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    IL MELONE

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    Il melone (Cucumis melo L., 1753) è una pianta erbacea strisciante o rampicante annuale, della famiglia Cucurbitaceae. Appartiene alla stessa famiglia dei cetrioli e delle zucche gialle, con la differenza che essi vengono consumati come frutti, al massimo della maturazione, per via della loro dolcezza. Una particolare varietà di melone amaro è stata oggetto di recente di studi scientifici.

    Il melone coltivato appartiene alla specie Cucumis melo il cui frutto, polimorfo, ha dato vita a numerose varietà: il gruppo cantalupensis o cantalupio, di media grandezza, superficie liscia, polpa giallo-arancio, chiamati così perché portati da missionari asiatici al castello pontificio di Cantalupo, sui colli di Roma; il gruppo reticulatus, o meloni retati, di media grandezza, polpa bianca o giallo-verde, con superficie reticolata; il gruppo inodorus, meloni d'inverno, polpa biancastra o rosata con buccia liscia, dal gusto intermedio tra la pera ed il melone, costituiscono il tipico piatto di Natale nella tradizione siciliana ed italiana in generale; il melone come ortaggio (raccolto prima della maturazione): il gruppo flexuosus, melone serpente o tortarello, vengono utilizzati crudi alla stessa maniera del cetriolo; il gruppo momordica, melone amaro, utilizzato principalmente come pianta medicinale perché ricco di vitamina A, C e E

    Le radici fibrose possono estendersi nella terra anche oltre i 150 cm.; il fusto, ricco di peluria, è ramificato con cirri; le foglie sono alterne, lunghe più di dieci centimetri, quanto il picciolo. I fiori, gialli a 5 lobi, sono generalmente monoici (sessi separati su due fiori distinti) e compaiono normalmente prima quelli maschili riuniti in infiorescenze. Nonostante la copiosa fioritura, che dura tutta l'estate da maggio a settembre, solo il 10% diventa frutto.

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    Il melone è di forma ovale o tondeggiante e sulla buccia sono visibili delle divisioni "a fette". La buccia è pressoché liscia o appena rugosa, il colore può variare da un giallo pallido ai toni del verde. La polpa varia dal bianco all'arancio ed è succosa e molto profumata quando raggiunge la maturazione. La cavità centrale appare fibrosa e ricca di semi.

    Diverse sono le varietà coltivate in Italia. Per il melone retato: Talento, Macigno, Expo, Sogno. Per il melone Long life: Mundial, Intenso, Pregiato, Polis. Per i Meloni Cantalupo: Comune, Prescott. Per i meloni invernali: Gigante di Napoli, buccia verde e polpa bianca; Melone di malta, polpa verde; Morettino, buccia e polpa verde; Viadana, buccia gialla e polpa arancio. Per i meloni siciliani: RedMoon, polpa rossa; Magenta, polpa rossa; Tiburzi (o Tibursi), polpa gialla; Proteo, polpa gialla; Armatan, liscio

    Un melone è considerato dolce quando il suo contenuto di zuccheri si aggira intorno al 13 %; quando invece lo zucchero risulta inferiore all'11% lo si cataloga di scarsa qualità. Si possono trovare degli esemplari di meloni con un contenuto di zuccheri fino al 18%. Il melone contiene una percentuale elevata d'acqua, pari a circa il 95%. Si tratta di un frutto ricco di vitamine e minerali benefici. E' considerato utile per depurare i reni e contro il bruciore di stomaco. Non contiene grassi saturi e assicura uno scarso apporto calorico. Per quanto riguarda i sali minerali, nel melone troviamo ferro, calcio e fosforo. Le vitamine presenti nel melone sono vitamina C, vitamina A e vitamina B. Il melone contiene un agente anticoagulante, è leggermente diuretico e risulta indicato per chi soffre di anemia, grazie al suo ricco contenuto di ferro. E’ anche un ottimo tonico per la circolazione, può tenere sotto controllo la pressione, grazie all'alta percentuale di sali minerali come ferro, fosforo, sodio e calcio, ma soprattutto del potassio, che più di ogni altro sale minerale contribuisce a tenerla sotto controllo nonché a ripristinare le scorte idriche perdute durante la sudorazione.

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    ..…storia, miti e leggende….

    Già 3000 anni fa i Sumeri conoscevano il melone; in un poema epico, Cigalmesh l'eroe mangiava "meloni cassia”, frutti rappresentati sulle tavole imbandite di vari bassorilievi ed elencati anche in un assiro, mentre nella città di Ur un residente di nome Ur-Nammu li piantò nel suo giardino. Quando Mosè condusse il popolo ebraico nel deserto dove vagò per 40 anni, uno dei prodotti alimentari che desiderava erano i meloni "il pesce, che abbiamo fatto mangiare liberamente in Egitto, i cetrioli, e meloni." (11, 05 ). Di possibili origini africane mentre, secondo alcuni invece proviene dall'Asia, nell'antica Persia, nel V secolo a.C. Il popolo egizio iniziò ad esportarlo nel bacino del Mediterraneo, arrivò in Italia in età cristiana, come raccontato da Plinio nel suo libro Naturalis Historia che lo uniformò al cetriolo a forma di mela cotogna, melopepaes, “cresce su una vite che non pendono come il cetriolo, ma si trova piuttosto a terra”; descrive i frutti come di forma sferica e di colore giallastro e osserva anche che si stacca facilmente dallo stelo, tutte caratteristiche che riportano al melone. Nel testo di Plinio compare anche il nome con il quale i meloni continuano ad essere chiamati ancora oggi nel sud Italia e in Toscana: 'poponi'. Le attuali conoscenze sulla sua diffusione nel bacino del Mediterraneo però sono state messe in discussione dalle recenti scoperte archeologiche fatte in Sardegna dove semi di melone riferibili all'età del Bronzo,tra il 1310-1120 a.C., in piena epoca nuragica, quindi in epoca ben antecedente. ll medico greco Galeno descrive i benefici medici dei meloni nei suoi scritti. Non erano grossi come li conosciamo oggi, ma delle dimensioni di un arancia. Apicio nel suo De re Coquinaria racconta dei meloni importati dall’Armenia, in una delle ricette cosi descrive i meloni crudi serviti con "una salsa di pepe, mentuccia, miele, brodo e aceto. Una volta ogni tanto si aggiunge silfio". Durante l'Impero Romano il melone si diffuse rapidamente, era utilizzato come verdura, al tempo dell'imperatore Diocleziano, venne emesso un apposito editto per tassare quegli esemplari di melone che superassero il peso di 200 grammi. Un dipinto murale è stato scoperto ad Ercolano, vicino a Pompei, città sepolte nell’eruzione vulcanica nel 79 d.C. dove si raffigurano dei meloni tagliati a metà. L'imperatore Tiberio ne era ghiottissimo.

