PARAFRASI

tutte quelle che servono sono qui!!!

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  1. Lussy60
     
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    parafrasi: il pianto di Odisseo

    Al Tridentier dalle cerulee chiome,
    "Non ricercar da me. Triste son quelle
    Malleverìe che dànnosi pe’ tristi.
    Come legarti agl’Immortali in faccia
    Potrei, se Marte, de’ suoi lacci sciolto,
    Del debito, fuggendo, anco s’affranca?"

    questo rispose Vulcano al dio col tridente, dalle chiome bionde "Non chiedere a me. Sono triste le promesse che si fannoa i tristi. Come potrei obbligarti, davanti agli dei, a fare qualcosa se anche Marte, fuggendo dai suoi impegni, se ne libera?"

    "Io ti satisfarò", riprese il nume
    Che la terra circonda, e fa tremarla.
    E il divin d’ambo i piè zoppo ingegnoso:
    "Bello non fôra il ricusar, né lice".
    Disse, e d’un sol suo tocco i lacci infranse.

    "Io ti soddisferò" riprese il dio che circonda la terra con il suo mare e la fa tremare. E il dio zoppo e furbo rispose: " Non sarebbe ebello rifiutare, nè sarebbe possibile" e con un solo tocco spezza le corde.

    Come liberi fûr, saltaro in piede,
    E Marte in Tracia corse, ma la diva
    Del riso amica, riparando a Cipri
    In Pafo si fermò, dove a lei sacro
    Frondeggia un bosco, ed un altar vapora.
    Qui le Grazie lavaro, e del fragrante
    Olio, che la beltà cresce de’ numi,
    Unsero a lei le delicate membra:
    Poi così la vestir, che meraviglia
    Non men che la dea stessa, era il suo manto.

    Non appena i piedi furono liberi Marte saltò in piedi e corse in Tracia, ma la deaa mica del sorriso (Venere), mentre andava a Cipro, si fermò a Pafo, dove c'è un bosco a lei sacro e un altare che fuma (per le offerte). Qui le Grazie la lavarono e la unsero di olio profumato, che accresce la bellezza delle divinità: poi la vestirono in modo tale che sembrava il mantello era meraviglioso quanto la dea stessa.

    Tal cantava Demodoco; ed Ulisse
    E que’ remigator forti, que’ chiari
    Navigatori, di piacere, udendo,
    Le vene ricercar sentìansi, e l’ossa.

    Così cantava Demodoco; e Ulisse, insieme a quei forti rematori, quei navogatori famosi, si sentivano le vene e le ossa fremere di piacere.

    Ma di Laodamante e d’Alio soli,
    Ché gareggiar con loro altri non osa,
    Ad Alcinoo mirar la danza piacque.
    Nelle man tosto la leggiadra palla
    Si recaro, che ad essi avea l’industre
    Polibo fatta, e colorata in rosso.
    L’un la palla gittava in vêr le fosche
    Nubi, curvato indietro; e l’altro, un salto
    Spiccando, riceveala, ed al compagno
    La rispingea senza fatica o sforzo,
    Pria che di nuovo il suol col piè toccasse.

    Ma ad Alcinoo piacque vedere gareggiare Laodamante e Alio, da soli perchè nessuno osava combattere con loro. velocemente presero in mano la palla, che l'ingegnoso Polibo aveva costruito per loro e colorato di rosso. Uno lanciva la palla verso le nuvole scure, curvandosi indietro; e l'altro, spiccando un salto, la recuperava e la lanciava senza nessunos forzo al compagno ancora priam che toccasse il suolo.

    Gittata in alto la vermiglia palla,
    La nutrice di molti amica terra
    Co’ dotti piedi cominciaro a battere,
    A far volte e rivolte alterne e rapide,
    Mentre lor s’applaudìa dagli altri giovani
    Nel circo, e acute al ciel grida s’alzavano.

    Lanciata in alto al palla rossa, cominciarono a battere i piedi in terra, che ha allevato molti, e a fare giravolte rapide mentre gli altri giovani li applaudivano nell'arena e in cielo si alzavano alte grida

    Così ad Alcinoo l’Itacese allora:
    "O de’ mortali il più famoso e grande,
    Mi promettesti danzatori egregi,
    E ingannato non m’hai. Chi può mirarli
    Senza inarcar dello stupor le ciglia?"

    Allora il re di Itaca disse ad Alcinoo:"O tu che sei fra i re il più grande e famoso, mi hai promesso danzatori egregi, e non hai mentito. Chi può guardarli senza rimanere stupito?

    Gioì d’Alcinoo la sacrata possa,
    E ai Feaci rivolto: "Udite", disse,
    "Voi che per sangue e merto i primi siete.
    Saggio assai parmi il forestiero, e degno
    Che di ricchi l’orniam doni ospitali.
    Dodici reggon questa gente illustri
    Capi, e tra loro io tredicesmo siedo.
    Tunica, e manto, ed un talento d’oro
    Presentiamgli ciascuno, e tosto, e a un tempo,
    Ond’ei, così donato, alla mia cena,
    Con più gioia nel cor vegna e s’assida.
    Eurìalo, che il ferì d’acerbi motti
    Co’ doni, e in un con le parole, il plachi".

