PARAFRASI

tutte quelle che servono sono qui!!!

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    Parafrasi de “la morte di Clorinda”, Gerusalemme liberata, Tasso


    Tancredi vuole sfidare Clorinda: un uomo che sia all’ altezza di confrontarsi con il suo valore. Ella continua a girare intorno alla cima (del colle di Gerusalemme) alla ricerca della porta per entrare (nella città). Egli la segue impetuoso, per cui, molto prima di averla raggiunta, succede che faccia suonare l’ armatura in malomodo, tanto da far si che ella si volti e gridi: “O tu cosa vuoi che corri così tanto?”. Egli risponde: “E guerra e morte”. “Guerra e morte avrai” rispose “io non rifiuto di dartele, se le cerchi”, e ferma aspetta. Tancredi, avendo visto che il suo nemico era a piedi, non volle usare il cavallo e così scese. E una volta impugnata entrambi la spada accuminata, accesero l’ ira ed aguzzarono l’ orgoglio; e si assalgono come due tori gelosi ed ardenti di ira. (…) Non vogliono schivare, non vogliono parare, non vogliono ritirarsi, nè qui è questione di abilità. Non danno colpi finti, pieni o scarsi: l’ oscurità e l’ impeto impediscono un corretto uso delle regole di scherma. Senti le spade urtarsi orribilmete a metà lama, e il piede non si sposta dalla sua orma; il piede è sempre fermo e la mano sempre in movimento, non cade un colpo invano nè affonda una punta a vuoto. La vergogna dei colpi ricevuti, porta alla ventetta e la vendetta a sua volta riaccende la vergogna (nell’ avversario); quindi colpiscono continuamente e frettolosamente. Di ora in ora la distanza (tra i due cavalieri) diminuisce e i loro corpi si mescolano, si una il corpo a corpo, e la spada non serve più: si colpiscono con i pomi e con le else, violenti e spietati, si scontrano con gli elmi e con gli scudi. Per tre volte il cavaliere stringe la donna con le sue robuste braccia, ed altrettante volte la donna si scioglie da quelle prese tenaci, presa di un fiero nemico e non di un amante. Tornano alla spada, e sia l’ uno che l’ altra le tingono con molto sangue; stanchi e ansimanti, entrambi si distaccano e dopo tanta fatica prendono fiato. Si gluardano a vicenda, e appoggiano il loro corpo sanguinante sull’ elsa della spada . Già il bagliore dell’ ultima stella sparisce e si vedono i primi raggi di soloòe. Tancredi vede che il suo nemico è molto insanguinato, e che lui non è tanto ferito. Ne gode e diventa superbo. Oh nostra folle mente che ogni soffio di fortuna fa insuperbire! Misero, di cosa godi? Oh quanto saranno dolorosi il trionfo e il vanto! I suoi occhi pagheranno (se resteranno in vita) ogni goccia di quel sangue con un mare di pianto. Così tacendo e guardandosi, questi due guerrieri sanguinanti smisero (di combattere) per un pò. Alla fine Tancredi ruppe il silenzio e disse, per far dire all’ altro il suo nome:”La nostra Disgrazia è che qui si impieghi tanto valore cioè, dove non esistono testimoni, quindi per un’ impresa che rimarrà sommersa nell’ oblio, ti prego (se ha senso pregare durante una battaglia) di rivelarmi il tuo nome e il tuo grada affinchè io sappia, vinto o vincitore, chi onorare in caso di morte o di vittoria”. Rispose lei ferocemente:”inutilmente chiedi ciò che non è mia abitudine rivelare. Ma chiunque io sia, tu hai davanti uno di quei due che hanno incendiato la grande torre”. Tancredi a quel tono bruciò di sdegno e disse: “ L’ hai detto nel momento sbagliato” quindi riprese “quello che hai detto e quello che non mi hai detto mi spronano in ugual misura alle vendetta, o barbaro scortese”. Tornò l’ ira nei cuori, e li trasporta, benchè indeboliti dalla guerra. Oh efferata lotta, dove le regole sono bandite e la forza è già morta, dove invece (della forza), combattono i furori di entrambi. Oh che profonde e sanguinanti ferite fanno l’ una e l’ altra spada; e se la vita non se ne va è perche’ la rabbia la tiene attaccata al petto. Come nell’ Egeo profondo benchè cessino l’ Aquilone o il Noto, che prima l’ hanno tutto sconvolto e scosso, non si calma, ma conserva il fragore e il moto delle onde ancora agitate e gonfie, così sebbene venga a loro meno, per il sangue versato, quel vigore che mosse le braccia, sembrano ancora piene di impeto, e vanno sospinti da quello ad aggiungere ferite a ferite.Ma ecco ormai che l’ hora segnata dal fato è arrivata, la vita di Clorinda deve giungere alla sua fine. Spinge egli (Tancredi) la spada di punta nel suo bel seno che si immerge nel sangue che avido beve; e l’ armatura ricamata d’ oro si riempie di sangue il quale teneva strette le mammelle in un caldo fiume. Ella già si sente morire, e il piede diventa ptivo di forze e vacillente. Prosegue Tancredi per la vittoria, e minaccioso, incalza e preme sulla trafitta vergine. Ella, mentre cadeva, disse con voce afflitta le sue ultime parole; parole a lei suggerite da una nuova ispirazione,ispirazione di fede, di carità, di speranza: virtù che ora Dio le infonde, e se in vita fu ribelle, la vuole, quando morta, come sua ancella. “ Amico, hai vinto: io ti perdono… perdonami anche tu; non il mio corpo (uccisione), che oramai non teme più nulla, ma la mia anima. Tu! Prega per lei, e dona a me il bettesimo così che ogni mia colpa venga lavata.” In queste parole languide, risuona un non so che di debole e dolce, che scende al cuore e ogni rabbia spegne, e invita e obbliga gli occhi a piangere. Poco lontano da lì in ua valle della montagna, sorgeva mormorando un piccolo ruscello. Elgi vi accorse e riempì l’ elmo di acqua,tornò serio al suo grande e pio dovere. Sentì tremere la mano, mentre liberava la fronte non ancora riconosciuta dall’ elmo. La vide, la riconobbe, e restò immobile senza parole. Ah cosa vide! Ah chi riconobbe! Non morì subito, ma raccolse tutte le sue forze e le mise in guardia il cuore, e cercando di non affannarsi, si voltò per dare la vita con l’ acqua a che venne ucciso con la spada. Mentre egli pronunciava le sacre formule, lei trasfigurò di gioia e sorrise; e mentre moriva lieta sembrava dire: “si apre il cielo; io vado in pace”. Il bianco volto aveva preso un bel pallore come bianchi gigli misti a viole, e glio occhi fissavano il cielo, e il cielo e il sole, sembravano rivolti per pietà verso di lei; e la mano nuda e fredda, alzandosi verso il cavaliere come se fossero parole gli dà segno di pace. In questo modo muore la bella donna, e sembra che dorma. Non appena egli vede uscir l’ anima gentile, lascia andare quelle energie che aveva raccolto; e il controllo di sè cede al dolore glà diventato incontenibile e irragionevole, che entra nel cuore e gli riempe di morte i sensi e il volto, essendo in lui la vita ridotta ad un ben piccolo spazio.
     
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    "amor che nullo amato amor perdona"

    parafrasi

    lo dice dante a proposito di paolo e francesca...
    amor che nullo amato amar perdona: l'Amore non perdona a nessuno che sia stato amato di non amare...
    in altre parole, se si è stati amati bisogna assolutamente riamare
    ...in altre parole
    Il bellissimo verso che hai citato ha un'intensità poetica densissima, anche perché si presta ad una pluralità di letture, che -penso- Dante avvesse ben presenti:


    1) da una parte è enfatizzata la forza travolgente dell'amore, la quale (come già hanno detto in molti) non consente ad una persona che sia davvero amata di non ricambiare (e questo spiega l'attrazione tra Paolo e Francesca);

    a fianco di quest'interpretazione se ne pone almeno un'altra:

    2) l'amore (consacrato in un matrimonio, come quello di Francesca) non perdona e non permette di amare altri;

    L'amore è dunque, nell'universo dantesco, qualcosa di complesso che non si può ridurre al solo "amor cortese" in quanto pone delle contraddizioni naturali che portano ad esiti anche tragici.