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    Il melone nell'antichità era considerato un simbolo di fertilità, probabilmente per l'enorme quantità di semi che presenta al suo interno. Era contemplato come valore positivo al punto da riportarlo nei quadri e nei contesti pittorici dove si voleva esaltare la fertilità e la proliferazione.. Era inoltre curiosamente associato al concetto di sciocco, uno stolto veniva chiamato mellone e una sciocchezza mellonaggine. Secondo il linguista, scrittore e orientalista italiano Angelo de Gubernatis, queste credenze erano dovute alla grande fecondità e incontrollata produzione di questa pianta, opposta in epoca antica all’intelligenza. In tutto il Medio Oriente uno dei snack preferiti erano i semi del melone che venivano essiccati e arrostiti. Un vecchio proverbio afferma che "colui che riempie lo stomaco con semi di meloni è come colui che lo riempie con la luce, non vi è baraka, benedizione, in loro".

    Con la caduta dell’impero Romano, in Italia crollò anche l’importazione dei meloni provenienti dall'Asia Minore. In seguito Carlo Magno, nell’800 d.C., che apprezzava nuovi frutti e verdure, aggiornando in continuazione il suo giardino con nuovi e rari cultivar, riprese la coltivazione del melone riportato dalla Spagna, dove erano stati piantati un secolo prima dai Mori. Nonostante l'amore di Carlo Magno il melone non divenne un frutto popolare. Marco Polo lungo il tragitto verso la Cina, trovò quello che lui considerava "il miglior melone nel mondo in quantità grande che si asciugano in questo modo: hanno tagliato tutti intorno a fette come strisce di cuoio, poi metterli al sole ad asciugare, quando diventano più dolce miele. E deve sapere che si tratta di un articolo di commercio e di trovare un pronto vendita attraverso tutti i paesi intorno".

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    Sbarcato di nuovo in Europa il melone ritrovò consenso, lo scrittore Alberto Magno nel XIII secolo descrive chiaramente l'anguria e il pepo, termine utilizzato dagli europei per riferirsi al melone. Giovanni Boccaccio parla di "lunghi melloni e gialli poponi", riferendosi probabilmente al nobile melone sotto la cui scorza ruvida e dura si nascondono: una polpa zuccherina, un profumo caratteristico e un colore che varia dal verdastro al giallo, all’arancione e al bianco. E’ stato un frutto apprezzato dalla nobilità: Enrico IV di Navarra lo utilizzava come rimedio per la gotta, consumandone uno al giorno. Dal XIV secolo gli italiani li coltivarono per farli diventare più grossi, così i meloni cominciarono ad espandersi in termini di dimensioni e peso. Nel corso del XV secolo i nuovi meloni vennnero impiantati dagli arabi nella parte meridionale della Spagna, ed introdotti nel Nuovo Mondo. Nel XVII secolo divennero un frutto popolare in Francia e in Italia, coltivati nelle regioni meridionali e solo sotto vetro per catturare abbastanza calore e farli maturare. In Italia era presente la varietà coltivata a Cantalupo, da cui prese il nome volgare, vicino Roma e importata poi in Francia da Carlo VIII al ritorno dalla sua spedizione. Lo scrittore francese, Brillat-Savarin raccontò "che i buoni erano la regola, quelli cattivi l'eccezione". Aveva così spiegato che i meloni devono essere consumati nel momento esatto, quando hanno raggiunto "la perfezione che è il loro destino".

    Alexandre Dumas scrisse “per rendere il melone digeribile, bisogna mangiarlo con pepe e sale, e berci sopra un mezzo bicchiere di Madera, o meglio di Marsala”; egli apprezzava i meloni conosciuti in Francia come Cavaillon, per la zona di produzione, e fece richiesta alla biblioteca della città di uno scambio tra le sue opere (circa 400 volumi) ed una rendita vitalizia di 12 meloni l'anno, cosa che accadde fino alla sua morte nel 1870. Fu in suo onore che venne istituita la confraternita dei Cavalieri dei meloni di Cavaillon.

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    Ai tempi di Papa Paolo II, che morì accidentalmente una sera d’estate, il 26 luglio del 1471, forse proprio a causa di una scorpacciata di meloni, questi frutti erano visti con una certa diffidenza. Alcuni medici del tempo li consideravano nocivi e imputarono al melone la morte di ben quattro imperatori e due pontefici. Nell’antichità il melone era più piccolo e senza dubbio molto meno zuccherino; si mangiava con pepe ed aceto, condito come un’insalata. “La freschezza e l’acquosità del frutto che ce lo fanno tanto desiderare nelle giornate di calura estiva”, scrive sempre il professor Montanari nel racconto tratto dal suo libro Il Riposo della Polpetta, “nel Medioevo erano valutate negativamente da un punto di vista dietetico: si pensava che questa frigidità minasse il calore naturale dell’organismo e sbilanciasse dalla parte del freddo l’equilibrio degli umori corporei”. Probabilmente questa avversione era legata al fatto che il melone fosse poco dolce e selvatico, i medici consigliavano di mangiarne pochi o di evitarli addirittura e se proprio si dovevano consumare era consigliabile “temperare la “frigidità” del frutto con il calore del fuoco e del vino”. Da qui potrebbe forse derivare l’uso tipicamente francese di accompagnare il melone con un bicchiere di vino dolce e forte o quello, tutto italiano, di servire il melone con il prosciutto. Anche il naturalista romano Castore Durante (1529-1590) nel suo Herbario nuovo del 1585 ammoniva di non abusarne perché «sminuiscono il seme genitale» e ne sconsigliava l'uso a diabetici, dispeptici e a tutti coloro che soffrono di disturbi dell'apparato digerente, promuovendo per tutti gli altri invece le virtù rinfrescanti, diuretiche e lassative.