    I commensali di Alcinoo gioirono e il re disse rivolto ai Feaci: " Ascoltate, voi che siete per stirpe e per merito i più illustri. Mi sembra molto saggio il forestiero, e degno di ricevere ricchi doni, coem si conviene ad un ospite. Dodici capi governano questa gente nobile e io sono il tredicesimo. Ognuno di noi gli dia una tunica, un mantello e un talento d'oro, subito, e tutti insieme, affinchè, così adornato, venga gioioso alla mia cena e si sieda fra noi. eurialo, che lo ha ferito con parole brusche si faccia perdonare con dei doni e con parole di scusa"

    Assenso diè ciascuno, e un banditore
    Mandò pe’ doni, e così Eurìalo: "Alcinoo,
    Il più famoso de’ mortali e grande,
    L’ospite io placherò, come tu imponi.
    Gli offrirò questa di temprato rame
    Fedele spada che d’argento ha l’elsa,
    La vagina d’avorio: e fu l’avorio
    Tagliato dall’artefice di fresco.
    Non l’avrà, io penso, il forestier a sdegno".

    tutti acconsentirono e mandarono ciscuno un servo con i doni, e così fece Eurialo: "alcinno, re grande e famoso, io calmerò l'ospite, coem tu mi ordini. Gli offrirò questa spada di rame temprata, che ha l'elsa d'argento eil fodero d'avorio: e l'avorio fu tagliato al momento dall'artigiano. Creo che il forestiero non ne sarà offeso"

    Ciò detto, a Ulisse in man la spada pose
    Con tali accenti: "Ospite padre, salve.
    Se dura fu profferta e incauta voce,
    Prendala, e seco il turbine la porti.
    E a te della tua donna e degli amici,
    Donde lungi, e tra i guai, gran tempo vivi,
    Giove conceda i desïati aspetti".

    Detto questo mise la spada in mano ad Ulisse e gli aprò così: "Ospite, benvenuto. Se ti ho parlato in modo brusco ed incauto, mi scuso,e che il vento si porti mia la mia voce. e Giove conceda a te, di rivedere tua moglie e i tuoi amici, dai quali vivi separato da molto tempo, tra mille guai"

    "Salve", gli replicò subito Ulisse,
    "Amico, e tu. Gli abitator d’Olimpo
    Dìanti felici dì: né mai nel petto
    Per volger d’anni uopo o desir ti nasca
    Di questa spada ch’io da te ricevo,
    Benché placato già sol da’ tuoi detti".
    Tacque; e il buon brando agli omeri sospese.
    Già declinava il Sole, e innanzi a Ulisse
    Stavano i doni.

    "Benvenuto, amico" gli rispose subito Ulisse A te gli dei concedano giorni felici: nè mai, nel corso degli anni, ti venga voglia di riavere questa spada che mi doni, anche se ormai ho già perdonato le tue parole" Tacque e appese la spada sulle spalle. Il sole già tramontava e i doni stavano davanti ad Ulisse.