    A Francesca (che è sposata) l'amore non permette di amare altri se non suo marito. Lo stesso amore però non le permette di non riamare e non ricambiare il sincero sentimento di Paolo (cosa che porterà entrambi ad "una morte" ed alla dannazione eterna).

    Proprio questa contraddizione tra precetto religioso e forza travolgente dell'amore, espressa in forma così alta e rarefatta, spiega la simpatia di Dante per i due "peccatori".

    Il poeta non si comporta da moralista, semplicemente descrive la tragicità del conflitto tra morale e passione, che sono due forze invincibili.

    E così sia pure colloca Paolo e Francesca tra i dannati, non può fare a meno di provare un senso di profonda ed umana pietà e di compiangerne la sorte.






    Paolo e Francesca


    « Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende,

    prese costui de la bella persona
    che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende.

    Amor, ch'a nullo amato amar perdona,
    mi prese del costui piacer sì forte,
    che, come vedi, ancor non m'abbandona.

    Amor condusse noi ad una morte.
    Caina attende chi a vita ci spense."

    Queste parole da lor ci fuor porte. »


    (Dante Alighieri, Inferno V, 100-108)





    L'attenzione di Dante viene attirata da due anime che al contrario delle altre volano unite l'una all'altra e sembrano leggére nel vento, quindi chiede a Virgilio di poter parlare con loro, che acconsente di chieder loro di fermarsi quando il vento le porterà più vicine.

    Dante allora si rivolge a loro: "O anime affannate, / venite a noi parlar, s'altri (cioè Dio) nol niega!". Allora esse uscirono dalla schiera dei morti per amore (dov'era Didone) come le colombe che si alzano insieme per volare al nido.

    Le anime giungono così dal cielo infernale, grazie alla richiesta pietosa del Poeta. Parla la donna: (parafrasi) "Oh persona gentile e buona che visiti nell'oscuro inferno le anime di noi che tingemmo la terra di rosso sangue, se Dio fosse nostro amico, noi lo pregheremmo raccomandandoti a lui, perché hai avuto pietà di noi peccatori perversi. Dicci cosa vuoi sapere e noi parleremo con te, finché il vento ci fa qui riposare. La città dove nacqui si trova dove il Po trova la pace, sfociando nel mare coi suoi affluenti (Ravenna). L'amore che attecchisce velocemente nei cuori gentili fece invaghire lui (Paolo) della mia bella presenza, che oggi non ho più; il modo mi offende ancora" (verso ambiguo: Francesca intendeva che è ancora soggiogata dall'intensità (dal modo) dell'amore di Paolo, oppure che il modo in cui le fu tolta la sua bella persona (cioè il suo corpo) la urta ancora, alludendo all'omicidio? Per parallelismo con la terzina successiva in genere si preferisce la prima interpretazione): "Amor, che a nullo amato amar perdona, / mi prese del costui piacer sì forte...". Dunque, l'amore non esonera nessuna persona amata dall'amare a sua volta. Dante qui richiama esplicitamente la teologia cristiana secondo la quale tutto l'amore che ciascuno dona agli altri, tornerà indietro parimenti, anche se non nello stesso tempo o forma.

    Queste furono le parole che essi dissero (sebbene parli solo Francesca). Dante china il viso pensoso, finché Virgilio lo sprona chiedendogli "A che pensi?"

    Dante non dà una vera e propria risposta ma sembra proseguire ad alta voce i pensieri: (parafrasi) "Che bei pensieri amorosi, quanto desiderio reciproco portò queste anime alla dannazione!". Poi, rivolgendosi di nuovo a loro: "Francesca, le tue pene mi fanno diventare triste e pio, al punto di aver voglia di piangere. Ma dimmi, con quali fatti e come avete fatto a passare dai dolci sospiri alla passione, che porta tanti dubbi di essere corrisposti."

    Ed essa rispose: (parafrasi) "Niente è peggiore per me che ricordare i tempi felici ora che sono in questa misera condizione, e lo sa bene il tuo dottore. Ma se proprio vuoi sapere l'origine del nostro amore, ti racconterò tra le lacrime ("come colui che piange e dice"). Un giorno stavamo leggendo per passatempo dell'amore di Lancillotto. Eravamo soli e non sospettavamo niente. Più volte quella lettura ci spinse a guardarci e ci fece sbiancare... ma fu in un punto preciso che vinse la nostra volontà: quando leggemmo il bacio tra Lancillotto e Ginevra, Paolo, che da me non verrà mai diviso, la bocca mi baciò tutto tremante. Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse: quel giorno non andammo più avanti nella lettura."

    Mentre uno spirito diceva questo, l'altro piangeva in modo talmente pietoso, che mi sentii morire e caddi per terra come cade un corpo morto.

    Questi due sono le anime di Paolo Malatesta e di Francesca da Polenta che si innamorarono follemente e che vennero sorpresi da Gianciotto Malatesta, rispettivamente fratello e marito dei due, e trucidati.

    Francesca commossa dalla pietà mostrata da Dante gli racconta di quell'amore così forte che li ha uniti sia nella vita che nella morte e del momento in cui i due si resero conto del loro amore reciproco, e durante tutto il racconto Paolo singhiozza. Dante infine vinto dall'emozione perde i sensi e cade a terra.




    “Parafrasi e commento ‘La casa dei doganieri’ di Montale


    1) “Libeccio sferza da anni le vecchie mura
    e il suono del tuo riso non è più lieto”
    Al motivo del ricordo si accompagna quello della casa, dove il poeta e la donna trascorsero momenti felici (il tuo riso), ma ora è desolata e abbandonata: il poeta umanizza l’oggetto-casa, attribuendogli lo squallore e la desolazione che sono nel suo animo.
    2)L’inquietudine e il disorientamento esistenziale sono resi attraverso delle oggettivazioni: la bussola… impazzita, cioè la difficoltà dì trovare la strada giusta, il calcolo dei dadi che non torna, cioè la perdita di ogni punto di riferimento, la casa che s’allontana, simbolo di una sicurezza irraggiungibile.
    3) i temi sono il male di vivere, il tempo che corrode ogni cosa, la fedeltà, l’amore che salva dal male del mondo, la solitudine e lo smarrimento davanti agli eventi.
    4) La casa dei doganieri si staglia come un’ara interna, che ormai appartiene a se stessi soltanto. Il tempo l’ha strappata ai ricordi di lei, che insiste a sostarvi irrequieta. E lo sciame interno, inespresso del pensiero prende carne nelle mura, gli angoli riattraversati mentalmente, a ritrovarvi un vuoto antico, fisico. In questa desolazione di reggersi come un appiglio sempre più fragile, trasformato inevitabilmente dal tempo, diventato altro rispetto al proprio essere, c’è anche una gelosia profonda, una stretta disperata.
    5) Seguono due metafore: la bussola è rotta e non può più indicare con precisione la direzione; il calcolo dei punti segnati sulle facce dei dadi non da più il risultato giusto; l’impossibilità di affidarsi al mare e di leggere il futuro dei dadi stanno ad indicare lo smarrimento, l’incapacità dell’uomo di dare un senso ed una direzione precisa all’esistenza.l’immagine della banderuola posta sul comignolo, la quale dovrebbe indicare la direzione mentre in realtà gira senza mai fermarsi, è un’altra metafora per indicare lo smarrimento provocato dall’inesorabile fuga del passato.
    6)un varco che conduce oltre il muro della solitudine e dell’incomprensione; ma l’ansiosa domanda Il varco è qui? resta senza risposta.
    La realtà resta inesorabilmente la stessa, come l’onda che si riforma continuamente uguale e il poeta resta ancora una volta escluso dalla conoscenza: nell’oscurità della casa della sua sera (tempo reale, del giorno e tempo psicologica, della vita), egli non sa più chi va e chi viene.
     