    In Italia, e più precisamente a Trieste, dal 1844 fu costruita la colonna di S.Giusto che termina con una pietra raffigurante un melone sormontato da una alabarda: tali simboli sono radicati nella cultura italiana in quanto il melone è formato in genere da 13 spicchi, ognuno dei quali rappresentante ogni Casata della nobiltà triestina, mentre l'alabarda, secondo ciò che viene tramandato per tradizione, sembra sia caduta dal cielo il giorno del martirio del copatrono di Trieste, S.Sergio.

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    Nell’immaginario comune, il melone ha ispirato assonanze fra il mondo vegetale e la natura umana: va ricordato il proverbio “Uomini e meloni, dal di fuori non si sa se sono buoni.”
    Scorrendo le leggende, la storia e la scienza medica, si può dire che di melone si nasce, si muore, si guarisce, si benedice. Secondo un’antica leggenda cinese, un grande melone giallo portato dalla corrente di un ruscello si dischiuse dando alla luce una splendida bambina per la gioia di due anziani coniugi. Papa Paolo II, regnante nel Quattrocento, una sera mangiò due grossi meloni e non vide il mattino; alcuni insinuano che sia stato avvelenato. Francesco Redi, medico e studioso allievo di Galileo, curò per gli attacchi di gotta il principe di Condè grande generale del Re Sole, prescrivendogli una dieta a base di meloni.; a questi frutti va il merito della vittoria della Francia contro l‘Olanda, un risultato che sembrava compromesso a causa della malattia del condottiero. Nel XV secolo alcuni missionari provenienti dall’Asia, arrivati a Cantalupo vicino a Roma, corroborarono le loro benedizioni con semi di melone; i semi trovarono il terreno adatto, e diedero vita a intere generazioni di profumatissimi meloni Cantalupo.

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    L'ANGURIA

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    L'anguria o cocomero (Citrullus lanatus) è una pianta della famiglia Cucurbitacee, Genere Citrullus, Specie vulgaris (o lanatus). Un'altra classificazione indica il cocomero con la nomenclatura binomiale Cucumis citrullus. Originariamente proveniva dall'Africa tropicale. E’ una pianta annuale, con fusto erbaceo rampicante, foglie grandi e pelose con tre lobi, fiori maschili e fiori femminili. Il frutto, una falsa bacca (peponide), è voluminoso e rotondo oppure ovale, può raggiungere il peso di 20 kg; la buccia è liscia, dura e relativamente sottile, di colore verde con varie striature e chiazze più chiare, bianche o giallastre; l'interno è di colore rosso, meno frequentemente, giallo, arancio o bianco a seconda della varietà, ed ricco di semi, che possono essere neri, bianchi o gialli. La polpa è costituita per oltre il 90% di acqua, ma contiene anche un discreto quantitativo di zuccheri, soprattutto fruttosio, e vitamine A, C , B e B6, sali minerali, mentre l'apporto energetico non è particolarmente elevato. I frutti sono disponibili esclusivamente nel periodo estivo, da maggio a settembre ed è molto prolifica, un singolo esemplare può arrivare a produrre anche cento angurie. Il periodo in cui l'anguria giunge a maturazione va da giugno a settembre.

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    La buccia del cocomero non è ben digeribile; è spessa anche diversi centimetri , in base al livello di maturazione, ed al taglio risulta bianca o verdognola . Non tutti buttano la buccia, in Moldavia si è creato il pepene murat che si prepara con bucce messe in una salamoia aromatizzata con l’aneto e altre spezie.


    Il nome cocomero è prevalente in Italia centrale, deriva dal latino cucumis (cetriolo), mentre il termine mellone d'acqua, diffuso in Italia meridionale, distingue questa pianta dal mellone di pane (Cucumis melo). Il nome anguria, comune in Italia settentrionale, deriva invece dal greco tardo (angoúrion, "anguria", "cocomero") ed entra nel lessico della lingua italiana in epoca bizantina attraverso l'Esarcato di Ravenna. Oggi il greco moderno (angúrio) significa "cetriolo". Oltre a questi nomi vi sono in napoletano, il melone d’acqua e poi le versioni dialettali: pateca in Liguria e zipangulu in Calabria. Oltreconfine troviamo: watermelon, wassermelon, melon d’eau e sandia


    …storia, miti e leggende…

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    Il primo raccolto di angurie mai registrato è documentato in alcuni geroglifici nell'Antico Egitto e avvenne quasi 5000 anni fa. Il frutto veniva spesso deposto nelle tombe dei faraoni, come mezzo di sostentamento per l'aldilà. Nella mitologia egizia, l'anguria aveva origine dal seme del dio Seth. Dell’anguria si legge anche nella Bibbia dove gli Ebrei, stremati nel deserto del Sinai, rimpiangevano i succosi frutti mangiati in Egitto. Nella civiltà greca l’anguria veniva indicata con lo stesso nome del cetriolo. Lo stesso avvenne nel mondo latino, almeno fino a Virgilio, mentre sembra che Plinio per cucumis intendesse proprio il cocomero. Passando all’Europa, l’anguria è già presente dopo le Crociate e le invasioni moresche. Le origini della pianta, stando alla testimonianza di un esploratore Livingstone, sembrano essere africane. L'anguria cresceva abbondante nel deserto del Kalahari Lì il frutto cresce selvatico ed è conosciuto come Tsamma (Citrullus lanatus var citroides). La pianta è riconoscibile per le sue foglie particolari e per l'elevato numero di frutti che produce, fino a cento per ogni esemplare. Per questa ragione è una sorgente di acqua abituale per gli abitanti della zona, oltre a fungere da cibo sia per gli uomini sia per gli animali.

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    Nel X secolo d.C., l'anguria era coltivata in Cina, attualmente è il primo produttore mondiale. Nel XIII secolo il frutto venne introdotto in Europa dall'invasione dei Mori. Presso i beciuani è conosciuta con il nome di lerotse ed è considerata una pianta sacra dalle foglie purificanti. Come scrive James George Frazer ne Il ramo d'oro fra i beciuani è d'obbligo purificarsi prima di consumare i nuovi raccolti. La purificazione avviene all'inizio del nuovo anno, in gennaio, in un giorno stabilito dal capo tribù: tutti i maschi adulti tengono le foglie in mano e le schiacciano, ottenendone un succo che applicano agli alluci e all'ombelico; poi ciascuno di essi si reca alla propria abitazione e spalma tutti i membri della propria famiglia con questo succo. Solo dopo che questa purificazione è stata completata, la gente è libera di mangiare i nuovi raccolti.

