PARAFRASI

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    Cos'è la Parafrasi:



    La parafrasi (parola prestata dal greco: παράφρασις, letto paràphrasis e traducibile con riformulazione) indica la transcodificazione di un testo scritto nella propria lingua ma in un registro linguistico distante (sia esso arcaico, elevato o poetico).
    Il processo di parafrasi prevede dunque operazioni come la ricostruzione sintattica, la sostituzione degli arcaismi, l'esplicitazione delle figure retoriche e la riscrittura in prosa del testo poetico. Possono anche essere operati dei chiarimenti di alcuni punti del testo. Una buona parafrasi include tutti i dettagli e rende il testo originale più semplice da comprendere: dato che il testo risultante è normalmente più ampio del testo di partenza, questa operazione si oppone a quella del riassunto.
    Inevitabile effetto, per così dire "collaterale", della parafrasi la perdita del profondo rapporto tra significante e significato, tipico della comunicazione letteraria e fulcro dei testi poetici.
    Lo scopo della parafrasi è la verifica simultanea sia della comprensione della lingua arcaica, o poetica, che della propria competenza di riformulazione lessicale e sintattica: pertanto la parafrasi è generalmente usata come esercizio scolastico. Dal manuale di Elio Teone (I d.C.) sappiamo che già in epoca antica la creazione di una parafrasi costituiva uno degli esercizi preparatorii (progymnasmata) allo studio della retorica. La creazione di una parafrasi era usata come esercizio anche nella retorica medioevale: agli studenti veniva richiesto di scrivere parafrasi di poesie del periodo classico.








    PARAFRASI IL TEMPORALE DI GIOVANNI PASCOLI,

    AIUTINO



    “TEMPORALE”


    Un bubbolìo lontano…
    Rosseggia l’orizzonte,
    come affocato, a mare;
    nero di pece, a monte,
    stracci di nubi chiare:
    tra il nero un casolare:
    un’ala di gabbiano.

    parafrasi

    Parafrasi della poesia.
    Un brontolio lontano annuncia un temporale…
    Verso il mare, all’orizzonte, il cielo è rosso, infuocato; verso il monte è nero come la pece, rischiarato qua e là da qualche nube frastagliata e sfilacciata; nel nero che domina questo paesaggio si distingue una casa bianca che spicca come un’ala di gabbiano.

    Spiegazione in prosa della poesia.
    Questa poesia di Giovanni Pascoli narra di un temporale in cui si sentiva da lontano il brontolare dei tuoni; i lampi che si trovavano verso il mare, tingevano di fuoco l'orizzonte mentre sulle montagne il cielo era nero come la pece: delle nuvole molto chiare vagavano sulla pianura, s'intravedeva sulla montagna un casolare, e un volo di gabbiano sperduto solcava l'aria in tempesta.
    Attraverso questi pochi versi della poesia si può notare che solo il volo di un gabbiano solitario dimostrava che c'era un essere in terra che cercava un rifugio, ma i colori che erano il rosso del fuoco, il nero della pece, il bianco del casolare e l'ala dell'uccello esprimono l'immobilità paurosa della natura negli attimi che precedono lo scatenarsi della tempesta.














    Davanti San Guido di Giosuè Carducci-parafrasi

    parafrasi


    Il poeta Giosuè Carducci sta viaggiando sulla linea Roma – Pisa in treno ed immagina che i cipressi che fiancheggiano la ferrovia dove lui giocava a Bolgheri, gli si facciano incontro e lo invitino a fermarsi. I cipressi alti e snelli dell’oratorio di san Guido a Bolgheri, formando un viale, sembrano al poeta, che li guarda dal treno in corsa, giovani giganti che corrono verso di lui e lo guardano. Lo riconoscono e gli chiedono, chinandosi con la cima piegata dal vento, di fermarsi perché la sera è fresca e lui conosce la strada. Lo invitano a fermarsi presso i loro alberi profumati, dove dal mare spira il vento impetuoso di nord-ovest e gli dicono che non conservano rancore per le sue “battaglie a colpi di sassi” perché in fondo non facevano male. Portano ancora nidi di usignoli e si lamentano che lui si allontani così in fretta. I passeri intersecano il cielo con voli. Il poeta risponde ai cipressi, sinceri amici dell’infanzia, che egli giudica migliore dell’età adulta, che volentieri si fermerebbe, ma chiede loro di lasciarlo andare perché ormai è un uomo maturo e ironicamente dice che, non per vantarsi, è diventato un uomo importante che capisce il greco ed il latino, scrive, ha tanti pregi e capacità e soprattutto non è più un ragazzo vivace ed impertinente e non tira più sassate alle piante (ma casomai invettive e battute polemiche agli uomini del suo tempo). Attraverso le cime che oscillano mosse dal vento, come chi scuote la testa per esprimere un dubbio o dire di no, passa, come un’onda, un brontolio ed il sole, che sta tramontando con un sorriso pietoso (cioè un riso un poco ironico e malizioso, ma senza cattiveria), splende rossastro in mezzo al verde cupo della vegetazione. Il poeta capisce che i cipressi ed il sole hanno un sentimento di pietà per lui ed improvvisamente il mormorare delle piante si trasforma in parole distinte. I cipressi hanno capito che non è altro che un uomo tormentato dagli affanni e dalle delusioni della vita. Il vento, sfiorando le case, porta via con sé l’eco dei sospiri degli uomini e conosce come dentro al petto del poeta brucino tormenti e passioni che egli non sa né può placare. Il poeta potrebbe raccontare alle querce ed ai cipressi la sua pena personale ed il dolore universale degli uomini in quel paesaggio sole sul mare, calmo ed azzurro, scende sorridente il sole. Il tramonto è pieno do voli e di stridi di uccelli, di notte si sentiranno i canti melodiosi degli usignoli. Lo invitano a rimanere ed a non seguire le idee e le passioni vane che sono colpevoli dell’infelicità dell’uomo perché lo staccano dalla semplicità della vita naturale. Le passioni (i pensieri agitati, torbidi, tristi ed angosciosi) nascono dalle profondità dei cuori umani sconvolti dai pensieri come i fuochi fatui dei cimiteri (mettono tanta para ma in realtà sono leggere fiamme vaganti prodotte dai gas che si sprigionano dove ci sono sostanze in putrefazione). Nell’ora del mezzogiorno (che per gli antichi era misteriosa e segreta), quando presso le querce i cavalli stanno nell’ombra muso a muso e introno tutto è pace nella pianura assolata, i cipressi gli canteranno quelle armonie che cielo e terra si scambiano tra loro eternamente e le divinità silvane, che abitano i tronchi delle piante, usciranno dagli olmi per ristorarlo dalla calura e sospingerlo a sognare ed il dio Pane (dio dei boschi e dei pastori) che, a quell’ora se ne va errando senza compagnia per i monti e le pianure, placherà l’insanabile contrasto dei suoi affanni nella divina serenità della natura. Ma il poeta non si può fermare, a Bologna lo aspetta la figlioletta, la Titì, piccola ancora e bisognosa di assistenza. Non si veste di piume come la passeretta a cui provvede madre natura, né si nutre di bacche di cipresso. A questo punto il poeta lancia una sassata polemica contro gli imitatori del Manzoni (quelli che in arte ed in politica si attenevano alle idee del Manzoni e principalmente accettavano le sue idee in fatto di lingua) che badano solo al guadagno e si accaparrano il maggior numero possibile di uffici e stipendi. Non essendo nel numero di costoro urge che il poeta si affretti ai suoi doveri di insegnante per provvedere ai bisogni della sua famiglia e lo fa con un saluto affettuoso e doloroso. I cipressi che hanno cercato di fermare il poeta con le lusinghe del paesaggio, cercano di fermarlo con il ricordo della nonna paterna tanto amata, Lucia Santini, morta nel 1843 e sepolta a Bolgheri. Al ricordo della nonna i “giganti giovinetti” si trasformano in un corteo funebre che si allontana mormorando. Dal dolce pendio per il verde viale dei cipressi ecco apparire al poeta alta e maestosa, vestita di nero, la nonna. Dalla sua bocca in mezzo ai bianchi capelli sgorgava la pura e schietta parlata toscana che molti non toscani imitano goffamente, con la malinconica e dolce inflessione della natia Versilia che è tanto cara al cuore del poeta. La lingua toscana, quando è parlata genuinamente, è nitida e soave come un antico componimento poetico (il sirventese era un antico metro poetico di origine provenzale che celebrava avvenimenti storici e poetici). Il poeta si rivolge al fantasma della nonna e vuole farsi raccontare, lui che con tutto il suo sapere non è riuscito a raggiungere, se non la felicità, almeno la tranquillità dell’animo, l’antica fiaba di “Amore e Psiche” (una fanciulla che aveva sposato un mostro ripugnante per volontà dei parenti, siccome viola il giuramento di non vederlo durante la notte quando riacquista il primitivo e bellissimo aspetto, viene abbandonata dal marito. Per ritrovarlo deve errare per il mondo per sette lunghi anni, consumare sette verghe di ferro per sorreggere i suo corpo stanco, colmare sette fiasche di lacrime… e quando finalmente ritrova lo sposo, questi è immerso in un profondo sonno, né a lei è possibile destarlo). Il Carducci modifica il finale del racconto originario che dice che lo sposo fuggiasco ritorna alla fanciulla commosso dai suoi sacrifici. Nella sorte della fanciulla abbandonata il poeta vede rispecchiata la propria sorte individuale di un uomo incapace di raggiungere gli ideali che si è proposto. Infatti continuando il discorso con la nonna dice che la favola non è soltanto bella, ma anche pena di amara verità. La felicità, la pace che ha cercato invano nei tanti anni è forse nella tranquillità del cimitero e della morte, sotto quel viale dove non soltanto spera, ma non pensa neppure più di fermarsi, ora che la vita lo ha ghermito con le sue necessità ed i suoi doveri. A questo punto la realtà lo riafferra, il treno corre ansimando affannosamente, mentre il poeta si sente triste e desolato. Una schiera di puledri, che in Maremma vivono liberamente nelle campagne, nitriscono, mettendosi a correre in gara con il treno, mentre un asino grigio continua con serietà e lentezza a mangiare il cardo dai fiori rosso turchino. La chiusura della poesia è simbolica: se il treno rappresenta il progresso o comunque la vita che va avanti ed i puledri sono l’immagine della giovinezza che insegue gioiosamente, ma vanamente, i sogni, la figura dell’asino può essere il simbolo degli uomini chiusi ad ogni ideale o anche della persona saggia che si accontenta delle cose che ha, senza lasciarsi distrarre dal chiasso e dai desideri inutili.










    Leopardi - Il passero solitario - parafrasi

    parafrasi

    Dall'alto della torre del vecchio campanile, tu, passero solitario, erri per la campagna cantando finché viene sera; e l'armonia regna nella tua valle. La primavera brilla tutt'intorno e si manifesta sui campi così vividamente che il cuore si intenerisce. Senti le pecore belare, le vacche muggire; e gli altri uccelli, contenti, compiono mille giri nell'aria festosa contenti, trascorrendo così il loro tempo migliore: tu, invece, guardi il tutto in disparte pensieroso; non ti piace la compagnia, non voli, non ti curi dell'allegria, eviti i divertimenti, canti solamente e così trascorri il periodo migliore dell'anno e della tua vita. Ahimè, quanto assomiglia il tuo costume al mio! Divertimento e spensieratezza, tenera famiglia della giovinezza, e amore, fratello della giovinezza, rimpianto amaro dell'età matura, io non curo, non so come; anzi fuggo lontano da loro; quasi estraneo al mio luogo nativo, trascorro la primavera della mia vita. In questo giorno di festa, che ormai giunge a termine, si usa festeggiare al mio paese per tradizione. Senti per l'aria serena il suono delle campane, senti spesso lo scoppio di colpi di fucile, che rimbomba lontano di paese in paese. La gioventù del luogo, tutta vestita a festa, abbandona le case e si sparge per le vie; e guarda ed è guardata, e in cuore si rallegra. Io, solitario in questa parte dimenticata della campagna, rimando a tempi migliori ogni gioco e divertimento: e intanto lo sguardo steso nell'aria soleggiata è ferito dal Sole che tramonta tra i monti lontani, dopo una giornata serena, e cadendo, sembra dileguarsi e che dica che la gioventù sta finendo. Tu, solitario uccellino, giunto alla fine della vita che il destino ti concederà, non ti dorrai della tua vita certamente; perché ogni nostro desiderio è frutto della natura. A me, se non mi sarà concesso di evitare di varcare la detestata soglia della vecchiaia, quando i miei occhi non susciteranno più nulla nel cuore delle altre persone, e il mondo apparirà loro vuoto, e il giorno futuro parrà più noioso e doloroso del presente, che sarà di questa voglia? Che sarà di questi anni miei? Che sarà di me stesso? Ah, mi pentirò, e più volte, mi volgerò al passato sconsolato.








    Parafrasi Novembre di Giovanni Pascoli


    “NOVEMBRE”

    Gemmea l'aria, il sole così chiaro
    che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,
    e del prunalbo l'odorino amaro
    senti nel cuore...
    Ma secco è il pruno, e le stecchite piante
    di nere trame segnano il sereno,
    e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante
    sembra il terreno.
    Silenzio, intorno: solo, alle ventate,
    odi lontano, da giardini ed orti,
    di foglie un cader fragile. E' l'estate
    fredda, dei morti.


    Questa lirica venne inclusa nella prima edizione di Myricae. Il tema generale di questa poesia è l’analisi del paesaggio invernale e una riflessione sulla fragilità della vita. Il poeta descrive una limpida giornata di novembre caratterizzata dall’aria così nitida e luminosa che verrebbe naturale cercare con lo sguardo alberi in fiore e avvertire l’odore del biancospino. Ma il paesaggio si svela per quello che è: privo di vegetazione (brullo) e autunnale, secco e scuro. La natura è penetrata dal silenzio, interrotto solamente dal soffiare del vento e dal cadere delle foglie.


    parafrasi

    L’aria è limpida e fredda come una gemma, il sole è così luminoso che si ricercano con lo sguardo gli albicocchi in fiore, sentendo nel cuore l’odore amarognolo del biancospino. Ma l’albero del biancospino è secco, le piante scheletrite lasciano una traccia nera nel cielo sereno, il cielo è deserto, e il terreno sembra vuoto e sordo al piede che lo calpesta. Intorno c’è silenzio, soltanto grazie ai colpi di vento, si sente lontano un fragile cadere di foglie, proveniente dai giardini e dagli orti. È la fredda estate dei morti.







    Ugo Foscolo - Alla sera - parafrasi

    testo
    Forse perché della fatal quiete fatal quiete
    tu sei l'immago a me sì cara vieni
    o Sera! E quando ti corteggian liete
    le nubi estive e i zeffiri sereni,

    e quando dal nevoso aere inquiete
    tenebre e lunghe all'universo meni
    sempre scendi invocata, e le secrete
    vie del mio cor soavemente tieni.

    Vagar mi fai co' miei pensier su l'orme
    che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
    questo reo tempo, e van con lui le torme

    delle cure onde meco egli si strugge;
    e mentre io guardo la tua pace, dorme
    quello spirto guerrier ch'entro mi rugge


    parafrasi

    Forse perché tu sei l’immagine della morte, a me giungi cosi gradita, e sia quando sei seguita dalle nuvole e dai venti sereni sia quando dal nevoso cielo che porta neve e conduci sulla terra notti lunghe e burrascose, e occupi le vie più segrete del mio animo, placandolo dolcemente.
    Mi spingi a pensare alla via della morte e intanto se ne va via quest’ età malvagia, e insieme al tempo che se ne và se ne vanno anche le preoccupazioni.
    E mentre guardo la tua immagine di pace, dentro di me dorme la voglia di combattere che è dentro di me e mi invita a lottare e mi da tanta angoscia.







    Il lampo di Giovanni Pascoli

    testo


    E cielo e terra si mostrò qual era:
    la terra ansante, livida, in sussulto;
    il cielo ingombro, tragico, disfatto:
    bianca bianca nel tragico tumulto
    una casa apparì sparì d'un tratto;
    come un occhio, che, largo esterefatto,
    s'aprì si chiuse, nella notte nera.



    Questa lirica fu pubblicata nella terza edizione di Myricae. Questa poesia è un “quadretto impressionistico” su un evento atmosferico, il lampo appunto. Nel lampo che ha illuminato cielo e terra – per poi farli precipitare di nuovo nel silenzio sospeso che precede il tuono – l’universo ha rivelato per un istante il suo vero volto spaventoso e angosciante, solitamente celato dietro aspetti illusori e ingannevoli. Nello sconvolgimento della natura in tumulto, l’uomo ha potuto per un attimo cogliere la minaccia che lo insidia, la precarietà del suo destino.

    parafrasi
    E cielo e terra si mostrarono nella loro identità, grazie alla luce del lampo: la terra ansimante, tetra, in un sussulto doloroso, il cielo ingombro di nuvole, cupo e sconvolto: nella silenziosa bufera appare improvvisa una casa bianca che sparisce subito; simile ad un occhio che dilatato, sbigottito, si apre e si chiude nella notte nera






    Ugo Foscolo In Morte del fratello Giovanni - parafrasi

    testo

    Un dì, s'io non andrò sempre fuggendo
    di gente in gente, me vedrai seduto
    su la tua pietra, o fratel mio, gemendo
    il fior de' tuoi gentil anni caduto.

    La Madre or sol suo dì tardo traendo
    parla di me col tuo cenere muto,
    ma io deluse a voi le palme tendo
    e sol da lunge i miei tetti saluto.

    Sento gli avversi numi, e le secrete
    cure che al viver tuo furon tempesta,
    e prego anch'io nel tuo porto quiete.

    Questo di tanta speme oggi mi resta!
    Straniere genti, almen le ossa rendete
    allora al petto della madre mesta.


    parafrasi

    Un giorno se io non sarò sempre costretto a fuggire di paese in paese mi vedrai seduto sulla tua tomba a piangere per la tua morte.
    Ora solo nostra madre ormai vecchia parlerà di me e io non posso fare altro che porgere le mie braccia e salutare la mia città.
    Sento anch’io l’ostilità degli dei e le angoscie che hanno turbato la tua vita.
    Adesso mi resta solo il desiderio di morire!
    Dopo la mia morte, che avverrà lontano dalla mia città, vorrei solo che le persone portino a mia madre le mie ossa.









    Achille e Agamennone parafrasi

    testo

    Cantami, o Diva, del Pelìde Achille
    L'ira funesta, che infiniti addusse
    Lutti agli Achei, molte anzi tempo all'Orco
    Generose travolse alme d'eroi,
    E di cani e d'augelli orrido pasto
    Lor salme abbandonò così di Giove
    L'alto consiglio si adempia, da quando
    Primamente disgiunse aspra contesa
    Il re de' prodi Atrìde e il divo Achille.

    parafrasi


    Ispirami a cantare, o Musa, l'ira funesta di Achille, figlio di Peleo, che portò precocemente al regno dei morti infiniti uomini. La morte e la distruzione furono così atroci che abbandonò ai cani e agli uccelli le salme dei morti, poiché non c'era il tempo per onorarli con una degna sepoltura. Si compia così la decisione di Giove (che aveva promesso a Teti di vendicare l'offesa subita da Achille), presa da quando il divino (divo) Achille e il figlio di Atreo (Agamennone) si divisero (disgiunse) per la contesa della schiava.

    Parafrasi
    raccontami, o dea, l'ira di achille figlio di peleo, che fu la causa di moltissimi lutti per i greci, e mandò nell'ade molte anime prima del giusto tempo, e fece delle loro salme cibo per cani e uccelli ( così che si compisse il disegno di Giove), da quando all'inizio il divino Achille e il re Agamennone furono divisi da un'aspra contesa.







