’è il saggio Zeus. Ma tu sei il più odioso per me tra i re discepoli di Zeus: ti è sempre cara la contesa, e guerre e battaglie: un dio ti ha dato di essere tanto forte!
    Vattene a casa, con le tue navi, con i tuoi compagni, regna sopra i Mirmìdoni: di te non mi preoccupo, non ti temo adirato; anzi, questo dichiaro: poi che Criseide mi porta via Febo Apollo, io rimanderò lei con la mia nave e con i miei compagni; ma mi prendo Briseide, il tuo dono, dalla guancia graziosa, andando io stesso alla tenda, così che tu sappia quanto sono più forte di te, e tremi anche un altro di parlarmi alla pari, o di mettersi di fronte a me.
    Disse così; ad Achile venne dolore, il suo cuore nel petto peloso fu incerto tra due decisioni da prendere: se, sfilando la spada acuta via dalla coscia, facesse alzare gli altri, ammazzasse l'Atride, o se calmasse l'ira e trattenesse i suoi sentimenti. E mentre questo agitava nell'anima e in cuore e sfilava dal fodero la grande spada, venne Atena dal cielo; l'inviò la dea Era braccio bianco, amando ugualmente di cuore ambedue e avendone cura; gli stette dietro, per la chioma bionda prese il Pelide, a
    Fonti:
    è trpp lunga...nn m c'è stata tt !!
    asp continuo qui:
    lui solo visibile; degli altri nessuno la vide. Restò senza fiato Achille, si volse, conobbe subito Pallade Atena: terribilmente gli luccicarono gli occhi e volgendosi a lei parlò parole fugaci e veloci:
    - Perché sei venuta, figlia di Zeus che è armato di ègida ,
    forse a veder la violenza d'Agamennone Atride?
    ma io ti dichiaro, e so che questo avrà compimento: per i suoi atti arroganti perderà presto la vita! E gli parlò la dea Atena occhio azzurro:
    - Io sono venuta dal cielo per calmare la tua ira, se tu mi obbedirai: m'inviò la dea Era braccio bianco,
    ch'entrambi ugualmente ama di cuore e si prende cura.
    Su, smetti il litigio, non tirar con la mano la spada:
    ma ingiuria solo con parole, dicendo come sarà:
    così ti dico infatti, e questo avrà compimento: tre volte tanto splendidi doni a te s'offriranno un giorno per questa violenza; trattieniti, dunque, e obbedisci. E disse ricambiandola Achille piede rapido:
    - Bisogna rispettare la vostra parola, o dea,
    anche chi si sente irato; così è meglio,
    chi obbedisce agli dèi, sarà ascoltato anche da loro.
    Così sull'elsa (impugnatura spada rifinita) d'argento trattenne la mano pesante, spinse indietro nel fodero la grande spada, non disobbedì alla parola d'Atena; ella se n'era andata verso l'Olimpo, verso la casa di Zeus egioco, con gli altri dei.
    Di nuovo allora il Pelide con parole ingiuriose investì l'Atride e non trattenne il risentimento.
    - Ubriacone, minaccioso come un cane, ma vile come un cervo, mai vestir corazza con l'esercito in guerra né andare all'agguato coi più forti nemici degli Achei osi andare: questo ti sembra morte.
    E certo è molto più facile nel largo campo degli Achei
    strappare i doni a chi a faccia a faccia ti parla,
    re mangiatore del popolo, perché comandi ai buoni a niente;
    se no davvero, Atride, ora per l'ultima volta offenderesti!
    Ma io ti dico e giuro con piena volontà:
    sì, per questo bastone, che mai più foglie o rami
    metterà, poi che ha lasciato il tronco sui monti,
    mai fiorirà, che intorno ad esso il bronzo ha strappato
    foglie e corteccia; e ora i figli degli Achei con giustizia lo porteranno in mano: manterranno salde le leggi in nome di Zeus. Questo sarà il giuramento da farsi. Certo un giorno rimpianto per Achille prenderà i figli degli Achei, tutti quanti, e allora tu non potrai nulla, poichè afflitto aiutarli, quando per mano del massacratore Ettore cadranno morenti; e tu nei sentimenti più profondi lacererai, rabbioso per non avermi ricompensato, io che sono il più forte dei greci.
    Così disse il Pelide e scagliò in terra lo scettro disseminato di chiodi d’oro. Poi si sedette.


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  9. Vivi ornitel
     
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    Ciao scusa potresti farmi avere la parafrasi dell' "L'ultima notte" Eneide entro domani?? Grazie è molto urgente!! ;)
     
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    CITAZIONE (Vivi ornitel @ 28/11/2012, 20:52) 
    Ciao scusa potresti farmi avere la parafrasi dell' "L'ultima notte" Eneide entro domani?? Grazie è molto urgente!! ;)

    ciao scusa non avevo visto la tua richiesta...non so se ti serve ancora..

    penso si tratti di questa.altrimenti la prossima volta metti il testo.. :c023.gif:


    Parafrasi " i suicidi e i morti per amore" dell'Eneide

    Ma tra queste la fenicia Didone, recente dalla ferita
    vagava per la grande selva; appena l'eroe troiano
    le fu vicino e la riconobbe tra le ombre
    tenebrosa, come quella luna che all'inizio del mese
    uno pensa di vedere o d'aver visto tra le nubi,
    versò lacrime e parlò con dolce amore:
    "Infelice Didone, dunque mi era giunta vera la notizia
    che eri morta e con la spada avevi raggiunto la fine?
    Ahi, ti fui causa di morte? Per le stelle giuro;
    per i celesti e se c'è lealtà sotto il più profondo della terra,
    conto voglia, o regina, me ne andai dal tuo lido.
    Ma gli ordini degli dei mi spinsero, coi loro poteri,
    quelli che ora spingono ad andare tra queste ombre
    per luoghi orridi di squallore e per la notte profonda,
    davvero no potei credere ch'io ti recassi sì forte dolore:
    Ferma il passo e non sottrarti al nostro sguardo.
    Chi fuggi? Questa è l'ultima volta che ti parlo, per fato!"
    Con tali parole Enea alleviava l'anima ardente
    e che guardava torvo e chiamava pianto.
    Lei, scontrosa, teneva gli occhi fissi al suolo,
    né è commossa in volto dal discorso iniziato più
    che fosse dura roccia oscoglio marpesio.
    Infine si sottrasse ed ostile si rifugiò
    nel bosco ombroso, dove il primo marito Sicheo
    risponde alle angosce e ne eguaglia l'amore.
    Enea nondimeno sconvolto dall'ingiusto destino,
    piangendo segue da lontano e commisera lei che se ne va.