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    Edited by gheagabry1 - 3/10/2019, 19:40
     
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    La mela Renetta Grigia di Torriana

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    La Renetta Grigia di Torriana è una varietà di melo autoctona diffusa nelle aree del Piemonte occidentale. Appartiene al gruppo delle Renette, ma è ben distinta da quella “del Canada”, oggi l’unica nota ai consumatori italiani.
    L’albero è di medio vigore, presenta portamento aperto e fruttifica prevalentemente su lamburde, ma anche su brindilli coronati. L’epoca di fioritura è medio-precoce. Granny Smith è l’impollinatore che meglio copre l’arco di fioritura, ma viene utilizzata correntemente anche Golden Delicious. È un prodotto tradizionale che ha saputo mantenere, anzi accrescere, negli ultimi anni, la propria posizione di nicchia
    Il frutto ha forma tronco-conica breve, simmetrica, circolare in sezione trasversale, di colore bianco-crema, è soda, con tessitura grossolana, fondente e poco succosa, che diventa morbida al momento del consumo. Tale struttura la rende tollerante alle ammaccature, manipolazioni e trasporti.Si può consumare fresca, ma le caratteristiche della polpa sono più interessanti per la cottura in forno. Imbrunisce rapidamente al taglio. L’acidità è elevata alla raccolta, ma decresce rapidamente in conservazione. Al momento del consumo il sapore è equilibrato. Il gusto è buono e l’aroma intenso. Si percepiscono lievi note amarognole, descritte nella documentazione storica come “caratteristico retrogusto di amaretto”.
    Per raggiungere la piena maturazione, i frutti necessitano di un periodo di finissaggio post-raccolta. Un tempo si conservavano in fruttaio, fino a febbraio-marzo, oggi in celle frigorifere AN fino alla tarda primavera.
    E' una delle migliori mele da cottura, specie in forno. È utilizzata in diverse preparazioni artigianali, oltre che per la produzione di un sidro aromatico dal colore ambrato intenso.

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    La raccolta avviene nella seconda decade di ottobre, circa 30 giorni dopo Renetta del Canada. I frutti sono soggetti a cascola pre-raccolta a causa del peduncolo corto. La varietà è rustica, con una produzione elevata e costante, immunea ticchiolatura, poco sensibile a iodio e afide lanigero. E' l’unica varietà resistente a ticchiolatura nel germoplasma melicolo piemontese. Si tratta di una resistenza totale, cioè è immune alle infezioni e non presenta sintomi né sui frutti, né sulla vegetazione.
    Una delle principali caratteristiche distintive della Renetta Grigia di Torriana è la completa rugginosità del frutto.
    Grigia di Torriana fa parte di un gruppo di varietà di Renette definite “grigie” o “ruggini”. Si tratta di una popolazione diffusa, perlopiù in Piemonte. Le Renette Grigie venivano conservate con un metodo oggi dimenticato: “in composta”. Si mettevano i frutti a mollo in recipienti colmi d’acqua dove subivano una fermentazione e una solubilizzazione enzimatica che simula gli effetti della cottura (“composta”); talvolta vi era l’aggiunta di aromatizzanti come i chiodi di garofano.
    I recipienti erano i più disparati, da vasche in pietra a tinozze e barili; le mele erano tenute a bagno coprendole con un "paiass” di paglia di segale o con una “losa” di pietra di Luserna e venivano posti al fresco nelle cantine. Se durante l’inverno si formava una crosta di ghiaccio, la si rompeva per affondare la mano nell’acqua che acquisiva un colore giallo paglierino, da cui il nome diffuso nel Monregalese di “Pum dël Pis”. “I frutti migliori venivano sottoposti a un particolare metodo di conservazione per prolungare la loro disponibilità sino a maggio-giugno per essere consumati durante le fienagioni.

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    Grigia di Torriana è una varietà autoctona, individuata a fine ottocento dal frutticoltore Francesco Trecco nella borgata Torriana di Barge, in provincia di Cuneo (Breviglieri, 1950). Nei primi anni del secolo scorso si diffuse nei comuni a cavallo tra le province di Cuneo e Torino. “Nel 1910-1920 se ne raccolsero 2.000 quintali, ma nel decennio successivo la media salì ad oltre 12.000 e aumentando di anno in anno si è arrivati agli attuali 50.000 quintali” (Carlone, 1955).
    Nei primi decenni del ‘900, la Grigia di Torriana alimentava un consistente flusso di esportazione via nave verso l’Inghilterra e l’Egitto e, in treno, verso la Germania (Bounous et al., 2006). Era allora una delle poche varietà, insieme a Renetta Clochard, che reggesse i lunghi viaggi in nave. Era anzi uno dei pochi alimenti freschi che i marinai potessero consumare a bordo. I frutti venivano confezionati in casse di legno chiuse su tutti i lati, trasportate in treno fino al porto di Genova, dove venivano imbarcate per le destinazioni finali.




    tratto da un articolo di "FRUTTICOLTURA - n. 11 - 2014"

    Edited by gheagabry1 - 3/10/2019, 19:29
     
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    Fragola bianca di Purén o Pineberry

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    La fragola bianca o Pineberry o fragola ananassa, nota come fragola albina, è un frutto appartenente al genere Fragaria della famiglia delle Rosacee. Le fragole bianche sono originarie del Sud America, nel Cile centromeridionale, attorno al piccolo comune di Purén. Il nome deriva dalle peculiarità tipiche del frutto: si tratta dell’associazione della parola inglese “pineapple”, ovvero “ananas”, con la traduzione anglofona di “fragola” in “strawberry”.

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    La pineberry, completamente candida, fatta eccezione per i suoi semi rossi, ha un gusto che ricorda da vicino quello dell’ananas e, rispetto alle versioni classiche del frutto, presenta delle caratteristiche ipoallergeniche.
    La fragola cilena ha una forma tondeggiante con una piccola punta e una pelle pallida, a volte appena rosata, più spesso color avorio con puntini rosa o rossi. Ha un profumo fine, erbaceo, gradevole, e in bocca un aroma delicato. Si coltiva nel territorio di Manzanal, un’area riparata dalla Cordigliera Nahuelbuta che guarda verso il mare. I campi sono ripidi, ritagliati fra boschi da legna: 25 contadini coltivano circa 14 ettari di terreno povero e argilloso, senza concimare, trattare e irrigare. Dopo il 20 novembre inizia la raccolta, che prosegue fino a metà gennaio: le fragole bianche sono i frutti di Natale e Capodanno.