    Odissea libro ottavo


    Ma tosto che rosata ambo le palme, Comparve in ciel l'aggiornatrice Aurora, Surse di letto la sacrata possa Del magnanimo Alcinoo, e il divin surse Rovesciator delle cittadi Ulisse. La possanza d'Alcinoo al parlamento, Che i Feaci tenean presso le navi, Prima d'ogni altro mosse. A mano a mano Venìano i Feacesi, e su polite Pietre sedeansi. L'occhiglauca diva, Cui d'Ulisse il ritorno in mente stava, Tolte del regio banditor le forme, Qua e là s'avvolgea per la cittade, E appressava ciascuno, e: «Su», dicea, «Su, prenci e condottieri, al foro, al foro, Se udir vi cal dello stranier che giunse Ad Alcinoo testé per molto mare, E assai più, che dell'uom, del nume ha in viso». Disse, e tutti eccitò. Della raccolta Gente fûro in brev'ora i seggi pieni. Ciascun guardava con le ciglìa in arco Di Laerte il figliuol: ché a lui Minerva Sovra il capo diffuse e su le spalle Divina grazia, ed in grandezza e in fiore Crebbelo, e in gagliardìa, perch'ei ne' petti Destar potesse riverenza e affetto, E de' nobili giuochi, ove chiamato Fosse a dar di sé prova, uscir con vanto. Concorsi tutti, e in una massa uniti, Tra loro arringò Alcinoo in questa guisa: «O condottieri de' Feaci, e prenci, Ciò che il cor dirvi mi comanda, udite. Questo a me ignoto forestier, che venne Ramingo, e ignoro ancor se donde il Sole Nasce, o donde tramonta, ai tetti miei Scorta dimanda pel viaggio, e prega Gli sia ratto concessa. Or noi l'usanza Non seguirem con lui? Uomo, il sapete, Ai tetti miei non capitò, che mesto Languir dovesse sovra queste piagge, Per difetto di scorta, i giorni e i mesi. Traggasi adunque nel profondo mare Legno dall'onde non battuto ancora, E s'eleggan cinquanta e due garzoni Tra il popol tutto, gli ottimi. Costoro, Varato il legno, e avvinti ai banchi i remi, Subite e laute ad apprestar m'andranno Mense, che a tutti oggi imbandite io voglio. Ma quei che di bastone ornan la mano, L'ospite nuovo ad onorar con meco Vengano ad una; e il banditor mi chiami L'immortale Demodoco, a cui Giove Spira sempre de' canti il più soave, Dovunque l'estro, che l'infiamma, il porti». Detto, si mise in via. Tutti i scettrati Seguìanlo ad una, e all'immortal cantore L'araldo indirizzavasi. I cinquanta Garzoni e due, come il re imposto avea, Fûro del mar non seminato al lido; La nave negra nel profondo mare Trassero, alzâro l'albero e la vela. I lunghi remi assicurâr con forti Lacci di pelle, a maraviglia il tutto, E, le candide vele al vento aperte, Arrestaro nell'alta onda la nave: Poscia d'Alcinoo ritrovar l'albergo. Già i portici s'empiean, s'empieano i chiostri, Non che ogni stanza, della varia gente, Che s'accogliea, bionde e canute teste, Una turba infinita. Il re quel giorno Diede al sacro coltel dodici agnelle, Otto corpi di verri ai bianchi denti, E due di tori dalle torte corna. Gli scoiâr, gli acconciâr, ne apparecchiaro Convito invidïabile. L'araldo Ritorno feo, per man guidando il vate, Cui la Musa portava immenso amore, Benché il ben gli temprasse e il male insieme. Degli occhi il vedovò, ma del più dolce Canto arricchillo. Il banditor nel mezzo Sedia d'argento borchiettata a lui Pose, e l'affisse ad una gran colonna: Poi la cetra vocale a un aureo chiodo Gli appese sovra il capo, ed insegnògli, Come a staccar con mano indi l'avesse. Ciò fatto, un desco gli distese avanti Con panier sopra, e una capace tazza, Ond'ei, qual volta nel pungea desìo, Del vermiglio licor scaldasse il petto. Come la fame rintuzzata, e spenta Fu la sete in ciascun, l'egregio vate, Che già tutta sentìasi in cor la Musa, De' forti il pregio a risonar si volse, Sciogliendo un canto, di cui sino al cielo Salse in que' dì la fama. Era l'antica Tenzon d'Ulisse e del Pelìade Achille, Quando di acerbi detti ad un solenne Convito sacro si ferîro entrambi. Il re de' prodi Agamennòn gioìa Tacitamente in sé, visti a contesa Venire i primi degli Achei: ché questo Della caduta d'Ilio era il segnale. Tanto da Febo nella sacra Pito, Varcato appena della soglia il marmo, Predirsi allora udì, che di que' mali, Che sovra i Teucri, per voler di Giove, Rovesciarsi doveano, e su gli Achivi, Si cominciava a dispiegar la tela. A tai memorie il Laerziade, preso L'ampio ad ambe le man purpureo manto, Sel trasse in testa, e il nobil volto ascose, Vergognando che lagrime i Feaci Vedesserlo stillar sotto le ciglia. Tacque il cantor divino; ed ei, rasciutte Le guancie in fretta, dalla testa il manto Si tolse, e, dato a una ritonda coppa Di piglio, libò ai numi. I Feacesi Cui gioia erano i carmi, a ripigliarli Il poeta eccitavano, che aprìa Novamente le labbra; e novamente Coprirsi il volto e lagrimare Ulisse. Così, gocciando lagrime, da tutti Celossi. Alcinoo sol di lui s'avvide, E l'adocchiò, sedendogli da presso, Oltre che forte sospirare udillo; E più non aspettando: «Udite», disse, «Della Feacia condottieri