     
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    Purgatorio, canto VI, parafrasi

    Canto VI Purgatorio
    Quando si divide e si scioglie il gruppo dei giocatori nel gioco dei dadi, il perdente resta solo e addolorato, tentando e ritentando nuove gettate, e malinconico cerca di imparare (a far meglio per il futuro)

    mentre tutti g li spettatori se ne vanno col vincitore; c'è chi gli va innanzi, e chi lo sollecita tirandogli l'abito alle spalle, e chi gli si raccomanda standogli di fianco:

    ma il vincitore non si ferma, e porge orecchio ora a questo ora a quello; colui al quale tende la mano (dandogli qualche cosa), non insiste più; e in tal modo egli si difende dalla ressa.

    Così mi trovavo io in mezzo a quella fitta schiera, guardando verso di loro ora a destra, ora a sinistra, e promettendo (di fare quanto ciascuno mi chiedeva) me ne liberavo.

    Tra quelle anime c'era l'Aretino che fu ucciso ferocemente da Ghino di Tacco, e l'altro (Guccio dei Tarlati) che annegò mentre inseguiva i nemici.

    Qui pregava con le mani tese Federigo Novello, e qui c'era Gano, il quale dette al padre, il virtuoso Marzucco, l'occasione di mostrare la sua forza d'anímo.

    Vidi il conte Orso e vidi pure colui che ebbe l'anima divisa dal suo corpo per odio e per invidia, com'egli diceva, e non per colpa commessa;

    voglio dire Pierre de la Brosse (Pier dalla Broccia); e riguardo a ciò, mentre è ancora in vita, la regina di Brabante provveda (in tempo a purificarsi del male commesso), onde per questo non vada a far parte di una moltitudine peggiore (di quella di cui fa parte Pierre de la Brosse, cioè fra i falsi accusatori della decima bolgia).

    Quando fui libero da tutte quelle anime che mi pregavano soltanto perché inducessi altri a pregare per loro, in modo da affrettare la loro purificazione,

    io dissi a Virgilio: « Sembra, o maestro, che in un passo del tuo poema tu neghi esplicitamente, che la preghiera possa mutare un decreto divino;

    e queste anime soltanto per questo pregano: la loro speranza sarebbe dunque vana, oppure non mi è ben chiaro il tuo testo? »

    Ed egli mi rispose, « La mia espressione è chiara; e la speranza di costoro non è fallace, se si medita bene con la mente sgombra da erronee opinioni;

    poiché la sublime altezza del giudizio divino non s'abbassa per il fatto che l'ardore di carità (di chi prega per costoro) porti a perfezione in un momento solo quell'espiazione a Dio dovuta da chi ha in questo luogo la sua dimora;

    e in quel passo dove feci questa affermazione, la mancanza dell'espiazione non poteva essere corretta con la preghiera, perché essa era da Dio (essendo fatta da pagani).

    Tuttavia non devi fermare il travaglio della tua mente di fronte a un dubbio così arduo, se non te lo dirà colei che farà da tramite tra la verità (sovrannaturale) e il tuo intelletto:

    non so se mi comprendi; io intendo parlare di Beatrice: tu la vedrai in alto, sulla vetta di questo monte, sorridente e felice».

    E io gli dissi: « Sìgnore, camminiamo più in fretta, perché ora non sento più la fatica come prima, e vedi ormai che il monte (essendo le prime ore del pomeriggio) proietta la sua ombra ».

    Egli rispose: « Continueremo ormai a salire finché dura il giorno, quanto più potremo; ma la realtà è diversa da quello che tu giudichi.

    Prima che tu giunga sulla vetta, vedrai sorgere più volte, il sole, che ora già si nasconde dietro la costa del monte, cosicché tu non interrompi più i suoi raggi (proiettando la tua ombra).

    Ma vedi là quell'anima che sta tutta sola e che guarda insistentemente verso di noi: essa ci mostrerà la via più breve ».

    Ci avviammo verso di lei: o anima lombarda, come te ne stavi altera e sdegnosa e com'eri dignitosa e grave nel muovere i tuoi occhi!

    Essa non ci diceva nulla, ma ci lasciava avanzare, seguendoci solo con lo sguardo attento come un leone quando si riposa.

    Soltanto Virgilio le si avvicinò, pregandola che ci indicasse la strada migliore per salire; ed essa non rispose alla sua domanda,ma chiese notizie sulla nostra patria e sulla nostra condizione; e mentre la mia dolce guida cominciava a dire: « Mantova ... », quell'ombra, tutta solitaria e raccolta in se stessa,

    si levò dal luogo dove stava prima protendendosi verso di lui, dicendo: « O mantovano, io sono Sordello, della tua stessa terra! »; e si abbracciavano l'un l'altro.

    Ahi, schiava Italia, albergo di dolori, nave senza pilota nel mezzo d'una immane tempesta, non più signora di popoli, ma luogo di turpitudine!

    Quell'anima nobile lì, nel purgatorio, fu così pronta a far festa al suo concittadino, solo al sentire il dolce suono del nome della sua terra;

    mentre ora dentro i tuoi confini non sanno stare senza guerra i tuoi abitanti, e quelli che sono chiusi entro le mura e il fossato (d'una stessa città) si dilaniano l'un l'altro.

    Guardati, infelice, intorno cominciando dalle coste del mare che ti circonda, e osserva poi il tuo territorio interno, e vedi se ti riesce di trovare una regione sola che goda pace.

    A che è servito che Giustiniano ti abbia aggiustato il freno del vivere civile (con le leggi) se ora non hai in sella l'imperatore (che fa osservare le leggi)? Senza questo freno oggi la tua vergogna sarebbe minore (perché un popolo senza leggi non è colpevole della sua anarchia).

    Ahi, gente di Chiesa, che dovresti dedicarti solo a opere di pietà, e lasciar sedere l'imperatore sulla sella (a esercitare l'autorità civile), se comprendi rettamente quello che Dio ti ha prescritto,

    osserva come questa cavalla è diventata ribelle per il fatto che non è guidata e domata dagli speroni dell'imperatore, da quando hai preso in mano la sua briglia.