    A causa dello scarso interesse, questo frutto ha rischiato di scomparire dal mercato ma il costante impegno dei coltivatori olandesi ha evitato l'estinzione.

    E’ un frutto mediamente più calorico rispetto alle classiche fragole, dato l’elevato contenuto in carboidrati: circa 30 milligrammi per un etto di prodotto, per 120 kcal totali. E’ anche ricco di vitamina A e C, acido folico e numerosi sali minerali.

    …storia…

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    Le fragole bianche esistono da centinaia di anni e questi strani frutti pallidi coltivati tra la Cordigliera e il Pacifico sono i capostipiti di tutte le fragole del mondo, perché le moderne fragole dal frutto grande, hanno un’origine relativamente recente (XVIII-XIX secolo), mentre i frutti citati prima della scoperta del Nuovo Mondo – da Plinio, Virgilio e Ovidio – sono le minuscole fragole di bosco (Fragaria vesca).

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    Nel 1614 il missionario spagnolo Alfonso Ovalle scoprì per la prima volta in Cile, nelle campagne della città di Concepción, dei strani frutti grandi, bianche fragole, che sono poi stati classificati come Fragaria chiloensis. Nel 1712 Francois Frezier, un ingegnere al servizio di Luigi XIV, portò alcune piante in Europa: al viaggio per mare, che durò sei mesi, sopravvissero solo cinque piante. Le fragole moderne nascono a Brest, in Francia, nel 1766, dall’incrocio tra la Fragaria virginiana degli Stati Uniti orientali e la bianca chiloensis. Si narra che il botanico francese Antoine Nicolas Duchesne incrociò delle qualità selvatiche per ottenere fragole-ananas più grandi e succose. Questo primo ibrido venne poi ibridato e reibridato per dar vita a tutte le varietà coltivate attualmente, grandi e rosse.
    Secondo la tradizione popolare sudamericana, in passato, la fragola bianca era considerata in possesso di proprietà magiche e si riteneva che fosse utile al fine di evitare il morso dei serpenti.

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    "C'è un altro frutto che nasce sotto terra, e che gli indiani chiamano ínchic, e l'arachide chiamata spagnolo (tutti i nomi che gli spagnoli mettono a frutto e i legumi del Perù provengono dalla lingua delle isole Barlovento, che hanno introdotto nella loro lingua spagnola, e di cui rendiamo conto); l'ínchic è molto simile, nel midollo e nel gusto, alle mandorle; se mangiato crudo offende la testa, e se tostato, è gustoso e sano; con il miele ne viene ricavato un buon torrone; inoltre, un ottimo olio viene estratto dall'ínchic per curare molte malattie.”

    (Nel 1609 il cronista peruviano Garcilaso de la Vega (1539-1616) pubblicò a Lisbona, in Portogallo, il suo libro "Royal Commentaries of the Incas")

    SACHA INCHI

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    La Plukenetia volubilis è una pianta rampicante perenne della famiglia delle Euphorbiaceae, comunemente conosciuta come sacha inchi, arachide dell'Inca o sacha arachide. Originaria della foresta pluviale amazzonica peruviana, predilige i climi caldo-umidi ben drenati con permanente presenza d'acqua. Cresce prediligendo i terreni acidi, franchi e nei pressi del corso dei fiumi, tra la flora che costituisce la foresta amazzonica oppure come pianta infestante nelle coltivazioni di canna da zucchero o frutta tropicale. E’ coltivata in diversi paesi del Sud America insieme a un'industria emergente nel Sud-est asiatico (Thailandia, Laos, Vietnam, Cambogia e Myanmar), in Cina (principalmente nello Yunnan) e in India.

    Caratterizzata da un'ampia ramificazione e da numerose foglie a forma di cuore di 10–12 cm di lunghezza e larghe dagli 8 ai 10 cm. I fiori sono piccoli e biancastri. La capsula fruttifera ha una diametro di circa 3–5 cm e normalmente ha 4 punte e quattro semi all'interno, anche se eccezionalmente può arrivare a 5 o anche fino a 7 punte; è di color verde, e tende al marrone scuro o al nero quando giunge a maturazione, mentre i semi sono color marron scuro di 1,5–2 cm di diametro.

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    ..storia..

    Il Sacha Inchi, di origine peruviana, fu piantato da antiche culture pre-inca come la civiltà Mochica e Chimu circa 3000 a 5000 anni fa. Le ceramiche di quest'epoca confermano l'uso di questa particolare pianta durante questo periodo, mostra che i guerrieri usavano l'olio di questi semi per cucinare Successivamente i Chancas e poi gli Incas continuarono a crescere e a consumare Sacha Inchi

    Un tempo molto rinomata per la produzione di caffè, negli anni Ottanta la provincia del Chanchamayo è stata teatro del conflitto armato che ha provocato l’abbandono delle terre da parte di molti agricoltori e quindi l’arresto dell’economia della zona. Terminato il conflitto, nel 1993, pochissimi coltivatori poterono investire nel rilancio della produzione del caffè, mentre la gran parte dei produttori ritornarono a coltivare terreni ormai sterili senza alcuna possibilità di riavviare una produzione redditizia e competitiva. Negli ultimi anni nell’area si è diffusa la produzione della sacha inchi (Plukenetia volúbilis L.), chiamata anche “arachide degli Inca”, una pianta autoctona della selva peruviana utilizzata tradizionalmente dalle popolazioni dell’Amazzonia.

    Lo scienziato Sweedish Carl von Linne presentò Sacha Inchi nel 1753 nella sua pubblicazione "Species Plantarum" (Volume 2, pagina 634), dove fu il primo a descriverlo come Plukenetia Volubilis.