    Iliade - Il duello tra Ettore e Achille


    parafrasi

    Quando si trovarono uno di fronte all’altro, Ettore dall’elmo scintillante parlò ad Achille per primo:
    “Non fuggirò più di fronte a te, Achille, come adesso così successe per ben tre volte che di fronte alle mura di Troia, non riuscii a difendermi dal tuo attacco; adesso il mio animo mi sprona
    a non fuggire più, qualunque sia la mia sorte. Ci rivolgiamo agli dei: perché essi saranno i migliori testimoni e conservatori degli accordi; io non intendo portarti disonore, se grazie all’aiuto di Zeus
    riuscirò a toglierti la vita; quando, Achille, ti avrò rimosso le tue gloriose armi, restituirò il tuo corpo agli Achei: e anche tu farai così”. Ma Achille guardandolo minacciosamente disse: “Ettore, o tremendo, non scenderò a patti con te: come non vi è alcuna alleanza tra uomini e leoni, e tra lupi e agnelli, i quali non sono mai in accordo, ma si detestano ininterrottamente, così non potrà mai succedere che noi ci vogliamo bene; fra di noi non ci saranno patti, il primo che morirà appagherà Ares con il sangue del nemico. Ricordati che ora devi essere perfetto nell’usare l’asta e veloce nel combattere, senza commettere errori! Ormai non puoi più sfuggire al tuo destino, gli dei hanno già deciso e Atena ti ucciderà per mezzo della mia lancia: sconterai tutto il dolore che hai portato al mio popolo”. Mentre parlò Achille scagliò l’asta contro Ettore; ma egli vedendola prima riesce ad evitarla: si abbassò e l’asta lo schivò, conficcandosi nel terreno; ma Atena, senza essere vista da Ettore, la ripose nelle mani di Achille. A quel punto Ettore disse ad Achille: “La tua mira non ha avuto un esito positivo! Allora in realtà tu non sapevi quello che mi sarebbe successo, Zeus non vuole la mia morte. Eppure tu lo hai dichiarato. Eri molto abile nel parlare, ma l’hai detto perché volevi che io mi scoraggiassi. No, non fuggirò di fronte al tuo attacco, ma ti affronterò a viso aperto, se mi vorrai uccidere, lo dovrai fare mentre ti attacco, se un dio ti aiuterà. Intanto cerca di evitare questa lancia che sto per scagliarti e spero che ti entri nel corpo. Certamente se riuscissi ad ucciderti la guerra risulterebbe molto più facile per i Teucri, perché tu sei il più grande problema” Mentre parlò, bilanciò l’asta e la scagliò ma centrò lo scudo di Achille, non fallì il colpo; ma l’asta rimbalzò cadendo per terra; Ettore si innervosì, perché il suo lancio fu inutile, e preso dallo sconforto, perché non aveva più lance; chiamò il fratello Deifobo, perché gli passasse un’altra lancia: ma egli non gli era più vicino. Allora Ettore capì il suo destino interpretato dal fato e gridò: “Ahi! Adesso non ho più alcun dubbio, gli dei hanno decretato la mia morte. Pensavo di aver vicino Deifobo, ma egli è all’interno di Troia, Atena mi ha imbrogliato. Il mio destino è di dover morire, tutto questo era già stato stabilito da Zeus e da suo figlio, Apollo, che adesso mi sono nemici però un tempo
    furono benevoli nei miei confronti. Ormai la morte mi ha raggiunto. So che devo morire, ma non mi ritirerò, lotterò fino all’ultimo perché io possa morire gloriosamente così che i miei posteri mi possano stimare”.
    E mentre parlava così, estrasse la spada, che gli pendeva da dietro al fianco, grande e pesante, e partì di scatto all’attacco, come un’aquila che piomba verso la pianura, attraversando le nuvole buie, per uccidere un giovane agnello o una lepre: in tal modo scattò Ettore, agitando la spada acuminata.
    Ma anche Achille scattò all’attacco, con il cuore selvaggio carico di collera: pose davanti a sé lo scudo bello, decorato, scuotendo la chioma lucente, che Efesto aveva creato fitta attorno al cimiero.
    Come la stella procede tra i vari astri durante la notte, Espero, l’astro più lucente del cielo. Così luceva la spada del glorioso Achille nella sua mano destra, riflettendo intensamente come poter uccidere Ettore, cercando con gli occhi un punto del suo corpo che fosse scoperto dall’armatura. Le armi bronzee ricoprivano tutto il corpo di Ettore, colui che uccise Patroclo; ma vi era una fessura dove le clavicole dividono le spalle dalla gola e dal collo, e quello è un punto di rapida morte.
    Qui Achille lo colpì, la punta dell’asta passò attraverso il morbido collo di Ettore, però non gli tagliò le corde vocali così che Ettore riuscisse a parlare. Achille si vantò: “Ettore, mentre spogliavi Patroclo delle sue armi credevi forse di poter sfuggire da me, che ti ero lontano! Ma io rimanevo suo difensore sulle navi. Ora cani e uccelli ti sbraneranno: ma lui seppelliranno gli Achei”.
    Senza più forze Ettore gli rispose: “Ti prego per la tua vita, per le ginocchia, per i tuoi genitori, non lasciare che venga sbranato dai cani degli Achei, ma accetta oro e bronzo senza fine, i doni che ti verranno dati da mio padre e dalla mia nobile madre: rendi il mio corpo alla mia patria, perché il mio corpo possa essere bruciato”.
    Ma guardandolo bieco, Achille disse: “No, cane, non mi pregare per nessun motivo; che la rabbia e il furore mi spingano a tagliuzzare le tue carni e a divorarle per quello che u hai compiuto: nessuno allontanerà dal tue corpo le cagne, per nessun motivo, nemmeno se Priamo offrirà tanto oro quanto pesi. Così la tua nobile madre non potrà piangere sul tuo letto, perché così i cani e gli uccelli ti sbraneranno. Rispose così Ettore: “Va, ti conosco! Non potevo persuaderti perché tu hai il cuore di ferro, che non prova passione. Bada però che la mia morte non ti porti l’odio degli dei; quel giorno che Paride, guidato da Apollo, ti ucciderà, tu ancora coraggioso, sopra le porte Scee”.
    Mentre parlava morì Ettore: il suo spirito volò via e scese nell’Ade, rimpiangendo la giovinezza e il vigore.
    Rispose al cadavere Achille illustre: “Muori! Anch’io dovrò morire quando gli dei lo vorranno!”
    Disse e tolse al morto le armi insanguinate dopo aver strappato l’asta, accorsero gli altri ammirando la statua e la bellezza stupenda di Ettore, e nessuno si avvicinò senza martoriare e colpire il cadavere dell’eroe.
    E così diceva qualche infido volto al vicino: “ Davvero, è più morbida la carne d’Ettore, di quando appiccò fuoco alle nostre navi”.
    Disse e meditò di fare un offesa al glorioso Ettore: gli forò i tendini dietro ai due piedi dalla caviglia al tallone, ci passò due cinghie, lo legò al cocchio, lasciando la testa ciondolare a terra, e balzato sul cocchio, alzando in alto le armi frustò per partire: desiderosi di correre i cavalli volarono. R intorno al corpo trainato si alzò la polvere: i capelli neri si scompigliarono; tutta la testa giaceva in mezzo alla polvere, prima stupenda: ma allora Zeus lo diede ai nemici, che lo sconciassero nella sua patria.








    Riassunti “Novelle per un anno” di Pirandello

    Riassunto L’Avemaria di Bobbio
    Un caso singolarissimo era accaduto a Marco Saverio Bobbio, notaio a Richieri tra i più stimati. Studioso di filosofia non era più credente come da bambino. Bobbio aveva in bocca più di un dente guasto. Parecchi anni si trovava a villeggiare con la famiglia a due miglia da Richieri. Andava alla mattina a lavorare in paese e alla sera tornava a casa, ma la domenica voleva passarla tutta in vacanza. Così invitò tutti i parenti e mentre le donne parlavano, i bambini giocavano; gli uomini giocavano a bocce. Giunta ora di mangiare a Bobbio venne un fortissimo mal di denti, che decise di ritirarsi in camera sua. Dopo un’oretta decise di andare in paese da un dentista. Per strada vedendo il tabernacolo della SS. Vergine delle Grazie disse la preghiera Ave Maria e il mal di denti gli passò; così tornò a casa. Adesso chiuso in camera sua ripensava al fatto sorridendo quando leggendo Montagne gli venne un forte mal di denti. Provò a continuare a leggere e a non pensarci ma non ce la faceva così decise di andare dal dentista. Per strada provò di nuovo a pregare ma nulla cambiò. Quando arrivò dal dentista il mal di denti gli era passato ma decise comunque di farsi togliere tutti i denti.

    Riassunto La patente
    Il giudice D’Andrea non era vecchio; poteva avere appena quarant’anni. Aveva un viso bianco, dei capelli crespi gremiti da negro, una vasta fronte protuberante piena di rughe, dei piccoli occhi plumbei ed era una misera personcina. Alla notte non dormiva mai ma stava sveglio a pensare alla finestra guardando le stelle. Quando si faceva giorno doveva recarsi al suo ufficio d’Istruzione. Come lui non dormiva non lasciava mai dormire l’incartamento in ufficio anzi delle volte restava per più tempo al lavoro per terminarlo. Per aiutarsi meditava alla notte ma pensava sempre ad altro. Eppure era la prima volte da circa una settimana che un incartamento dormiva sul tavolino di D’Andrea. Il caso era una denuncia verso due uomini da parte di Chiàrchiaro perché loro lo chiamavano iettatore, come d’altronde era soprannominato da tutti. Questo caso divenne una fissazione per D’Andrea. Sapendo che Chiàrchiaro non avrebbe mai vinto la causa decise di chiamarlo nel suo ufficio per parlargli. Quando parlò con Chiàrchiaro l’uomo gli riferì che voleva che gli dessero una patente da iettatore così poteva farlo diventare il suo lavoro e avere i soldi per mantenere le figlie nubili e la moglie paralitica.

    Iettatore = persona a cui viene attribuita la facoltà di esercitare influssi malefici.


    Riassunto Il treno ha fischiato…
    I colleghi di lavoro di Belluca dicevano che farneticava; usavano dei termini scientifici appena imparati e fingevano di mostrarsi afflitti, ma in fondo erano contenti anche del fatto che avevano compiuto il dovere di andarlo a trovare all’ospizio. Nessuno pensava che date le condizioni in cui aveva vissuto fino a quel momento il suo caso poteva essere naturalissimo. Fino a quel momento Belluca era un uomo mansueto e veniva sottomesso, infatti sia il suo capo sia i compagni di lavoro lo trattavano male. Una mattina si presentò in ufficio con un’aria insolita e alla sera quando il capo-ufficio gli chiese cosa avesse fatto tutto il giorno lui con molta calma rispose :”Niente” e si mise a parlare di un treno che aveva fischiato così il capo-ufficio decise di portarlo all’ospizio dei matti. Io (narratore interno perché è un personaggio del racconto) non rimasi meravigliato del fatto anzi secondo me Belluca non era impazzito era una cosa naturalissima. Ero suo vicino di casa e come tutti gli altri inquilini mi domandavo come un uomo potesse vivere in quelle condizioni. Viveva con tre cieche, la moglie, la suocera e la sorella della suocera; tutte tre volevano essere servite. Con lui vivevano anche le due figlie vedove, una con quattro figli l’altra con tre. Per mantenere tutti Belluca oltre a fare il suo lavoro da computista lavorava anche alla sera fino a tardi. Due sere prima Belluca mentre si distendeva sul divano udì il fischio di un treno, così si mise a dormire e sognò tutta la notte quel treno e il resto del mondo che fino a quel momento aveva dimenticato. Appena si sarebbe ricomposto sarebbe andato dal capo-ufficio a scusarsi ma esso non doveva più pretendere tanto da lui e doveva concedergli che ogni tanto facesse una capatina in Siberia oppure nelle foreste del Congo: “ Si fa in un attimo, signor Cavaliere mio. Ora che il treno ha fischiato…”

    Riassunto La mosca
    Saro e Neli Tortorici correvano per il paese in cerca di un dottore per loro cugino Giurlannu Zarù che si era sentito male in una stalla a Montelusa. Arrivarono a casa del dottore Sidoro Lopiccolo, lo trovarono scamiciato, spettorato, con una barbaccia di almeno dieci giorni e gli occhi gonfi e cisposi, con in braccio una bambina malata e ingiallita, pelle e ossa, di circa 9 anni. La moglie in un letto ormai da 11 mesi e la casa una rovina. Il dottore Sidoro Lopiccolo si mise a guardare l’unica cosa rimasta intatta in quella casa, un ritratto fotografico ingrandito di quando era giovane. Guardandolo gli veniva in mente quando sua madre lo chiamava “Sisinè” e credeva che lui poteva fare grandi cose infatti lui era il beniamino, la colonna, lo stendardo della casa. Saro e Neli spiegarono che loro cugino stava male, lui disse che per andare fino a Montelusa voleva una mula. Così Saro andò a prendere una mula e Neli andò a tagliarsi la barba. Neli raccontò al barbiere l’accaduto. Il pomeriggio nella tenuta di Lopes a Montelusa, stavano lavorando quando il capo li disse che avrebbero abbacchiato le mandorle a mezza lira come le donne. Zarù decise si non farlo così andò a riposare in una stalla. I lavoratori decisero di restare tutta la notte al lavoro, così la mattina dopo Saro andò a svegliarlo e lo trovò gonfio e nero con un febbrone da cavallo. Il barbiere distraendosi dal racconto provocò una feritina a Neli. In quel momento arrivarono Luzza , la fidanzata di Neli, Mita Lumia, la fidanzata di Zurò, e sua madre, la fidanzata di Zurò voleva partire con loro ma Neli le disse di no. Così partirono, dopo due ore arrivarono alla stalla e trovarono Zurò come lo avevano lasciato poche ore prima. Il medico disse che un insetto con il carbonchio lo aveva punto. Così Zurò ripensandoci su si ricordò che una mosca lo aveva punto e quella mosca era ancora li sul muro che lo guardava come soddisfatta. La stessa mosca si posò sulla ferita di Neli e iniziò a succhiarli il sangue dopo molto Neli la mandò via. Quando capirono cosa era successo se ne andarono lasciando Zurò solo.

    Riassunto La carriola
    Un commendatore, professore, avvocato un giorno al ritorno da Perugia, si accorge di non aver mai vissuto la vita che ha, che questa vita non gli appartiene e che lui la trascina come un peso. Così per liberarsi appena ha un momento libero dai clienti chiude la porta del suo studio a chiave, si avvicina alla cagna che dorme sul tappeto, la prende per le zampe posteriori e le fa fare 8 o 10 passi a carriola, poi riapre la porta dello studio e si prepara a ricevere il cliente seguente. La cagna lo guarda con terrore perché ha capito che non scherza ma è un segno di pazzia.

    Riassunto La distruzione dell'uomo
    Nicola Petix aveva ucciso la signora Porella non perché era pazzo, non perché aveva una passione per lei e neanche perché era una bestia, ma perché dopo diciannove anni e quindici aborti, forse questa era la volta buona per il compimento della gravidanza. Così quando la buttò nelle acque del fiume non uccise solo un uomo ma uccise l’uomo, non uno dei tanti ma tutti in quel uomo.
    Nicola viveva in una casa diroccata con molti altri inquilini, non aveva ricevuto neanche una parte dell’eredità del padre, che era stata donata al fratello maggiore, perché il padre credeva che aveva trascorso i suoi anni in un ozio vergognoso, all’università, passando da un indirizzo all’altro senza dare mai un esame. Comunque ogni mese aveva diritto a una piccola parte di soldi equivalenti a poche lire.

    Riassunto La fede
    Don Pietro dormiva nella sua cameretta, quando arrivò don Angelino. Don Angelino voleva spogliarsi dagli ordini sacerdotali, già il giorno prima ne aveva parlato con don Pietro, dicendogli che lui ormai credeva in un’altra fede, ma don Pietro gli disse che non c’erano altre fedi. Adesso era tornato in quella camera per parlargliene di nuovo, mentre aspettava che il prete si svegliasse, iniziò a piangere pensando a quanto sarebbe rimasta male sua madre quando glielo avrebbe detto, lei credeva in lui e pensava che fosse un angelo. Mentre stava piangendo, entrò nella camera la sorella del prete e in quel momento si svegliò quest’ultimo. La donna disse al prete che c’era un’anziana che voleva che gli celebrasse la messa. Don Pietro disse a don Angelino di andare lui, così lui ci andò. La donna aveva portato tre lire, due galletti, delle mandorle secche e delle noci come voto per San Calògero. Infatti esso gli aveva fatto guarire il figlio da una malattia, appena guarito il figlio era partito per l’America, promettendo alla madre che le avrebbe scritto e mandato dei soldi ogni mese. Lei credeva che il figlio dopo 16 mesi non le aveva ancora scritto perché lei non aveva mantenuto il voto. Così era andata lì per mantenerlo. Don Angelino prima cercò di convincerla a riportarsi a casa le offerte ma quando la donna si mise a piangere decise di fare la messa. Quando salì all’altare sentì quella fede forte come la prima volta.


    Riassunto La giara
    Ogni volta che succedeva qualcosa Don Lollò andava dall’avvocato per fare gli atti, così l’avvocato stufo di vederselo comparire davanti ogni volta gli aveva regalato un codice da consultare ogni volta che ne aveva bisogno. Don Lollò aveva comprato una giara da quattro onze per metterci dentro l’olio. Aveva lasciato la giara in un magazzino, un giorno tre contadini la videro rotta, così avvisarono Don Lollò che convinto da Zi’Dima l’avrebbe fatta aggiustare da lui. Il giorno seguente Zi’ Dima arrivò puntuale all’aia, lui voleva aggiustare la giara usando un mastice che aveva creato lui, ma Don Lollò lo obbligò ad aggiungere anche i punti oltre che al mastice. Nel mettere i punti Zi’ Dima restò bloccato all’interno della giara Don Lollò non sapeva cosa fare così gli diede cinque lire per pagarlo e del pane e companatico per la colazione, dopo si fece sellare la mula per andare in città dall’avvocato. L’avvocato gli disse che lui doveva rompere la giara seno sarebbe stato sequestro di persona ma Zi’ Dima doveva ripagarli la giara. Tornato all’aia Don Lollò fece stimare da Zi’ Dima la giara, lui disse che adesso valeva un’onza e trentatré. Don Lollò chiese allora a Zi’Dima di dargli i soldi ma lui disse di no e che preferiva restare dentro alla giara. Non sapendo cosa fare Don Lollò gli disse che il giorno dopo gli avrebbe fatto causa per alloggio abusivo ma Zi’Dima gli disse che non stava lì per suo piacere e che se avrebbe rotto la giara sarebbe uscito ma non l’avrebbe pagata. Don Lollò andò in casa, Zi’ Dima con le cinque lire di prima mandò un contadino in una taverna lì vicino e decisero di far festa tutta la notte. Giunta l’ora di mettersi al letto Don Lollò non riusciva a dormire per il baccano che facevano i contadini così andò giù diede un calcio alla giara che andando contro un olivo si ruppe. Così Zi’Dima la vinse.

    Riassunto Ciaula scopre la luna
    Quella sera Cacciagallina voleva che i picconieri facessero la notte per finire di estrarre le casse di zolfo. Tutti se ne andarono anche se lui li minacciò con una pistola. L’unico che restò fu il povero Zi’ Scarda; era vecchio e per un occhio era cieco; così tutti se la prendevano con lui e anche quella sera Cacciagallina fece lo stesso. Anche Zi’ Scarda aveva chi maltrattare, il suo caruso Ciàula. Proprio mentre Cacciagallina se la prendeva con Zi’ Scarda, a quest’ultimo scese una lacrima e lui la bevette; non era una lacrima di pianto, ma si era bevuto anche quelle, quando quattro anni fa gli era morto il suo unico figlio Cavicchio, per lo scoppio di una mina, per la quale lui perse un occhio. Ciàula si stava rivestendo quando Zi’ Scarda lo chiamò e gli disse di rimettersi i vestiti di lavoro, perché sarebbero rimasti lì tutta la notte. L’unico problema era che Ciàula doveva andare a portare i carichi fuori dalla caverna e aveva paura del buio che c’era fuori. Quello all’interno non gli faceva paura ma fuori era un’altra cosa perché non lo conosceva. Ciàula viveva con Zi’ Scarda e con la nuora e i sette nipoti di esso. Quando venne il momento di portare fuori il carico Zi’Scarda glielo caricò sulle spalle e Ciàula si mise in cammino. Arrivato quasi all’entrata vide una chiara e man mano che si avvicinava all’uscita la chiara cresceva fino a quando uscì e restò sbalordito; fece cadere il carico dalle spalle e si mise a guardare la Luna. Lui sapeva cos’era ma non gliene aveva mai dato importanza. E Ciàula si mise a piangere senza saperlo, senza volerlo e non si sentiva più stanco né aveva più paura.


    Riassunto Candelora
    Nane Papa e Candelora erano sposati; lui era un pittore, che non aveva molto successo, così lei arrabbiata per il fatto che sarebbe diventata povera, decise di andare a parlare con un critico che seguivano tutti, in cambio di una buona parola per Nane Papa Candelora doveva essere molto gentile con lui e con tutti gli ammiratori di Nane Papa, soprattutto con il barone Chicco, che li ospitava nella sua villetta. Di ritorno dal mare Candelora litigò con Nane Papa perché lei voleva che lui la amasse come non aveva mai fatto. Candelora andò nella villetta a piangere poco dopo Nane Papa decise di raggiungerla. Arrivò nella stanza dove si trovava Candelora, era distesa a terra, con una coscia scoperta; appena Nane Papa la vide credette che aveva bevuto la boccetta di iodio ma quando arrivo Chicco e la presero in braccio videro che nella mano teneva una rivoltella e sul fianco aveva una grossa macchia di sangue. Nane Papa si mise a piangere perché capì che lei voleva solo essere amata da lui.