    O Alberto d'Asburgo, che abbandoni a se stessa questa cavalla divenuta indomita e selvaggia, mentre dovresti inforcare i suoi arcioni,

    scenda dal cielo una giusta punizione sopra te e la tua stirpe, e sia una punizione inaudita e chiara, e tale che il tuo successore ne concepisca timore!

    Perché tu e il padre tuo, tutti presi dalla cupidigia degli interessi della Germania, avete tollerato che l'Italia, il giardino dell'impero, fosse devastata.

    Vieni a vedere, o uomo senza interesse, i Montecchi e i Cappelletti, i Monaldi e i Filippeschi: quelli ormai vinti, e questi pieni di timore!

    Vieni, o uomo crudele, vieni a vedere le umiliazioni e le dìfficoltà della tua nobiltà, e poni rimedio alla sua rovina; e vedrai Santafiora come è tranquilla!

    Vieni a vedere la tua Roma che piange nella sua solitudine e vedovanza, e giorno e notte invoca: « 0 mio re, perché mi abbandoni? ».

    Vieni a vedere come la gente d'Italia si vuol bene! e se non vi è alcun sentimento di pietà verso di noi che ti possa commuovere, vieni a cogliere la vergogna del discredito (che ti sei procurato con il tuo disinteresse).

    O Cristo che sulla terra fosti per noi crocifisso, se ciò mi è permesso, ti chiedo: la tua giustizia si è rivolta altrove?

    Oppure nell'abisso della tua sapienza permetti, tutto questo in preparazione di qualche bene totalmente inaccessibile al nostro intelletto?

    Poiché le città d'Italia sono tutte piene di tiranni, e qualsiasi villano che diventa capo di una fazione assume di fronte all'impero atteggiamento di un Marcello (appartenente al partito pompeiano e console nel 50 a. C., fu acerrimo nemico di Cesare).

    Tu Firenze mia, puoi proprio esser lieta di questa digressione che non ti sfiora, grazie al tuo popolo che s'ingegna per il tuo bene.

    Molti (in altre città) hanno in cuore il senso della giustizia, eppure lentamente si manifesta, per non essere espresso sconsideratamente; invece il tuo popolo ha sempre la giustizia sulle labbra.

    Molti (altrove) rifiutano le cariche pubbliche; invece il tuo popolo senza essere chiamato risponde sollecito, grìdando: « Io sono pronto ad accettare il grave peso delle cariche!»

    Ora rallegrati, perché ne hai proprio motivo, tu sei ricca, tu sei in pace, tu sei saggia! I fatti dimostrano la verità che io affermo.

    Atene e Sparta, che fecero le antiche leggi ed ebbero una civiltà tanto elevata, riguardo a una ordinata vita civile fecero appena un insignificante tentativo

    in confronto di te che decidi provvedimenti tanto ingegnosi e fragili, che quello che escogiti in ottobre non giunge alla metà di novembre.

    Quante volte, in questi ultimi anni hai cambiato leggi, moneta, cariche e costumi e hai rinnovato (secondo il prevalere delle fazioni e il susseguirsi degli esili) i tuoi cittadini!

    E se ti ricordi bene e non sei completamente cieca, ti scoprirai somigliante a quell'inferma che non riesce a trovare riposo nemmeno giacendo sulle piume,

    e voltandosi e rivoltandosi sui fianchi, cerca invano di fare schermo al suo dolore.

     
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    Parafrasi purgatorio canto 4°


    Purgatorio: canto IV
    Quando per un'impressione di piacere o di dolore, che una qualche potenza della nostra anima riceve in sé, l'anima si concentra tutta in quella facoltà,

    sembra allora che essa non presti più attenzione a nessun'altra sua facoltà; e questo fatto é una prova contro quella dottrina errata la quale ritiene che in noi si formino più anime una accanto all'altra.

    E perciò. quando si ascolta o si vede qualcosa che attiri a sé fortemente l'anima, il tempo trascorre senza che uno se ne accorga,

    poiché una è la facoltà che percepisce il passare del tempo (che l'ascolta: la facoltà intellettiva), e una altra (la facoltà sensítiva) è quella che concentra in sé l'anima intera: questa è come legata (alle impressioni che percepisce), quella invece è sciolta da ogni ufficio (perché l'attenzione dell'anima è rivolta altrove).

    Di questo fatto io ebbi personale esperienza, ascoltando e guardando intensamente Manfredi; infatti di oltre cinquanta gradi era salito

    il sole (esso percorre quindici gradi ogni ora: perciò sono trascorse più di tre ore dal levarsi del sole e dall'apparizione dell'angelo nocchiero), ed io non me ne ero accorto, quando giungemmo in un punto in cui quelle anime ci gridarono tutte insieme: « Questo è il luogo di cui ci avete domandato ».

    Il contadino quando l'uva incomincia a maturare (imbruna; bisogna perciò difenderla dai ladri) spesso con una piccola forcata di spine chiude con questi pruni un'apertura della siepe più larga

    di quello che non fosse il sentiero lungo il quale salimmo Virgilio, ed io dietro di lui, soli, dopo che la schiera delle anime si era congedata da noi.

    E' possibile arrivare a Sanleo (borgo del ducato d'Urbino, posto su un ripido colle che si raggiungeva con un sentiero scavato nella roccia) e scendere a Noli (cittadina della riviera ligure di ponente, alla quale si accedeva scendendo lungo pareti a picco sul mare), salire sul Bismantova (alto monte dell'Appennino nel territorio di Reggio Emilia) fin sulla vetta solamente coi piedi; ma qui è necessario che si voli;

    dico con le ali veloci e con le piume del grande desiderio, seguendo quella guida che mi dava speranza e mi faceva luce.

    Salivamo per un sentiero scavato nella roccia, e (era tanto angusto che) le sue sponde ci stringevano a destra e a sinistra, e il suolo sottostante costringeva ad aiutarsi con i piedi e con le mani.

    Dopo essere giunti al termine dell'alta parete (alta ripa; essa costituisce la base del monte), su uno spiazzo aperto (non incassato nella roccia), dissi: « Maestro, che via seguiremo? »

    Ed egli mi rispose: « Il tuo passo non pieghi né a destra né a sinistra: avanza sempre verso l'alto seguendo me finché ci appaia qualche guida esperta del cammino ».