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    L'uso di Sacha Inchi come parte della dieta fu limitato alle tribù indigene in Perù fino al 1976, quando il ministro peruviano per l'agricoltura istruì Santiago Erik Antunez de Mayolo Rynning per indagare e studiare il potenziale della regione amazzonica per nuovi tipi di colture alimentari. Durante l'indagine fu riscoperto il Sacha Inchi. Il dott. Antunez de Mayolo confrontò il contenuto di grasso dei semi di Sacha Inchi con semi di lino e soia. Mayolo presentò le sue scoperte durante il XII Congresso peruviano di chimica nell'ottobre del 1980, dove tenne un master talk sulle "eccellenti caratteristiche chimiche e nutrizionali di Sacha Inchi". In seguito a questa presentazione, l'Institute of Food Science della Cornell University ha analizzato Sacha Inchi confermando gli alti livelli di proteine ​​e olio nei semi. Lo studio "DC Hazen & YS Stoewsand. Risultati dell'analisi di olio e proteine ​​del raccolto Sacha Inchi. University of Cornell USA 1980 "non è stata inizialmente pubblicata, ma ha ispirato ulteriori analisi.

    Nel 1990, CR Valles pubblicò un'analisi dell'idoneità di Sacha Inchi come alimento e nel 1992 BR Hamaker et al. Pubblicarono la loro analisi sull'uso di Sacha Inchi come cibo da parte dei vari gruppi tribali della regione amazzonica. Nel 1996 è stata confermata la classificazione botanica di Sacha Inchi.

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    Più recentemente, nel 2011, Gutierrez, Rosada e Jimenez della National University of Columbia hanno pubblicato "Composti chimici dei semi di Sacha Inchi (Plukenetia volubilis L.) e caratteristiche della loro frazione lipidica. Gli autori hanno concluso che Sacha Inchi era adatto all'uso nell'industria alimentare a causa delle sue "elevate quantità di acidi grassi essenziali e di una crescente tendenza verso gli alimenti funzionali.

    E’ stato esportato per la prima volta in Svizzera dal Perù a metà degli anni 2000 e contemporaneamente è stata avviata la procedura di approvazione richiesta dall'Unione Europea. Nel gennaio 2013 l'Unione Europea ha approvato l'acquisto di Sacha Inchi Oil come nuovo alimento (qualsiasi cibo non consumato normalmente in Europa prima del 15 maggio 1997 è considerato un nuovo alimento in Europa). Sacha Inchi è stata importata per la prima volta in Giappone nel 2006 (con il marchio Inca Inchi) e ora è venduta e consumata in molti paesi dell'Asia, tra cui India, Cina e la maggior parte del sud-est asiatico.

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    ..il frutto..

    Diverse sostanze di cui sono ricchi i semi di questa pianta costituiscono un mix di antiossidanti naturali. La maggiore proprietà che vanta il Sacha Inchi è la sua grande ricchezza in acidi grassi polinsaturi: Omega 3, Omega 6 e Omega 9. L’olio che si ricava è costituito per quasi il 50% da Omega 3, per circa il 35% da Omega 6 e per il 9% da Omega 9. Si tratta inoltre di prodotto naturale ricco di vitamine (soprattutto vitamina A e vitamina E), sali minerali ma anche amminoacidi essenziali e non e dunque proteine. Si tratta anche di un rimedio naturale per rafforzare il sistema immunitario. Un altro vantaggio che offre è quello di essere particolarmente digeribile e dal sapore più leggero e gradevole rispetto ad altri oli. Un’altra particolarità del Sacha Inchi è quella di contenere iodio.

    L’arachide dell’Inca è un frutto composto da una capsula che misura 4 centimetri di diametro circa al cui interno sono contenuti un numero variabile di semi ovali di colore marrone scuro. La raccolta del sacha inchi avviene quando questi cominciano a seccarsi ed una volta colti vengono essiccati al sole per riuscire ad estrarre in modo più facile il frutto interno; quest’ultimo viene poi utilizzato come ingrediente base per diversi prodotti tipici della gastronomia della regione di San Martin.

    Oltre al suo consumo, gli arachidi “sacha inchi” sono impiegati nella preparazione di alcuni dolci come i torroni oppure nella zuppa chiamata “inchicapi” a base di pollo, aglio ed arachidi.

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    I semi di sacha inchi sono un ingrediente anche del “tamal”, un piatto che alcuni antropologi ritengono sia stato introdotto dagli schiavi africani della costa atlantica. E’ una specie di involtino farcito con carne, olive, uova ed arachidi bollite avvolto in foglie di banano o mais e poi cotto nella pachamanca (una tecnica di cottura che prevede di porre sotto terra gli alimenti accanto a pietre roventi) oppure cotto direttamente alla brace chiamata qanq’as. In alcuni mercati locali e per strada si possono incontrare venditori ambulanti che offrono gli “inchi cuchos”, cioè spiedini di arachidi dell’Inca arrostite alla brace.

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    Negli ultimi anni è stata riscoperta una tecnica ancestrale delle comunità amazzoniche, che consiste nell’estrazione di un olio alimentare dai semi di sacha inchi. L’estrazione dell’olio non richiede raffinazione ma avviene a freddo garantendo quindi genuinità e alta qualità al prodotto. Si può utilizzare a questo scopo come condimento per insalate, verdure, zuppe o altri alimenti. Importante però è utilizzarlo sempre rigorosamente a crudo per mantenere intatte le sue proprietà. Quest’olio, molto ricercato, è usato nella cosmesi e ha portato ad una intensificazione delle tecniche di raccolta e di estrazione poco sostenibili che mettono a rischio la sopravvivenza di pianta.

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    Kiwi arguta


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    Actinidia arguta è una pianta appartenente alla famiglia delle Actinidiaceae. E’ una liana rampicante che raggiunge tra i 6 e i 10 metri di altezza e produce dei piccoli frutti che assomigliano ai frutti della pianta del Kiwi.
    Actinidia arguta è stata descritta per la prima volta nel 1843 da Philipp Franz von Siebold e Joseph Gerhard Zuccarini, che le diedero il nome di Trochostigma argutum. Appartiene al genere Actinidia dal 1867.
    Il baby kiwi, detto anche kiwiberry, kiwi arguta, nergi, kiwi siberiano, è uno dei cosiddetti “superfood” scoperti di recente, considerato tale per la sua ricchezza di proprietà nutrizionali.