    Parafrasi Adelchi coro atto IV Morte di Ermengarda

    La «provida sventura»

    La morte giunge serena per Ermengarda, nella convinzione che «fuor della vita» risiede la liberazione dalla sua dolorosa sorte terrena. E’ il premio, la consolazione ideale, l'esito ultimo di un disegno invisibile che agisce nella storia e si anima nella coscienza di creature generose. Di fronte al crollo inglorioso del regno longobardo, fondato sulla violenza, Ermengarda si salva senza colpa e senza rimorsi: lei, che pure appartiene a quella «rea progenie», è salvata dalla propria sofferenza.
    Alla base c'è la fede in una giustificazione divina della sventura, vista come «provida», cioè come strumento di purificazione offerto dalla Provvidenza. E’ un'idea centrale nella visione manzoniana e e sarà un elemento chiave anche del fondamento ideologico dei Promessi sposi.

    La struttura del coro

    Il coro ha una struttura architettonicamente studiata e calibrata. Le prime due semistrofe (vv. 1-12) rappresentano Ermengarda sul letto di morte, circondata dalle suore del convento. Esse hanno quindi una funzione di raccordo con la scena precedente e, insieme, costituiscono un preambolo al discorso successivo: Ermengarda muore con gli occhi che cercano «il ciel» (vv. 5-6), la pace della vita eterna. Nelle due semistrofe successive (vv. 13-24) interviene la voce del poeta, che si rivolge a Ermengarda invitandola a liberare l'animo angosciato dalle passioni terrene («i terrestri ardori», v. 14): fuori della vita troverà la liberazione dal «lungo martir» che altri le hanno inflitto, ma proprio la sofferenza che ha subito in vita la renderà «santa» e degna di salire al «Dio de' santi».
    Segue la parte centrale del coro (vv. 25-60), che si dilunga per sei semistrofe: è un momento introspettivo nel quale, con scorci repentini, si rievoca il percorso di un'intera esistenza. Muovendo da un presente di silenziosa sofferenza che di continuo rinnova nel ricordo l'ora dolorosa del disinganno e della solitudine, rivivono i momenti di più fiducioso e irrecuperabile abbandono affettivo.
    Le quattro semistrofe successive (vv. 61-84) descrivono la condizione psicologica di Ermengarda, attraverso la similitudine del cespo d'erba: il personaggio, tormentato dai ricordi e dal risorgere della passione, è paragonato al cespo d'erba inaridita che riprende momentaneamente vita grazie alla rugiada, ma è poi di nuovo seccato dalla vampa infuocata del sole. Dalla quindicesima semistrofa(vv. 85 seg.) si ritorna al motivo d'inizio, la liberazione dal tormento che è possibile solo nella morte: si noti il refrain (i primi quattro versi, «Sgombra, o gentil... e muori», vv. 85-88, riprendono esattamente i vv. 13-16). Si chiude così il cerchio: nelle ultime sei
    semistrofe il poeta si rivolge di nuovo al personaggio, ribadendo che la «sventura» è strumento di purificazione e la pace è raggiungibile soltanto fuori della vita.

    Metro

    Dieci strofe settenarie doppie, costituite da due parti di sei versi ciascuna. Il primo, il terzo e il quinto verso sono sdruccioli e sciolti; il secondo e il quarto sono piani e a rima alterna; il sesto è tronco e rima con l'ultimo della seconda parte della strofa, anch'esso tronco. Schema: abcbde fghgie. E’ il metro che Manzoni adotta nella quasi coeva ode Il cinque maggio.

    I piani temporali del discorso

    Alla struttura del coro corrisponde un complesso e simmetrico gioco di piani temporali. Si presentano in successione tre diversi livelli temporali, incastrati con la tecnica del flash-back: il presente della morte, il passato recente nel monastero, il passato lontano della vita matrimoniale.
    Presente. Il coro prende le mosse da una situazione presente, Ermengarda sul letto di morte. Il presente è il piano temporale delle prime quattro semistrofe.
    Passato recente. Attraverso un flash-back, la quinta semistrofa rievoca il passato recente di Ermengarda, quando, chiusa nel monastero, cercava di soffocare il suo amore e i ricordi dei giorni felici del matrimonio, gli «irrevocati dì» (v. 30).
    Passato lontano. Quei lontani e felici ricordi, benché Ermengarda non voglia rievocarli, prendono prepotentemente campo: con un ulteriore flash-back, le semistrofe successive, dalla sesta alla decima (vv. 31-60), sono occupate da quel gioioso lontano passato trascorso al fianco di Carlo, nelle vivide scene della caccia e del ritorno del re dalla guerra.
    Nelle semistrofe successive, dalla undicesima alla quattordicesima (vv. 61-84), si ritorna al passato recente, con Ermengarda che, chiusa nel monastero, vive il dissidio interiore sospesa tra la volontà di oblio e il risorgere della passione. Dalla quindicesima semistrofa alla fine (vv. 85-120), si ritorna invece al presente dell'agonia di Ermengarda.

    Una lirica elegiaca

    Se si confronta questo coro con quello dell'atto III (Dagli atrii muscosi, dai fòri cadenti), si avverte uno scarto dall'epico all'elegiaco. Di nuovo il coro è dedicato a una vittima: Ermengarda è, come i latini nel coro dell'atto III, una vittima: una vittima d'alto rango, ma anch'essa senza storia e senza voce. Ed è appunto attraverso il coro che l'autore dà spazio e voce al suo dramma. Manzoni non persegue qui la poesia epica e martellante del coro dell'atto III, ma una lirica dai toni elegiaci e delicati, consona al dramma interiore del personaggio. Si notino le due delicate similitudini naturalistiche: quella col cespuglio di tenui steli, ravvivato dalla rugiada e poi arso dal sole (vv. 61-78), e quella finale, col sole che si libera dalle nuvole e tramonta (vv. 114-120).

    CONTENUTO: Questo brano del coro dell’atto quarto dell’Adelchi è dominato dal tema della provvida sventura Manzoniana in relazione alla morte di Ermengarda. La donna viene incitata a liberare la mente dai terrestri ardori, forse dall’Io lirico di Manzoni. Il pensiero poi si rivolge alle altre donne infelici, consumate e già morte a causa del dolore, accostandovi poi l’immagine di Ermengarda che, trovatasi dalla parte degli oppressi invece che degli oppressori, è incitata a morire in pace, col volto che si ricomponga come quando era fanciulla, ignara di un destino avverso, in visione di un buon augurio di salvezza divina. C’è quindi il paragone tra il volto sereno di Ermengarda e la serenità del contadino che, al tramonto vedendo il sole squarciare le nuvole, spera in un giorno più sereno. Ai versi 103 - 104 vediamo, sottolineato da un enjembement, provvida sventura spesso ricorrente nell’idea religiosa di Manzoni, che sta a significare la possibilità di riscattarsi di una colpa, nel caso di Ermengarda le colpe del suo popolo cui fu prodezza il numero, / cui fu ragion l’offesa, / e dritto il sangue, e gloria / il non aver pietà.

    STILE: Al verso 93 vediamo “brando”, una metonimia (figura retorica che consiste nel trasferire un termine dal concetto a cui propriamente si applica ad un altro in cui è in stretto rapporto di dipendenza) che sta per “spada”. Nel passaggio sono presenti termini eruditi di origine latina, come al verso 92 “orbate” e al verso 94 “indarno” oppure al verso 112 “fallace” (dal latino fallax). Al verso 97 e 103 è presente una anafora, cioè una ripetizione di una parola, in questo caso “te”, quasi a sottolineare il senso di colpa che viene addossato ad Ermengarda. Altra anafora è presente ai versi 99 – 100 con “…cui… cui…”. Nel passaggio sono presenti molti enjembements, il più notevole dei quali e quello ai versi 103 – 104 con “provvida / sventura” quasi ad evidenziare ciò che sarà un tema caratteristico nel Manzoni. Ai versi 114 – 115 si trova un ulteriore enjembement della strofa che termina con “Così…” per sottolineare la continuità del paragone tra il volto di Ermengarda e lo stato d’animo del contadino che sull’alba si rasserena per un giorno più sereno.









    analisi metrico-strutturale della poesia Pioggia nel pineto

    La poesia “La pioggia nel pineto” è stata tratta dalla raccolta poetica: Alcyone, che è stata scritta da Gabriele D’Annunzio (1863-1938), il quale è stato uno dei massimi autori della corrente artistica conosciuta come Decadentismo. Lui dopo essersi sposato con una duchessa, dalla quale avrà tre figli, scappa. Dopo questi fatti s’innamorerà di Eleonora Duse, un’attrice di teatro, loro vivranno circondati dal lusso e dai debiti. D’Annunzio, che si considerava un super uomo, compie il famoso volo su Vienna (1918), occupa la città di fiume e aderisce al fascismo ma Mussolini lo terrà lontano dalla vita politica attiva. Alla sua morte la sua regia, il Vittoriale, diventerà un museo della sua vita.
    Questa poesia narra di un giorno di pioggia in una pineta dove D’Annunzio, insieme ad Ermione, ascolta la musica creata della pioggia. Inebriati da questa musica, i due a poco a poco diventano vegetali e si fondono con la natura che li circonda.
    Il poeta per esprimere le sue sensazioni usa quattro strofe di trentadue versi l’una, usa rime senza seguire uno schema metrico definito, utilizza anche alcune figure retoriche, tra cui la similitudine e la personificazione, la più grande personificazione che usa è quando fa suonare gli alberi, il momento più intenso della poesia secondo me; per sottolineare alcuni momenti usa ejambement e molti punti.
    I temi trattati nella poesia sono la pioggia, che continua ad aumentare, e la straformazione da uomini a vegetali. Questa poesia non contiene un vero e proprio messaggio ma è solamente la narrazione di un momento, di una sensazione, è una poesia superficiale.
    La poesia mi è piaciuta perché D’Annunzio ti fa sembrare all’interno della situazione che sta narrando.

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    SPIEGAZIONE: LA PIOGGIA NEL PINETO (G. D’Annunzio)

    Il poeta dice alla donna immaginaria che l’accompagna di tacere, perché lui vuole immergersi nella natura e ascoltarne tutti i suoni.
    Successivamente il poeta le dice di ascoltare il suono che la pioggia, caduta da un cielo con poche nuvole, produce sui pini ruvidi, sulle tamerici bruciate dal sole, sui mirti (considerati sacri dalla dea Venere), sui mazzetti di fiori dorati, sui ginepri pieni di bacche profumate; la pioggia non cade solo sulla natura, ma anche sui loro volti silvestri (al poeta sembra di star diventando della stessa natura degli alberi del bosco), sulle loro mani nude, sui loro vestiti leggeri, sui sentimenti che riaffiorano come nuovi e sulle illusioni della giovinezza che hanno illuso sia Ermione (la donna che l’accompagna) che D’Annunzio.
    L’autore chiede alla donna se sta udendo la pioggia che cade sulla vegetazione, con un crepitio che si protrae e varia a seconda delle chiome degli alberi più rade o meno rade.Lui chiede di nuovo l’attenzione della donna per ascoltare che al pianto del cielo (la pioggia: qui D’Annunzio personifica la natura) risponde la cicala, che non si impaurisce né con la pioggia portata dai venti del sud, né con il cielo grigio cenere.
    Mentre la pioggia cade, ogni albero produce un suono diverso, sembrando strumenti suonati da tante mani. Così, al poeta, sembra di essere talmente immersi nella vegetazione da diventare partecipi alla vita del bosco, quasi come fossero piante. Il volto della donna Ermione è gioioso, bagnato di pioggia come una foglia, e i suoi capelli profumano come le bacche delle ginestre menzionate da poco.
    Continuando a chiederle di ascoltare, si ode il canto delle cicale che comincia a svanire, ma a esso si unisce il canto delle rane proveniente dalla parte più lontana e umida del bosco; anche esso svanisce, e si sente solo il rumore dell’acqua che cade sulla terra. Non si sente alcun rumore del mare, ma è chiaro lo scrosciare della pioggia che pulisce tutto. Mentre la cicala non canta, la rana si ode da lontano, e non si riesce a capire dove sia.
    D’Annunzio, guardando Ermione, si accorge che la pioggia cade anche sulle sue ciglia, e sembra che lei pianga di piacere; lei sembra verdeggiante ed appare come una ninfa che esce dall’albero.
    Il poeta pensa che la loro vita è fresca e profumata, il cuore è come una pesca, gli occhi bagnati dalla pioggia sono come sorgenti d’acqua nel prato, i denti sono come mandorle acerbe.
    Loro vanno da cespuglio a cespuglio, un po’ stretti per mano e un po’ sciolti (i rami degli arbusti gli stringono le caviglie e gli impediscono di camminare), senza una meta precisa.
    Intanto continua a piovere sui loro volti silvestri, sulle loro mani nude, sui loro vestiti leggeri, sui sentimenti nuovi e sulle illusioni della giovinezza che hanno provato i due protagonisti.


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    • In quale luogo il poeta immagina di trovarsi?
    Il poeta immagina di trovarsi in una pineta.

    • La lirica inizia con un invito al silenzio: “Taci”. Il poeta a chi rivolge questo invito? Perché?
    Alla donna immaginaria che l’accompagna, Ermione. Perché vuole ascoltare i suoni della natura e immedesimarsi con essa.

    • Man mano che la pioggia aumenta d’intensità, quale meravigliosa sinfonia silvestre si diffonde nell’aria?
    Il suono che la pioggia produce a seconda di dove cade.

    • Al suono della pioggia fa eco il canto di due animali. Quali?
    La cicala e la rana.

    • Il poeta e la donna, immersi nella vegetazione, si sentono come trasformare, divenire parte integrante della natura.Come viene descritta la donna? Quali sensazioni prova? Le varie parti del corpo del poeta e della donna in quali aspetti della natura si trasformano?
    La donna ha volto silvano ed ebro, le mani nude, veste con abiti leggeri; i suoi capelli profumano e le sue ciglia sono nere e bagnate dalla pioggia. La donna gioisce e par che pianga di piacere. Il cuore è come una pesca intatta, gli occhi sono come sorgenti d’acqua tra l’erba e i denti sono come mandorle acerbe.

    • Che cos’è la “favola bella” che illude?
    La vita con i suoi sogni d’amore e le sue speranze.

    • Perché il poeta in questa lirica canta la natura?
    Per immergersi in essa e diventarne parte viva.

    • Considera la terza strofa: quali sono le parole che, con il loro suono, riproducono l’aumentare d’intensità della pioggia?
    “Si fa sotto il pianto che cresce me un canto si mesce più roco/ Più sordo e più fioco s’allenta, si spegne. Solo una nota ancora trema, si spegne, risorge, trema, si spegne. Or s’ode su tutta la fronda crosciare.”

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    “La pioggia nel pineto”
    Parafrasi


    Taci. Entrando nel bosco non odo più suoni umani, ma odo parole insolite pronunciate dalle gocce che cadono in lontananza.

    Ascolta. Piove dalle nuvole sparse. Piove sulle tamerici impregnate di salsedine ed arse dal sole, sui pini dalle scorze ruvide e dalle foglie aghiformi, sui mirti sacri a Venere, sulle ginestre dai gialli fiori raccolti e sui ginepri che sono pieni di bacche profumatissime. Piove sui nostri volti divenuti tutt’uno con il bosco piove sulle nostre mani nude, sul nostro corpo, sui nuovi pensieri sbocciati dall’anima rinnovata, sull’illusoria favola dell’amore che ieri t’illuse, che oggi m’illude, o Ermione.

    Odi? La pioggia che cade sul fogliame della pineta deserta producendo un crepitio che dura e varia secondo quanto è folto il fogliame. Ascolta. Alla pioggia risponde il canto delle cicale che non è fermato né dalla pioggia né dal colore scuro del cielo. E il pino ha un suono, e il mirto altro suono, e il ginepro altro ancora, e le gocce di pioggia sono come miriadi di dita che fanno suonare diversamente queste piante. Noi siamo nel più intimo della foresta, non più esseri umani ma vivi d’una vita vegetale. E il tuo volto bagnato ed inebriato dalla gioia e le tue chiome profumano come le ginestre, o creatura originata dalla terra che hai nome Ermione.

    Ascolta, ascolta. Il canto delle cicale che stanno nell’aria va diminuendo sotto la pioggia che aumenta. Ma in crescendo si mescola un canto più rauco, che sale dall’ombra scura dello stagno in lontananza. Solo una nota ancor trema, si spegne, risorge, trema, si spegne. Non arriva il suono delle onde sulla spiaggia. Non si sente sulle fronde degli alberi scrosciare la pioggia d’argento che purifica, lo scroscio che varia secondo i rami più folti, meno folti.
    Ascolta.
    La cicala è muta, ma la figlia del lontano fango, la rana, canta nell’ombra più profonda, chissà dove, chissà dove. E piove sulle tue ciglia, o Ermione.

    Piove sulle tue ciglia nere, che sembra tu pianga di piacere, non bianca ma quasi verde, sembri uscita dalla corteccia di un albero. E tutta la vita è in noi fresca e odorosa, il cuore nel petto è come una pesca non ancora toccata, gli occhi tra le palpebre sono come fonti d’acqua in mezzo all’erba; i denti nelle gengive sembrano mandorle acerbe. E andiamo di cespuglio in cespuglio, ora tenendoci per mano ora separati (la ruvida e forte stretta delle erbe aggrovigliate ci blocca le ginocchia) chissà dove, chissà dove!
    Piove sui nostri volti divenuti tutt’uno con il bosco piove sulle nostre mani nude, sul nostro corpo, sui nuovi pensieri sbocciati dall’anima rinnovata, sull’illusoria favola dell’amore che ieri mi illuse, che oggi ti illude, o Ermione.


    Analisi Guidata

    1. A chi si rivolge il poeta con la richiesta Taci all’inizio della poesia?
    Alla donna immaginaria che l’accompagna, Ermione, perché vuole ascoltare i suoni della natura e immedesimarsi con essa.
    2. Quali sono le parole più nuove di cui si parla al verso cinque?
    Quelle parole nuove sono l’inizio del messaggio della natura portato dalla pioggia.
    3. La pioggia è paragonata al canto (vv. 41, 43, 69, 98). Di che tipo di pianto si tratta?
    Il pianto nominato da D’Annunzio è un pianto di piacere per la metamorfosi che sta avvenendo.
    4. Perché la cicala è detta figlia dell’aria?
    La cicala è chiamata così perché vive sui rami più alti degli alberi.
    5. Che cosa è accaduto ad Ermione per cui si dice di lei, ai versi 100 e 101, che è quasi fatta virente e che sembra uscire da una corteccia?
    In Ermione sta avvenendo la metamorfosi che da spettatori della natura trasforma lei e il poeta tutt’uno con essa.
    9. Qual è la figura etimologica che compare nella prima strofa?
    La figura etimologica nella prima strofa è “parole che parlano”.
    12. Perché si può parlare di questa poesia come del racconto di una metamorfosi?
    Perché il poeta ed Ermione iniziano il loro viaggio nel bosco ascoltando la natura e lo terminano dopo averlo appreso pienamente, diventando tutt’uno con essa.
    14. Perché si può affermare che la poesia compie un itinerario perfettamente circolare? Verifica la correttezza delle risposte nella presentazione del testo.
    All’inizio del componimento Ermione e il poeta si trovano alle soglie del bosco, mentre iniziano ad ascoltare le parole nuove (vv. 5), alla fine della prima strofa la pioggia inizia a renderli parte della natura, il primo annuncio si trova nei versi 20 e 21, con la metafora volti silvani, in altre parole volti che appartengono al bosco. Verso la metà della seconda strofa c’è un altro passo di questa metamorfosi, dal verso 50 fino al 61, dove D’Annunzio e la sua compagna vivono della stessa vita degli alberi (d’arborea vita viventi verso 55), il volto ed i capelli d’Ermione sono divenuti come una foglia e come le chiare ginestre (vv. 58 e 61). Nella presentazione di questa strofa il poeta usa la congiunzione e sia per rivolgersi agli alberi (verso 46) che per rivolgersi a lui ed ad Ermione (verso 52), in questo modo egli mette le due persone allo stesso piano degli alberi. Nell’ultima strofa infine si compie la metamorfosi vera e propria, sottolineata dalle continue similitudini con la natura (vv. 102 – 109). Si può affermare che la poesia compia un itinerario circolare perché alla fine dell’ultima strofa sono ripetuti gli ultimi versi della prima.
    15. Come hai potuto notare in questa poesia, la natura, per D’Annunzio, riesce a rappresentare quei sentimenti e quei segreti che sono propri anche dell’uomo. Sei d’accordo con questa definizione? Motiva la tua risposta con un breve testo.
    Io sono d’accordo, i segreti propri all’uomo sono propri anche della natura soprattutto nel verso 74, dove si parla di quell’umida ombra remota, e nel verso 94 con quel chi sa dove, chi sa dove; l’umida ombra remota rappresenta i segreti della natura e dell’uomo nascosti (segreti, appunto) chissà dove in se stessi.

    Ritmo e metrica
    Questa poesia è composta di quattro strofe lunghe ognuna di 32 versi, per un totale di 128 versi di lunghezza variabile (senari, novenari e settenari). Il ritmo però non rispetta l’ordine dei versi, uno sì e uno no ci sono degli enjambements. Le rime della poesia sono irregolari, ce ne sono una o due per ogni strofa, in fin di verso oppure interne.