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    Parafrasi "Pianto antico", Giosuè Carducci



    L'albero a cui tendevi
    La pargoletta mano,
    Il verde melograno
    Da' bei vermigli fior,

    Nel muto orto solingo
    Rinverdì tutto or ora
    E giugno lo ristora
    Di luce e di calor.

    Tu fior de la mia pianta
    Percossa e inaridita,
    Tu de l'inutil vita
    Estremo unico fior,

    Sei ne la terra fredda,
    Sei ne la terra negra;
    Né il sol più ti rallegra
    Né ti risveglia amor.

    L'albero verso il quale orientavi la tua manina,
    il melograno dalle verdi foglie
    e dai rossi fiori,
    nel silenzioso e solitario orto,
    è nuovamente germogliato
    e l'estate lo matura
    con il suo calore e la sua luce.
    Tu figlio di questo povero corpo,
    invecchiato e sciupato dal tempo,
    tu unico dono di questa mia vita inutile,
    giaci nella fredda terra di un camposanto,
    non potrai più vedere la luce del sole,
    ne godere dell'amore.






    i ragazzi che si amano di jacques prèvert


    I ragazzi che si amano si baciano in piedi
    Contro le porte della notte
    E i passanti che passano li segnano a dito
    Ma i ragazzi che si amano
    Non ci sono per nessuno
    Ed è la loro ombra soltanto
    Che trema nella notte
    Stimolando la rabbia dei passanti
    La loro rabbia il loro disprezzo le risa la loro invidia
    I ragazzi che si amano non ci sono per nessuno
    Essi sono altrove molto più lontano della notte
    Molto più in alto del giorno
    Nell'abbagliante splendore del loro primo amore




    parafrasi

    "La poesia esalta l'aspetto totalizzante dell'amore presso i giovani innamorati: niente e nessuno esiste più attorno a loro, poiché essi non appartengono più a questo mondo, ma ad un altro, che vive nell'accecante calore del loro sentimento" [S. Nicola / G. Castellano / I. Geroni]. Ciascuno può dunque ritrovare in questa delicata lirica d'amore echi ed immagini della propria adolescenza.
    Il componimento si regge sulla contrapposizione - espressa senza enfasi ma con gioiosa partecipazione - fra "i ragazzi che si amano", estraniati dal mondo e dimentichi di tutto, e "i passanti" avvolti nella loro banale quotidianità.

     
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    "TERRA"

    Notte,serene ombre
    culla d'aria,
    mi giunge il vento se in te mi spazio,
    con esso il mare odore della terra
    dove canta la mia gente
    a vele, a nasse ,
    a bambini anzi l'alba desti.

    Monti secchi,pianure d'erba prima
    che aspetta mandrie a greggi ,
    m'è dentro il male vostro che mi scava.

    PARAFRASI


    La notte, con le sue tranquille ombre, come in una culla d’ aria, mi giunge il vento se nella notte mi apro, con essa il vento mi porta l’odore della mia terra dove la gente siciliana canta alla riva e lavora con le vele e con le nasse, e dove i bambini sono svegli già all’ alba, dove ci sono monti secchi che prima erano pianure d’erba, ma che sono state mangiate dalle mandrie e dai greggi. A questi pensieri e a voi, dentro di me, mi corrode la nostalgia.

     
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    la parafrasi - poesia di camillo sbarbaro "ora che sei venuta"

    Camillo Sbarbarlo nasce a Santa Margherita Ligure il 12 gennaio 1888. Il padre Carlo era ingegnere e architetto, figura molto amata dal poeta al quale dedicherà due note poesie nella sua seconda raccolta di versi "Pianissimo".
    La madre, Angioina Angioina, che era ammalata di tubercolosi, muore molto presto, nel 1893, e il piccolo Camillo e la sorellina Celia verranno allevati dalla sorella maggiore Maria, tanto adorata dal poeta che le dedicherà le poesie di Rimanenze.
    non so esattamente se "ora" è una sua poesia oppure è soltanto l' inizio di "Rimanenze", poesia dedicata a sua sorella Maria.


    ritorno per la "parafrasi:
    Camillo Sbarbaro
    «Ora che sei venuta»
    In questa poesia l’intesa d’amore è finalmente raggiunta; i turbamenti e le ansie della giovinezza si placano
    in un rapporto sentimentale vissuto con la serenità di un’età non più giovanile.
    Il tono pacato, privo delle ruvidezze *espressionistiche dei testi di Pianissimo, testimonia del raggiunto
    equilibrio esistenziale di Sbarbaro, dell’appagamento tardivo dei suoi desideri; e tuttavia è impossibile
    comprendere l’intensità di questi versi senza porli in rapporto con quelli della prima raccolta: la ricerca
    d’amore – e di trasgressione – in essi compiuta trova infatti nei Versi a Dina un felice punto d’arrivo.
    metrica: Tre strofe composte, rispettivamente, da 7, 3 e 11
    versi, con prevalenza di endecasillabi (quinari sono i
    vv. 3 e 12 e un settenario è il v. 1).

    Ora che sei venuta,
    che con passo di danza sei entrata
    nella mia vita
    quasi folata in una stanza chiusa –
    5 a festeggiarti,bene tanto atteso,
    le parole mi mancano e la voce
    e tacerti vicino già mi basta.

    Il pigolìo così che assorda il bosco
    al nascere dell’alba,ammutolisce
    10 quando sull’orizzonte balza il sole.

    Ma te la mia inquietudine cercava
    quando ragazzo
    nella notte d’estate mi facevo
    alla finestra come soffocato:
    15 che non sapevo,m’affannava il cuore.
    E tutte tue sono le parole
    che,come l’acqua all’orlo che trabocca,
    alla bocca venivano da sole,
    l’ore deserte,quando s’avanzavan
    puerilmente le mie labbra d’uomo
    da sé,per desiderio di baciare...
     
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    scontro tra achille e agamennone.