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    È una pianta selvatica originaria dell’Asia Orientale, dalle regioni fredde della Manciuria confinanti con la Siberia Orientale. La varietà che si coltiva in questi ultimi anni è il risultato di incroci naturali compiuti da botanici in Nuova Zelanda. Ha un portamento rampicante ed è composto da diversi rami semi-legnosi capaci di autosostenersi, che possono raggiungere un’altezza di circa 3 metri.
    Le foglie sono lunghe circa dieci centimetri e hanno i margini dentati. I fiori della Actinidia Arguta si presentano a mazzetti e sono fiorellini bianchi molto profumati.

    L'arguta fruttifica a metà autunno, a inizio-fine ottobre, in piccoli grappoli di 4-5 frutti ogni 10 centimetri di ramo, dando quindi un raccolto molto abbondante. I frutti, risultato di una naturale impollinazione, sono prodotti dalle piante femmina; la buccia è di colore verde, sottile e liscia, sono grandi come una noce, verdi e senza la peluria esterna tipica di quella specie. In base alla maturazione raggiunta possono diventare rossastri o violacei e particolarmente morbidi. Hanno un sapore dolcissimo, molto più concentrato del kiwi normale, paragonabile al kiwi Gold, ma più intenso. Sono ricchissimi di vitamina C, con concentrazioni superiori a quelle degli agrumi, oligoelementi come sodio e potassio, zuccheri, proteine e fibre.

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    Ci sono le seguenti varietà:
    • Actinidia arguta var. arguta
    • Actinidia arguta var. giraldii (Diels) Vorosch, classificata per la prima volta da Ludwig Diels come una specie nel 1905, ma nel 1972 è stata ridotta ad una varietà da Vladimir Nikolaevich Voroschilov.
    • Actinidia arguta var. hypoleuca (Nakai) Kitam, è stata classificata come specie da Takenoshin Nakai nel 1904, ma è stata ridotta ad una varietà nel 1980 da Siro Kitamura.


    Il baby kiwi è un frutto che esiste da diversi secoli, ma è stato scoperto soltanto dal 2005 in Europa grazie ad una società francese specializzata nella coltivazione di mini frutti. Durante un viaggio in oriente lo staff ebbe l’occasione di scoprire le varietà di questo frutto, risultato di incroci naturali oltre che le sue tante proprietà nutrizionali. L’azienda francese decise di acquistarne i diritti di produzione per il territorio europeo chiamando in esclusiva questo piccolo frutto “nergi” da energy, energia e ne avviò il commercio sui mercati europei.
    E' un frutto ancora poco conosciuto in Italia, ma coltivato da anni da alcuni soci della Cooperativa Sant'Orsola, che l'ha presentato all’edizione di Interpoma 2008. Le prime coltivazioni di baby kiwi o Nergi in italia risalgono al recente 2013. Si coltivano soprattutto in Piemonte, nella zona di Cuneo.

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    Mela di Legno indiana


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    Il suo nome scientifico è in realtà Limonia Acidissima, viene chiamata Mela di Legno – wood apple – a causa di un guscio durissimo. E’ originaria dell'India e dello Sri Lanka, Malesialcune fonti includono Figi nella distribuzione nativa. La specie è stata introdotta anche in Indocina e Malesia .
    La pianta è un albero di grandi dimensioni che può crescere fino a 9 metri d’altezza. Ha una corteccia marrone, ruvida e spinosa, con fessure verticali e scaglie rettangolari; presenta spine acuminate, dritte, più chiare. Le foglie sono pennate, con 5-7 volantini, con un profumo di agrumi quando schiacciato. I fiori sono bianchi e hanno cinque petali.
    La Limonia Acidissima è spesso confusa con un’altra pianta ben più famosa tipica del sud-est asiatico che produce un frutto simile nota come Aegle Marmelos o Bael. La confusione nasce dal fatto che entrambe le piante vengono chiamate in inglese col nome Wood Apple. Sebbene i frutti dei due alberi e le loro proprietà siano simili, si tratta in realtà di due specie distinte.

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    I suoi frutti hanno una dimensione tra i 5 e i 9 centimetri e sono caratterizzati per l’esterno estremamente duro da cui ne deriva il nome. A rendere famoso il frutto tuttavia è la polpa interna che, dopo aver aperto il guscio con un martello, può essere consumata direttamente oppure raccolta e utilizzata successivamente in cucina; la polpa acerba è di gusto amaro, mentre la polpa matura ha odore e sapore che è un gradevole misto di agro e dolce, ricorda il tamarindo.
    Gli utilizzi più comuni sono per marmellate, assieme al latte di cocco per una bevanda refrigerante oltre ai gelati alla «Mela di Legno»

    La polpa del frutto è da sempre utilizzata anche nella medicina ayurvedica. Anche gli elefanti e le scimmie paiono prediligere questo frutto che è anche noto anche come elephant apple (mela degli elefanti) o monkey apple (mela delle scimmie). Questi frutti sono considerati di buon auspicio per essere offerta a Shiva e Ganesha in puja. Sthala Vriksha La maggior parte dei templi indù ha un albero sacro all'interno del suo composto ed è noto come Sthala Vriksha.

    Trattata per diventare una pasta può essere applicata sulla pelle per dare sollievo a punture d’insetti e acne. Si tratta di un cosmetico tipicamente birmano comunemente chiamato thanaka e conosciuto in Thailandia come แป้งพม่า (peng phamaa – farina del Myanmar). Questa crema bianca e spessa viene applicata sul viso per proteggere la pelle dal sole e viene (forse meglio dire: veniva) fabbricata pestando pazientemente in un mortaio la corteccia. La polpa del frutto può essere usata per fare il sapone; l’olio per capelli fatto con la buccia del frutto.
    Sconfinare in altri campi di attività umana. Lo strato adesivo intorno ai semi immaturi è una colla che viene utilizza nella fabbricazione di gioielli e, mescolata a calce, all’impermeabilizzazione di pareti e pozzi. La buccia del frutto è così dura che può essere intagliata e usata come utensile.