    Figure retoriche
    Vedi testo

    Commento
    Leggendo questa poesia si viene immersi in questo pineto versiliano dove tutto è illuminato da una luce verdolina; q uì il poeta ed Ermione immergendosi nella natura, ascoltandone ogni suono fino a che non avviene la metamorfosi, ritrovano loro stessi e tutta la vita è in noi fresca aulente , la loro anima si rigenera e genera pensieri nuovi, quasi fossero fiori che si schiudono.

    ----------

    La pioggia nel pineto
    Il poeta immagina di trovarsi, in una giornata d’estate, con la sua donna amata, alla quale dà il nome classico di Ermione, nella pineta di Versilia battuta dalla pioggia.
    La lirica rappresenta le sensazioni prodotte dalla pioggia che cade, sempre più intensamente, sulla pineta in cui si sono addentrati l’uomo e la donna. La natura sembra risvegliarsi e rispondere al contatto della pioggia quasi con un discorso musicale, come una serie di strumenti dal suono diverso. In mezzo a questi suoni e sotto l’intensificazione della pioggia, l’uomo e la donna, purificati dall’acqua piovana che ne bagna le vesti, sembrano immergersi progressivamente nella natura, divenendo parte di essa.
    Forma metrica: uscivano, nel 1902, i primi tre libri delle Laudi del Cielo, del Mare e della Terra. A uno di questi tre libri, l’Alcyone, appartiene questa lirica.
    Si tratta di 128 versi liberi, suddivisi in quattro strofe di 32 versi di varia misura, senza alcuna regolarità versi di tre, sei, sette e nove sillabe, con frequenti rime baciate e altre interne al verso. Esse, insieme a frequenti onomatopee e assonanze, sottolineano i toni e l’armonia del cadere della pioggia. L’ultimo verso di ogni strofa è costituito dal nome della donna a cui il poeta si rivolge: Ermione.
    Alcione è il nome della figlia di Eolo, il re dei venti, suicidatosi per il dolore della morte del marito. Gli dei la trasformarono nell’uccello dello stesso nome. Alcione è anche la stella più luminosa della costellazione delle Peleiadi, le cui stelle principali sono nove.
    Livello tematico: il poeta parla alla donna che è con lui, e la invita a tacere, per ascoltare insieme la voce del bosco. Sul limitare della pineta (“su le soglie del bosco”) il poeta non intende più il linguaggio umano di Ermione, teso com’e’ ad ascoltare quello più nuovo della pioggia sul pineto (“non odo parole che dici umane; ma odo parole più nuove”).
    Il linguaggio della natura, fatto di suoni che la pioggia produce cadendo sulle foglie del bosco, sussurra (“parlano”) in lontananza.
    All’invito al silenzio segue ora l’invito all’ascolto (“ascolta”). Piove sulle tamerici, arbusti ornamentali con foglie squamiformi e fiori rosei sempreverdi che crescono in terreni fertili e ben drenati nei climi marittimi; sono dette “salmastre” perché vivono benissimo nell’immediata vicinanza del mare e sono quindi inaridite dalla salsedine, mentre “arse” perché bruciate dal sole. Piove sui pini dalla scorza ruvida (“scagliosi”) e dalle foglie aghiformi (“irti”). Piove sui mirti, arbusti sempreverdi, nell’antica Grecia sacro a Venere (“mirti divini”), sui fiori gialli delle ginestre, a grappoli (“accolti”), che brillano sotto la pioggia che cade e li ravviva (“fulgenti”), sui ginepri, piante sempreverdi con bacche (“coccole”) assai profumate (“aulenti”), piove sui volti delle due persone, detti “volti silvani” perché il poeta comincia a immedesimarsi e a confondere se stesso e la donna con la natura: i volti dunque sono già “silvani”, quasi ritengono natura di albero. È imminente l’inizio di una metamorfosi.
    Piove sulle loro mani nude, sui loro abiti leggeri, sull’anima che, come rinnovata dalla pioggia, si apre (“schiude”) a nuovi e più sereni pensieri (“freschi pensieri”), sulla favola della vita e dell’amore che prima aveva illuso la donna e ora illude anche il poeta.
    Ermione è il nome della donna, che è lo stesso della figlia della greca Elena. La seconda strofa inizia con una domanda: sembra quasi che il poeta voglia accertarsi che la donna viva, proprio come la vive lui, la misura della pioggia.
    La pioggia cade sulla macchia lontana dalla presenza di uomini (“solitaria verdura”) con un suono (“crepitio”) che muta per durata di tempo (“dura”) e per timbro (“varia”) a seconda che la pioggia cada su una vegetazione rada o fitta.
    A ogni rinnovata attenzione corrisponde una nuova percezione sonora: questo è il canto delle cicale, che si leva deciso, non si impaurisce del vento australe che porta la pioggia né del grigiore del cielo. Sotto le gocce di pioggia, gli alberi danno suoni diversi, come strumenti suonati da molte mani.
    La musicale armonia così percepita opera una tanto profonda magia sul poeta, che gli fa dimenticare la sua vita sensitiva e lo immerge in quella silvestre; ormai il poeta e la sua donna sono fusi con il bosco e vivono la stessa vita degli alberi (“arborea vita”).
    Il volto della donna è come ubriaco, estasiato per questa felicità nuova (“il tuo volto ebro”), bagnato come una foglia (“molle di pioggia come una foglia”). Continuano i paragoni arborei: la chioma della figlia della terra (“o creatura terrestre”) è profumata come le ginestre (“le tue chiome auliscono”). È tutto un succedersi di temi musicali: il tema delle cicale che vivono nell’aria (“aeree”) a poco a poco si fa più basso (“sordo”), soverchiato da quello della pioggia che diventa più forte (“si fa sotto il pianto che cresce”). Ma anche a questo si sovrappone e si mescola il nuovo tema: il canto della rana che è più roco perché proviene dal basso (“che di laggiù sale”), da un’ombra profonda, dalla terra bagnata (“dall’umida ombra remota”).
    Più forte, più tenue, poi cede, tace (“più sordo e più fioco s’allenta, si spegne”); ma per poco: ritenta ancora di salire, poi muore definitivamente (“ancor trema, si spegne, risorge, trema, si spegne”). È un continuo alternare di onde sonore che si intersecano a formare la melodia. Riprende il motivo della pioggia e si sente la pioggia luminosa che purifica (“l’argentea pioggia che monda”) cadere con violenza, ancora lo scroscio, variato dalla maggiore o minore densità di vegetazione.
    La cicala ormai non canta più; ma la rana, figlia del fango (“limo”) canta nell’ombra profonda così nascosta che non si sa bene dove sia. E piove sulle ciglia di Ermione così che sembra che piange di gioia. La metamorfosi è ormai completa: la donna è vista sotto una luce colore delle fronde (“vivente”) come uscisse da una scorza e sembra uscire da un tronco come una ninfa. La vita è sentita come un singolare fresco piacere, emanante un profumo di fiori (“aulente”). Poi seguono specificazioni ancora più particolari della prodigiosa metamorfosi: il cuore è paragonato alla pesca (“il cuor nel petto è come una pesca intatta”), come vene d’acqua sorgiva (“polle”) sono i suoi occhi, come mandorle acerbe sono i denti nelle cavità ossee (“alveoli”) che li contengono.
    Così i due vanno senza meta di macchia in macchia e le verdi e vigorose piante selvatiche (“e il verde vigor rude”) legano le loro caviglie (“malleoli”) e attorcigliano le ginocchia.
    I due sembrano confondere le loro estremità con gli arbusti, come se stessero anch’esse mettendo radici nella terra.
    Riprende il motivo della pioggia a ridare la misura del piacere fisico. La ripetizione (“volti silvani”, “mani ignude”, “vestimenti leggieri”) riassume le sensazioni provate prima, le quali tutte insieme hanno offerto attraverso i freschi pensieri il dono di vivere la favola bella.


    Edited by gheagabry - 29/6/2014, 13:30
     
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    parafrasi Adelchi di Manzoni del coro atto terzo: "Dagli atrii muscosi"


    Dagli atrii muscosi, dai fòri cadenti,
    dai boschi, dall’arse fucine stridenti,
    dai solchi bagnati di servo sudor;
    un volgo disperso, repente si desta,
    intende l’orecchio, solleva la testa,
    percosso da novo crescente romor.

    Un volgo disperso all’udire un rumore insolito che aumenta continuamente di intensità, esce all’improvviso dagli atrii dei vecchi palazzi coperti di muschio, dalle piazze cadenti (perché lasciate andare in rovina), dai boschi, dalle officine e dai campi bagnati dal sudore dei contadini divenuti servi (dei Longobardi).
    Il volgo disperso sono gli italiani ridotti in schiavitù dai dominatori longobardi; una massa di persone anonime, stanca, umiliata dalla condizione in cui si trova e divisa fra i vari signori, cioè dispersa.
    La scena di grande effetto si svolge fra i “fori cadenti”, cioè luoghi in rovina, abbandonati all’incuria di chi non ha più voglia di mantenere bello e pulito il luogo in cui vive; negli androni delle case talmente trascurati da avere il muschio sulle pareti; nei boschi, nei campi bagnati dal sudore di persone ridotte in condizione servile.
    L’inizio del coro si presenta ricco di movimento con questa folla di gente di tutti ceti che si risveglia dopo un lungo periodo di schiavitù.
    Senti i suoni aspri e sibilanti della lettera s che ha la funzione di far risaltare l’idea del ferro rovente quando viene buttato nell’acqua

    Dai guardi dubbiosi, dai pavidi volti,
    quel raggio di sole da nuvoli folti,
    traluce de’ padri la fiera virtù:
    ne’ guardi, ne’ volti confuso ed incerto
    si mesce e discorda lo spregio sofferto
    col misero orgoglio di un tempo che fù.

    Dagli sguardi interrogativi, dai volti impauriti, come un raggio di sole che esce da folte nuvole, balena l’antico orgoglio degli avi: negli sguardi e nei volti si mescolano e si alternano l’avvilimento subito e l’orgoglio del tempo passato.
    L’orgoglio del passato diventa speranza per il futuro.
    I versi sono spezzati a metà e gli accenti variati per esprimere l’avvicendamento della speranza e della paura.
    Misero orgoglio perché basato sul ricordo delle imprese gloriose dei padri (cioè i romani): severa condanna alla paura ed all’incapacità degli italiani di ribellarsi.


    S’aduna voglioso, si sperde tremante,
    per torti sentieri con passo vagante,
    fra tèma e desire, s’avanza e ristà;
    e adocchia e rimira scorata e confusa
    de’ crudi signori la turba diffusa,
    che fugge dai brandi, che sosta non ha.

    Si raduna desideroso ( di conoscere le sorti della battaglia), ma subito di disperde impaurito per vie tortuose col passo incerto di chi non ha una meta, fra paura e desiderio avanza e si ferma: guarda e riguarda la schiera dispersa e sbandata ( dei Longobardi) dei crudeli padroni che fugge dalle spade (dei Franchi) senza concedersi un attimo di sosta.
    Notate come il ritmo ripetuto e pressante dei versi rispecchi l’ansimare e la fatica della corsa.


    Ansanti li vede quai trepide fere,
    irsuti per tèma le fulve criniere,
    le note lètebre del covo cercar;
    e quivi, deposta l’usata minaccia,
    le donne superbe, con pallida faccia,
    i figli pensosi pensose guatar.

    Li vede ansimanti come animali feroci impauriti, con le folte criniere irte per la paura, cercare un nascondiglio nelle loro case e qui abbandonata l’abituale alterigia e superbia, le donne (longobarde) col volto pallido (per la paura) guardano i loro figli ammutoliti ( per l’incertezza di quanto avverrà)
    Da notare la parola “ansanti”. Ansanti per la fatica della corsa, ma anche per lo smarrimento e l’incertezza.

    E sopra i funggenti, con avido brando,
    quai cani disciolti, correndo, frugando,
    da ritta, da manca, guerrieri venir:
    li vede, e rapito d’ignoto contento,
    con l’agile speme precorre l’evento,
    e sogna la fine del duro servir.

    E dietro i fuggiaschi, con la spada avida di sangue, come cani lanciati all’inseguimento di una preda, arrivano altri guerrieri ( i francesi) da destra e da sinistra correndo e frugando ovunque; li vede e preso da uno sconosciuto sentimento di felicità, anticipa gli eventi e sogna la fine della dura schiavitù.


    Udite! Quei forti che tengono il campo,
    che ai vostri tiranni precludon lo scampo,
    son giunti da lunge per aspri sentier:
    sospeser le gioie dei prandi festosi,
    assursero in fretta dai blandi riposi,
    chiamati repente da squillo guerrier.

    Ascoltate! I guerrieri Franchi che appaiono vittoriosi e precludono la salvezza dei vostri aguzzini, sono arrivati da lontano per strade difficoltose: hanno sospeso le gioie dei banchetti, si sono alzati in fretta dai loro letti chiamati rapidamente da una tromba che annunciava la guerra .
    L’imperativo del poeta sembra una profezia che toglie l’illusione di un cambiamento repentino, ma anche un’esortazione all’azione.

    Lasciar nelle sale del tetto natio
    Le donne accorate, tornanti all’addio,
    a preghi e consigli che il pianto troncò:
    han carca la fronte de’ pesti cimieri,
    han poste le selle sui bruni corsieri,
    volaron sul ponte che cupo suonò.

    Hanno lasciato nelle stanze della casa natale le donne preoccupate che tornavano e ritornavano a dir loro Addio e li pregavano ( di aver cura di sé) e consigliavano fra le lacrime che troncavano le parole. Hanno caricato la testa con gli elmi già ammaccati dai colpi dei nemici, hanno messo le selle ai cavalli neri e sono volati sul ponte che rimbombava del rumore degli zoccoli dei cavalli in corsa.
    Da notare il cambiamento del tempo verbale ( lasciar, troncò, han carca, han poste).
    Il passato remoto, sostituito dal passato prossimo rende la scena più attuale e presente, più vicina al lettore.
    Notate l’agilità di questi versi nei quali predominano i verbi uditivi e visivi.

    A torme, di terra passarono in terra,
    cantando giulive canzoni di guerra,
    ma i dolci castelli pensando nel cor:
    per valli petrose, per balzi dirotti,
    vegliaron nell’arme le gelide notti,
    membrando i fidati colloqui d’amor.

    A schiere passarono da una terra ad un’altra cantando allegre canzoni di guerra, ma portando nel cuore la propria, dolce casa. Stettero svegli ed armati nelle fredde notti in mezzo a valli pietrose e scoscesi dirupi ricordando i discorsi d’amore con le proprie donne.
    Qui il Manzoni sposa felicemente l’ardore guerriero e la malinconia dolce per le gioie domestiche (la propria donna, la propria casa). Né il coraggio, né la nostalgia prevalgono l’una sull’altra, ma si accompagnano in un perfetto equilibrio.

    Gli oscuri perigli di stanze incresciose,
    per greppi senz’orma le corse affannose,
    il rigido impero, le fami durar:
    si vider le lance calate sui petti,
    a canto agli scudi, rasente agli elmetti,
    udiron le frecce fischiando volar.

    I pericoli sconosciuti di luoghi pericolosi, le marce estenuanti su per dirupi mai toccati prima da orme umane, la dura disciplina, la fame, vedere continuamente le lance calare sui petti, sfiorare gli scudi, rasentare gli elmetti, udirono le frecce volare fischiando
    Sembra quasi di poter udire la freccia che scocca e sibila.
    Ben descritta è anche la paura costante dei soldati continuamente in pericolo ed a contatto con la morte.

    E il premio sperato, promesso a quei forti,
    sarebbe, o delusi, rivolger le sorti,
    d’un volgo straniero por fine al dolor?
    Tornate alle vostre superbe ruine,
    all’opere imbelli dell’arse officine,
    ai solchi bagnati di servo sudor!

    E il premio sperato, (o delusi) promesso a quei valorosi sarebbe di rivoltare la condizione di un popolo straniero per mettere fine al suo dolore? Tornate alle vostre superbe rovine ( gli atrii muscosi, i fori cadenti), alle opere inutili delle riarse officine, ai campi bagnati di sudore servile. Come possono essere gli italiani così ingenui da pensare che questo popolo abbia patito tante sofferenze per dare a loro a libertà?

    Il forte si mesce col vinto nemico
    Col nuovo signore rimane l’antico;
    l’un popolo e l’altro sul collo vi sta:
    Dividono i servi, dividon gli armenti;
    si posano insieme sui campi cruenti
    d’un volgo disperso che nome non ha.

    I Franchi vittoriosi si uniscono ai nemici vinti. Accanto al nuovo padrone rimane quello vecchio; gli uni e gli altri vi domineranno:
    Si dividono gli schiavi e gli armenti. Si adageranno insieme sui campi bagnati di sangue che appartengono ad un popolo disperso e senza nome.
    L’autore profetizza così la sorte che attende i pavidi ed inetti italici.
    E così puntualmente avvenne.
    Carlo Magno, dopo aver donato alcuni feudi ai duchi longobardi che avevano tradito Desiderio, assunse il titolo di Re dei Franchi e dei Longobardi.

    Il coro è la sintesi del dramma di tre popoli: quello dei Longobardi, costretti alla fuga; quello dei Franchi vittoriosi, ma a prezzo di grandi sacrifici, fatiche e pericoli; quello degli italici, volgo disperso che si illude di poter riacquistare la libertà.
    La guerra crudele con i suoi orrori e le sue scene di sangue e morte è contemplata dal poeta con la tristezza di un cristiano che accetta con rassegnazione lo scorrere lento della storia intrisa di sangue e lacrime.
    Il popolo italico, accorso al rumore della battaglia, osserva pieno di ansia e speranza.
    Ma è l’assurda speranza di un volgo disperso, non del popolo che discende dagli antichi romani.
    Come può illudersi che quei guerrieri abbiamo lasciato le loro case, la moglie, i figli, gli agi per venire a liberarlo?
    Si rassegni dunque a continuare ad essere un popolo dominato ed asservito allo straniero, che certo non butterà via la sua vita per ridare la patria perduta ad un volgo che non ha più dignità né virtù.

    Questo era il messaggio che Manzoni mandava agli italiani nel 1822: il suo forte contributo al risveglio risorgimentale.

    Metrica: strofe di sei versi dodecasillabi e senari doppi
     
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    PARAFRASI - Nebbia di Giovanni Pascoli

    Analisi testuale

    Schema metrico:

    5 strofe di 6 versi ciascuna: 3 novenari + 1 ternario + 1 novenario + 1 senario. Rime: ABCBCA. Tutti i senari rimano tra loro.

    Figure di ripetizione:

    Il primo verso di ogni strofa è sempre lo stesso: «Nascondi le cose lontane». Inoltre questa formula viene ripresa in altri versi: troviamo nascondimi al v. 8 e poi nascondile al v. 26.

    Il 2¡ e il 3¡ verso formano una lieve anafora con la ripetizione del pronome «TU» seguito da due nomi, entrambi quasi sinonimi (Tu nebbia... Tu fumo...).

    Anche la formula: « ch'io veda soltanto » è ripetuta più volte, con leggere varianti: la troviamo al v. 9, poi ai vv. 15-16, di nuovo al v. 21 ed infine al v. 27.

    Al v. 26 abbiamo un esempio molto bello di figura etimologica e insieme di allitterazione: «involale al volo».

    Lo spazio:

    La lontananza: è piena di cose che vanno tenute nascoste (vv. 1, 7, 13, 19 e 25), di cose morte (v. 8), che fanno piangere (v. 14), che «vogliono ch'ami e che vada» (v. 20). Per il poeta, quello che è lontano è dunque negativo, è qualcosa che deve essere represso, dimenticato, perché fa soffrire e, cosa interessantissima, perché costringe ad amare e «andare», ad uscire dal nido, cioè a vivere. Il poeta esprime la sua paura di fronte all'ignoto del mondo esterno.

    La vicinanza: è composta da poche, essenziali presenze: una siepe (v. 9) e un muro (v. 11) che svolgono il ruolo di delimitare lo spazio ristretto intorno all'IO, due peschi e due meli (v. 15), una strada bianca (vv. 21-22), un cipresso (v. 27), un orto (v. 29) e un cane (v. 30), simbolo per eccellenza della fedeltà, dell'amicizia, della sicurezza. Questo piccolo mondo è lo spazio dell'IO, lo spazio privato e soprattutto protetto in cui rinchiudersi per evitare «le cose lontane», l'ignoto e la negatività del mondo esterno. Il «qui» del v. 30, che riassume in sé tutto il mondo vicino, è messo particolarmente in rilievo dal fatto che è posto ad inizio del verso, e che è rinforzato dal successivo «questo».

    Altri temi importanti:

    Tra lo spazio vicino e quello lontano si trova la nebbia, che svolge un ruolo importantissimo perché è ciò che permette di separare questi due mondi, e quindi di assicurare al poeta la serenità. La nebbia svolge il suo ruolo protettivo grazie alla sua capacità di nascondere le cose, e quindi di rispondere al desiderio del poeta, più volte espresso, di non vedere (vedi la costante ripetizione del tema «Ch'io veda soltanto»).