    parafrasi


    Detto questo Calcante, si sedette; quindi fra loro si alzò il potente Agamennone, figlio di Atreo, infuriato; i precordi erano pieni d’ira, e gli occhi sembravano lampeggiare di fuoco; gridò, guardando male Calcante:
    - Indovino del male, non dici mai buoni auguri per me, il cuore ti suggerisce sempre dei mali, non dici mai buona parola, non la porti mai a compimento! E adesso che sei fra i Greci profetizzi che per questo motivo Apollo dà loro delle disgrazie, perché io non ho voluto accettare il riscatto della giovane Criseide: desidero tanto averla in casa, la preferisco a Climnestra, anche se sposa legittima, perché non la supera in niente, non di corpo, non di aspetto, non di mente, non di opere.
    Ma acconsento di renderla anche così, se è meglio; voglio un esercito sano, e che non soccomba. Però preparatemi subito un dono; in modo che non resti solo io privo di doni fra i Greci, non è equo.
    Quindi guardate quale altro dono mi deve toccare.
    Allora intervenne Achille, dal piede veloce:
    -Gloriosissimo figlio di Atreo, avidissimo più di tutti, in che modo ti daranno un dono i magnanimi Greci? Da nessuna parte vediamo un ricco tesoro comune; quelli delle città bruciate sono stati divisi. I guerrieri non possono rimetterli in comune. Quindi, ora, dai al dio la giovane Criseide; poi noi ti daremo un compenso tre o quattro volte maggiore, se Zeus vorrà darci di abbattere ***** dalle mura fortificate.
    Ma Agamennone rispose, ricambiandolo:
    -Per quanto tu valga, Achille pari agli dei, non nascondere ciò che pensi veramente, perché non mi sfuggi né puoi persuadermi. Così pretendi – e intanto la tua parte ce l’hai – che me ne lasci privare in questo modo, facendomela rendere? Ma se i Greci dal grande animo mi daranno un dono, adattandolo al mio desiderio, che compensi la perdita, sta bene; se non sarà così, io verrò a prendere il tuo, o dono di Aiace, o quello di Odisseo.
    Ma via, queste cose potremo trattare anche dopo:
    ora spingiamo nel mare divino una nave nera di catrame,
    raccogliamo rematori in numero giusto, imbarchiamo qui il sacrificio di cento buoi, facciamo salire la figlia di Crise, guancia graziosa; la guìdi uno dei capi consiglieri,
    o Aiace, o Idomeneo, oppure Odisseo luminoso, o anche tu, Achille, il più tremendo di tutti gli eroi, che tu ci renda amichevole Apollo, compiendo il rito.
    Ma guardandolo minaccioso Achille dal piede rapido disse:
    - Ah vestito di spavalderia, avido di guadagno, come può volentieri obbedirte un greco, o marciando o battendosi contro guerrieri con forza? Davvero io sono venuto
    a combattere qui non per i Troiani bellicosi, non sono colpevoli contro di me: mai le mie vacche o i cavalli hanno rapito, mai hanno distrutto il raccolto a Ftia dai bei campi, in cui nascono e crescono eroi, poiché molti e molti nel mezzo ci sono monti ombrosi e il mare potente.
    Ma seguimmo te, o del tutto sfacciato, perché tu gioissi, cercando soddisfazione per Menelao, per te, brutto cane, da parte dei Troiani, e tu non pensi a questo, non ti preoccupi, anzi, minacci che verrai a togliermi il dono per il quale ho sudato molto, che i figli dei Greci me l’hanno dato. Però non ricevo un dono pari a te, quando i Greci gettano a terra un villaggio ben popolato dei Troiani; ma le mani mie governano il più della guerra tumultuosa; se poi si venga alle parti,
    a te spetta il dono più grosso. Io, dopo che peno a combattere, mi porto indietro alle navi un dono piccolo e caro. Ma ora andrò a Ftia, perché è molto meglio
    andarsene in patria sopra le concave navi. Io non intendo raccogliere beni e ricchezze per te, restando qui umiliato.
    Allora lo ricambiò Agamennone il signore degli eroi:
    - Vattene, se il cuore ti spinge; io non ti pregherò davvero di restare con me, con me ci sono altri che mi faranno onore, soprattutto c’è il saggio Zeus. Ma tu sei il più odioso per me tra i re discepoli di Zeus: ti è sempre cara la contesa, e guerre e battaglie: un dio ti ha dato di essere tanto forte!
    Vattene a casa, con le tue navi, con i tuoi compagni, regna sopra i Mirmìdoni: di te non mi preoccupo, non ti temo adirato; anzi, questo dichiaro: poi che Criseide mi porta via Febo Apollo, io rimanderò lei con la mia nave e con i miei compagni; ma mi prendo Briseide, il tuo dono, dalla guancia graziosa, andando io stesso alla tenda, così che tu sappia quanto sono più forte di te, e tremi anche un altro di parlarmi alla pari, o di mettersi di fronte a me.
    Disse così; ad Achile venne dolore, il suo cuore nel petto peloso fu incerto tra due decisioni da prendere: se, sfilando la spada acuta via dalla coscia, facesse alzare gli altri, ammazzasse l'Atride, o se calmasse l'ira e trattenesse i suoi sentimenti. E mentre questo agitava nell'anima e in cuore e sfilava dal fodero la grande spada, venne Atena dal cielo; l'inviò la dea Era braccio bianco, amando ugualmente di cuore ambedue e avendone cura; gli stette dietro, per la chioma bionda prese il Pelide, a lui solo visibile; degli altri nessuno la vide. Restò senza fiato Achille, si volse, conobbe subito Pallade Atena: terribilmente gli luccicarono gli occhi e volgendosi a lei parlò parole fugaci e veloci:
    - Perché sei venuta, figlia di Zeus che è armato di ègida ,
    forse a veder la violenza d'Agamennone Atride?
    ma io ti dichiaro, e so che questo avrà compimento: per i suoi atti arroganti perderà presto la vita! E gli parlò la dea Atena occhio azzurro:
    - Io sono venuta dal cielo per calmare la tua ira, se tu mi obbedirai: m'inviò la dea Era braccio bianco,
    ch'entrambi ugualmente ama di cuore e si prende cura.
    Su, smetti il litigio, non tirar con la mano la spada:
    ma ingiuria solo con parole, dicendo come sarà:
    così ti dico infatti, e questo avrà compimento: tre volte tanto splendidi doni a te s'offriranno un giorno per questa violenza; trattieniti, dunque, e obbedisci. E disse ricambiandola Achille piede rapido:
    - Bisogna rispettare la vostra parola, o dea,
    anche chi si sente irato; così è meglio,
    chi obbedisce agli dèi, sarà ascoltato anche da loro.
    Così sull'elsa (impugnatura spada rifinita) d'argento trattenne la mano pesante, spinse indietro nel fodero la grande spada, non disobbedì alla parola d'Atena; ella se n'era andata verso l'Olimpo, verso la casa di Zeus egioco, con gli altri dei.
    Di nuovo allora il Pelide con parole ingiuriose investì l'Atride e non trattenne il risentimento.
    - Ubriacone, minaccioso come un cane, ma vile come un cervo, mai vestir corazza con l'esercito in guerra né andare all'agguato coi più forti nemici degli Achei osi andare: questo ti sembra morte.
    E certo è molto più facile nel largo campo degli Achei
    strappare i doni a chi a faccia a faccia ti parla,
    re mangiatore del popolo, perché comandi ai buoni a niente;
    se no davvero, Atride, ora per l'ultima volta offenderesti!
    Ma io ti dico e giuro con piena volontà:
    sì, per questo bastone, che mai più foglie o rami
    metterà, poi che ha lasciato il tronco sui monti,
    mai fiorirà, che intorno ad esso il bronzo ha strappato
    foglie e corteccia; e ora i figli degli Achei con giustizia lo porteranno in mano: manterranno salde le leggi in nome di Zeus. Questo sarà il giuramento da farsi. Certo un giorno rimpianto per Achille prenderà i figli degli Achei, tutti quanti, e allora tu non potrai nulla, poichè afflitto aiutarli, quando per mano del massacratore Ettore cadranno morenti; e tu nei sentimenti più profondi lacererai, rabbioso per non avermi ricompensato, io che sono il più forte dei greci.
    Così disse il Pelide e scagliò in terra lo scettro disseminato di chiodi d’oro. Poi si sedette.
    Fonti:
    www.studenti.it
     
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    parafrasi- TACI, ANIMA STANCA DI GODERE

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    Parla dell'apatia di un uomo e della sua anima, stanca di sentire, sia in bene che in male, che è muta, non ha rimorsi né rimpianti ma è immobile. Nella seconda parte il poeta mette in ballo anche il corpo, se all'interno tutto è morto, perché il corpo continua a vivere e si rammarica di questo perché rappresenta una prigione dove lui è costretto a vagare senza meta né ambizione.
    Alla fine anche il mondo esterno perde il suo significato, le cose sono tali e niente di più.
    "La vicenda di gioia e di dolore non si tocca" può significare la superficialità, la riluttanza degli esseri umani a qualcosa di profondo. " Perduto ha la voce la sirena del mondo" è una metafora, può indicare la perdita da parte di tutti gli esseri che compongono il mondo (quindi la voce del mondo) di un valore per cui valga la pena vivere e lottare.
    " Nel deserto io guardo con asciutti occhi me stesso" guardando l'aridità di questo mondo il poeta vede se stesso, fa un riferimento a quello che è l'inizio della poesia. E' un cerchio che si chiude, lui e la sua anima si sentono tanto apatici perché è il mondo ad essere indifferente alla stessa realtà che vive.