    La vetta del monte era così alta che superava ogni possibilità della nostra vista, e il pendio era assai più ripido di una linea condotta dal punto mediano di un quadrante al centro del cerchio (poiché il quadrante di un cerchio corrisponde ad un angolo al centro di 90 gradi, la linea ha un'inclinazione di 45 gradi: la costa perciò è quasi perpendicolare al monte).

    Ero stanco, quando dissi: « O dolce padre, volgiti, e guarda che rimango indietro, solo, se non ti fermì ad' aspettarmi ».

    « Figliolo, cerca di trascinarti fin qui » disse, indicandomi un ripiano poco più in alto, che cingeva tutto il monte dalla, parte a noi visibile».

    Le sue parole mi spronarono a tal punto, che riunii tutti i miei sforzi, procedendo a carponi dietro di lui, finché raggiunsi quella sporgenza.

    Lì ci sedemmo entrambi rivolti verso oriente, da dove eravamo saliti, poiché guardare il cammino già fatto suole apportare conforto e gioia agli uomini.

    Dapprima volsi lo sguardo verso la spiaggia; poi lo alzai verso il sole, e mi accorsi con stupore che i suoi raggi ci colpivano provenendo da sinistra.

    Virgilio si accorse facilmente che io guardavo tutto stupefatto il sole, là dove entrava nel suo cammino fra noi e il settentrione.

    Per questo egli mi disse: « Se la costellazione dei Gemelli (Castore e Polluce) fosse in compagnia del sole che rischiara alternativamente l'emisfero settentrionale e quello meridionale,

    tu vedresti la parte rosseggiante dello Zodiaco (la via percorsa dal sole) ruotare ancora più vicina alla costellazione delle Orse (cioè al polo artico, essendo la costellazione dei Gemelli più a nord di quella dell'Ariete con la quale il sole era allora in congiunzione), a meno che il sole non deviasse dal suo cammino abituale.

    Se vuoi sapere come ciò avvenga, pensa, raccogliendoti in te stesso che Gerusalemme e il monte del purgatorio si trovano sulla terra

    in modo tale che tutti e due hanno lo stesso orizzonte astronomico e giacciono in diversi emisferi; per questo la strada (cioè la eclittica) che male Fetonte (cfr. Inferno XVII 107-108) seppe percorrere col carro del sole,

    vedrai come è necessario che corra, rispetto al monte del purgatorio, da un lato (cioè da destra a sinistra) e, rispetto a Gerusalemme, da un altro (cioè da sinistra a destra), se la tua mente bene discerne».

    « Di certo, maestro mio » dissi « non ho mai compreso così chiaramente alcuna cosa davanti alla quale il mio ingegno appariva insufficiente, come ora comprendo

    che il cerchio mediano della rotazione celeste, che in astronomia si chiama Equatore, e che rimane sempre tra il sole e l'inverno, (perché quando in un emisfero è inverno, nell'altro è estate e viceversa),

    per il motivo che tu dici (cioè che il purgatorio è agli antipodi di Gerusalemme), da questo monte si allontana verso settentrione, mentre gli Ebrei (quando abitavano la Palestina) lo vedevano allontanarsi verso il sud.

    Ma se tu vuoi, volentieri desidererei sapere quanto cammino resta da percorrere, perché il monte si innalza più di quanto possa salire il mio sguardo. »

    Ed egli: « Questo monte è tale, che la ascesa è sempre ardua per chi l'inizia dal basso; ma quanto più si sale tanto meno essa appare faticosa.

    Perciò, quando essa ti sembrerà dolce a tal punto, che il salire diventerà per te facile come procedere su una nave seguendo la corrente,

    allora sarai giunto alla fine di questo cammino: qui soltanto potrai riposarti dell'affanno della salita. Non ti rispondo oltre, e questo so come cosa certa ».

    E non appena egli ebbe finito di parlare, risuonò vicina una voce: « Forse avrai bisogno di ríposarti prima dì giungere lassù! »

    Al suono di questa voce entrambi ci volgemmo, e scorgemmo a sinistra un grosso macigno, del quale né io né Virgilio ci eravamo prima accorti.

    Lo raggiungemmo con fatica; e lì c'era un gruppo di anime che giacevano all'ombra di questa rupe nell'atteggiamento che suole indicare pigrizia.

    Sono le anime di coloro che, per negligenza e pigrizia, aspettarono a pentirsi alla fine della vita e che devono rimanere nell'antipurgatorio tanto tempo quanto vissero.

    E una di loro, che mi sembrava stanca, sedeva abbracciando le ginocchia, e abbandonando il viso tra esse.

    « O mia dolce guida » dissi « osserva quello che appare più negligente degli altri, come se la pigrizia fosse una sua sorella. »

    Allora quello si volse verso di noi, e guardò, muovendo solo gli occhi lungo la coscia (senza alzare il viso), e disse: « Sali tu ora, dal momento che sei così bravo! »

    Riconobbi allora chi era, e l'affanno che rendeva ancora un poco affrettato il mio respiro, non mi impedì di accostarmi a lui; e dopo

    che gli giunsi accanto, sollevò un poco la testa, dicendo: « Hai capito bene come il sole manda i suoi raggi dalla parte sinistra? »

    I suoi atti pigri e le sue parole brevi mossero un poco le mie labbra al sorriso; poi dissi: « Belacqua, io non sono più in ansia

    per te ormai (sapendoti salvo); ma dimmi: perché te ne stai seduto appunto qui? aspetti forse una guida, oppure sei stato ripreso dalla pigrizia abituale?»

    E quello; « Fratello, che giova il salire? infatti l'angelo di Dio che custodisce la porta del purgatorio non mi lascerebbe affrontare le pene dell'espiazione.

    E' necessario che prima il cielo giri intorno a me fuori di quella porta, per tutto il tempo che mi girò intorno in vita, poiché rimandai fino all'estremo il pentimento,

    se non mi aiuta prima la preghiera che sgorga da un cuore in grazia di Dio: che vale l'altra (quella del peccatore), che non è esaudita in cielo? »

    E già Virgilio, saliva precedendomi, e dicendomi, « Vieni ormai: vedi che il sole è al meridiano (è tocco meridian dal sole: è cioè mezzogiorno) mentre (nell'emisfero boreale) sulla riva dell'Oceano

    la notte già si distende fino al Marocco (Morrocco: esso costituiva l'estrema parte occidentale della terra abitata) ».