e prenci. Già del comun convito, e dell'amica De' conviti solenni arguta cetra Godemmo. Usciamo, e ne' diversi giuochi Proviamci, perché l'ospite, com'aggia Rimesso il piè nelle paterne case, Narri agli amici, che l'udranno attenti, Quanto al cesto e alla lotta, e al salto e al corso, Cede a noi, vaglia il vero, ogni altra gente». Disse, ed entrò in cammino; e i prenci insieme Seguìanlo. Ma l'araldo, alla caviglia Rïappiccata la sonante cetra, Prese il cantor per mano, e fuor del tetto Menollo: indi guidavalo per quella Strada, in cui posto erasi Alcinoo e i capi. Movean questi veloce al Foro il piede, E gente innumerabile ad un corpo Lor tenea dietro. Ed ecco sorger molta, Per cimentarsi, gioventù forzuta. Sorse Acroneo ed Ocìalo. Eleatrèo sorse, E Nauteo e Prìmneo e Anchìalo: levossi Eretméo ancor, Pontèo, Proto, Toòne, Non che Anabesinèo, non che Anfiàlo, Di Polinèo Tectonide la prole, E non ch'Eurìalo all'omicida Marte Somigliante, e Naubòlide, che tutti, Ma dopo il senza neo Laodamante, Vincea di corpo e di beltà. Né assisi I tre restâr figli d'Alcinoo: desso Laodamante, Alio, che al Rege nacque Secondo, e Clitonèo pari ad un nume. Del corso fu la prima gara. Un lungo Spazio stendeasi alla carriera; e tutti Dalle mosse volavano in un groppo Densi globi di polvere levando. Avanzò gli altri Clitonèo, che, giunto Della carriera al fin, lasciolli indietro Quell'intervallo che i gagliardi muli I tardi lascian corpulenti buoi, Se lo stesso noval fendono a un'ora. Succedé al corso l'ostinata lotta, Ed Eurìalo prevalse. Il maggior salto Anfiàlo spiccollo, e il disco lunge Non iscagliò nessun, com'Elatrèo. Laodamante, il real figlio egregio, Nel pùgile severo ebbe la palma. Fine al diletto de' certami posto, Parlò tra lor Laodamante: «Amici, Su via, l'estraneo domandiam di queste Prove, se alcuna in gioventù ne apprese. Di buon taglio e' mi sembra; e, dove ai fianchi, Dove alle gambe, e delle mani ai dossi Guárdisi, e al fermo collo, una robusta Natura io veggio, e non mi par che ancora Degli anni verdi l'abbandoni il nerbo. Ma il fransero i disagi all'onde in grembo: Ché non è, quanto il mar, siccome io credo, Per isconfigger l'uom, benché assai forte». «Laodamante, il tuo parlar fu bello», Eurìalo rispondea. «Però l'abborda Tu stesso, e il tenta; e a fuori uscir l'invita». Come d'Alcinoo l'incolpabil figlio Questo ebbe udito, si fe' innanzi, e stando Nel mezzo: «Orsù, gli disse, ospite padre, Tu ancor ne' giochi le tue forze assaggia, Se alcun mai ne apparasti a' giorni tuoi, E degno è ben che non ten mostri ignaro: Quando io non so per l'uom gloria maggiore Che del piè con prodezza e della mano, Mentre in vita riman, poter valersi. T'arrischia dunque, e la tristezza sgombra Dall'alma. Poco il desïato istante Del tuo vïaggio tarderà: varata Fu già la nave, e i rèmigi son pronti». Ma così gli rispose il saggio Ulisse: «Laodamante, a che cotesto invito, Deridendomi quasi? Io, più che giochi, Disastri volgo per l'afflitta mente, Io, che tanto patìi, sostenni tanto, E or qui, mendico di ritorno e scorta, Siedomi, al re pregando, e al popol tutto». Il bravo Eurìalo a viso aperto allora: «Uom non mi sembri tu, che si conosca Di quelle pugne che la stirpe umana Per suo diletto esercitar costuma. Tu m'hai vista di tal che presso nave Di molti banchi s'affaccendi, capo Di marinari al trafficare intesi, Che in mente serba il carico, ed al vitto Pensa; e ai guadagni con rapina fatti: Ma nulla certo dell'atleta tieni». Mirollo bieco, e replicògli Ulisse: «Male assai favellasti, e ad uom protervo Somigli in tutto. Così è ver che i numi Le più care non dan doti ad un solo: Sembiante, ingegno e ragionar che piace. L'un bellezza non ha, ma della mente Gl'interni sensi in cotal guisa esprime, Che par delle parole ornarsi il volto. Gode chiunque il mira. Ei, favellando Con soave modestia, e franco a un tempo, Spicca in ogni consesso; e allor che passa Per la città, gli occhi a sé attrae, qual nume. L'altro nel viso e nelle membra un mostra Degl'immortali dèi: pur non si vede Grazia che ai detti suoi s'avvolga intorno. Così te fregia la beltà, né meglio Formar saprìan gli stessi eterni un volto: Se non che poco della mente vali. Mi trafiggesti l'anima nel petto, Villane voci articolando; io nuovo Non son de' giochi qual tu cianci e credo Anzi, ch'io degli atleti andai tra i primi, Finché potei de' verdi anni e di queste Braccia fidarmi. Or me, che aspre fatiche Durai, tra l'armi penetrando e l'onde, Gl'infortunï domaro. E non pertanto Cimenterommi: ché mordace troppo Fu il tuo sermon, ne più tenermi io valgo». Disse; e co' panni stessi, in ch'era involto, Lanciossi, ed afferrò massiccio disco, Che quelli, onde giocar solean tra loro, Molto di mole soverchiava e pondo. Rotollo in aria, e con la man robusta Lo spinse: sonò il sasso, ed i Feaci, Que' naviganti celebri, que' forti