    La morte: riguardo alla morte il poeta prova dei sentimenti contraddittori. Da un lato per lui quello che è morto va celato e rimosso, perché triste e doloroso (vv. 6-7 e 13-14); ma dall'altro egli si sente legato ad essa perché sa che è l'ultimo, inevitabile rifugio dell'uomo. In altre parole, se è vero che la morte è triste e dolorosa perché racchiude un passato da dimenticare (le cose lontane), è altrettanto vero che essa è l'unica prospettiva indolore per l'uomo affranto, nella misura in cui gli offre un sonno, un riposo eterno. Il poeta sa che un giorno dovrà morire pure lui (dovrà fare «quel bianco di strada [...] tra stanco don don di campane» - vv. 21-24), e questa è la sola prospettiva che vuole intravedere per il proprio futuro («Ch'io veda là solo quel bianco di strada» - vv. 21-22). Ad accentuare questo aspetto positivo della morte come di un sonno eterno ed indolore abbiamo, nell'ultimo verso, la figura del cane fedele che sonnecchia. L'idea della stanchezza, del sonno e della morte si trovano così ad essere intimamente legate.

    La natura: che sia vegetale, animale o minerale, ha un ruolo protettivo per il poeta, e tiene lontana la visione del pianto, del mondo esterno, violento e ostile. Così, la siepe, l'orto e i quattro alberi riempiono di dolcezza il nero pane del poeta, cioè la sua vita quotidiana; il cane fedele offre un immagine insieme di pace, affetto e protezione; la nebbia è un fenomeno meteorologico positivo; e, allo stesso modo, i «lampi notturni» e i «crolli d'aeree frane» della prima strofa, pur nelle loro sembianze violente, non toccano affatto il poeta, che ne trae unicamente una visione suggestiva.

    Osservazioni conclusive:

    Le frequenti figure di ripetizione, la presenza di ritornelli sono una costante nella poesia di Pascoli, e gli danno un ritmo cantilenante. Spesso leggendo queste poesie si ha l'impressione di trovarsi di fronte ad una canzone, o più precisamente ad una nenia, dolcemente recitata. Questo loro aspetto musicale (che ne rende spesso difficile la lettura ad alta voce) rispecchia perfettamente il tipo di contenuto che veicolano: il poeta malinconico esprime un forte bisogno d'affetto e di protezione, quasi come se fosse un bambino, e la poesia, col suo ritmo cantilenante, fa le veci di una figura materna, simbolo per eccellenza di amore e protezione.

    Il fatto che la poesia si sviluppi sulla base di una contrapposizione tra mondo esterno e mondo privato, e che il primo sia connotato negativamente, mentre il secondo positivamente, è un'altra costante in Pascoli. Ciò si ricollega al bisogno di affetto e protezione, per cui, proprio come un bambino, il poeta sente la necessità di rinchiudersi in un nido e sfuggire ai pericoli della vita, rifiutando persino di "andare" ed "amare" («Nascondi le cose lontane che vogliono ch'ami e che vada!» - vv. 19-20).
    Diretta conseguenza delle osservazioni precedenti, troviamo espresso in questa poesia il rifiuto, forse inconsapevole, di crescere, di diventare adulto, attraverso la parola di un IO-bambino. Al di là della sua apparente semplicità e ingenuità, la poesia di Pascoli nasce dall'esigenza dolorosa e lacerante di dar voce a sentimenti intimi e remoti, di regredire verso un passato prenatale.

    La poesia è espressione di un IO poetico molto forte, la cui presenza è dominante. Questo ruolo dominante è accentuato dal fatto che, in tutta la poesia, non si parla mai degli uomini: le uniche presenze ammesse fanno parte del mondo naturale.

    Le descrizioni del piccolo mondo chiuso in cui si trova il poeta si caratterizzano per un forte determinismo: il muro non è coperto da un generico rampicante, ma dalle valerïane (v. 12), gli alberi nell'orto non sono soltanto specificati in numero (due..., due...), ma anche in genere (peschi e meli) (v. 15). Questa estrema precisione nella denotazione dovrebbe creare un effetto assolutamente realistico dell'ambiente descritto. In realtà queste descrizioni, poiché sono inquadrate in uno sfondo imprecisato e indeterminato (dove siamo? in che periodo? ecc.) e introdotte da una prima strofa dal contenuto altrettanto sfocato (la nebbia, il fumo, le aeree frane), accentuano l'aspetto simbolico della poesia.

    Parafrasi: Nascondi le cose lontane, tu nebbia impalpabile e incolore, tu fumo che sali all'alba, tu assomigli a un fumo che si ha con la tempesta e a un fumo che si ha con le catastrofi cosmiche. Nascondi le cose lontane e per me nascondi il passato lontano che mi ricorda la morte dei miei cari. Che io veda solo la siepe di questo orto, il muro che è pieno di crepe piene di piante spontanee. Nascondi le cose lontane: le cose sono piene di pianto! Che io veda solo le piante che danno le dolci marmellate per il povero pane. Nascondi le cose lontane che mi ricordano gli antichi affetti e che mi dicono di andare! Che io veda solo quella strada bianca che un giorno dovrò percorrere accompagnato dal suono infelice delle campane. Nascondi le cose lontane, nascondile, sottraile ai desideri e ai sogni del mio animo. Che io veda solo il cipresso e solo quest'orto vino a cui sonnecchia il mio cane.




    Dato che Pascoli ha composto sia "Nella nebbia" (Primi poemetti) che "Nebbia" (Canti di Castelvecchio) vi lascio anche questa parafrasi

    E guardai nella valle, ma tutto era scomparso, sotto la nebbia, che sembrava come un grande mare, di colore grigio, senza spiagge, tutto uguale.

    Al massimo si sentiva il rumore di certe grida lontane, forse di bestie selvatiche: probabilmente in quella brughiera c'erano uccelli persi nella nebbia.

    In cielo, in alto, potevo vedere rami di faggi, che sembravano sospesi nella nebbia, e qualche casa, che emergeva dal nulla, come fossero rovine o luoghi solitari e silensiosi.

    E un cane guaiva continuamente e non sapevo da dove veniva il suo guaito, forse a certe tracce che sentivo e che non potevo dire se lontane o vicine.

    Forse era solamente l'eco dello scalpiccio, un'eco non lenta né veloce, continuata, seppure su toni diversi. Guardai verso quel luogo, ma non vidi nulla e nessuno.

    Immaginai allora che le rovine chiedessero se sarebbe giunto prima o poi chi era responsabile di quel rumore; e che i rami mi chiedessero chi fossi.

    Forse vidi qualcuno che si muoveva, sul capo tenendo un fascio di erba. Mi sembrava di vedere, ma forse non vedevo davvero.

    Sentivo soltanto gli stridii degli uccelli persi nella nebbia, il guaito del cane, e lo scalpiccio né vicino né lontano, nella nebbia.
     
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    IL CANTICO DELLE CREATURE, PARAFRASI E COMMENTO


    Il Cantico delle Creature


    Nell’anno 1224, fu scritto uno dei più primi testi letterari teocratici, ossia “Il Cantico delle Creature”, il quale lo si può definire anche come “Il Cantico dello frato Sole” a causa del suo contenuto altamente teocratico. Il creatore di codesta a parer mio, splendida opera, risulta essere Francesco d’Assisi, egli dapprima figlio d’imprenditore, decide di rinunciare ad ogni più comune bene al fine di operare come meglio poteva, la parola di Dio, la quale ribadiva la nullità dei beni terreni in confronto alla reale ed elevata importanza dei valori che avevano come fine ultimo la salvezza dell’anima. Egli scrive questa opera così ricca di speranza e di profondo amore nei confronti di Dio, proprio nel periodo in cui la sua vita giungeva al termine, però nonostante tutto, ciò non è facilmente constatabile proprio perchè, se la si legge con maggior attenzione, si potrebbe notare, a partire dal 27° verso della sua splendida opera, che egli considera la morte come una “sorella”, in quanto questa rappresenta la comunione con la vita eterna, poiché S. Francesco sostiene che vi sia una sostanziale differenza fra la morte “terrena” e quella spirituale. Infatti secondo la parola del nostro Gesù, il corpo non è null’altro che la dimora della nostra anima, facendoci così comprendere l’immortalità di quest’ultima nei confronti della scontata mortalità del nostro corpo. Già da questi versi che vedono come protagonista una ben lieta morte, dovremmo capire il tema centrale di quest’opera, ossia la lode al nostro amato Signore, e al suo operato. È incredibile come il nostro Santo (S. Francesco fu poi canonizzato nel 1228), abbia incorporato in essa parole così piacevoli da leggere,parole pure, parole ricche di gioia e di amore, che, per la loro meravigliosità, non potevano avere come destinatario altri se non nostro Signore. Essa risulta essere scritta con una semplicità disarmante, semplicità che meritano appunto le creature e la natura. Inoltre, gli aggettivi, anche per un singolo soggetto possono variare, come ad esempio il sole, che viene rapportato a Dio come la luce che ci indica la retta via e ci protegge, viene espresso in diverse circostanze, come ad esempio quella del “iorno”, ossia il giorno che risulta far parte anch’esso dei membri appartenenti alla luce, tutto ciò risulta strutturato in maniera precisa e non che piacevole quindi alla lettura. Inoltre, codesta opera segue una precisa e per nulla casuale struttura gerarchica al quale vertice si pone “la frato Sole” che, anche se in maniera indiretta, risulta presente in tutta l’opera, seguono poi “lo frato Vento”, l’acqua, l’aria, la terra e il fuoco. Secondo il mio semplice parere, in quanto per la società non sono che una comune studente, questa composizione esprime con un’arte precisa e raffinata, i puri sentimenti di S. Francesco, poiché la dolcezza e la delicatezza che si ha nei primi versi e puntualmente ogni volta che si ha un nuovo tema, non lasciano trasparire altro che un uomo che ha rinunciato al piacere e alla ricchezza, vestendosi con una vergognosa Iuta, tutto per amore di Dio. Penso che un uomo così non vada soltanto studiato, penso che un uomo così vada soprattutto ammirato.
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    Scritto forse nel 1224, nell'ultimo periodo della vita di San Francesco, il Cantico delle creature, altrimenti chiamato Cantico del Sole è uno dei primi testi poetici in volgare della letteratura italiana; è collocato in un periodo storico in cui sono attivi movimenti religiosi quali i Catari, il Gioachinismo, quello dei Dominicani, oltre a quello di San Francesco: solo gli ultimi due non sono stati ostacolati dalla Chiesa.
    Rappresenta una lode a Dio in cui emerge con particolare spontaneità il tema dell’umiltà, principio di vita di San Francesco, inteso anche come sommo rispetto verso il Signore; è evidente, inoltre, la necessità di lode e di gratitudine stimolata dalla magnificenza della natura che lo circonda. Da ciò scaturiscono il concetto di ringraziamento, attraverso la glorificazione di tutte le creature da Lui generate, poiché rappresentano la Sua onnipotenza, e la Sua misericordia rivolta a tutti.
    Nella strofa iniziale si magnifica l’esistenza della realtà divina: “…tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione…”. Nel secondo gruppo di versi, a conferma del concetto di lode precedentemente presentato, San Francesco indica una nuovo “precetto”, ovvero il nome del Signore non si può nemmeno pronunciare perché non sarebbe degno: “…et nullu homo ène dignu te mentovare…”. Nelle successive sei strofe si esaltano il sole, la luna, il vento l’acqua , il fuoco e la terra: appellati come fratelli o sorelle per indicare la comune paternità. La presenza di tali indica la profonda conoscenza dell’autore:questi, infatti, erano gli elementi strutturali fisici del Medioevo. Infine, tra versi di lodi, vi è quasi una “stonatura”: il ringraziamento di “sora morte corporale” (la morte fisica) dalla quale nessuno può fuggire, denotata come antifona alla seconda morte, quella spirituale che non nuocerà a chi è in grazia di Dio. A mio parere, ciò che è maggiormente da sottolineare è come San Francesco espliciti la propria “devozione” con termini comprensibili, rivolti all’umanità intera, suggerendo, però alcuni segni simbolo di una profonda cultura.
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    PROSA CANTICO DELLE CREATURE

    [Altissimo, onnipotente, buon Signore, | tue sono le lodi, la gloria e l'onore e ogni benedizione. | A te solo, Altissimo, si confanno | e nessun uomo è degno di ricordarti. || Laudato sii, mio Signore, con tutte le tue creature, | specialmente messèr fratello sole, | il quale diffonde la luce del sole, e tu ci illumini per mezzo suo, | e lui è bello, raggiante con gran splendore; | di te, Altissimo, reca il significato. || Lodato sii, mio Signore, per sorella luna e le stelle; | le hai formate in cielo chiare e preziose e belle. || Lodato sii, mio Signore, per fratello vento, | e per ogni movimento del vento, per il nuvolo, il sereno e ogni tempo | per il quale alle tue creature dà i sostegno. || Lodato sii, mio Signore, per sorella acqua, | che è molto utile, umile, preziosa e casta. || Lodato sii, mio Signore, per fratello fuoco, | per il quale illumini la notte, | ed egli è bello, giocoso, robusto e forte. || Lodato sii, mio Signore, per sorella nostra madre terra, | la quale ci sostenta e governa, | e produce diversi frutti, con fiori colorati e erba. || Lodato sii, mio Signore, per quelli che perdonano grazie al tuo amore, | e sostengono malattie e guai. | Beati quelli che sopporterranno in pace, | che da te, Altissimo, saranno ricompensati. || Lodato sii, mio Signore, per nostra sorella morte corporale, | dalla quale nessun uomo che viva può scappare. | Guai a quelli che morranno in peccato mortale; | beati quelli che troverà nelle tue santissime volontà; | che la seconda morte non gli farà male. || Lodate e bedicete il mio Signore e ringraziate, | e servitelo con grande umiltà.
     
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    Parafrasi: 5 Maggio, Alessandro Manzoni

    Ei fu. Siccome immobile,

    dato il mortal sospiro,

    stette la spoglia immemore

    orba di tanto spiro,

    così percossa, attonita

    la terra al nunzio sta,

    muta pensando all'ultima

    ora dell'uom fatale;

    né sa quando una simile

    orma di pie' mortale

    la sua cruenta polvere

    a calpestar verrà.

    Lui folgorante in solio

    vide il mio genio e tacque;

    quando, con vece assidua,

    cadde, risorse e giacque,

    di mille voci al sònito

    mista la sua non ha:

    vergin di servo encomio

    e di codardo oltraggio,

    sorge or commosso al sùbito

    sparir di tanto raggio;

    e scioglie all'urna un cantico

    che forse non morrà.

    Dall'Alpi alle Piramidi,

    dal Manzanarre al Reno,

    di quel securo il fulmine

    tenea dietro al baleno;

    scoppiò da Scilla al Tanai,

    dall'uno all'altro mar.

    Fu vera gloria? Ai posteri

    l'ardua sentenza: nui

    chiniam la fronte al Massimo

    Fattor, che volle in lui

    del creator suo spirito

    più vasta orma stampar.

    La procellosa e trepida

    gioia d'un gran disegno,

    l'ansia d'un cor che indocile

    serve, pensando al regno;

    e il giunge, e tiene un premio

    ch'era follia sperar;

    tutto ei provò: la gloria

    maggior dopo il periglio,

    la fuga e la vittoria,

    la reggia e il tristo esiglio;

    due volte nella polvere,

    due volte sull'altar.

    Ei si nomò: due secoli,

    l'un contro l'altro armato,

    sommessi a lui si volsero,

    come aspettando il fato;

    ei fe' silenzio, ed arbitro

    s'assise in mezzo a lor.

    E sparve, e i dì nell'ozio

    chiuse in sì breve sponda,

    segno d'immensa invidia

    e di pietà profonda,

    d'inestinguibil odio

    e d'indomato amor.

    Come sul capo al naufrago

    l'onda s'avvolve e pesa,

    l'onda su cui del misero,

    alta pur dianzi e tesa,

    scorrea la vista a scernere

    prode remote invan;

    tal su quell'alma il cumulo

    delle memorie scese.

    Oh quante volte ai posteri

    narrar se stesso imprese,

    e sull'eterne pagine

    cadde la stanca man!

    Oh quante volte, al tacito

    morir d'un giorno inerte,

    chinati i rai fulminei,

    le braccia al sen conserte,

    stette, e dei dì che furono

    l'assalse il sovvenir!

    E ripensò le mobili

    tende, e i percossi valli,

    e il lampo de' manipoli,

    e l'onda dei cavalli,

    e il concitato imperio

    e il celere ubbidir.

    Ahi! forse a tanto strazio

    cadde lo spirto anelo,

    e disperò; ma valida

    venne una man dal cielo,

    e in più spirabil aere

    pietosa il trasportò;

    e l'avvïò, pei floridi

    sentier della speranza,

    ai campi eterni, al premio

    che i desideri avanza,

    dov'è silenzio e tenebre

    la gloria che passò.

    Bella Immortal! benefica

    Fede ai trïonfi avvezza!

    Scrivi ancor questo, allegrati;

    ché più superba altezza

    al disonor del Gòlgota

    giammai non si chinò.

    Tu dalle stanche ceneri

    sperdi ogni ria parola:

    il Dio che atterra e suscita,

    che affanna e che consola,

    sulla deserta coltrice

    accanto a lui posò.


    L'ode si apre con un forte inciso "Ei fu". Egli fu. Il corpo di Napoleone (il cui nome è sempre taciuto nel testo) che ormai dimentica le sue vicende terrene (“la spoglia immemore”) giace immobile sul letto di morte, dopo aver esalato l’ultimo respiro (“dato il mortal sospiro”), privo di un così energico spirito vitale (“orba di tanto spiro”) allo stesso modo il mondo, all’annuncio di quella morte (“la terra al nunzio sta”), è colpito e stupefatto (“così percossa, attonita”) immaginando la probabile morte di quell’uomo scelto dal fato (uom fatale); si chiede quando mai un altro uomo altrettanto grande potrà lasciare impressa una traccia (“orma”) paragonabile a quella che egli ha lasciata sulla polvere insanguinata dalle guerre (“cruenta polvere”). Ma l’espressione di Manzoni “piè mortale” vuole sottolineare che Napoleone era solo un uomo e quindi le sue imprese erano eccezionali, mentre con l’immagine della “cruenta polvere” ci fa intendere che la storia umana è sanguinosa e tragica. Poi il Manzoni spiega perché lo canta ora che è morto.

    Il poeta (“il mio genio”) vide Napoleone nel suo massimo splendore sul trono imperiale (“lui folgorante in solio”) e lo vide poi, con alterna vicenda (“con vece assidua”) cadere (in seguito alla sconfitta di Lipsia e all’abdicazione di Fontainebleau, allorché Napoleone fu relegato sull’isola di Elba, nel 1814), risorgere (nel periodo dei Cento giorni, quando Napoleone sbarcato in Francia, recuperò gran parte del potere d’un tempo), ricadere (fu sconfitto definitivamente a Waterloo nel 1815 e relegato a Sant’Elena), eppure aveva sempre taciuto di lui (il poeta), e non aveva mai mescolato la sua voce al coro dei tanti (mille voci al sonito, sonito = latinismo per suono).

    Il soggetto rimane il suo genio, il quale, conservatosi puro da adulazioni servili (“vergin di servo encomio”) come da offese vili (“codardo oltraggio”) ora che Napoleone è scomparso così improvvisamente (“subito sparir di tanto raggio”), manifesta la sua commozione (“sorge or commosso”) e sulla sua tomba (all’urna) innalza un canto solenne che forse resterà nel tempo.

    Enumera le campagne napoleoniche. L’azione fulminea di quell’uomo deciso e geniale (“di quel securo il fulmine”) seguiva immediatamente al concepimento di un piano (“tenea dietro al baleno”); questo si verificò nelle Alpi (la vittoriosa campagna d’Italia del 1797) alle Piramidi (la campagna d’Egitto del 1798-99) dal Manzanarre (il fiume che bagna Madrid e quindi la campagna di Spagna del 1808-9) al Reno (le campagne di Germania, dal 1805 al 1813). Questo fulmine scoppiò (prosegue la metafora del fulmine con il rumore del tuono) dallo stretto di Messina (Scilla si trova in Calabria) fino al Don in Russia (Tanai: nome classico del Don) da un mare all’altro (dall’Atlantico al Mediterraneo).

    Manzoni si chiede se quello di Napoleone è da reputarsi vera gloria. La difficile risposta (“ardua sentenza”) è lasciata ai posteri perché loro non possono che chinarsi riverenti di fronte alla volontà del Creatore (“nui chiniam la fronte al Massimo Fattor”) che ha voluto imprimere in quell’uomo un così grande segno del suo potere (“che volle … stampar”).





    Egli provò (“ei provò”) la gioia tempestosa e trepidante di chi progetta grandi disegni, l’emozione di un cuore che, sia pur controvoglia, è costretto ad obbedire (indocile – si riferisce a quando Napoleone era ancora ufficiale), meditando già la conquista del potere (pensando al regno). Ed ecco che lo ottiene (“il giunge”) e anzi ottiene un premio tale che era folle sperare (“tiene un premio che era follia sperar”). Provò anche la gloria, che è tanto maggiore quanto più grandi sono i pericoli superati, la sconfitta e la vittoria, la reggia e la tristezza dell’esilio.