    parafrasi

    Taci, anima stanca di godere
    e di soffrire (all'uno e all'altro vai rassegnata).
    Nessuna voce tua odo se ascolto:
    non di rimpianto per la miserabile
    giovinezza, non d'ira o di speranza,
    e neppure di tedio.
    Giaci come il corpo, ammutolita, tutta piena
    d'una rassegnazione disperata.
    Non ci stupiremmo,
    non è vero, mia anima, se il cuore
    si fermasse, sospeso se ci fosse il fiato...
    Invece camminiamo, camminiamo
    io e te come sonnambuli.
    E gli alberi son alberi, le case sono case, le donne
    che passano son donne, e tutto è quello
    che è, soltanto quel che è.
    La vicenda di gioia e di dolore non si tocca.
    Perduto ha la voce la sirena del mondo,
    e il mondo è un grande deserto.
    Nel deserto io guardo con asciutti occhi me stesso.
     
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    parafrasi di Sgelo di D.Valeri e di Nevicata di Carducci




    SGELO:



    Case nel sole: una striscia di giallo,
    di scialbo giallo, su prati innevati.
    Alberi, dietro: alti pioppi sfumati
    dentro un sottile pulviscolo d'oro.
    Lucide chiazze di cupo viola
    sui tetti bianchi: la neve si sfa.
    Finestre aperte; bucato a festoni;
    donne affacciate. E l'inverno che va.


    NEVICATA:



    Lenta fiocca la neve pe ‘l cielo cinerëo: gridi,
    suoni di vita più non salgono da la città,
    non d’erbaiola il grido o corrente rumore di carro,
    non d’amor la canzon ilare e di gioventù.
    Da la torre di piazza roche per l’aëre le ore
    Gemon, come sospir d’un mondo lungi dal dì.
    Picchiano uccelli raminghi a’ vetri appannati: gli amici
    Spiriti reduci son, guardano e chiamano a me.
    In breve, o cari, in breve – tu càlmati, indomito cuore –
    Giù al silenzio verrò, ne l’ombra riposerò.


    Parafrasi:


    Case Illuminate Dal sole: una scia di giallo
    di chiaro giallo, sul terreno innevato.
    Gli Alberi si intravedono dietro, Pioppi che sfumano alla luce del sole,
    mentre cala il tramonto che illuminail paesaggio.
    Il cielo comincia a imbrunire
    sui tetti innevati: la neve comincia a scioglersi.
    La gente riapre le finestre in segno che
    è arrivata l'estate e l'invero è andato via.

    parafrasi


    La neve cade lentamente attraverso il cielo grigio: Bologna non è più animata dalle quotidiana grida dei pedoni o dei negozianti ed appare silenziosa in conseguenza dello svanire dei suoni tipici della città. Non si sentono più per la strada le urla dell’erbaiola né è possibile udire il rumore del carro che corre nella via. L’animo dei cittadini non è più rallegrato da parole o gesta di amore ed affetto e la pace regna nel cortile dove non si alzano gli schiamazzi dei bambini che giocano felici. Dalla torre del palazzo comunale di piazza San Petronio, si diffonde nell’atmosfera la sensazione che i rintocchi delle ore determinino un allontanamento dalla dimensione del tempo e dalla luce del giorno: il mondo dei morti è ormai vicino..
     
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    parafrasi del cantico frate sole parafrasi fino al versetto 9

    PROSA CANTICO DELLE CREATURE PROSA CANTICO DELLE CREATURE [Altissimo, onnipotente, buon Signore, | tue sono le lodi, la gloria e l'onore e ogni benedizione. | A te solo, Altissimo, si confanno | e nessun uomo è degno di ricordarti. || Laudato sii, mio Signore, con tutte le tue creature, | specialmente messèr fratello sole, | il quale diffonde la luce del sole, e tu ci illumini per mezzo suo, | e lui è bello, raggiante con gran splendore; | di te, Altissimo, reca il significato. || Lodato sii, mio Signore, per sorella luna e le stelle; | le hai formate in cielo chiare e preziose e belle. || Lodato sii, mio Signore, per fratello vento, | e per ogni movimento del vento, per il nuvolo, il sereno e ogni tempo | per il quale alle tue creature dà i sostegno. || Lodato sii, mio Signore, per sorella acqua, | che è molto utile, umile, preziosa e casta. || Lodato sii, mio Signore, per fratello fuoco, | per il quale illumini la notte, | ed egli è bello, giocoso, robusto e forte. || Lodato sii, mio Signore, per sorella nostra madre terra, | la quale ci sostenta e governa, | e produce diversi frutti, con fiori colorati e erba. || Lodato sii, mio Signore, per quelli che perdonano grazie al tuo amore, | e sostengono malattie e guai. | Beati quelli che sopporterranno in pace, | che da te, Altissimo, saranno ricompensati. || Lodato sii, mio Signore, per nostra sorella morte corporale, | dalla quale nessun uomo che viva può scappare. | Guai a quelli che morranno in peccato mortale; | beati quelli che troverà nelle tue santissime volontà; | che la seconda morte non gli farà male. || Lodate e bedicete il mio Signore e ringraziate, | e servitelo con grande umiltà. Amen]
    Fonti:
    http://it.answers.yahoo.com/question/ind…

     
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    "Supplica a mia madre" di Pasolini

    parafrasi

    Trovo difficile esprimere con parole di figlio
    il mio status sociale, al quale io nel mio cuore ben poco assomiglio.
    Tu sei la sola persona al mondo che conosce il mio cuore,
    ciò che esso è sempre stato e ciò che era prima di aprirsi ad altri amori.
    Per ciò devo dirti la brutta verità:
    la mia angoscia nasce dentro la tua affettività.
    Nonostante ciò sei insostituibile, anche se
    la mia vita, che tu mi hai dato, è condannata alla solitudine.
    Ma io non voglio restare solo, perché ho una vorace fame d'amore
    perché ho bisogno di amori di corpi carnali,
    mentre la mia anima è tutta in te, sei tu,
    ma tu sei mia madre e il tuo amore è la mia signoria:
    per ciò ho passato la mia infanzia succube di questo sentimento
    alto, irrimediabile, preso da questo amore immenso.
    Il tuo amore era l'unico modo per appassionarmi alla vita,
    era l'unica forma per amarla: ma ora questa schiavitù è finita.
    Sopravviviamo: e ciò che adesso rimane è la confusione
    di una vita rinata che non si spiega con la ragione.
    Ti supplico, ah ti supplico di restare ancora con me.
    Sono qui, solo con te sperando in un futuro aprile

     
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    l' analisi testuale e parafrasi della poesia "Novembre" di Pascoli

    Parafrasi
    L’aria è limpida e fredda come una gemma, il sole è così luminoso che si ricercano con lo sguardo gli albicocchi in fiore, sentendo nel cuore l’odore amarognolo del biancospino. Ma l’albero del biancospino è secco, le piante scheletrite lasciano una traccia nera nel cielo sereno, il cielo è deserto, e il terreno sembra vuoto e sordo al piede che lo calpesta. Intorno c’è silenzio, soltanto grazie ai colpi di vento, si sente lontano un fragile cadere di foglie, proveniente dai giardini e dagli orti. È la fredda estate dei morti.

    NELL'ANALISI DEL TESTO

    Nella lirica Novembre, il Pascoli affronta, ancora una volta, il tema angosciante della morte.
    La poesia si divide in tre strofe saffiche, divise in tre quartine, ciascuna formata da tre endecasillabi e un quinario.