Remigatori, s'abbattero in terra Per la foga del sasso il qual, partito Da sì valida destra, i segni tutti Rapidamente sorvolò. Minerva, Vestite umane forme, il segno pose, E all'ospite conversa: «Un cieco», disse, «Trovar, palpando, tel potrìa: ché primo, Né già di poco, e solitario sorge. Per questa prova dunque alcun timore Non t'anga: lunge dal passarti, alcuno Tra i Feaci non fia che ti raggiunga». Rallegrossi a tai voci, e si compiacque Il Laerzìade, che nel circo uom fosse Che tanto il favorìa. Quindi ai Feaci Più mollemente le parole volse: «Quello arrivate, o damigelli, e un altro Pari, o più grande, fulminarne in breve Voi mi vedrete, io penso. Ed anco in altri Certami, o cesto, o lotta, o corso ancora, Chi far periglio di se stesso agogna, Venga in campo con me: poiché di vero Mi provocaste oltre misura. Uom vivo Tra i Feacesi io non ricuso, salvo Laodamante, che ricetto dammi. Chi entrar vorrebbe con l'amico in giostra? Stolto e da nulla è senza dubbio, e tutto Storpia le imprese sue, chïunque, in mezzo D'un popol stranier, con chi l'alberga Si presenta a contendere. Degli altri Nessun temo, o dispregio, e son con tutti Nel dì più chiaro a misurarmi pronto, Come colui che non mi credo imbelle, Quale il cimento sia. L'arco lucente Trattare appresi: imbroccherei primaio, Saettando un guerrier dell'oste avversa, Benché turba d'amici a me d'intorno Contra quell'oste disfrenasse i dardi. Sol Filottete mi vincea dell'arco, Mentre a gara il tendean sotto Ilio i Greci: Ma quanti sulla terra or v'ha mortali, Cui la forza del pane il cor sostenta, Io di gran lunga superar mi vanto: Ché non vo' pormi io già co' prischi eroi, Con Eurìto d'Ecalia, o con Alcìde, Che agli dèi stessi di scoccar nell'arte Si pareggiâro. Che ne avvenne? Giorni Sorser pochi ad Eurìto, e le sue case Nol videro invecchiar, poscia che Apollo Forte si corrucciò che disfidato L'avesse all'arco, e di sua man l'uccise. Dell'asta poi, quanto nessun di freccia Saprebbe, io traggo. Sol nel corso io temo Non mi vantaggi alcun: ché, tra che molto M'afflisse il mare, e che non fu il mio legno Sempre vettovagliato, a me, qual prima, Non ubbidisce l'infedel ginocchio». Ammutolì ciascuno, e Alcinoo solo Rispose: «Forestier, la tua favella Sgradir non ci potea. Sdegnato a dritto De' motti audaci, onde colui ti morse, La virtù mostrar vuoi che t'accompagna, Virtù, che or da chi tanto o quanto scorga, Più biasmata non fia. Ma tu m'ascolta, Acciocché un dì, quando nel tuo palagio Sederai con la sposa e i figli a mensa, E quel che di gentile in noi s'annida, Rimembrerai, possa un illustre amico Favellando narrar, quali redammo Studi dagli avi, per voler di Giove. Non siam né al cesto, né alla lotta egregi; Ma rapidi moviam, correndo, i passi, E a maraviglia navighiamo. In oltre Giocondo sempre il banchettar ci torna, Musica e danza, ed il cangiar di veste, I tepidi lavacri e i letti molli. Su dunque voi, che tra i Feaci il sommo Pregio dell'arte della danza avete, Fate che lo straniero a' suoi più cari, Risalutate le paterne mura, Piacciasi raccontar, quanto anche al ballo, Non che al nautico studio ed alla corsa, Noi da tutte le genti abbiam vantaggio. E tu, Pontonoo, per l'arguta cetra, Che nel palagio alla colonna pende, Vanne e al divin Demodoco la reca». Sorse, e partì l'araldo; e al tempo stesso Sorsero i nove a presedere ai giuochi Giudici eletti dai comuni voti: Ed il campo agguagliâro, e dilataro, Rimosse alquanto le persone, il circo. Tornò l'araldo con la cetra, e in mano La pose di Demodoco, che al circo S'adagiò in mezzo. Danzatori allora D'alta eccellenza, e in sul fiorir degli anni Feano al vate corona, ed il bel circo Co' presti piedi percoteano. Ulisse De' frettolosi piè gli sfolgorìi Molto lodava; e non si rïavea Dallo stupor che gl'ingombrava il petto. Ma il poeta divin, citareggiando, Del bellicoso Marte, e della cinta Di vago serto il crin Vener Ciprigna, Prese a cantar gli amori, ed il furtivo Lor conversar nella superba casa Del re del fuoco, di cui Marte il casto Letto macchiò nefandemente, molti Doni offerti alla dea, con cui la vinse. Repente il Sole, che la colpa vide, A Vulcan nunzïolla; e questi, udito L'annunzio doloroso, alla sua negra Fucina corse, un'immortal vendetta Macchinando nell'anima. Sul ceppo Piantò una magna incude; e col martello Nodi, per ambo imprigionarli, ordìa A frangersi impossibili, o a disciorsi. Fabbricate le insidie, ei, contra Marte D'ira bollendo, alla secreta stanza, Ove steso giaceagli il caro letto, S'avvïò in fretta, e alla lettiera bella Sparse per tutto i fini lacci intorno, E molti sospendeane all'alte travi, Quai fila sottilissime d'aragna, Con tanta orditi e sì ingegnosa fraude, Che né d'un dio li potea l'occhio tôrre. Poscia che tutto degl'industri inganni Circondato ebbe il letto, ir finse in Lenno. Terra ben fabbricata, e, più che ogni altra Cittade, a