    Egli si autoproclamò (Ei si nomò): due secoli, il ‘700 e l’800, rappresentanti di due situazioni politiche (rivoluzione e restaurazione) in lotta fra loro, dovettero sottomettersi (“sommessi a lui si volsero”), aspettando da Lui la decisione sul loro destino. E si sedette in mezzo a loro (“s’assise”) in posizione di dominio..



    Il poeta si trasferisce ora al tempo dell’esilio di Sant’Elena (sì breve sponda – contrasto con l’ampiezza territoriale delle sue conquiste). Dice che egli scomparve e concluse i suoi giorni nella più totale inattività (“nell’ozio”). Fatto segno di sentimenti opposti ed estremi: immensa invidia da parte dei rivali, pietà profonda dagli uomini che riuscivano a captare il dramma della sua vita, inestinguibile odio dai nemici e indomato amor (cioè amore eterno) dai fedeli.

    Comincia adesso un lungo ed elaborato paragone: come sul capo del naufrago s’avvolge e minaccia di travolgerlo, quella stessa onda sulla quale fino a poco prima spingeva la sua vista nella vana speranza di scorgere in lontananza la costa, allo stesso modo su quell’anima scese il peso troppo grave delle memorie. (Napoleone in esilio è qui paragonato a un naufrago che cerca inutilmente una via di scampo, ma alla fine si lascia sommergere dal mare in tempesta; così egli, dopo aver lottato tanto, quasi schiacciato dal peso dei ricordi e delle responsabilità, s’abbandona alla disperazione).

    Inutilmente l’esule s’accinse più volte a scrivere le sue memorie per i posteri: la mano gli cadeva scoraggiata di fronte a quelle pagine interminabili (“eterne”) e a quelle vicende che ora non capiva più.



    Manzoni continua a descrivere la vita dell’esule a Sant’Elena. Quante volte al silenzioso tramonto di un giorno trascorso in una forzata inattività (inerte), con gli occhi fissi a terra (la figura di questa sconfitta è magistralmente descritta dall'immagine "chinati i rai fulminei": gli occhi, rai, una volta balenanti sono ora chini al suolo) e le braccia conserte, egli rimase immobile ed era assalito dal ricordo (sovvenir) del passato.



    Segue poi l’elenco di quei ricordi, rappresentati per lo più da guerre e battaglie: il continuo spostarsi degli accampamenti (“le mobili tende”), i colpi alle fortificazioni nemiche (“i percossi valli”), lo scintillare delle armi dei plotoni (“il lampo de' manipoli”), l’onda della cavalleria, i comandi veloci (“concitato imperio”), l’esecuzione altrettanto rapida degli ordini (“celere ubbidir”).



    Il poeta immagina che forse davanti al contrasto straziante tra il passato tumultuoso e il presente così inerte, quell’animo spossato (anelo – latinismo) fu preso dalla disperazione.

    Qui comincia l’ultimo tema dell’ode, la fiducia in Dio, che è speranza per tutti quelli che soffrono. Così anche Napoleone, caduto nella disperazione, trova rifugio e conforto nella mano di Dio, che pietosamente lo trasporta “in più spirabil aere” e lo avvia per i sentieri fioriti della speranza, verso orizzonti infiniti, verso una meta che è più radiosa di ogni desiderio (la gloria eterna che supera ogni desiderio umano), in un regno dove tutto è pace, dove non giunge più l’eco della gloria fragile e debole degli uomini (la gloria che passò)



    Fede benefica e immortale. Fede abituata ai tronfi.

    Registra anche questa tra le tue vittorie. Mai un uomo più potente di Napoleone si chinò dalla sua altezza per rendere onore alla croce della passione di Cristo, (quella croce eretta sul colle del Golgota, che doveva essere nell’intenzione dei carnefici una pena disonorante -“disonor del Golgota”- e fu invece un simbolo di sublimazione).

    A conclusione dell’ode invita la Fede a fare il silenzio intorno alla spoglia (“stanche ceneri”) di Napoleone morente e a disperdere ogni parola irriverente nel momento solenne della morte: perché accanto a quell’uomo, sul suo letto di morte abbandonato da tutti (“deserta coltrice” – latinismo- è letteralmente il materasso), venne Dio stesso, quel Dio che atterra e suscita, che può abbattere gli uomini superbi e risollevare coloro che si umiliano, che può punire con la disperazione, ma anche concedere la serenità che consola.


    Tema: L'ode il Cinque Maggio fu scritta, di getto, in soli tre o quattro giorni, dal Manzoni commosso dalla conversione cristiana di Napoleone avvenuta prima della sua morte. Nonostante la censura austriaca, l'ode ebbe una larga diffusione europea grazie al Goethe che la fece pubblicare su una rivista tedesca L'ode scritta dal Manzoni, per alcune tematiche (tema del ricordo, evocazione della storia) ha delle analogie con il Coro di Ermengarda e con la Pentecoste e soprattutto ha in comune con essi, quello schema che parte da un inizio drammatico e si conclude con un moto di preghiera.

    Ha un andamento epico-marziale e Napoleone diventa un personaggio metastorico (fuori dalla storia).

    L'Ode può essere divisa in due parti:

    - la prima che va dal prologo fino alla nona strofa, di tono epico, in cui emerge la figura storica di Napoleone, dall'ascesa alla caduta.

    - la seconda dalla decima strofa in poi, di tono più contemplativo e lirico (si entra qui nell'animo dell'imperatore) il cui motivo conducente e la definitiva caduta di Napoleone come uomo e l'inizio del suo riscatto spirituale e religioso.


    Forma metrica: Ode di 18 strofe di settenari.
     
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    Parafrasi "La cavalla Storna", di Giovanni Pascoli


    Nella torre il silenzio era già alto.
    i pioppi del rio salto sussurravana
    i cavalli francesi al loro posto mangiavano la biada con rumore di croste(fragorosamente)
    là in fondo c'era la cavalla selvaggia,nata tra i pini sulla spiaggia salata
    che nelle narici aveva ancora gli spruzzi del mare e nelle orecchie glistrilli forti.
    di fianco alla groppa aveva mia madre che la guidava:oh cavallina cavallina grigia che hai riportato colui che non ritorna tu capivi i suoi cenni e le sue parole. egli ha lasciato un giovane figlio,il primo ad aver studiato tra i miei figli e le mie figlie, e la sua mano non ha mai toccato le briglie.
    tu che hai fianchi ricevi il comando
    dai retta alla sua piccola mano.
    tu hai nel cuore la terra del mare
    tu dai retta alla sua voce giovane''.
    la cavalla girava la testa scarna vero mia madre che diceva più triste ''oh cavallina cavallina grigia che hai riportato colui che nn ritorna,lo so lo so che tu lo amavi tanto.con lui c'eravate tu e la sua morte
    oh tu nata nei boschi tra le onde ed il vento
    tu hai tenuto nel cuore il tuo spavento avendo il morso nella bocca.nel cuore veloce tu hai rallentato la corsa,hai seguitato a camminare adagio affinchè agonizzassse in pace''.
    la sua scarna lunga testa era vicina al volto in lacrime di mia madre.
    ''oh cavallina cavallina grigia che hai riportato colui che non ritorna
    oh,deve aver pur detto qualcosa!
    e tu le hai capite ma non le sai ripetere.
    tu con le briglie sciolte tra le zampe
    con dentro gli occhi le fiamme del fuoco
    con nelle orecchio l'eco degli spari
    hai continuato a camminare tra gli alti pioppi:
    lo hai riportato a casa al tramonto
    perchè riuscissimo ad udire le sue parole.''
    stava attenta con la sua lunga testa fiera.
    mia madre l'abbracciò sulla criniera.''oh cavallina cavallina storna che hai riporato a casa colui che non ritorna,hai riportato a me colui che non ritornerà mai più
    tu sei stata buona ma nn sai parlare.
    tu nn lo sai fare poverina e gòli altri nn osano farlo.
    oh ma tu devi dirmi una cosa
    tu l'hai veduto l'uomo che lo ha ucciso.la sua immagine ce l'hai ancora fissa negli occhi.
    chi è stato?chi è'ti voglio dire un nome.e tu fammmi cenno.dio ti insegni come fare''
    ora i cavalli non masticavano la biada
    dormivano sognando la strada bianca
    non battevano la paglia con le zampe senza zoccoli
    dormivano sognando il rullo delle ruote dei carri.
    mia madre alzò nel gran silenzio un dito
    mia madre disse un nome e risuonò un nitrito....



    Parafrasi "A Firenze", di Ugo foscolo

    Anche tu sarai ricordata eternamente attraverso la mia poesia,
    tu che con il tuo fiume Arno,
    dividi in due parti la città che finora più di altre
    pareva conservare una traccia dell' antica perduta
    grandezza romana.
    ( Qui il Foscolo allude al ruolo fondamentale svolto da Firenze nel Rinascimento, vera rinascita della civiltà classica ).

    Già dal tuo ponte ( il ponte di S. Trinità, dove abitava l' Alfieri )
    gli scontri feroci tra guelfi, nemici del papa, e ghibellini,
    amici del papa, versavano gran sangue; oggi, invece, è mostrata (nella tua città) la dimora di Alfieri.
    ( l' Alfieri, il poeta che proprio negli ultimi anni, nel suo soggiorno
    fiorentino, aveva accennato il suo atteggiamento solitario e sdegnoso
    [lo stesso con cui il Foscolo lo ritrarrà nei Sepolcri].

    Per me, cara, felice, nobile riva,
    mossa da piedi leggiadri di una donna,
    simile ad una dea nell' incedere,
    che mi guardava con i suoi occhi beati,
    mentre il mio cuore sentiva un profumo divino diffondersi
    dalle sue chiome nell' aria che pareva mossa dal suo fascino.

    [ L' Ambrosia era il profumo in cui si avvolgevano gli dei ].


    Parafrasi "A mia moglie", di Umberto Saba


    §[versi 1-24]
    ›Tu sei come una giovane bianca pollastra, ti si arruffano i capelli come le piume di una gallina che nel bere china il collo e nel mangiare raspa la terra.
    Tuttavia nell’andare hai un lento passo di regina che cammina sull’erba robusta e superficiale. Ciò è migliore che nel maschio, così come tutte le cose migliori di esso, più intime, più dolci che si avvicinano al divino. Tutto questo è a mio giudizio, poiché nessuna come te si avvicina alle cose serene della natura, nessuna come te è degna di ritrovarsi nella bianca pollastra e nella gravida giovenca. Quando la sera reca il sonno nei pollai, le gallinelle mettono voci che ricordano le tue dolcissime querele quando ti lamenti un poco dei tuoi mali; nessuno ci aveva sinora fatto udire con tali orecchi la voce serale dei pollai.

    §[versi 25-37]
    ›Tu sei come una gravida giovenca, materna ma ancora festosa e giovanile, senza la gravità che è consueta a quegli animali. Così come una giovenca se la lisci, volge il collo così come una rosa tinge tenera la sua carne; invece se la incontri e la odi mentre muggisce, quel suono ti è tanto lamentoso che le strappi l’erba di bocca per farle un dono. Di tal modo ti offro il mio dono quando sei triste.

    §[versi 38-52]
    ›Tu sei come una cagna dal collo lungo, che ha sempre tanta dolcezza negl’occhi ma ferocia nel cuore. Proprio per questo sembra una santa ai piedi del padrone, una santa nel quale arde un fervore indomabile simile a quello che Dio ha in serbo per te. In casa o per via ti segue e mostra i candidissimi denti a chiunque osi avvicinarti. E’ il suo amore che soffre di gelosia.
    §[versi 53-68]
    ›Tu sei come la timida e paurosa coniglia, che ,quando non le viene recato ciò che gli attende, si rannicchia nella sua angusta gabbia cercando angoli bui. Chi potrebbe mai far soffrire una coniglia, così pavida e mansueta? Chi potrebbe far soffrire te così simile a lei?

    §[versi 69-76]
    ›Tu sei come la rondine che ritorna in primavera ma che riparte in autunno. Tu non hai nient’altro che la stessa arte. Questo hai in comune alla rondine, le movenze leggere; e questo che ancora che a me, che mi sentivo vecchio nell’animo, annunciasti col tuo arrivo una nuova primavera.

    §[versi 77-87]
    ›Tu sei come la formica laboriosa. Di lei parla la nonna al bimbo che l’accompagna, quando escono a fare una passeggiata in campagna. Ora dunque ritrovo tutto ciò che è del tuo amore nell’ape e in tutti le femmine degli animali sereni che si avvicinano al divino e in nessun altra donna.



    Parafrasi "A Se Stesso", di Giacomo Leopardi

    Ora, o mio cuore stanco, riposerai x sempre, nn avrai piu` motivo di palpitare ancora x qlcs ke ti puo` solo fare soffrire. E` morta anke l'ultima illusione quella ke io avevo creduto ke nn dovesse morire mai. Mori`, me ne rendo conto kiaramente, in te e in me, o mio cuore, si e` spenta nn sl la speranza ma anke il desiderio dei dolci inganni d'amore. smetti x sempre di sbattere, di soffrire. hai palpitato, hai sofferto abbastanza x amore. niente merita i tuoi palpiti e il mondo nn e` degno dei sospiri della tua sofferenza. la vita e` soltanto dolore e noia e niente altro, e il mondo e` qlcs di spregevole, privo di qualsiasi valore. calmati, dispera x l'ultima volta. il destino ha fatto al genere umano un solo dono: quello di morire. ormai, o mio cuore, disprezza te stesso, cioe` la tua inutile sensibilita`, la natura cosi` ostile e crudele e la cinica forza ke segretamente domina su tutto nn x il bene ma x il male dell'umanita`, il brutto potere ke kausa un danno comune, e l'assoluta inutilta` del tutto.


    Parafrasi "A Silvia", di Giacomo Leopardi


    Silvia, ricordi ancora quando eri in vita

    Quando la tua bellezza splendeva, nei tuoi occhi ridenti e schivi,

    e tu lieta e pensierosa ti apprestavi al passaggio dall’adolescenza alla maturità.



    Suonavano le stanze tranquille e le strade al tuo continuo canto,

    quando tu eri intenta ai lavori femminili, sedevi contenta per il tuo avvenire ancora da definire.

    Era Maggio e tu eri abituata a lavorare.



    Talvolta lasciavo gli studi piacevoli e quelli faticosi su cui trascorrevo la mia adolescenza e veniva spesa la migliore parte di me.

    Dalle stanze e dai balconi della casa paterna io ascoltavo la tua voce. E ti immaginavo lavorare con fatica alla tela.

    Guardavo il cielo sereno, le vie illuminate, e la campagna intorno,

    Da questa parte il mare e dall’altra parte le colline.

    Non ci sono parole giuste per esprimere i sentimenti che provavo nel mio cuore.



    Che bei pensieri,

    che speranze, che cuori, o Silvia mia!

    Come ci sembrava allora la vita umana e il destino!

    Quando mi ricordo di tanta speranza

    Un sentimento molto forte mi opprime e torno a dolermi della mia sfortuna.

    O natura, o natura, perché non mantieni le tue promesse? Perché ci inganni?



    Prima che giungesse l’inverno, venivi uccisa da un dolore forte e morivi o tenerella, e non vedevi la tua adolescenza.

    Non ti struggeva il cuore, le lodi dei ragazzi per i tuoi capelli neri ora dei tuoi sguardi innamorati e schivi.

    E con te le tue amiche non parleranno d’amore durante i giorni di festa.



    Anche la mia speranza morì poco tempo dopo: anche a me il destino ha negato la giovinezza. Ahi come sei passata cara compagna della mia infanzia, mia compianta speranza!

    Questo è quel mondo? Sono questi i divertimenti, l’amore, le opere, gli eventi di cui abbiamo tanto discusso insieme?

    E’ questa la sorte degli esseri umani? All’apparire della verità tu moristi: e con la mano indicavi da lontano la fredda morte ed una tomba spoglia.


    Parafrasi "A Zacinto", di Ugo Foscolo


    A Zacinto: Io non verrò mai più sulle tue rive sacre dove io vissi da bambino, o Zacinto che ti specchi nel mar Greco da cui è nata secondo la mitologia la dea Venere, e rese quelle isole feconde con il suo primo sorriso.
    Motivo per cui cantò il verso inclito di Omero che cantò le acque fatali e giunse poi a baciarle la sua Itaca piena di pietre.
    Tu, mia Zacinto non avrai altro che il mio canto, a me il destino ha voluto una sepoltura illacrimata.

    Infinito: Questa collina solitaria mi e' sempre stata cara, e cosi' pure questa siepe, che esclude lo sguardo da tanta parte dell'orizzonte piu' lontano. Ma, stando seduto e guardando, io immagino al di la' di questa siepe spazi immensi, silenzi totali e una calma profondissima, tanto che per poco il cuore non si sgomenta. E, non appena odo il vento frusciare fra queste piante come un uccello che batte la ali, paragono quel silenzio infinito a questo frusciare del vento: e mi torna alla mente l'idea dell'eternita'. Mi appaiono le epoche passate e quella presente, che percepisco attraverso le sue manifestazioni reali: il suono della vita. E cosi', tra questa immensita' spazio-temporale, il mio pensiero perde ogni consapevolezza: e perdersi nel pensiero dell'immensita' dell'infinito mi e' dolce.



    Parafrasi "Alla Luna", di Giacomo Leopardi


    O graziosa luna, mi ricorso che un anno fa io venivo a guardarti pieno d´angoscia sopra questo colle e ti affacciavi come fai adesso illuminando tutto. Ma il tuo volto mi appariva offuscato e tremante ai miei occhi in lacrime a causa della mia vita piena di dolore come lo è ora e non cambia mai! Eppure mi fa bene ricordare e raccontare il mio dolore. Oh come è gradito durante la gioventù, quando davanti c´é ancora tanta speranza e poca memoria del passato da ricordare anche se era triste e pieno di sofferenze che durano ancora adesso



    Parafrasi " Alla Musa", di Ugo Foscolo

    Eppure tu, o Musa, un tempo versavi sulle mie labbra una feconda abbondanza di poesia, quando la prima stagione della mia giovinezza fuggiva e dietro di lei veniva questa età presente, che scende con me per una via dolorosa verso la muta riva del fiume Lete: ora ti invoco senza essere ascoltato;ohimè, solo una scintilla dell’antica ispirazione poetica è ancora viva in me.
    E tu, o Dea, fuggisti con lo scorrere del tempo, e mi lasci ai pensosi ricordi e ad un timore cieco del futuro.
    Perciò mi accorgo, e amore me lo ripete, che rare poesie, frutto di faticosa elaborazione, non riescono a sfogare il dolore che ormai inevitabilmente mi accompagna.


    Parafrasi "Alla primavera o delle favole antiche", di Giacomo Leopardi

    Secondo un antico mito Filomela, dopo aver subito violenza e avere assistito a grandi atrocità, fu trasformata in usignolo. E cosí il “musico augel” che inizia il canto al tramonto ha goduto fama di essere esperto delle vicende umane: le sue note non sarebbero altro che un lamento per la sventura subita e per la triste condizione degli uomini.
    La consapevolezza scientifica (e filosofica) ha smascherato la fallacia del mito, ha distrutto l’illusione, ha restituito alla indifferenza della Natura il canto dell’usignolo che non è mosso da alcun dolore e che nulla ha a che vedere con il genere umano. Una indifferenza della Natura sempre piú evidente dopo la caduta delle illusioni del mito (“... poscia che vote / son le stanze d’Olimpo ...”): per tutti, giusti e ingiusti, l’unico destino destino è la fredda dissoluzione nella morte. Nell’ultima pagina dell’autografo Leopardi annota: “[...] oggi stante la mancanza delle illusioni, la terra stessa e l’albergo stesso dei vivi, è divenuto sede di morte, e tutto morto”.
    A questo punto – di fronte all’evidenza del Nulla – Leopardi vuole recuperare l’illusione degli antichi, la “favella antica”, che non è l’ingenuità del mito, ma, come le “Favole antiche” del titolo, la capacità comunicativa della fabula (dal latino for, faris, “io parlo” e, quindi, “io comunico”, “io esprimo”). La fabula mette l’uomo in comunicazione con la Natura; e proprio alla Natura si rivolge Leopardi negli ultimi versi per ristabilire il contatto e il dialogo che la razionalità scientifica sembrava avere interrotto per sempre: eppure tu vivi, o Natura, e non può non esserci sulla terra, o in cielo o nelle acque degli oceani qualcosa che, vivendo, rompa la tua indifferenza e ci degni almeno di uno sguardo.
    In questi versi, accanto ai temi consueti nel pensiero di Leopardi (la consapevolezza del Nulla, la capacità salvifica dell’illusione) ci sembra compaia quello, meno usuale, della innocenza della Natura. L’usignolo, spogliato della carica emotiva attribuitagli dal mito, diventa meno caro agli uomini, ma “di colpa ignudo”, come la Natura a cui esso è stato restituito, nascosto in fondo a una valle buia. L’innocenza della Natura carica di enormi responsabilità l’uomo, ma gli lascia aperta la strada per comunicare con lei, per poterla chiamare “vaga”, bella. In fondo questa nostra facoltà di fabulare è un suo dono).