    Nella prima quartina, il Pascoli descrive una giornata serena, dall’apparenza primaverile.
    L’aria quasi riluce sotto il “sole chiaro”, che ti invita a cercare con lo sguardo “gli albicocchi in fiore”, mentre l’odore del “prunalbo”, il biancospino, risulta “amaro”, ma non all’olfatto.
    E’, infatti, il “cuore” a subire l’azione dell’ “odorino” pungente, aspro, che diventa, quindi, quasi un preludio alla malinconia delle strofe successive.

    Difatti, nella seconda quartina, l’atmosfera quasi arcadica della prima si sfalda.
    Ci accorgiamo che “secco è il pruno”, e le piante, invece, sono “stecchite”.
    Persino il cielo, che ci era stato descritto come “gemmeo”, quindi terso, limpido, viene oscurato da questi rami che disegnano “nere trame” contro il suo azzurro.
    Inoltre, l’aggettivo “stecchite”, richiama alla mente l’idea di una mano adunca che si protende verso il sereno, tentando di afferrarlo.
    Uno scheletro, unico dipinto sul cielo “vuoto”, privo di vita, quasi fosse la mano della morte quella che si mostra sottoforma di ramo e cancelli ogni essere vivente attorno a sé.
    ”Cavo” è anche il terreno, contro cui batte il piede “sonante”.
    Ulteriore richiamo alla vacuità della gioia, della serenità; potrebbe anche essere un accenno al luogo in cui è ambientato il componimento.
    Tutto, infatti, può portare a pensare allo sfondo di un cimitero, in cui il Pascoli si aggira in occasione del mese di Novembre che è, appunto, il mese dei morti.
    Il terreno cavo sotto i passi del poeta, può simboleggiare tanto il senso di solitudine, quanto il camminare su una tomba che, appunto, crea una cavità nel terreno.

    La lirica prosegue nella terza ed ultima quartina, che si apre con l’immagine, se tale si può definire, del silenzio.
    Il separarlo con un semplice segno di punteggiatura, la virgola, dal luogo in cui si propaga (“intorno”) questo non-suono, rende l’effetto della parola ancora più immediato.
    Il silenzio circonda i presenti, non si ode alcun suono: solo quello del “cader fragile” di foglie, portato dal vento.
    Tuttavia, questo lieve rumore, che richiama alla mente la caducità della vita, viene da lontano.
    Per la precisione, da “giardini ed orti”, i cui semplici nomi evocano il paesaggio rigoglioso della prima strofa.
    Ritorna il clima primaverile, vitale, ma esso è oscurato proprio dalla sua stessa presenza.
    Le foglie degli orti e dei giardini non sono più verdi, non ci sono fiori.
    Sono caduche, segno che l’autunno è ormai arrivato e che l’estate è finita e, con essa, anche la felicità e la speranza.
    Il componimento si conclude con la collocazione temporale dello stesso: l’undici Novembre, conosciuto anche come l’estate di S. Martino, per le temperature ancora miti che presenta.
    Tuttavia, l’estate è “fredda”, proprio come i morti che sono simbolo di quel mese, palesato dal titolo, ma che impregna, con la sua atmosfera gelida, tutta la poesia.

    L’uso continuo di enjambement, allitterazioni (Es: “secco-stecchite-segnano-sereno” vs 5-6), sinsestesie, (“odi di foglie un cader fragile” vs 10-11, che mette in risalto l’impianto uditivo e tattile), ed ossimori (“estate fredda” vs 11-12), percorre tutta la poesia, mettendone in rilievo le parole chiave.
    Il componimento si snoda in un continuo allacciarsi di odori, colori e sensazioni.
    L’ “odorino amaro” del verso tre, crea un particolare contrasto tra il suffisso vezzeggiativo “-ino” e l’aggettivo “amaro”, mentre il “vuoto” del cielo, si collega al “cavo” del terreno, quasi a simboleggiare come l’elemento spirituale e quello materiale restino uniti e galleggino nella stessa assenza.
    Perfino il “chiaro” del sole, sembra gelare l’aria ed entra, quindi, a far parte di quella simbologia pascoliana che, da sempre, richiama al freddo della morte.
    ”Novembre” è, di conseguenza, un inno alla giovinezza perduta, all’infanzia spezzata dalla tragedia familiare che ha colpito il poeta in giovane età.
    Non vi è la presenza confortante del nido e della madre, come in “Il tuono” (“soave allora un canto/ s’udì di madre, e il moto di una culla.”), né della nebbia che nasconde la dolorosa realtà dietro il suo