lui diletta. In questo mezzo Marte, che d'oro i corridori imbriglia, Alle vedette non istava indarno. Vide partir l'egregio fabbro, e, sempre Nel cor portando la di vago serto Cinta il capo Ciprigna, alla magione Del gran mastro de' fuochi in fretta mosse. Ritornata di poco era la diva Dal Saturnìde onnipossente padre Nel coniugale albergo; e Marte, entrando, La trovò che posava, e lei per mano Prese, e a nome chiamò: «Venere», disse, «Ambo ci aspetta il solitario letto. Di casa uscì Vulcano; altrove, a Lenno Vassene, e ai Sinti di selvaggia voce». Piacque l'invito a Venere, e su quello Salì con Marte, e si corcò: ma i lacci Lor s'avvolgean per cotal guisa intorno, Che stendere una man, levare un piede, Tutto era indarno; e s'accorgeano al fine Non aprirsi di scampo alcuna via. S'avvicinava intanto il fabbro illustre, Che volta diè dal suo viaggio a Lenno: Perocché il Sole spïator la trista Storia gli raccontò. Tutto dolente Giunse al suo ricco tetto ed arrestossi Nell'atrio: immensa ira l'invase, e tale Dal petto un grido gli scoppiò, che tutti Dell'Olimpo l'udir gli abitatori: «O Giove padre, e voi», disse, beati Numi, che d'immortal vita godete, Cose venite a rimirar da riso, Ma pure insopportabili. Ciprigna, Di Giove figlia, me, perché impedito De' piedi son, copre d'infamia ognora, Ed il suo cor nell'omicida Marte Pone, come in colui che bello e sano Nacque di gambe, dove io mal mi reggo. Chi sen vuole incolpar? Non forse i soli, Che tal non mi dovean mettere in luce, Parenti miei? testimon siate, o numi, Del lor giacersi uniti, e dell'ingrato Spettacol che oggi sostener m'è forza. Ma infredderan nelle lor voglie, io credo, Benché sì accesi, e a cotai sonni in preda Più non vorranno abbandonarsi. Certo Non si svilupperan d'este catene, Se tutti prima non mi torna il padre Quei ch'io posi in sua man, doni dotali Per la fanciulla svergognata: quando Bella, sia loco al ver, figlia ei possiede, Ma del proprio suo cor non donna punto». Disse; e i dèi s'adunâro alla fondata Sul rame casa di Vulcano. Venne Nettuno, il dio per cui la terra trema, Mercurio venne de' mortali amico, Venne Apollo dal grande arco d'argento. Le dee non già; ché nelle stanze loro Ritenevale vergogna. Ma i datori D'ogni bramato ben dèi sempiterni Nell'atrio s'adunâr: sorse tra loro Un riso inestinguibile, mirando Di Vulcan gli artifici; e alcun, volgendo Gli occhi al vicino, in tai parole uscìa: «Fortunati non sono i nequitosi Fatti, e il tardo talor l'agile arriva. Ecco Vulcan, benché sì tardo, Marte, Che di velocità tutti d'Olimpo Vince gli abitator, cogliere: il colse, Zoppo essendo, con l'arte; onde la multa Dell'adulterio gli può tôrre a dritto». Allor così a Mercurio il gaio Apollo: «Figlio di Giove, messaggiero accorto, Di grate cose dispensier cortese, Vorrestu avvinto in sì tenaci nodi Dormire all'aurea Venere da presso?» «Oh questo fosse», gli rispose il nume Licenzïoso, e ad opre turpi avvezzo; «Fosse, o sir dall'argenteo arco, e in legami Tre volte tanti io mi trovassi avvinto, E intendessero i numi in me lo sguardo Tutti, e tutte le dee! Non mi dorrìa Dormire all'aurea Venere da presso». Tacque; e in gran riso i Sempiterni diero. Ma non ridea Nettuno; anzi Vulcano, L'inclito mastro, senza fin pregava, Liberasse Gradivo, e con alate Parole gli dicea: «Scioglilo. Io t'entro Mallevador, che agl'Immortali in faccia Tutto ei compenserà, com'è ragione». «Questo», rispose il dio dai piè distorti Al Tridentier dalle cerulee chiome, «Non ricercar da me. Triste son quelle Malleverìe che dànnosi pe' tristi. Come legarti agl'Immortali in faccia Potrei, se Marte, de' suoi lacci sciolto, Del debito, fuggendo, anco s'affranca?» «Io ti satisfarò», riprese il nume Che la terra circonda, e fa tremarla. E il divin d'ambo i piè zoppo ingegnoso: «Bello non fôra il ricusar, né lice». Disse, e d'un sol suo tocco i lacci infranse. Come liberi fûr, saltaro in piede, E Marte in Tracia corse, ma la diva Del riso amica, riparando a Cipri In Pafo si fermò, dove a lei sacro Frondeggia un bosco, ed un altar vapora. Qui le Grazie lavaro, e del fragrante Olio, che la beltà cresce de' numi, Unsero a lei le delicate membra: Poi così la vestir, che meraviglia Non men che la dea stessa, era il suo manto. Tal cantava Demodoco; ed Ulisse E que' remigator forti, que' chiari Navigatori, di piacere, udendo, Le vene ricercar sentìansi, e l'ossa. Ma di Laodamante e d'Alio soli, Ché gareggiar con loro altri non osa, Ad Alcinoo mirar la danza piacque. Nelle man tosto la leggiadra palla Si recaro, che ad essi avea l'industre Polibo fatta, e colorata in rosso. L'un la palla gittava in vêr le fosche Nubi, curvato indietro; e l'altro, un salto Spiccando, riceveala, ed al compagno La rispingea senza fatica o sforzo, Pria che di nuovo il suol col piè toccasse. Gittata in alto la vermiglia palla, La nutrice di molti amica terra