    Parafrasi "Alla Sera", di Ugo Foscolo


    Forse perche’ tu o sera sei l’ immagine della morte, così gradita quando vieni a me. Sempre scendi gradita sia quando ti accompagnano le nuvole estive e i venti sereni, sia quando tu o sera porti dal cielo nevoso tenebre lunghe e inquietanti e tu occupi le vie segrete del mio cuore con dolcezza. Tu o sera mi fai vagabondare sulle orme della morte e intento il tempo che sto vivendo fugge e con lui vanno le preoccupazioni, per colpa delle quali il tempo si consuma con me; e mentre io osservola tua pace, dorme lo spirito che dentro di me ruggisce



    Parafrasi"All'Italia", di Giacomo Leopardi




    Italia, io vedo i tuoi monumenti antichi, ma non la tua gloria. Non vedo la gloria poetica e militare dei nostri avi. Tu ora mostri, da inerme, fronte e petto senza ornamenti, se non le ferite livide e sanguinolente. Come ti vedo ora, o donna bellissima!
    Chiedo al cielo e al mondo chi ti ha ridotto così. La cosa peggiore è che è incatenata, in modo che sta seduta a terra, senza nessuno che le dia attenzione, i capelli arruffati, senza velo, e nasconde la faccia tra le gambe e piange.
    O Italia, piangi, perché ne hai ragione, tu che sei nata per dominare i popoli nella buona e cattiva fortuna. Se i tuoi occhi fossero sorgenti, non potresti mai piangere abbastanza per la tua rovina. Sei stata padrona, ora sei servetta. Chi parla o scrive di te deve per forza ammettere, ricordando il tuo passato, che sei stata grande e non lo sei più.
    Dov'è finita la tua forza antica? Il valore militare? Chi ti ha tolto la gloria militare? Chi ti ha tradito? Quale inganno o quale forza o potere ti hanno tolto la gloria? Come o quando sei riuscita a perderla?
    Nessuno combatte per te? Nessuno dei tuoi abitanti ti difende? Io combatterò e mi farò uccidere per te. Cielo, fa' che la mia morte infiammi i cuori degli Italiani. Dove sono i tuoi abitanti? Gli Italiani, a quel che sento, combattono all'estero. Aspetta, Italia.
    Io vedo avvicinarsi un esercito. Non ti rallegri a sentire questa notizia e non sopporti di piegare gli occhi a questo evento sul quale hai dubbi?
    Perché i giovani italiani combattono laggiù? O Dei, combattono per un'altra terra! Infelice è chi muore in guerra non combattendo per la patria, ma è ucciso per un altro paese e non può invocare la patria morendo: "ti rendo la vita che mi hai dato".
    Fortunati gli antichi, che potevano combattere per la patria e voi Termopili, dove pochi soldati fermarono con gloria i Persiani. Tutto quel paesaggio narra a chi passa di lì la morte di quegli uomini devoti alla libertà della Grecia. A quel tempo, vigliacco e crudele, Serse se ne tornò a casa attraverso l'Ellesponto, con vergogna, e sul colle d'Antela, dove i 300 Spartani morirono conquistando l'eternità della gloria, saliva Simonide, guardando il paesaggio; piangendo, ansimando, con piede malfermo, prendeva la lira e così poetava: Fortunatissimi voi che avete combattuto contro il nemico per amore dela patria, onorati dalla Grecia e ammirati da tutti per l'amore della patria il quale vi ha fatto morire. Quanto felice vi sembrò la morte, per la quale felici avete ceduto al vostro destino? Tutti voi sembravate andare non a morire, ma a ballare o a mangiare: però eravate destinati a morire e non aveste vicino mogli e figli quando moriste senza il loro conforto e pianto, ma con quello dei Persiani.
    Come un leone salta addosso ad una mandria di tori e ne uccide uno, ne addenta un altro; così voi Greci facevate con i Persiani. Vedi uomini e bestie cadute, i carri e le tende intralcio per chi vorrebbe fuggire. Tra i primi fugge Serse. Vedi come insanguinati dal sangue persiano i Greci, vinti dalle ferite, muoiono tutti. Felicissimi voi, su cui il mondo parlerà e scriverà. Le stelle cadranno in mare e si spegneranno nelle sue profondità prima che la vostra gloria non sia rinnovellata. Il vostro sepolcro è un altare. Qui verranno le madri per mostrare ai figli il segno del vostro passaggio sulla terra. Anch'io mi inchino alla terra e la bacio: questa terra sarà lodata per sempre. Fossi morto anche io come voi qui. Se non è destino che muoia in battaglia per difendere la Grecia, possa la mia fama di poeta durare tanto quanto la vostra in futuro, se lo permettono gli Dei.


    Parafrasi "Alta è la notte", di Vincenzo Monti



    Alta è la notte, ed in profonda calma

    dorme il mondo sepolto, e in un con esso

    par la procella del mio cor sopita.

    Io balzo fuori delle piume, e guardo;

    e traverso alle nubi, che del vento

    squarcia e sospinge l’iracondo soffio,

    veggo del ciel per gl’interrotti campi

    qua e là deserte scintillar le stelle.

    Oh vaghe stelle! e voi cadrete adunque,

    e verrà tempo che da voi l’Eterno

    ritiri il guardo, e tanti Soli estingua?

    E tu pur anche coll’infranto carro

    rovesciato cadrai, tardo Boote,

    tu degli artici lumi il più gentile?

    Deh, perché mai la fronte or mi discopri,

    e la beata notte mi rimembri,

    che al casto fianco dell’amica assiso

    a’ suoi begli occhi t’insegnai col dito!

    Al chiaror di tue rote ella ridenti

    volgea le luci; ed io per gioia intanto

    a’ suoi ginocchi mi tenea prostrato

    più vago oggetto a contemplar rivolto,

    che d’un tenero cor meglio i sospiri,

    meglio i trasporti meritar sapea.

    Oh rimembranze! oh dolci istanti! io dunque,

    dunque io per sempre v’ho perduti, e vivo?

    e questa è calma di pensier? son questi

    gli addormentati affetti? Ahi, mi deluse

    della notte il silenzio, e della muta

    mesta Natura il tenebroso aspetto!

    Già di nuovo a suonar l’aura comincia

    de’ miei sospiri, ed in più larga vena

    già mi ritorna su le ciglia il pianto.

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    Alta = profonda, lat.
    piume = letto; metonimia poetica.
    che....l’iracondo soffio = che l'irato (iracondo) soffio del vento squarcia e sospinge innanzi.
    del ciel per gl’interrotti campi = interrotti dalle nuvole; metafora ricalcata dall'"agros coeli" latino; deserte = solitarie.
    Oh vaghe stelle = da qui Leopardi trasse la celebre apostrofe in apertura delle Ricordanze "Vaghe stelle dell'Orsa...".
    carro = quello formato dalle stelle dell'orsa maggiore di cui al verso seguente.
    tardo = lento; l'Orsa maggiore si trova vicino al Polo e quindi il suo spostamento appare più lento; Boote = nome greco della costellazione dell'Orsa maggiore.
    artici = settentrionali.
    rimembri = ricordi.
    t’insegnai = ti segnalai.
    rote = movimenti circolari.
    prostrato = chinato; stavo inginocchiato dinanzi a lei.
    Oh rimembranze! = l'apostrofe e l'incalzante serie degli interrogativi che seguono lasceranno una profonda impressione in Leopardi fino ad influenzarne la sintassi, ravvisabile soprattutto nell'ode "A Silvia".
    mi deluse = mi ingannò.
    in più larga vena = vena in questo caso designa il flusso dell'acqua e sta a significare: con più abbondanza.

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    Tema: L'ode fa parte dei "Pensieri d'amore" scritti per Carlotta Stewart e pubblicati nel 1783, in seno alla raccolta poetica dei Versi. La corona poetica è suddivisa in dieci momenti, di cui quest'ode rappresenta l'VIII, e sviluppa in versi la materia del Werther (tranne i pensieri V e IX). I dieci componimenti vengono scritti negli anni in cui il poeta frequenta il salotto fiorentino di Fortunata Sulgher, dove conosce Carlotta, una giovane fanciulla della quale s’innamora perdutamente e si ispirano ad alcuni passi dei "Die Leiden des jungen Werthers" di Goethe.

    Il pensiero VIII in realtà non deriva direttamente dal Werther ma dai Canti di Ossian (Ossian è per Werther il più grande poeta di tutti i tempi), dove, in uno dei poemi più belli Il Cartone (vv.608-619), un'oscura minaccia turba il corso sempre uguale del sole. La riflessione sulla caduta degli astri e sulla fine del mondo è tipica della letteratura preromantica e i solitari pensieri notturni del Poeta vertono appunto su tale tematica, sulla possibile fine dell'intero universo con il conseguente cadere degli astri e del sole nel caos originario.

    Leopardi attingerà copiosamente a questa lirica, specie per quanto concerne le Ricordanze, il cui incipit è identico al verso montiano:" Vaghe stelle...". ed inoltre la seconda parte dell’idillio leopardiano A Silvia ha il medesimo andamento finale del pensiero del Monti.


    Parafrasi: Apparizione, Niccolò Tommaseo



    Poco era a mezzanotte. Il sol novello

    ratto gigante dal mar si levò:

    non ebbe aurora; e, orribilmente bello,

    l'aria e la terra di fiamma innondò:

    poi, come in acqua fa spranga rovente,

    lungo stridente nel mar si tuffò. dal mar = il mare, come anche nelle Memorie poetiche, è visto come il grembo di una creazione continua.

    orribilmente = talmente bello da ispirare un religioso terrore.

    rovente:stridente = rima interna.







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    Tema: Questa lirica è datata 1851 ed è stata quindi composta durante l'esilio a Confù, dopo il fallimento della Repubblica veneziana. Si tratta di una visione profetico-apocalittica di un'epifania divina nella notte della storia. E' circostanziata storicamente in quanto allude al fallimento delle rivoluzioni tramite un terrificante simbolismo apocalittico.



    Metro: Strofe di endecasillabi piani e tronchi alternati a schema ABABAB.


    Parafrasi: Autoritratto, Ugo foscolo



    Solcata ho fronte, occhi incavati intenti,

    crin fulvo, emunte guance, ardito aspetto,

    labbro tumido acceso, e tersi denti,

    capo chino, bel collo, e largo petto;

    giuste membra; vestir semplice eletto,

    ratti i passi, i pensier, gli atti, gli accenti;

    sobrio, umano, leal, prodigo, schietto;

    avverso al mondo, avversi a me gli eventi.

    talor di lingua, e spesso di man prode;

    mesto i più giorni e solo, ognor pensoso,

    pronto, iracondo, inquieto, tenace:

    di vizi ricco e di virtù, do lode

    alla ragion, ma corro ove al cor piace:

    morte sol mi darà fama e riposo.



    Solcata = segnata dalle rughe. occhi incavati intenti = l’intensità dello sguardo viene resa con l’uso di più aggettivi (intenti proviene dall’Eneide di Virgilio-II, 1-, ripreso da Petrarca “e gli occhi porto per fuggire intenti”, Canzoniere - XXXV,3)

    crin fulvo = capelli di colore rosso; emunte guance = latinismo, colore pallido del viso; sinedocche che varia l’alfieriano “pallido in volto”.

    labbro tumido acceso =labbra rosse e pronunciate. tersi denti = denti bianchissimi. capo chino = anche qui richiama l’autoritratto dell’Alfieri “capo a terra prono”. giuste membra = con un corpo proporzionato. Eletto = accurato. Ratti = veloci. sobrio, umano, leal, prodigo, schietto = semplice, umano, leale, generoso, sincero.

    talor di lingua, e spesso di man prode = valoroso con la parola, la letteratura, e con il braccio, le armi

    morte sol mi darà fama e riposo = sviluppa quanto già riportato nel testo di Alfieri "uom, se' tu grande, o vil? Muori, e il saprai" ed è un motivo tipico nei Sepolcri.




    Tema: Pubblicato nell’ottobre 1802 nel “Nuovo giornale dei letterati” di Pisa, il sonetto Autoritratto di Foscolo, tratto dalla raccolta "Poesie", sonetto VII, si presenta come una vera e propria descrizione che l'autore compie di se stesso, sia a livello fisico, sia a livello psicologico-morale. Si richiama al modello dell’autoritratto di Vittorio Alfieri (Rime, CLXVII, Sublime specchio di veraci detti), il quale per primo attraverso la forma del sonetto autoritratto ha espresso l’ansia



    Parafrasi "Benedetto sia'l giorno el mese el'anno ", di Francesco Petrarca



    Sia benedetto il giorno, il mese e l'anno
    Sia benedetto il giorno, il mese e l'anno,
    e siano benedette le stagioni, il tempo, le ore e le strade,
    e sia benedetto il bel paese, che è il luogo dove io fui condotto da due bei occhi che mi hanno innamorato;

    e sia benedetto l'amore carnale
    che conobbi quando mi innamorai,
    e sia benedetto l'arco e le saette di cupido da cui fui colpito,
    e le ferite d'amore che mi arrivano al cuore.

    Siano benedette le tante voci che ho sparso in tutte le direzioni chiamando il nome della mia donna,
    e siano benedetti i sospiri, le lacrime e il desiderio d'amore;

    e siano benedette tutti i miei scritti che mi danno e mi daranno fama, e sia benedetto ilmio pensiero,
    che è rivolto solo a lei ed a nient'altro.





    Parafrasi "Canto Notturno Di Un Pastore Errante", di Giacomo Leopardi



    O luna, cosa fai tu nel cielo? Dimmi silenziosa luna, cosa fai? Sorgi di sera e vai contemplando i deserti; infine poi scompari. Non sei ancora sazia di ripercorrere sempre gli stessi percorsi? Non ti sei ancora nauseata, sei ancora desiderosa si osservare queste valli? La vita del pastore somiglia alla tua vita. Si alza alle prime luci dell’alba , spinge il gregge attraverso i campi, e vede greggi, fonti d’acqua ed erbe; poi giunta la sera si riposa ormai stanco: altro non spera. Dimmi, o luna: che valore ha per il pastore la sua vita, la vostra vita per voi? Dimmi: dove porta questo mio vagare breve, il tuo viaggio eterno?
    Un vecchietto con i capelli bianchi, malato, mezzo vestito e senza scarpe, con un grosso peso sulle sue spalle, corre via, corre, si affatica attraverso montagne e valli, su sassi pungenti, e sabbia alta, e sterpaglie, al vento e alla tempesta, e quando il tempo diventa caldo, e quando arriva il gelo, attraversa torrenti e stagni, cade, si rialza, e sempre più si affretta senza mai riposarsi o consolarsi, ferito, sanguinante; finché non arriva là dove la strada e tutta la sua fatica lo dovevano condurre: abisso orrido, immenso, precipitando nel quale egli tutto dimentica. O vergine luna, così è la vita degli uomini.
    L’uomo nasce con fatica, e la nascita rappresenta un rischio di morte. Per prima cosa prova pena e tormento; e all’inizio stesso la madre e il padre si dedicano a consolarlo per essere nato. Quando inizia a crescere il padre e la madre lo sostengono, e via di seguito sempre con gesti e con parole si impegnano ad incoraggiarlo, e a consolarlo di essere uomo.: altro compito più gradito non si compie da parte dei genitori verso i figli. Ma perché far nascere, perché mantenere in vita chi poi deve essere consolato per il suo stato? Se la vita è una sventura perché da noi dura? O luna intatta, questa è la situazione umana. Ma tu non sei mortale, e forse di ciò che io sto dicendo ti importa poco.
    Tuttavia tu, solitaria, eterna pellegrina, che sei così pensosa, tu forse riesci a comprendere che cosa sia questa vita terrena, le nostre sofferenze, il sospirare; che cosa sia questa morte, questo supremo impallidire del volto, e il venir meno ad ogni amata compagnia. E tu certamente comprenderai il perché delle cose, e vedrai il frutto del mattino, della sera, del silenzioso, tranquillo trascorrere del tempo.
    Tu certamente sai, tu, a quale suo dolce amore sorrida la primavera, a chi faccia comodo il caldo, e che cosa ottenga l’inverno con i suoi ghiacci. Mille cose sai tu, mille ne scopri, che sono nascoste al semplice pastore. Spesso quando io ti osservo stare così muta stare su nella pianura deserta, che in lontananza confina con il cielo; oppure con il mio gregge ti vedo seguirmi e spostarti pian piano; e quando osservo in cielo brillare le stelle; dico dentro di me pensando perché tante scintille? Che cosa significa lo spazio infinito e quel profondo cielo infinito? Cosa vuol dire questa interminabile solitudine? E io cosa sono? Così penso tra me e me e non riesco a trovare nessuna utilità, nessuno scopo ne dello spazio infinito e superbo, ne delle famiglie numerose , poi di tanto darsi da fare, di tanti moti, di ogni astro e di ogni cosa terrena. MA tu certamente, o giovinetta immortale, conosci tutto ciò. Questo io conosco e sento, che delle eterne rotazioni, che della mia esistenza fragile, forse qualcun altro ricaverà qualche vantaggio o qualche bene; per me la mia vita è dolore.
    Oh mio gregge che ti riposi, beato te, che credo non sei cosciente della tua miseria! Quanta invidia ho nei tuoi confronti! Non solo perché sei quasi priva di sofferenza; dato che ti dimentichi subito ogni stento, ogni danno ogni timore forte; ma più di tutto perché nn proverai mai noia. Quando tu stai all’ombra, sopra l’erba, tu sei calma e contenta; e in quello stato trascorri gran parte dell’anno senza provare noia. E anche io siedo sopra l’erba, all’ombra, e un fastidio mi occupa la mente, e un bisogno quasi mi stimola così che, sedendo, sono più che mai lontano da trovar pace e riposo. Eppure non desidero nulla, e fino ad ora non ho motivo per piangere. Di che cosa o quanto tu goda non lo so certamente dire; ma sei fortunato. E io, o mio gregge, godo ancora poco, né mi lamento solamente di questo. Se tu sapessi parlare , io ti chiederei: dimmi: perché giacendo comodamente senza fare nulla ogni animale si appaga; ma se io giaccio e mi riposo vengo assalito dalla noia?
    Forse se io avessi le ali per volare sopra le nuvole, e contare le stelle ad una d una, o come il tuono potessi viaggiare di montagna in montagna, sarei più felice, mio dolce gregge, sarei più felice, o candida luna. O forse il mio pensiero si discosta dalla verità, riflettendo sulla condizione degli altri: forse in qualunque forma avvenga, in qualunque forma o condizione, dentro una tana o una culla, il giorno della nascita è funesto a tutti.




    Parafrsi "Chi sono?", di Aldo Palazzeschi


    Forse sono un poeta?
    No, certo.
    La penna della mia anima
    scrive solo una strana parola:
    "follia".
    Dunque sono un pittore?
    Neanche.
    La tavolozza della mia anima ha solo un colore:
    "malinconia".
    Allora sono un musicista?
    Nemmeno.
    Nella tastiera della mia anima
    c'è solo una nota:
    "nostalgia".
    Dunque... che cosa sono?
    Metto una lente
    davanti al mio cuore
    per farlo vedere alla gente
    Chi sono?
    L'acrobata della mia anima



    Parafrasi "Chiare, fresche et dolci acque", di Francesco Petrarca


    Limpide, fresche e dolci acque
    dove immerse le sue belle membra
    colei che unica per me merita il nome di donna
    delicato ramo al quale le piacque
    di appoggiare il suo bel corpo
    ( me ne ricordo sospirando )
    erba, fiori che ricoprirono
    il suo leggiadro vestito ed il suo corpo,
    atmosfera limpida, fatta sacra dalla sua presenza
    dove Amore attraverso i suoi begli occhi mi trafisse l'animo
    ascoltate voi tutti insieme
    le mie tristi ultime parole.
    Se è mio destino dunque,
    ed in ciò si adopera il volere del cielo,
    che Amore chiuda questi occhi piangenti,
    qualche favore divino faccia sì
    che il mio corpo sia sepolto tra voi,
    e l'anima ritorni sciolta dal corpo al cielo.
    La morte sarà meno dolorosa
    se reco questa speranza in vista di quel pauroso momento:
    poiché l'anima stanca
    non potrebbe in più riposata quiete
    né in più tranquillo sepolcro
    abbandonare il corpo travagliato da mille angosce.
    Verrà forse un giorno
    in cui all'abituale meta
    ritornerà la donna bella e crudele,
    e a quel luogo dove ella mi vide
    nel benedetto giorno dell'incontro
    volga i suoi occhi pieni di desiderio e di letizia,
    cercando di me, e, divenuta pietosa,
    vedendomi polvere tra le pietre del sepolcro,
    venga ispirata da Amore
    così da sospirare
    tanto dolcemente e ottenere la misericordia divina
    piegando la giustizia celeste,
    asciugandosi gli occhi con il suo bel velo.
    Dai rami scendeva ( dolce nel ricordo )
    una pioggia di fiori sul suo grembo;
    ella sedeva umile in tanta festa della natura,
    coperta da quella pioggia di fiori, ispiratrice d'amore.
    Un fiore cadeva sull'orlo della veste,
    un altro sulle bionde trecce,
    che quel giorno a vederle.
    parevano oro fino e perle
    Un altro si posava in terra ed un altro ancora sull'acqua;
    infine un fiore
    volteggiando nell'aria
    pareva suggerire: "Qui regna Amore "
    Quante volte dissi,
    preso da grande stupore:
    costei certo è nata in Paradiso.
    Il suo modo di procedere quasi divino;
    il suo volto, la sua voce e il suo sorriso
    mi avevano fatto dimenticare a tal punto dove mi trovavo
    e fatto allontanare talmente dalla realtà,
    che mi chiedevo sospirando come
    fossi potuto pervenire in un luogo simile e quando vi ero giunto.
    Perché credevo di essere giunto in Paradiso
    non in Terra dove mi trovavo
    Da quel momento in poi amo questo luogo
    così che non ho pace in nessun altro.
    Se tu, mia canzone, fossi bella e ornata, quanto desideri,
    potresti coraggiosamente
    uscire dal bosco e andare tra gli uomini
     
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    Parafrasi "Donna che si pettina", di Giambattista Marino



    I capelli sono come onde dorate, che una navicella d'avorio sta solcando; una mano bianca come l'avorio la conduce attraverso quelle preziose e disordinate ciocche di capelli.
    Mentre la navicella crea dei solchi attraverso i capelli, l'Amore raccoglie l'oro di quelli spezzati, per formare catene per coloro i quali non sono abbagliati dalla sua bellezza.
    Il cuore del poeta muore alla vista di questo mare dorato, che mostra il suo biondo tesoro.
    Il naufragio in cui l'autore sta morendo è prezioso, perché durante la sua tempesta lo scoglio è di diamante e il golfo d'oro.