     
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    Parafrasi Canto I dell'Inferno

    A meta' del cammino della nostra vita terrena mi ritrovai in una selva oscura poiche' avevo smarrito la via diritta. Ahi quanto e' doloroso dire qual era quella selva selvaggia, impervia ed insuperabile, che al solo ricordo la paura si rinnova.E' tanto amara che la morte lo e' poco di piu'; ma per trattare del bene che vi ho trovato, diro' delle altre cose che vi ho visto.Io non so ben raccontare come vi entrai, tanto ero pieno di sonno in quel punto in cui abbandonai la via della verita'.Ma dopo che giunsi ai piedi di un colle, la' dove terminava quella valle che mi aveva riempito il cuore di paura, guardai verso l'alto e vidi la sua sommita' rivestita gia' dei raggi del sole che guida (con la sua luce) gli altri uomini per la via diritta. Allora si calmo' un poco quella paura che mi era restata nell'interno del cuore la notte che io trascorsi con tanto affanno. E come colui che con il respiro affannoso, uscito fuori del mare, si volge all'acqua pericolosa e guarda intensamente, cosi' il mio animo, che ancora fuggiva, si volse indietro a riguardare il passaggio che non lascio' giammai vivo nessun individuo.Dopo che ebbi riposato un poco il corpo stanco ripresi la via per il pendio deserto, in modo tale che il piede fermo era sempre il piu' basso.Ed ecco, quasi al cominciare della salita una lonza leggera e molto agile che era coperta di pelo maculato; e non si allontanava dalla mia vista, piuttosto impediva tanto il mio cammino che io fui piu' volte costretto ad indietreggiare.Era passato del tempo dal principio del mattino ed il sole saliva in alto in congiunzione con quelle stelle che erano con lui quando l'Amore Divino impresse per la prima volta il movimento a quelle cose belle; si' che l'ora mattutina e la dolce stagione primaverile mi erano di buon auspicio per sperare di scampare da quella fiera dalla pelle variegata; ma non abbastanza per non farmi spaventare dalla vista di un leone che mi apparve.Questi sembrava che venisse contro di me, con la testa alta e con fame rabbiosa, in modo tale che sembrava che anche l'aria ne tremasse.Ed una lupa, che nella sua magrezza sembrava carica di ogni desiderio, e aveva fatto vivere miseramente gia' molte genti, questa mi comunico' tanta angoscia con lo spavento che emanava dalla sua apparizione che io persi la speranza di raggiungere la vetta.E come colui che guadagna volentieri e giunge il tempo che lo fa perdere, che in ogni suo pensiero piange e si rattrista;lo stesso effetto provoco' in me la bestia senza pace la quale, venendomi incontro, mi respingeva a poco a poco la' dove il sole tace. Mentre io cadevo rovinosamente in basso, mi si offri' alla vista uno che, a causa del lungo silenzio, appariva fioco.Quando vidi costui nel vasto deserto gli gridai "Abbi pieta' di me, chiunque tu sia, un uomo reale o un'ombra!" Mi rispose: "Non sono un uomo reale, lo fui, ed i miei genitori furono lombardi, di patria mantovana entrambi.Nacqui sotto Giulio Cesare, sebbene alla fine del suo dominio, e vissi a Roma sotto il buon Augusto, al tempo del paganesimo.Fui poeta e cantai di quel giusto figliuolo di Anchise che venne da Troia dopo che la superba Ilione fu bruciata.Ma tu perche' ritorni a tanta noia? Perche' non sali il piacevole monte che e' il principio e l a causa di ogni gioia?"Allora sei tu quel Virgilio e quella fonte di saggezzache spandi un cosi' largo fiume di parole?"gli risposi con la fronte bassa."O onore e luce degli altri poetimi valga il lungo studio ed il grande amore che mi ha fatto cercare la tua opera.Tu solo sei il mio maestro ed il mio autore;tu solo sei colui dal quale io trassilo stile bello che mi ha fatto onore.Vedi la bestia a causa della quale sono volto indietro, aiutami da lei, famoso saggio, poich'e8 essa mi fa tremare le vene e i polsi.""A te conviene percorrere un'altra strada",rispose dopo che mi vide piangere,"se vuoi scampare da questo luogo selvaggio:poiche' questa bestia, a causa della quale tu gridi,non lascia passare nessun altro per la sua via,ma tanto lo impedisce che lo uccide;ed ha una natura cosi' malvagia e colpevole,che non sazia mai la voglia bramosa, e dopo il pasto ha piu' fame di prima.Molti sono gli animali con cui si ammoglia,e saranno ancora di piu' finche' non verra' il Veltro,che la fara' morire con dolore.Questi non desiderera' potere ne' ricchezze, ma sapienza, amore e virtu',e la sua origine sara' tra feltro e feltro.Egli sara' la salvezza di quella umile Italia per la quale mori' la vergine Camilla e (morirono) di ferite Eurialo, Turno e Niso.Costui caccera' la lupa per ogni citta', finche' l'avra' rimessa nell'inferno, da dove la tirera' fuori la prima invidia.Per cui io, per il tuo bene, penso e vedo con chiarezza, che tu mi segua, ed io saro' la tua guida e ti trarro' di qui attraverso un luogo eterno, dove udrai le g rida disperate, vedrai gli antichi spiriti che soffrono, ciascuno dei quali invoca la seconda morte ;e vedrai coloro che sono contenti nel fuoco perche' sperano di venire, quando saro', alle genti beate.Se tu poi vorrai salire ad esse ci sara' per guidarti un'anima piu' degna di me, nell'andarmene ti lascero' con lei;poiche' quell'imperatore che regna lassu' non vuole che io vada nel suo dominio poiche' fui estraneo alla sua legge.Egli impera in tutti i luoghi, e la' regna; la' e' la sua citta' ed il suo trono: oh, felice colui che sceglie per quel luogo!"Ed io dissi a lui: " Poeta, io ti chiedo di nuovo, in nome di quel Dio che non hai conosciuto, che tu mi conduca la' dove ora dicesti affinche' io fugga questo male e altri peggiori, in modo tale che io veda la porta di San Pietro e coloro che tu descrivi cosi' infelici". Allora si mosse ed io lo seguii.