Co' dotti piedi cominciaro a battere, A far volte e rivolte alterne e rapide, Mentre lor s'applaudìa dagli altri giovani Nel circo, e acute al ciel grida s'alzavano. Così ad Alcinoo l'Itacese allora: «O de' mortali il più famoso e grande, Mi promettesti danzatori egregi, E ingannato non m'hai. Chi può mirarli Senza inarcar dello stupor le ciglia?» Gioì d'Alcinoo la sacrata possa, E ai Feaci rivolto: «Udite», disse, «Voi che per sangue e merto i primi siete. Saggio assai parmi il forestiero, e degno Che di ricchi l'orniam doni ospitali. Dodici reggon questa gente illustri Capi, e tra loro io tredicesmo siedo. Tunica, e manto, ed un talento d'oro Presentiamgli ciascuno, e tosto, e a un tempo, Ond'ei, così donato, alla mia cena, Con più gioia nel cor vegna e s'assida. Eurìalo, che il ferì d'acerbi motti Co' doni, e in un con le parole, il plachi». Assenso diè ciascuno, e un banditore Mandò pe' doni, e così Eurìalo: «Alcinoo, Il più famoso de' mortali e grande, L'ospite io placherò, come tu imponi. Gli offrirò questa di temprato rame Fedele spada che d'argento ha l'elsa, La vagina d'avorio: e fu l'avorio Tagliato dall'artefice di fresco. Non l'avrà, io penso, il forestier a sdegno». Ciò detto, a Ulisse in man la spada pose Con tali accenti: «Ospite padre, salve. Se dura fu profferta e incauta voce, Prendala, e seco il turbine la porti. E a te della tua donna e degli amici, Donde lungi, e tra i guai, gran tempo vivi, Giove conceda i desïati aspetti». «Salve», gli replicò subito Ulisse, «Amico, e tu. Gli abitator d'Olimpo Dìanti felici dì: né mai nel petto Per volger d'anni uopo o desir ti nasca Di questa spada ch'io da te ricevo, Benché placato già sol da' tuoi detti». Tacque; e il buon brando agli omeri sospese. Già declinava il Sole, e innanzi a Ulisse Stavano i doni. Gli onorati araldi Nella reggia portâro i doni eletti, Che dai figli del re tolti, e all'augusta Madre davante collocati fûro. Alcinoo entrò alla reggia, e seco i prenci, Che altamente sedero; e del re il sacro Valore in forma tal parlò ad Arete: «Donna, su via, la più sald'arca e bella Fuor traggi, ed una tunica vi stendi, E un manto di cui nulla offenda il lustro. Scaldisi in oltre allo stranier nel cavo Rame sul foco una purissim'onda, Perché, le membra asterse, e visti in bello Ordin riposti de' Feaci i doni, Meglio il cibo gli sappia, e più gradito Scendagli al core per l'orecchio il canto. Io questa gli darò di pregio eccelso Mia coppa d'oro, acciò non sorga giorno, Ch'ei d'Alcinoo non pensi, al Saturnide Libando nel suo tetto, e agli altri numi». Disse; ed Arete alle sue fanti ingiunse Porre il treppiede in su le brace ardenti. Quelle il treppiede in su le ardenti brace Posero, e versâr l'onda, e le raccolte Legne accendeanvi sotto: il cavo rame Cingean le fiamme, e si scaldava il fonte. Arete fuor della secreta stanza Trasse dell'arche la più salda e bella, E tutti con la tunica e col manto Vi allogò i doni in vestimenta e in oro, Indi assennava l'ospite: «Il coverchio Metti tu stesso, e bene avvolgi il nodo, Non fosse alcun ti nuoccia, ove te il dolce Sonno cogliesse nella negra nave». L'accorto eroe, che non udilla indarno, Mise il coverchio, e l'intricato nodo Prestamente formò, di cui mostrato Gli ebbe il secreto la dedalea Circe. E qui ad entrar la dispensiera onesta L'invitava nel bagno. Ulisse vide I lavacri fumar tanto più lieto, Ché tai conforti s'accostâr di rado Al suo corpo, dal dì che della ninfa Le grotte più nol ritenean, dov'era D'ogni cosa adagiato al par d'un nume. Lavato ed unto per le scorte ancelle, E di manto leggiadro e di leggiadra Tunica cinto, alla gioconda mensa Da' tepidi lavacri Ulisse giva. Nausica, cui splendea tutta nel volto La beltà degli dèi, della superba Sala fermossi alle lucenti porte. Sguardava Ulisse, e l'ammirava, e queste Mandavagli dal sen parole alate: «Felice, ospite, vivi e ti ricorda, Come sarai nella natìa terra, Di quella, onde pria venne a te salute». «Nausica, del pro' Alcinoo inclita figlia», Ulisse rispondeale; «oh! così Giove, L'altitonante di Giunon marito, Voglia che il dì del mio ritorno spunti, Com'io nel dolce ancor nido nativo Sempre, qual dea, t'onorerò: ché fosti La mia salvezza tu, fanciulla illustre». Già le carni partìansi, e nelle coppe Gli umidi vini si mesceano. Ed ecco Il banditor venir, guidar per mano L'onorato da tutti amabil vate, E adagiarlo, facendogli d'un'alta Colonna appoggio, ai convitati in mezzo. Ulisse allor dall'abbrostita e ghiotta Schiena di pingue, dentibianco verro Tagliò un florido brano, ed all'araldo: «Te'», disse, «questo, e al vate il porta, ond'io Rendagli, benché afflitto, un qualche onore. Chi è che in pregio e in riverenza i vati Non tenga? i vati, che ama tanto, e a cui Sì dolci melodie la Musa impara». Portò l'araldo il dono, e il vate il prese, E per l'alma gli andò tacita gioia. Alle vivande