    Parafrasi "Erano i capei d'oro a l'aura sparsi", di Francesco Petrarca


    I suoi capelli biondi erano mossi al vento il quale li avvolgeva in mille dolci riccioli, e la luce ammaliante dei suoi occhi belli, che ora è diminuita (a causa del tempo che passa), splendeva in modo straordinario; e mi sembrava, non so se fosse realtà o illusione, che il suo viso si atteggiasse a pietà: io che ero pronto all'amore, c'è da meravigliarsi se m'innamorai subito? Il suo portamento non era cosa mortale, ma aspetto d'angelo, e le parole suonavano diversamente da voce umana; uno spirito celeste, un vivo sole fu quel che vidi, e anche se ora non fosse tale, una ferita non si rimargina tendendo di meno l'arco.



    Parafrasi "Fantasia", di Giosuè Carducci



    Ed ecco, la fantasia penetra dolce come il suono di uno struzzo appena nato nelle mie fievoli orecchie, ingenue di ciò che succede, e di cio che il mondo prepara loro. Fantasia, sogna come un cane appena nato in attesa del canto di un usignuolo, che lo svegli da quello che è il suo amaro mondo, ove il più forte vince il debole e il debole fugge come una gazzella impaurita e sudata...Fantasia, il canto di uno sguattero che pulisce con fatica i piatti della padrona, ingenuo delle frustate che prenderà e inconsapevole del fatto che domani sarà un altro triste, uggioso giorno...Fantasia...Eccola...Fantasia...




    Parafrasi Fratelli, Ungaretti




    Di che reggimento siete
    fratelli?

    Parola tremante
    nella notte

    Foglia appena nata

    Nell'aria spasimante
    involontaria rivolta
    dell'uomo presente alla sua
    fragilità

    Parafrasi

    Di che reggimento siete fratelli? Fratelli tremate nella notte. Una foglia è appena nata. Nell’aria sofferente, ribellione, istintiva dell’uomo consapevole della precarietà della sua esistenza. Fratelli.
     
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    oh grazie lussy, mi sembra di essere ritornata a scuola
     
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    Parafrasi "Guido i' vorrei che tu Lapo ed io", di Dante Alighieri



    Guido, io vorrei che tu e Lapo ed io
    fossimo presi per magia
    e messi su una navicella, che ad ogni soffio di vento
    andasse per mare secondo il vostro e mio desiderio;


    sicché tempesta o altro cattivo tempo
    non ci potesse causare ostacoli,
    anzi, vivendo accomunati dalla stessa volontà,
    crescesse il desiderio di stare insieme.

    E il valente mago (Merlino) ponesse con noi
    poi la signora Vanna e la signora Lagia
    insieme con quella che è tra le trenta donne più belle (di Firenze):

    e qui parlassimo sempre d'amore,
    e ognuna di loro fosse contenta,
    così come io credo che saremmo noi.





    Parafrasi " I Canto Inferno", di Dante Alighieri


    NOTA: i numeri che vedi sono il numero dei versi non li ricopiare!!


    Nel mezzo del cammino della mia vita,

    mi ritrovai in una selva oscura,

    3 poiché la retta via era smarrita.



    Ahi quanto è duro descrivere com’era

    quella selva selvaggia e intricata e inaccessibile

    6 che a ripensarci rinnova la paura!



    Tanto è angosciosa che poco di più lo è la morte;

    ma per trattare del bene che io vi trovai,

    9 dirò delle altre cose che io vi ho visto.



    Io non so riferire bene come vi entrai

    tant’ero pieno di sonno nel momento

    12 che abbandonai la retta via.



    Ma quando giunsi ai piedi di un colle,

    là dove terminava quella valle

    15 che m’aveva trafitto il cuore di paura,



    guardai in alto e vidi i suoi alti pendii

    già rivestiti dei raggi dell’astro

    18 che guida tutti per ogni strada.



    Allora si acquietò un poco la paura

    che nel profondo del cuore mi aveva afflitto

    21 durante la notte che avevo passato con tanta angoscia.



    E mi sentii come colui che col respiro affannato,

    uscito fuori dal mare sulla riva,

    24 si rivolge all’acqua minacciosa e la riguarda,



    così il mio animo, che ancora fuggiva,

    si volse indietro a rivedere il percorso

    27 che non lasciò scampo a nessuno.

    Dopo aver riposato un poco il corpo stanco,

    ripresi il cammino lungo il pendio deserto,

    30 in modo che il piede fermo era sempre il più basso.



    Ed ecco, quasi al cominciare della salita,

    una lonza agile e molto veloce,

    33 che era ricoperta di pelo maculato;



    e non si scostava davanti a me,

    anzi mi impediva il cammino al punto,

    36 ch’io fui costretto a tornare indietro più volte.



    Era l’ora al principio del mattino,

    e il sole sorgeva insieme a quelle stelle

    39 che erano con lui quando l’amore divino



    in principio diede il moto agli astri;

    mi facevano sperare di aver ragione

    42 di quella fiera dalla pelle screziata



    l’ora del giorno e la dolce stagione;

    ma non al punto da evitare che mi facesse paura

    45 la vista di un leone che mi apparve.



    Questi sembrava che mi venisse contro di me

    con la testa alta e la fame rabbiosa,

    48 così da far sembrare che l’aria stessa tremasse.



    E una lupa, che di ogni brama

    sembrava piena per la sua magrezza,

    51 e che già fece vivere nella sofferenza molta gente,



    mi oppresse al punto di sgomento

    con la paura che suscitava il suo aspetto,

    54 che io persi la speranza della salvezza.



    E come per colui che facilmente acquista beni

    giunge il tempo che glieli fa perdere,

    57 e piange e si rattrista nei suoi pensieri;



    così mi rese quella bestia irrequieta

    che, venendomi incontro, a poco a poco

    60 mi respingeva là dove non arriva il sole.



    Mentre io precipitavo nel fondovalle,

    davanti agli occhi mi comparve

    63 uno che sembrava affievolito a causa di un lungo silenzio.



    Quando vidi costui in quel grande luogo deserto

    gli gridai; “pietà di me”,

    66 “ chiunque tu sia, o spirito o uomo reale!”.



    Mi rispose: “uomo non sono, ma lo fui,

    e i miei genitori furono lombardi,

    69 ambedue mantovani per nascita.



    Nacqui all’epoca di Giulio Cesare, sebbene alla sua fine,

    e vissi a Roma sotto il buon Augusto

    72 nel tempo in cui si credeva agli dei falsi e ingannevoli.



    Fui poeta, e cantai di quel giusto

    figliolo di Anchise che venne da Troia,

    75 dopo che Ilio superba fu bruciata.



    Ma perché scendi di nuovo in quel luogo angoscioso?

    Perché non sali il monte gioioso

    78 che è origine e ragione di tutte le felicità?”



    “Ma sei proprio tu, il famoso Virgilio, fonte

    che spargi un così largo fiume di eloquenza?”

    81 io risposi a lui abbassando la fronte.



    “O lume e Onore degli altri poeti,

    mi giovi il lungo studio e il grande amore

    84 che mi ha fatto leggere con passione tutte le tue opere.



    Tu sei il mio maestro e il mio autore preferito,

    tu sei il solo da cui appresi

    87 lo stile illustre che mi ha fatto onore.



    Guarda la bestia per la quale sono tornato indietro,

    salvami da lei, famoso saggio,

    90 che mi fa tremare le vene e le arterie.”



    “È necessario percorrere un’altra via”,

    rispose dopo avermi visto piangere,

    93 “se vuoi fuggire da questo luogo selvaggio;



    poiché questa bestia, per la quale invochi il mio aiuto,

    non lascia passare nessuno per la sua strada,

    96 ma lo ostacola fino ad ucciderlo;



    e ha una natura così malvagia e crudele,

    che non sazia mai il suo appetito,

    99 e dopo il pasto ha più fame di prima.



    Molti sono gli animali che contamina,

    e saranno ancora di più, fino a che verrà il veltro

    102 che la farà morire nel dolore.



    Questi non sarà avido di terre né di ricchezze,

    ma di sapienza, amore e virtù,

    105 e nascerà tra genti umili.



    Sarà la salvezza di quella misera Italia

    per la quale morirono di morte cruenta la vergine Camilla,

    108 Eurialo e Turno e Niso.



    Il veltro la caccerà di città in città,

    finché non l’avrà riportata nell’Inferno,

    111 dal quale la fece uscire l’invidia del demonio.



    Perciò penso e giudico per il tuo meglio

    che tu mi debba seguire, e io sarò la tua guida,

    114 ti trarrò di qui attraverso un luogo eterno;



    dove udrai grida disperate,

    vedrai gli spiriti che soffrono da tempi antichi,

    117 che invocano una seconda morte;



    e vedrai coloro che sono contenti pur

    nella loro pena, perché sperano di giungere

    120 prima o poi tra le genti beate.



    Se poi tu vorrai salire fino a quelle,

    ci sarà un’anima più degna di me per questo:

    123 con lei ti lascerò quando mi separerò da te;



    poiché quell’imperatore che regna lassù,

    dato che fui ribelle alla sua legge,

    126 non vuole che io entri nella sua città.



    In tutto l’universo regna, e lì esercita il suo dominio,

    lì si trova la sua città e il suo alto trono:

    129 o felice colui che egli sceglie di farvi risiedere.”



    E io a lui: “Poeta, io ti prego in nome

    di quel Dio che tu non conoscesti,

    132 affinché fugga questo male e altri ancora peggiori



    che tu mi porti là dove hai detto,

    così che io veda la porta di San Pietro

    135 e coloro che tu descrivi così infelici”.




    Parafrasi "I Sepolcri", di Ugo Foscolo




    sonno della morte è forse meno doloroso all’ombra dei cipressi e dentro le tombe consolate dal pianto ? Quando il sole non fecondi più sulla terra ai miei occhi per questa bella popolazione di piante e di animali, e quando davanti a me non danzeranno le ore future, attraenti di belle promesse, né udirò più da te, dolce amico , i versi e l’armonia malinconica che li ispira, né più mi parlerà nel cuore l’interesse nella mia vita da esule, quale consolazione sarà per i giorni perduti un sasso che distingua le mie dalle infine ossa che la morte sparge in terra e in mare? È proprio vero Pindemonte!anche la speranza, ultima dea, fugge le tombe e la dimenticanza circonda tutte le cose nella sua tenebra; e una forza attiva le trasforma incessantemente di movimento in movimento; e il tempo tramuta sia l’uomo sia le sue tombe sia le ultime tracce sia ciò che è stato risparmiato [provvisoriamente] dalla terra e dal cielo. Ma perché l’uomo dovrebbe negare prima del tempo a sé l’illusione che morto lo trattiene ancora sulle soglie dell’oltretomba? Egli non vive forse anche sotto terra, quando sarà per lui impercettibile l’attrattiva della vita se può risvegliarla nella mente dei suoi con nobili preoccupazioni?Dal giorno che nozze e tribunali e altari spinsero le belve umane ad essere pietose verso se stesse e verso gli altri, i viventi sottraevano all’aria malvagia e alle fiere i miseri resti che la natura destina ad altre forme con incessanti trasformazioni. Le tombe erano testimonianza delle glorie e altari per i figli; e da esse uscivano i responsi dei Lari domestici, e il giuramento sulle tombe degli avi fu considerato sacro religione che le virtù civili e il rispetto dei congiunti tramandarono con riti diversi per lungo susseguirsi di anni. Non sempre le lapidi sepolcrali fecero pavimento alle chiese; né il puzzo dei cadaveri mescolato agli incensi contaminò i devoti; né le città furono rattristate da scheletri disegnati: le madri scattano nel sonno terrorizzate, e tendono le nude braccia sulla testa amata del loro caro lattante così che non lo svegli il gemere prolungato di una persona morta che chiede agli eredi le preghiere a pagamento dalla chiesa. Ma cipressi e cedri, riempiendo l’aria di puri profumi, stendevano sulle tombe il verde perenne per eterna memoria, e vasi preziosi raccoglievano le lagrime offerte in voto. Gli amici rapivano una scintilla al sole per illuminare la notte sotterranea, perché gli occhi dell’uomo morendo cercano il sole; e tutti i petti rivolgono l’ultimo sospiro alla luce fuggente. Versando acque purificatrici, le fontane facevano crescere amaranti e viole sul tumulo mortuario; e chi sedeva sulle tombe a versare latte e a raccontare le sue pene ai cari estinti sentiva intorno un profumo come dell’aria dei beati Elisi. Questa è un’illusione benefica che rende care alle giovani inglesi i giardini dei cimiteri attorno alle città, dove le conduce l’amore della madre perduta morta, dove pregarono i Geni di concedere il ritorno al valoroso che troncò dell’albero maestro la nave conquistata. Le tombe dei grandi spingono a nobili imprese gli animi grandi, o Pindemonte,; e rendono al [giudizio del] forestiero bella e santa la terra che le contiene. Io quando vidi il monumento dove riposa il corpo di quel grande Machiavelli che, temprando lo scettro ai potenti [:fingendo di insegnare loro le tecniche del potere], ne sfronda gli allori e svela alle genti di quali lagrime e di quale sangue grondi; e la tomba di colui Michelangelo che in Roma innalzò agli dei un nuovo Olimpo ; e la tomba di colui che Galileo vide ruotare vari pianeti sotto la volta celeste, e il sole irraggiarli immobile, così che aprì per primo le vie del firmamento inglese Newton che vi avanzò profondamente; esclamai “beata te” per l’aria felice piena di vita, per le acque che l’Apennino fa scorrere verso di te dalle sue montagne! La luna, lieta della tua aria, ricopre di luce limpidissima i tuoi colli, festanti per la vendemmia; e le valli circostanti popolate di case e di oliveti, mandano verso il cielo mille profumi di fiori. Tu Firenze, inoltre, hai udito per prima il poema la divina commedia che rallegrò l’ira al ghibellino esule Dante, e tu hai dato i cari genitori e la lingua a quella dolce voce di Calliope, che adornando di un velo candidissimo l’amore, nudo in Grecia e nudo in Roma, lo r
     
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    Parafrasi "Il Cantico delle Creature", di San Fracesco d'Assisi


    Altissimo, Onnipotente Buon Signore, tue sono la lode, la gloria, l'onore ed ogni benedizione.
    A te solo Altissimo, si addicono e nessun uomo è degno di menzionarti.
    Lodato sii mio Signore, insieme a tutte le creature specialmente il fratello sole, il quale è la luce del giorno,e tu tramite esso ci illumini.
    Ed esso è bello e raggiante con un grande splendore: simboleggia Altissimo la tua importanza.
    Lodato sii o mio Signore, per sorella luna e le stelle: in cielo le hai formate, chiare preziose e belle.
    Lodato sii, mio Signore, per fratello vento,e per l'aria e per il cielo; quello nuvoloso e quello sereno, ogni tempo
    tramite il quale alle creature dai sostentamento.
    Lodato sii mio Signore, per sorella acqua, la quale è molto utile e umile,preziosa e pura.
    Lodato sii mio Signore, per fratello fuoco, attraverso il quale illumini la notte. E' bello, giocondo, robusto e forte.
    Lodato sii mio Signore, per nostra sorella madre terra, la quale ci dà nutrimento e ci mantiene: produce diversi frutti variopinti, con fiori ed erba.
    Lodato sii mio Signore, per quelli che perdonano in nome del tuo amore, e sopportano malattie e sofferenze.
    Beati quelli che sopporteranno ciò serenamente, perchè saranno premiati.
    Lodato sii mio Signore per la nostra morte corporale, dalla quale nessun essere umano può scappare,
    guai a quelli che morranno mentre sono in situazione di peccato mortale.
    Beati quelli che la troveranno mentre stanno rispettando le tue volontà.
    La seconda morte, non farà loro alcun male.
    Lodate e benedicete il mio Signore, ringraziatelo e servitelo con grande umiltà.
     
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    Parafrasi " Il cinque maggio", di Alessandro Manzoni



    Napoleone è morto. Come il suo corpo è immobile dopo aver esalato l'ultimo respiro, così è immobile ed attonita tutta la terra alla notizia della morte di un uomo così potente e resta muta, pensando all'ultima ora dell'uomo che è stato così importante e non sa quando nascerà un altro uomo di tale calibro e che ha sparso tanto sangue
    Il mio genio poetico (cioè io stesso) lo ha visto folgorante, vincitore ed in auge, ma ha taciuto e così ha continuato a tacere anche quando, con alterne è caduto ad è ritornato potente e non ha unito la sua voce a quella di altri poeti che lo osannavano o lo condannavano.
    Così Manzoni dice che il suo spirito poetico pulito e limpido sia da servili lodi, che da vigliacchi oltraggi e solo ora, commosso per la repentina morte, scrive un'ode su quest' uomo così importante che forse resisterà nel tempo.
    Ricorda le rapidissime campagne di Napoleone, come un fulmine, che coinvolsero tutta l'Europa fino all'Egitto, dall'uno all'altro mare.
    Fu vera gloria? Lasciamo ai posteri la difficile sentenza, mentre noi chiniamo il capo al divino valore che volle in Napoleone, dar un segno più grande del suo sfinito creatore.
    La tempestosa e trepida gloria di un grandissimo disegno, l'ansia di un cuore che serve impaziente pensando di divenire re e poi vi giunge e ottiene un premio che sarebbe stato una follia sperare.
    Egli provò tutto: la più grande gloria dopo il pericolo la fuga e la vittoria; provò ad essere re e anche l'esilio fu due volte sconfitto nella polvere e due volte vincitore.
    Egli si diede nome: due secoli così diversi tra loro si rivolsero a lui docili, come aspettando il loro destino; egli fece silenzio e si sedette tra loro come arbitro.
    Nonostante tanta grandezza, improvvisamente scomparve e finì la sua vita in ozio, prigioniero in una piccola isola ed egli suscita ancora grande invidia e profonda pietà, grande odio e grande amore.
    Come sul capo del naufragio si rovescia e pesa l'onda dove poco prima scorreva la vista del naufragio a cercare terre lontane, così sull'anima di Napoleone è sceso il peso delle memorie.
    Oh , quante volte ha iniziato a scrivere le sue memorie! E quante volte su quelle pagine cadde la sua stanca mano! Quante volte al tramonto stette con gli occhi bassi e le braccia conserte e lo assalì la malinconia e il ricordo del passato!
    E allora ripensò agli accampamenti sempre spostati da un posto all'altro, alle trincee, lo scintillare delle armi e l'avanzare della cavalleria e i suoi secchi comandi e come questi venivano soddisfatti rapidamente.
    Ah, forse a tanto dolore cadde il suo spirito e si disperò, ma valido venne l'aiuto di Dio, che lo trasportò pietroso in un'aria più respirabile.
    E lo guidò per i floridi sentieri delle speranze verso i campi eterni, lo guidò verso la beatitudine eterna, che supera qualunque desiderio umano, lo guidò verso quel luogo dove la gloria terrena non vale nulla.
    Bella, immortale, benefica fede, così solita a trionfare.
    Scrivi anche questo tuo trionfo, rallegrati perché nessuna personalità più grande si è mai chinata davanti alla croce.
    Tu, o fede, allontana dalle stanche spoglie di quest'uomo ogni parola malvagia: il Dio che può tutto, che ci dà i dolori e ci consola si è posato accanto a lui, per consolarlo nel momento della sua morte.
     
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