     
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    I canto dell'inferno: testo, analisi e parafrasi

    I° Canto
    [Incomincia la Comedia di Dante Alleghieri di Fiorenza, ne la quale tratta de le pene e punimenti de' vizi e de' meriti e premi de le virtù. Comincia il canto primo de la prima parte la quale si chiama Inferno, nel qual l'auttore fa proemio a tutta l'opera.]
    Nel mezzo del cammin di nostra vita
    mi ritrovai per una selva oscura,
    ché la diritta via era smarrita.
    A metà della nostra esistenza terrena mi trovai a vagare in una buia foresta, nella condizione di chi ha smarrito la via del retto vivere.
    Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
    esta selva selvaggia e aspra e forte
    che nel pensier rinova la paura!
    Mi è assai difficile descrivere questa selva inospitale, irta di ostacoli e ardua da attraversare, che al solo pensarci risuscita in me lo sgomento.
    Tant' è amara che poco è più morte;
    ma per trattar del ben ch'i' vi trovai,
    dirò de l'altre cose ch'i' v'ho scorte.
    Il tormento che provoca è di poco inferiore all’angoscia della morte; ma per giungere a parlare del bene incontratovi, dirò prima delle altre cose che in essa ho vedute.
    Io non so ben ridir com' i' v'intrai,
    tant' era pien di sonno a quel punto
    che la verace via abbandonai.
    Non sono in grado di spiegare il modo in cui vi entrai, tanto la mia mente era ottenebrata dall’errore, quando abbandonai il cammino della verità.
    Ma poi ch'i' fui al piè d'un colle giunto,
    là dove terminava quella valle
    che m'avea di paura il cor compunto,
    Ma, giunto alle pendici di un colle, dove terminava la selva che mi aveva trafitto il cuore di angoscia,
    guardai in alto e vidi le sue spalle
    vestite già de' raggi del pianeta
    che mena dritto altrui per ogne calle.
    volsi lo sguardo in alto, e vidi i declivi presso la cima già illuminati dai raggi dell’astro (il sole) che guida secondo verità ciascuno nel suo cammino.

    Allor fu la paura un poco queta,
    che nel lago del cor m'era durata
    la notte ch'i' passai con tanta pieta.
    Allora la paura che, per tutta la notte da me trascorsa in così compassionevole affanno, mi aveva attanagliato nel profondo del cuore, placò in parte la sua violenza,
    E come quei che con lena affannata,
    uscito fuor del pelago a la riva,
    si volge a l'acqua perigliosa e guata,
    E con l’aspetto del naufrago che, appena raggiunta con affannoso respiro la terraferma, si volge ad abbracciare con lo sguardo crucciato l’immensità degli elementi scatenati,
    così l'animo mio, ch'ancor fuggiva,
    si volse a retro a rimirar lo passo
    che non lasciò già mai persona viva.
    mi volsi indietro, con l’animo ancora atterrito, a rimirare la impervia plaga da cui nessun essere vivente riuscì mai a venir fuori.
    Poi ch'èi posato un poco il corpo lasso,
    ripresi via per la piaggia diserta,
    sì che 'l piè fermo sempre era 'l più basso.
    Dopo aver riposato un poco il corpo stanco, ripresi ( senza interruzioni) la mia salita lungo il pendio desolato, in modo che il piede fermo era sempre più basso rispetto a quello in movimento.
    Ed ecco, quasi al cominciar de l'erta,
    una lonza leggiera e presta molto,
    che di pel macolato era coverta;
    Ma, giunto quasi all’inizio della salita vera e propria, ecco apparirmi una lince snella e veloce, dal manto chiazzato:
    e non mi si partia dinanzi al volto,
    anzi 'mpediva tanto il mio cammino,
    ch'i' fui per ritornar più volte vòlto.
    essa non si allontanava dal mio cospetto, ma al contrario ostacolava a tal punto il mio procedere, che più di una volta fui sul punto di tornarmene indietro.

    tal mi fece la bestia sanza pace,
    che, venendomi 'ncontro, a poco a poco
    mi ripigneva là dove 'l sol tace.
    tale mi rese la insaziabile lupa, che, dirigendosi verso di me, mi respingeva nuovamente verso la selva, là dove il sole non penetra con i suoi raggi.
    Mentre ch'i' rovinava in basso loco,
    dinanzi a li occhi mi si fu offerto
    chi per lungo silenzio parea fioco.
    Mentre stavo precipitando in basso, mi apparve all’improvviso colui che, per essere stato a lungo silenzioso, sembrava ormai incapace di far intendere la sua voce.
    Quando vidi costui nel gran diserto,
    «Miserere di me», gridai a lui,
    «qual che tu sii, od ombra od omo certo!».
    Quando lo scorsi nella grande solitudine, implorai il suo aiuto: " Abbi pietà di me, chiunque tu sia, fantasma o uomo in carne ed ossa !"
    Rispuosemi: «Non omo, omo già fui,
    e li parenti miei furon lombardi,
    mantoani per patrïa ambedui.
    Mi rispose: " Non sono vivo, ma lo sono stato, e i miei genitori furono entrambi lombardi, originari di Mantova.
    Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,
    e vissi a Roma sotto 'l buono Augusto
    nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.
    Vidi la luce mentre era ancora in vita Giulio Cesare, benché troppo tardi (per esserne conosciuto e apprezzato), e vissi a Roma al tempo di Ottaviano Augusto, principe di gran valore, in un’età in cui vigeva il culto di divinità non vere e ingannevoli.
    Poeta fui, e cantai di quel giusto
    figliuol d'Anchise che venne di Troia,
    poi che 'l superbo Ilïón fu combusto.
    Fui poeta, e celebrai in versi le imprese di quel paladino della giustizia (Enea), figlio di Anchise, che venne da Troia ( a stabilirsi in Italia ), dopo che la superba città fu incendiata.