    parafrasi del" il duello tra ettore e achille" scritto da omero

    Quando si trovarono uno di fronte all’altro, Ettore dall’elmo scintillante parlò ad Achille per primo:
    “Non fuggirò più di fronte a te, Achille, come adesso così successe per ben tre volte che di fronte alle mura di *****, non riuscii a difendermi dal tuo attacco; adesso il mio animo mi sprona
    a non fuggire più, qualunque sia la mia sorte. Ci rivolgiamo agli dei: perché essi saranno i migliori testimoni e conservatori degli accordi; io non intendo portarti disonore, se grazie all’aiuto di Zeus
    riuscirò a toglierti la vita; quando, Achille, ti avrò rimosso le tue gloriose armi, restituirò il tuo corpo agli Achei: e anche tu farai così”. Ma Achille guardandolo minacciosamente disse: “Ettore, o tremendo, non scenderò a patti con te: come non vi è alcuna alleanza tra uomini e leoni, e tra lupi e agnelli, i quali non sono mai in accordo, ma si detestano ininterrottamente, così non potrà mai succedere che noi ci vogliamo bene; fra di noi non ci saranno patti, il primo che morirà appagherà Ares con il sangue del nemico. Ricordati che ora devi essere perfetto nell’usare l’asta e veloce nel combattere, senza commettere errori! Ormai non puoi più sfuggire al tuo destino, gli dei hanno già deciso e Atena ti ucciderà per mezzo della mia lancia: sconterai tutto il dolore che hai portato al mio popolo”. Mentre parlò Achille scagliò l’asta contro Ettore; ma egli vedendola prima riesce ad evitarla: si abbassò e l’asta lo schivò, conficcandosi nel terreno; ma Atena, senza essere vista da Ettore, la ripose nelle mani di Achille. A quel punto Ettore disse ad Achille: “La tua mira non ha avuto un esito positivo! Allora in realtà tu non sapevi quello che mi sarebbe successo, Zeus non vuole la mia morte. Eppure tu lo hai dichiarato. Eri molto abile nel parlare, ma l’hai detto perché volevi che io mi scoraggiassi. No, non fuggirò di fronte al tuo attacco, ma ti affronterò a viso aperto, se mi vorrai uccidere, lo dovrai fare mentre ti attacco, se un dio ti aiuterà. Intanto cerca di evitare questa lancia che sto per scagliarti e spero che ti entri nel corpo. Certamente se riuscissi ad ucciderti la guerra risulterebbe molto più facile per i Teucri, perché tu sei il più grande problema” Mentre parlò, bilanciò l’asta e la scagliò ma centrò lo scudo di Achille, non fallì il colpo; ma l’asta rimbalzò cadendo per terra; Ettore si innervosì, perché il suo lancio fu inutile, e preso dallo sconforto, perché non aveva più lance; chiamò il fratello Deifobo, perché gli passasse un’altra lancia: ma egli non gli era più vicino. Allora Ettore capì il suo destino interpretato dal fato e gridò: “Ahi! Adesso non ho più alcun dubbio, gli dei hanno decretato la mia morte. Pensavo di aver vicino Deifobo, ma egli è all’interno di *****, Atena mi ha imbrogliato. Il mio destino è di dover morire, tutto questo era già stato stabilito da Zeus e da suo figlio, Apollo, che adesso mi sono nemici però un tempo
    furono benevoli nei miei confronti. Ormai la morte mi ha raggiunto. So che devo morire, ma non mi ritirerò, lotterò fino all’ultimo perché io possa morire gloriosamente così che i miei posteri mi possano stimare”.
    E mentre parlava così, estrasse la spada, che gli pendeva da dietro al fianco, grande e pesante, e partì di scatto all’attacco, come un’aquila che piomba verso la pianura, attraversando le nuvole buie, per uccidere un giovane agnello o una lepre: in tal modo scattò Ettore, agitando la spada acuminata.
    Ma anche Achille scattò all’attacco, con il cuore selvaggio carico di collera: pose davanti a sé lo scudo bello, decorato, scuotendo la chioma lucente, che Efesto aveva creato fitta attorno al cimiero.
    Come la stella procede tra i vari astri durante la notte, Espero, l’astro più lucente del cielo. Così luceva la spada del glorioso Achille nella sua mano destra, riflettendo intensamente come poter uccidere Ettore, cercando con gli occhi un punto del suo corpo che fosse scoperto dall’armatura. Le armi bronzee ricoprivano tutto il corpo di Ettore, colui che uccise Patroclo; ma vi era una fessura dove le clavicole dividono le spalle dalla gola e dal collo, e quello è un punto di rapida morte.
    Qui Achille lo colpì, la punta dell’asta passò attraverso il morbido collo di Ettore, però non gli tagliò le corde vocali così che Ettore riuscisse a parlare. Achille si vantò: “Ettore, mentre spogliavi Patroclo delle sue armi credevi forse di poter sfuggire da me, che ti ero lontano! Ma io rimanevo suo difensore sulle navi. Ora cani e uccelli ti sbraneranno: ma lui seppelliranno gli Achei”.
    Senza più forze Ettore gli rispose: “Ti prego per la tua vita, per le ginocchia, per i tuoi genitori, non lasciare che venga sbranato dai cani degli Achei, ma accetta oro e bronzo senza fine, i doni che ti verranno dati da mio padre e dalla mia nobile madre: rendi il mio corpo alla mia patria, perché il mio corpo possa essere bruciato”.
    Ma guardandolo bieco, Achille disse: “No, cane, non mi pregare per nessun motivo; che la rabbia e il furore mi spingano a tagliuzzare le tue carni e a divorarle per quello che u hai compiuto: nessuno allontanerà dal tue corpo le cagne, per nessun motivo, nemmeno se Priamo offrirà tanto oro quanto pesi. Così la tua nobile madre non potrà piangere sul tuo letto, perché così i cani e gli uccelli ti sbraneranno. Rispose così Ettore: “Va, ti conosco! Non potevo persuaderti perché tu hai il cuore di ferro, che non prova passione. Bada però che la mia morte non ti porti l’odio degli dei; quel giorno che Paride, guidato da Apollo, ti ucciderà, tu ancora coraggioso, sopra le porte Scee”.
    Mentre parlava morì Ettore: il suo spirito volò via e scese nell’Ade, rimpiangendo la giovinezza e il vigore.
    Rispose al cadavere Achille illustre: “A muori! Anch’io dovrò morire quando gli di lo vorranno!”
    Disse e tolse al morto le armi insanguinate dopo aver strappato l’asta, accorsero gli altri ammirando la statua e la bellezza stupenda di Ettore, e nessuno si avvicinò senza martoriare e colpire il cadavere dell’eroe.
    E così diceva qualche infido volto al vicino: “ Davvero, è più morbida la carne d’Ettore, di quando appiccò fuoco alle nostre navi”.

     
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    parafrasi della poesia "i Fiumi" di ungaretti

    Mi tengo a quest'albero spezzato, isolato e abbandonato dal consorzio umano, in questa dolina, che è priva di vitalità come un circo nel momento precedente e successivo allo spettacolo, e osservo le nuvole che passano sulla luna. Questa mattina mi sono disteso sull'acqua, quasi fossi in un'urna, e ho riposato come una reliquia. Le acque dell'Isonzo mi levigavano come se fossi un sasso. Mi sono alzato e me ne sono andato come un acrobata che cammina sull'acqua. Mi sono seduto vicino alle mie vesti sporche per la guerra, e come un beduino mi sono chinato a prendere il sole. Questo fiume è l'Isonzo, e qui meglio ho potuto vivere l'esperienza di sentirmi in comunicazione con la natura, come una docile fibra dell'universo. La mia sofferenza è causata dal non sentirmi in armonia con ciò che mi circonda. Ma quelle mani nascoste nell'Isonzo che mi stringono nell'acqua, mi regalano una felicità che è rara a trovarsi. Ho ritrascorso le età della mia vita. Questi sono i miei fiumi. Questo è un Serchio, al quale hanno attinto forse per duemila anni i miei antenati campagnoli e i miei genitori. Questo è il Nilo, vicino al quale sono nato e cresciuto, inconsapevole del mio destino, trascorrendo la mia fanciullezza nelle estese pianure. Questa è la Senna, e in quella sua acqua fangosa mi sono rimescolato acquisendo la consapevolezza di me stesso. Questi sono i miei fiumi che confluiscono nell'Isonzo, ma che sono distinguibili gli uni dagli altri. Questa è la mia nostalgia, che traspare dal ricordo di ognuno di loro, ora che è notte, e che la mia vita mi sembra un fiore (l'essenza del fiore) circondato dalle tenebre.



    Il primo tema è il recupero del passato attraverso la memoria e il secondo tema è il ristabilimento di un rapporto di armonia con il creato, che l’esperienza della guerra sembra aver infranto. Bagnandosi nelle acque dell’Isonzo, il poeta ha la sensazione di essere in piena sintonia con l’universo e con sé stesso. Ciò l'induce a ripensare a tutti i fiumi che ha conosciuto, simbolo delle diverse tappe della sua vita: il Serchio, legato alle vicende dei suoi avi, il Nilo, che lo ha visto crescere negli anni della fervida giovinezza egiziana, La Senna, che ha accompagnato la sua maturazione durante il periodo parigino.
    Nella prima parte della poesia il poeta descrive sè stesso immerso nella sua condizione esterna, ambientale, presso una dolina. Quindi descrive il suo stato d’animo di reduce dalla guerra. Disteso nel letto del fiume Isonzo si sente come una reliquia, un frammento superstite – e pertanto maggiormente prezioso – di un resto mortale, si sente come uno dei sassi levigati su cui cammina con movenze d'acrobata, sotto il sole, il cui calore benefico riceve con la stessa familiarità di un beduino.
    Ora affidato alle “mani” amorevoli dell’Isonzo il poeta si riconosce parte dell’universo, cosciente che il suo rammarico è frutto sempre di una disarmonia con il creato. Le acque del fiume lo lavano e lo purificano e gli danno una rara innocente felicità. Ungaretti rammenta i fiumi che hanno accompagnato la sua vita. Il Serchio, fiume della toscana, dove ha attinto l’acqua la sua stirpe. Il Nilo, che lo ha visto nascere e crescere adolescente. La Senna, il fiume di Parigi, dove il poeta ha conosciuto se stesso. Il ricordo di questi fiumi affolla la memoria nostalgica dell'uomo, ora che la sua vita è oscura e che sembra una collana di tenebre, perché «le tenebre della notte evocano l’immagine di una vita piena di incognite, racchiusa in un cerchio oscuro di timori e di presagi di morte.

     
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    Parafrasi della poesia " I ricordi " di Giuseppe Ungaretti

    Il poeta in una sera del lontano giugno 1912 lascia la sua terra, portando nel cuore il canto interminabile delle cicale che assorda e rode dentro come una "lima". E dalla bianca nave che lo porta verso l’Italia, vede a poco a poco sparire, come in un abbraccio d’addio, le luci della città a lui tanto cara anche a causa della foschia prodotta dal caldo.