intanto e alle bevande Porgean la mano; e fûro spenti appena Della fame i desìri e della sete, Che il saggio Ulisse tali accenti sciolse: «Demodoco, io te sopra ogni vivente Sollevo, te, che la canora figlia Del sommo Giove, o Apollo stesso inspira. Tu i casi degli Achivi, e ciò che oprâro, Ciò che soffrìro, con estrema cura, Quasi visto l'avessi, o da' que' prodi Guerrieri udito, su la cetra poni. Via, dunque, siegui e l'edifizio canta Del gran cavallo, che d'inteste travi, Con Pallade al suo fianco, Epèo construsse, E Ulisse penetrar feo nella rocca Dardania, pregno (stratagemma insigne!) Degli eroi, per cui Troia andò in faville. Ciò fedelmente mi racconta, e tutti Sclamar m'udranno, ed attestar che il petto Di tutta la sua fiamma il dio t'accende». Demodoco, che pieno era del nume, D'alto a narrar prendea, come gli Achivi, Gittato il foco nelle tende, i legni Parte saliro, e aprir le vele ai venti. Parte sedean col valoroso Ulisse Ne' fianchi del cavallo entro la rocca. I Troi, standogli sotto in cerchio assisi, Molte cose dicean; ma incerte tutte. E in tre sentenze divideansi: o il cavo Legno intagliato lacerar con l'armi, O addurlo in cima d'una rupe, e quindi Precipitarlo; o il simulacro enorme Agli adirati numi offrire in voto. Questo prevalse alfin: poiché destino Era che allor perisse Ilio superbo, Che ricettata nel suo grembo avesse L'immensa mole intesta, ove de' Greci, Morte ai Troi per recar, sedeano i capi. Narrava pur, come de' Greci i figli, Fuor di quella versatisi, e lasciate Le cave insidie, la cittade a terra Gittaro; e come, mentre i lor compagni Guastavan qua e là palagi e templi, Ulisse di Deïfobo alla casa Col divin Menelao corse, qual Marte, E un duro v'ebbe a sostener conflitto, Donde uscì vincitore, auspice Palla. A tali voci, a tai ricordi Ulisse Struggeasi dentro, e per le smorte guance Piovea lagrime giù dalle palpèbre. Qual donna piange il molto amato sposo, Che alla sua terra innanzi, e ai cittadini Cadde e ai pargoli suoi, da cui lontano Volea tener l'ultimo giorno; ed ella, Che moribondo il vede e palpitante, Sovra lui s'abbandona, ed urla e stride, Mentre ha di dietro chi dell'asta il tergo Le va battendo e gli omeri, e le intima Schiavitù dura, e gran fatica e strazio, Sì che già del dolor la miserella Smunto ne porta e disfiorato il volto: Così Ulisse di sotto alle palpèbre Consumatrici lagrime piovea. Pur del suo pianto non s'accorse alcuno, Salvo re Alcinoo, che sedeagli appresso, E gemere il sentìa: però ai Feaci: «Udite», disse, «o condottieri e prenci; Deponga il vate la sonante cetra; Ché a tutti il canto suo grato non giunge. Dal primo istante ch'ei toccolla, in pianto Cominciò a romper l'ospite, a cui siede Certo un'antica in sen cura mordace. La mano adunque dalle corde astenga; E lieto allo stranier del par che a noi Che il ricettammo, questo giorno cada. Consiglio altro non v'ha. Per chi tal festa? Per chi la scorta preparata e i doni, D'amistà pegni, e le accoglienze oneste? Un supplice straniero ad uom, che punto Scorga diritto, è di fratello in vece. Ma tu di quel ch'io domandarti intendo, Nulla celarmi astutamente: meglio Torneranne a te stesso. Il nome dimmi, Con che il padre solea, solea la madre, E i cittadin chiamarti, ed i vicini: Ché senza nome uom non ci vive in terra, Sia buono o reo; ma, come aperse gli occhi, Da' genitori suoi l'acquista in fronte. Dimmi il tuo suol, le genti e la cittade, Sì che la nave d'intelletto piena Prenda la mira, e vi ti porti. I legni Della Feacia di nocchier mestieri Non han, né di timon: mente hanno, e tutti Sanno i disegni di chi stavvi sopra. Conoscon le cittadi e i pingui campi, E senza tema di ruina o storpio, Rapidissimi varcano, e di folta Nebbia coverti, le marine spume. Bensì al padre Nausitoo io dire intesi Che Nettun contra noi forte s'adira, Perché illeso alla patria ogni mortale Riconduciamo; e che un de' nostri legni Ben fabbricati, al suo ritorno, il dio Struggerà nelle fosche onde, e la nostra Cittade coprirà d'alta montagna. Ma effetto abbiano, o no, queste minacce, Tu mi racconta, né fraudarmi il vero, I mari scorsi e i visitati lidi. Parlami delle genti, e delle terre Che di popol ridondano, e di quante Veder t'avvenne nazioni agresti, Crudeli, ingiuste, o agli stranieri amiche, A cui timor de' numi alberga in petto. Né mi tacer, perché secreto piangi, Quando il fato di Grecia e d'Ilio ascolti. Se venne dagli dèi strage cotanta, Lor piacque ancor che degli eroi le morti Fossero il canto dell'età future. Ti perì forse un del tuo sangue a Troia, Genero prode, o suocero, i più dolci Nomi al cor nostro dopo i figli e i padri? O forse un fido, che nell'alma entrarti Sapea, compagno egregio? È qual fratello L'uom che sempre usa teco, e a cui fornìro D'alta prudenza l'intelletto i numi».


    Autore: Omero
     
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