    Ma tu perché ritorni a tanta noia?
    perché non sali il dilettoso monte
    ch'è principio e cagion di tutta gioia?».
    Ma tu perché vuoi ridiscendere a tanta pena, giù nella valle? Perché non ascendi invece il gaudioso colle, dispensatore e origine di ogni perfetta letizia? "
    «Or se' tu quel Virgilio e quella fonte
    che spandi di parlar sì largo fiume?»,
    rispuos' io lui con vergognosa fronte.
    "Sei proprio tu " risposi reverente ed umile " il grande Virgilio, sorgente copiosa d’inesauribile poesia?
    «O de li altri poeti onore e lume,
    vagliami 'l lungo studio e 'l grande amore
    che m'ha fatto cercar lo tuo volume.
    O tu che onori e illumini chiunque coltivi l’arte del poetare, mi acquistino la tua benevolenza l’assidua consuetudine e il grande amore che mi ha spinto ad accostarmi alla tua opera.
    Tu se' lo mio maestro e 'l mio autore,
    tu se' solo colui da cu' io tolsi
    lo bello stilo che m'ha fatto onore.
    Tu sei lo scrittore e il maestro che ha avuto su di me autorità indiscussa; sei l’unico dal quale ho appreso il bello scrivere che mi ha arrecato fama.
    Vedi la bestia per cu' io mi volsi;
    aiutami da lei, famoso saggio,
    ch'ella mi fa tremar le vene e i polsi».
    Guarda la lupa che mi ha fatto tornare sui miei passi: chiedo il tuo aiuto, famoso sapiente, poiché essa mi fa tremare di paura in ogni fibra."
    «A te convien tenere altro vïaggio»,
    rispuose, poi che lagrimar mi vide,
    «se vuo' campar d'esto loco selvaggio;
    Virgilio, reso pietoso dalle mie lagrime: "Tu devi, se vuoi uscire da questo luogo impervio, seguire una altra strada:
    ché questa bestia, per la qual tu gride,
    non lascia altrui passar per la sua via,
    ma tanto lo 'mpedisce che l'uccide;
    perché la belva, per la quale tanto ti lamenti, ostacola il cammino a chiunque in essa si imbatte, perseguitandolo senza tregua sino ad ucciderlo;

    e ha natura sì malvagia e ria,
    che mai non empie la bramosa voglia,
    e dopo 'l pasto ha più fame che pria.
    e tanto perversa e malvagia è la sua indole, che nulla può placarne le smodate cupidigie e, invece di saziarla. il cibo ne accresce gli appetiti.
    Molti son li animali a cui s'ammoglia,
    e più saranno ancora, infin che 'l veltro
    verrà, che la farà morir con doglia.
    Numerosi sono gli animali ai quali si accoppia, e il loro numero è destinato a crescere, fino alla venuta ( in veste di liberatore) di un Veltro, che la ucciderà crudelmente.
    Questi non ciberà terra né peltro,
    ma sapïenza, amore e virtute,
    e sua nazion sarà tra feltro e feltro.
    Né il potere né la ricchezza saranno il suo nutrimento, ma soltanto le qualità della mente e dell’animo, e la sua nascita avverrà tra poveri panni.
    Di quella umile Italia fia salute
    per cui morì la vergine Cammilla,
    Eurialo e Turno e Niso di ferute.
    Sarà la salvezza di quella Italia, ora umiliata, per la quale si immolarono in combattimento la giovinetta Camilla, Eurialo e Turno e Niso.
    Questi la caccerà per ogne villa,
    fin che l'avrà rimessa ne lo 'nferno,
    là onde 'nvidia prima dipartilla.
    Egli darà la caccia alla lupa in ogni città, fino a costringerla a tornarsene nella sua sede naturale, l’inferno, da dove Lucifero, odio primigenio, la fece uscire.
    Ond' io per lo tuo me' penso e discerno
    che tu mi segui, e io sarò tua guida,
    e trarrotti di qui per loco etterno;
    Perciò penso e giudico che, per la tua salvezza, tu mi debba seguire, e io sarà tua guida, e ti condurrò da qui nel luogo della pena eterna,
    ove udirai le disperate strida,
    vedrai li antichi spiriti dolenti,
    ch'a la seconda morte ciascun grida;
    dove udrai i disperati lamenti dei malvagi, vedrai gli spiriti di coloro che, fin dalla più remota antichità, soffrono per l’inappellabile dannazione;
    e vederai color che son contenti
    nel foco, perché speran di venire
    quando che sia a le beate genti.
    e vedrai coloro che sono contenti di espiare le loro colpe nei tormenti purificatori del purgatorio, certi di salire prima o poi al cielo.
    A le quai poi se tu vorrai salire,
    anima fia a ciò più di me degna:
    con lei ti lascerò nel mio partire;
    Se tu vorrai giungere fin lassù, un’anima più nobile di me ti accompagnerà: con lei ti lascerò al momento del mio distacco;
    ché quello imperador che là sù regna,
    perch' i' fu' ribellante a la sua legge,
    non vuol che 'n sua città per me si vegna.
    poiché Dio, che lassù regna, non permette che qualcuno possa penetrare nella sua città (tra i beati) senza essere stato in terra sottomesso alla sua legge ( cioè cristiano ).
    In tutte parti impera e quivi regge;
    quivi è la sua città e l'alto seggio:
    oh felice colui cu' ivi elegge!».
    Dio è in ogni luogo sovrano onnipotente e ha nel cielo la sua sede; qui si trovano la sua città e l’eccelso trono: felice colui che Dio sceglie perché risieda in cielo"
    E io a lui: «Poeta, io ti richeggio
    per quello Dio che tu non conoscesti,
    a ciò ch'io fugga questo male e peggio,
    Ed io: " Poeta, ti chiedo in nome di quel Dio che non hai potuto conoscere, per la mia salvezza temporale ed eterna,
    che tu mi meni là dov' or dicesti,
    sì ch'io veggia la porta di san Pietro
    e color cui tu fai cotanto mesti».
    di condurmi là dove ora hai detto, tanto che io possa vedere la porta del paradiso e le anime che dici immerse in così grandi pene".
    Allor si mosse, e io li tenni dietro.
    Virgilio sì incamminò, e io lo seguii

     
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    Commento a "Dora Markus"

    Dora Markus

    Fu dove il ponte di legno
    mette a porto Corsini sul mare alto
    e rari uomini, quasi immoti, affondano
    o salpano le reti. Con un segno
    della mano additavi all'altra sponda
    invisibile la tua patria vera.
    Poi seguimmo il canale fino alla darsena
    della città, lucida di fuliggine,
    nella bassura dove s'affondava
    una primavera inerte, senza memoria.
    E qui dove un'antica vita
    si screzia in una dolce
    ansietà d'Oriente,
    le tue parole iridavano come le scaglie
    della triglia moribonda.