    La lirica è suddivisa in quattro strofe anche se non regolari come struttura. I versi della poesia sono liberi e esiste una sola rima: momento–bastimento.

    Il ricordo della città natale Alessandria per sempre persa e per sempre ritrovata per via di poesia, è l’espressione di un ritorno nostalgico verso una città sospesa in una solarità radiosa che il poeta ha lasciato una sera d’estate, vedendola sparire come in un ultimo abbraccio di luci.

    In effetti, i tempi verbali che compongono le quattro parti della lirica (presente/passato prossimo/imperfetto/passato prossimo) sottolineano il distacco del poeta dalla città natale ma anche i ricordi e le emozioni che quella città suscita nel suo cuore. Il mondo del poeta è fatto di silenzio, silenzio che lo fa riflettere e gli fa "ritrovare", nei ricordi, la città in cui nacque.

     
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    PARAFRASI-''L'ASTUZIA DI MELCHISEDECH"Boccaccio

    Narratore di 1° grado: Boccaccio
    Narratore di 2° grado: Filomena
    Narratore di 3° grado: Melchisedech
    Tema centrale: l'astuzia
    Schema narrativo:
    Saladino ha bisogno di soldi e decide di chiederli in prestito a Melchisedech, un usuraio, ma prima vuole metterlo alla prova e lo manda a chiamare.

    Saladino mette in atto il suo trabocchetto(domanda sulle tre fedi religiose)

    Melchisedech trova subito l'ambiguità e per aggirare il trabocchetto racconta la novella dei tre fratelli e dei tre anelli; paragonando la conclusione alla questione a lui posta.

    Saladino capisce che Melchsedech è un uomo saggio e gli confida i suoi progetti facendosi prestare i soldi senza alcun timore e diventando suo grande amico.

    Personaggi ed ideologia mercantile:
    Il personaggio principale di questa prima novella è Melchisedech: un usuraio arabo al quale Saladino si rivolge per ottenere un prestito. Egli, messo alla prova, si dimostra uomo molto saggio ed accorto, quindi possiamo dedurre, anche in questo caso, che le suddette caratteristiche erano peculiarità dei mercanti dell'epoca i quali, senza di esse, non avrebbero certo costruire il loro impero commerciale perché sarebbero stati prede di raggiri clamorosi e avrebbero perso stoltamente il loro denaro finendo nella miseria.
    L'altro personaggio della novella è Saldino, il gran re di Persia che, dovendo chiedere soldi a Melchisedech, vuole anche verificare la sua validità come "mercante", quindi gli tende un trabocchetto costruito a regola d'arte, e, proprio da questo, possiamo capire la saggezza del sovrano che non vuole correre rischi personali e non vuole farli correre nemmeno al suo popolo.

    Spazio e tempo:
    Non si notano nella novella riferimenti ambientali fissi o descrizioni di luoghi. L'unico elemento che può aiutarci a stabilire il luogo dove si svolge l'incontro tra i due è il riferimento alla chiamata di Melchisedech, che viene da Alessandria d'Egitto, da parte di Saladino, quindi si può dire con una certa sicurezza che il fatto narrato si svolge nel palazzo del re siariano, che si trovava nella capitale del regno. Anche per quanto riguarda il tempo la definizione è incerta, ma è possibile dedurre che la vicenda si svolge tra il 1174 e il 1193, periodo in cui Saladino dominò la Siria.

     
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    parafrasi di Sopra un bassorilievo antico ...LEOPARDI

    Dove vai, bellissima fanciulla? Chi ti chiama lontano dai tuoi cari? Abbandoni tu sola, allontanandoti, la cara casa così prima del tempo? Ritornerai nel mondo dei vivi? Tu farai felici un giorno costoro, che ora ti stanno intorno piangendoti?
    Con gli occhi asciutti e con uno sguardo coraggioso, tu pur tuttavia sei mesta. Se la strada sia piacevole o dispiacevole, se il rifugio nel quale tu vai, sia triste o allegro, dal grave aspetto si indovina con difficoltà. Io da solo non posso stabilire con certezza, né al mondo si è riusciti ancora a capire, se tu debba essere considerata caduta in disgrazia o cara al cielo, se tu debba essere considerata misera o fortunata.
    La morte ti chiama; quando stavi per sbocciare ecco che è giunto l’ultimo istante. Non tornerai più alla casa dalla quale esci. Non vedrai più la vista dei tuoi cari genitori. Il luogo dove tu vai è sottoterra e il tuo soggiorno là sarà in eterno. Forse tu sarai beata; ma se qualcuno guarda, e pensa tra sé e sé, al tuo destino, sospira di commiserazione e di dolore.
    La miglior cosa sarebbe stata, credo, non nascere mai. Ma una volta nati, tutto si dilegua quando la bellezza si dispiega nel corpo e nel volto regalmente, quando la gente si inchina verso la fanciullezza; quando spunta ogni speranza, e prima che la triste realtà scagli le sue disgrazie alle festose fronti della fanciullezza; come una nuvoletta sotto forme labili, formatasi all’orizzonte, si dilegua rapidamente, così tu sei dileguata rapidamente, quasi se fossi non nata, e tanto fulmineamente i tuoi giorni futuri si cambiarono nei cupi silenzi della tomba. Se tutto questo è vero per l’intelletto, tanto che porterebbe logicamente al suicidio, altrettanto è doloroso per il cuore, che viene invaso da profondo dolore, ma fa desistere dal suicidio.
    Madre, tu sei temuta e pianta da tutti gli esseri viventi fin dal loro nascere. Natura, non laudabile meraviglia, tu sei quella che dai la luce e nutri per uccidere; se il morire prematuro è dannoso agli uomini perché permetti che ciò accada per i giovani innocenti? Se il morire prematuro è un bene, perché è funesto, perché libera da ogni male, perché fai diventare la morte così dolorosa e straziante?
    Questa umanità sensibile è misera ovunque guarda, ovunque si volga, ovunque chieda soccorso. Ti piacque, o Natura, che le speranze giovanili fossero deluse e disattese anche dalla vita; ti piacque che la fuga del tempo fosse piena d’affanni; ti piacque che la morte fosse l’unica difesa ai mali: e hai posto la morte come limite insuperabile, come legge immutabile della vita umana. Ahi perché dopo le disgrazie della vita, tu natura, almeno potevi prescriverci una morte più lieta? Anzi perché velare di neri panni colei, che noi portiamo sempre nella nostra anima, vivendo, certi della sua futura presenza? Anzi perché cingerci di animo così triste? Perché farci vedere il momento della morte più spaventoso di tutte le disgrazie della vita?
    Ora dal momento che morire è sventura, ora che tu destini a noi mortali, che siamo ignari e senza colpa, la morte e che ci abbandoni alla via, senza nostra volontà, allora chi muore ha una invidiabile sorte, rispetto a colui che prova il dolore per il suo scomparso. Se tutto questo è vero, come io ritengo che sia vero, se il vivere è sfortuna, se il morire è fortuna, chi può desiderare la morte dei suoi più cari, per vedere lui rimanere solo, per vedere dalla porta di casa la partenza della sua persona amata, con la quale ha passato molti anni insieme per dire a lei addio e certa che non la potrà incontrare ancora nella vita terrena; poi rimasto solo e abbandonato sulla terra, guardandosi attorno a ricordare la persona scomparsa nel tempo e nei luoghi noti? Come, ahi come natura hai il coraggio di strappare dalle braccia l’amico all’amico, il fratello al fratello, il figlio al padre, l’amato all’amante e hai il coraggio di conservare uno morto e l’atro vivo? Come hai potuto far sì che noi mortali portassimo dentro tanto dolore, tale che il mortale sopravviva ad esso e, nonostante esso, continui ad amare il mortale? Ma la natura nelle sue mire ha ben altro che curarsi o del nostro male o del nostro bene.

     
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