    La tua irrequietudine mi fa pensare
    agli uccelli di passo che urtano ai fari
    nelle sere tempestose:
    è una tempesta anche la tua dolcezza,
    turbina e non appare,
    e i suoi riposi sono anche più rari.
    Non so come stremata tu resisti
    in questo lago
    d'indifferenza ch'è il tuo cuore; forse
    ti salva un amuleto che tu tieni
    vicino alla matita delle labbra,
    al piumino, alla lima: un topo bianco,
    d'avorio; e così esisti!
    2

    Ormai nella tua Carinzia
    di mirti fioriti e di stagni,
    china sul bordo sorvegli
    la carpa che timida abbocca
    o segui sui tigli, tra gl'irti
    pinnacoli le accensioni
    del vespro e nell'acque un avvampo
    di tende da scali e pensioni.

    La sera che si protende
    sull'umida conca non porta
    col palpito dei motori
    che gemiti d'oche e un interno
    di nivee maioliche dice
    allo specchio annerito che ti vide
    diversa una storia di errori
    imperturbati e la incide
    dove la spugna non giunge.

    La tua leggenda, Dora!
    Ma è scritta già in quegli sguardi
    di uomini che hanno fedine
    altere e deboli in grandi
    ritratti d'oro e ritorna
    ad ogni accordo che esprime
    l'armonica guasta nell'ora
    che abbuia, sempre più tardi.

    È scritta là. Il sempreverde
    alloro per la cucina
    resiste, la voce non muta,
    Ravenna è lontana, distilla
    veleno una fede feroce.
    Che vuole da te? Non si cede
    voce, leggenda o destino...
    Ma è tardi, sempre più tardi.


    (Eugenio Montale, Le Occasioni; Parte prima)

    La lirica consta di due parti distinte, scritte a molti anni di distanza l'una dall'altra: la prima parte risale infatti al 1928, o al 1926, mentre la seconda è del 1939. Per comprendere la complessa origine della poesia, è necessario richiamare alcuni dati biografici dell'autore. Montale non conosceva, né conobbe mai, Dora Markus: aveva solo visto una fotografia delle sue gambe, inviatagli dall'amíco Bobi Bazlen col seguente biglietto datato 25 settembre 1928: «Gerti e Carlo: bene. A Trieste, loro ospite, un'amica di Gerti, con delle gambe meravigliose. Falle una poesia. Si chiama Dora Markus». La data del biglietto spingerebbe ad ascrivere al 1928 la prima parte della lirica, ma Montale sosteneva di averla scritta due anni prima, nel 1926, senza riuscire a concluderla («è l'inizio di una poesia che non fu mai né finita né pubblicata e non lo sarà maí»). La Gerti nominata da Bazlen è Gerti Frànkel Tolazzi, una signora di Graz che Montale conosceva bene e che nel 1928 gli ispirò la poesia Carnevale di Gerti, compresa anch'essa nelle Occasíoni. Nell'immaginario del poeta la sconosciuta Dora finí con l'assimilarsi a Gerti, tanto è vero che quando nel 1939 Montale decise di ritornare su Dora Markus («Alla distanza di 13 anni (e si sente) le ho dato una conclusione, se non un centro») il personaggio femminile non è più la fantomatica Dora, ma proprio Gerti: a lei che occupa la seconda parte di Dora M. lo Dora non l'ho mai conosciuta; feci quel primo pezzo di poesia per invito di Bobi Bazlen che mi mandò le gambe di lei in fotografia» (lettera a Silvio Guarnieri del 1964). Il complicato intrecciarsi di proiezioni fantastiche e psichiche che presiede all'accidentata gestazione della lirica fa di Dora Markus uno dei componimenti più misteriosi e segreti, ma anche più ricchi di oggetti-simbolo e di «occasioni» taciute e infine risolte in una disperata e buia visione della realtà del 1939, con gli orrori che la storia stava preparando - dell'intera produzione montaliana.

    RIFLESSIONI SUL TESTO

    Abbiamo già visto come Dora Markus sia un personaggio sostanzialmente di fantasia, un mito poetico. La questione della controversa datazíone della prima parte della lirica potrebbe acquisire nuove prospettive proprio alla luce della correlazione fra Dora e un altro personaggio di fantasia comparso nella seconda edizione degli Ossi di seppia, Arsenio. Ammesso che ambedue i personaggi siano proiezioni della soggettività del poeta (e certo sarebbe difficile negarlo), è interessante cogliere i differenti atteggiamenti che essi rivelano nel loro rapporto con la realtà.
    Arsenio è ancora alla ricerca di una via d'uscita, di un mutamento rispetto a quel «troppo noto / delirio ... d'immobilità» fatto presagire dal temporale imminente; e nel momento in cui il temporale giunge, sperimenta dolorosamente la propria incapacità di calarsi in una nuova e più autentica dimensione, a causa della resistenza opposta dalle «radici» che «con sé trascina, viscide, non mai / svelte», e quindi dalla sua stessa storia di individuo. Dora invece appare animata da un'inquietudine che rimane in superficie (proprio come da superficiali variazioni di colore dipende l'«iridare» delle scaglie / della triglia moribonda), mentre il suo cuore è un lago / d'indifferenza. Ogni speranza di mutamento è per lei spenta, e il suo destino è quello di brancolare senza meta attirata come una falena dalla luce dei fari, afferrandosi per sopravvivere all'incerta fede in qualche inutile amuleto.
    Non sembra arbitrario insomma vedere in Dora Markus un Arsenio dopo il temporale, riafferrato dall'«onda antica» della vita di sempre e ormai dimentico di ogni tensione a individuare A segno di un'altra orbita»: il «fantasma che ti salva» degli Ossi è ormai ridotto a un topo bianco, / d'avorío. Lo sviluppo logico della visione del mondo montalíana sembrerebbe perciò indicare per Dora Markus una datazione posteriore al 1927, anno in cui il poeta scrisse Arsenio, e dunque confermare la testimonianza offerta dal biglietto di Bobi BazIen citato sopra, in base al quale la composizione della prima parte della lirica dovrebbe collocarsi dopo il settembre 1928.

    fonte:http://eugeniomontale.xoom.it

     
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