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    BANANA BLUE JAVA

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    La banana blue java è un ibrido, derivante dall'innesto della Musa balbisiana con la Musa acuminata: la fusione di queste due specie ha dato vita ad una pianta con radici fortissimi, in grado di resistere a intemperie, venti e cicloni e può raggiungere un’altezza fino a sei metri. Cresce alle Isole Fiji, alle Hawaii, nelle Filippine e in America Centrale.
    La sua particolarità è la buccia: di colore blu quando è acerba diventa tendente al verde-giallo quando arriva al perfetto punto di maturazione. In natura, il blu non è un colore particolarmente comune da qui una serie di leggende e curiosità circa l'origine e le proprietà.
    La caratteristica per cui sono tante apprezzate queste banane è che hanno una consistenza, ma soprattutto un sapore, che ricorda quello del gelato alla vaniglia, non a caso sono conosciute come “Ice cream Banana“. Sono più soffici e cremose delle più comuni banane.
    Dal punti di vista nutrizionale risulta decisamente più salutare della classica banana, dato che per 100 g di prodotto vi sono 0,3 g di grassi; 22,8 g di carboidrati e solo 89 calorie.
    Oltre allo straordinario frutto, poi, fuori dal comune risultano anche le foglie, che per risultano l’equivalente vegetale della pellicola di alluminio, riuscendo a resistere a temperature polarizzate.

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    YUZU

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    La patria dello Yuzu è il Giappone. Xiāngchéng è il nome cinese dello yuzu, che proprio della Cina è originario e dove è utilizzato da almeno 1200 anni. Si pensa che questo frutto sia un ibrido tra un mandarino e un frutto del Papeda, sottogenere di Citrus che include la Limetta kaffir, se non a sua volta ibrido tra limetta e cedrus. E’ ricchissimo di olii essenziali dai sentori che ricordano un mix di pompelmo, mandarino, cedro, lime e spezie.
    Il frutto che ha una scorza irregolare giallo-verde, come quella dei limoni, ma le sue note aromatiche sono un po’ più vicine alla freschezza del pompelmo.
    Nel Touji, il solstizio d’inverno, che si celebra nel Sol Levante il 22 dicembre, la tradizione vuole che ci si bagni con il succo di yuzu, in via propiziatoria e per prevenire i malanni di stagione.
    Lo yuzu ha fatto la sua prima apparizione in Europa nel 2012, quando ne fece richiesta lo chef francese di fama internazionale Jerome Banctel, intuendone prima di tutti le potenzialità in cucina, in piatti sia dolci che salati.
    Di questo agrume è apprezzato il suo aroma intenso e delicato, mentre il sapore è piuttosto aspro ricorda quello del limone o del pompelmo ma con una nota dolce simile alle clementine. Con il suo aroma deciso ed elegante, lo Yuzu è ideale da grattugiare su carne e pesce sia alla griglia, sia cotti a vapore per insaporire con un gusto nuovo, un’alternativa particolare all’aroma dell’arancia e del limone.
    Oltre al forte profumo, l’Yuzu è ricco di un succo aromatico per arricchire i dolci: i grandi pasticcieri lo utilizzano per profumare bignè, pan di spagna e il tè.
    Gli chef coreani e giapponesi usano lo yuzu come insaporitore le verdure cotte a vapore. E’ un ingrediente base di marmellate e gelatine, come conservante e addensante. Nell’isola di Shikoku, in Giappone, in un’area famosa per i suoi frutteti di yuzu, si producono ora le uova che sanno di questo agrume; la dieta delle galline è ricca di buccia di yuzu. In Occidente viene utilizzato soprattutto in alta cucina, per esaltare pietanze dai sapori delicati, ad esempio a base di pesce, mentre la buccia viene utilizzata perlopiù in pasticceria per insaporire torte e dessert.

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    In Gran Bretagna lo yuzu viene spesso usato al posto di agrumi più comuni come limoni o lime. A contribuire alla notorietà di questo frutto in Inghilterra anche il suo utilizzo nel corso della trasmissione televisiva «The Great British Bake Off»
    La scorza di yuzu è commercializzata anche in polvere, da spruzzare su piatti dolci, ma anche salati.
    Il Nana-iro tōgarashi, noto anche come Shichi-mi tōgarashi, o semplicemente shichimi, è un mix di spezie detto "peperoncino ai sette sapori", che incorpora il peperoncino rosso (togarashi) al quale sono aggiunti scorza di mandarino, semi di sesamo, di papavero, canapa, alga nori tritata, pepe di Sichuan e in alcune versioni, lo yuzu.
    Il Koshō è una pasta a base di scorza di yuzu, peperoncino e sale. Dal sapore acre, salata e piccante, si trova nella versione verde o rossa, ed è perfetta per il sushi e il sashimi, ma anche per accompagnare alcuni piatti di noodle o zuppe.
    Il Ponzu è una salsa agrumata popolare nella cucina nipponica, aspra, acquosa e bruna; oltre allo yuzu sono utilizzati sudachi, daidai (un arancio amaro) e kabosu, mentre la base è costituita da mirin, fiocchi di bonito e alga kombu.
    Il Vinegar è fatto con succo di yuzu e aceto di riso. I guerrieri giapponesi hanno sempre bevuto aceto, storicamente, per una lunga e potente vita.
    Il Yamabushi sono gli eremiti asceti con poteri soprannaturali della tradizione mistica giapponese. Leggenda vuole che il famoso condimento yuzukoshō venisse creato proprio da loro, a partire da un albero di yuzu sul sacro Monte Hiko.


    Popolari sono le bevande a base di yuzu, come il vino, i liquori e il tè, tipico della Korea. In Occidente va a insaporire birre, cider e persino il finlandese glögg. Il Yuzuri è un liquore nel quale buccia, succo e polpa del frutto vengono combinati con un distillato di riso. il Broomstick Backlo è un cocktail molto popolare: lo yuzu è abbinato a purea di albicocca, miso e gin.

    Lo yuzu è ricco di vitamina C e di polifenoli, le sue sostanze antiossidanti sono un sostegno per le difese immunitarie. Il suo effetto disinfettante riduce la carica batterica dei cibi.
    In Asia viene anche utilizzato per rilassarsi durante il bagno, immergendo i suoi frutti nella vasca con acqua calda e fiori di ciliegio.

     
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    Fra buio e luce,
    fra giorno e notte;
    è Crepuscolo che crea Magia.
    Né pioggia né acqua marina,
    né flusso né acqua di pozzo;
    è Rugiada che crea Magia.
    Né pianta né albero,
    né fusto né foglia;
    è Muschio che crea Magia.


    È una frase celtica, che riporta indietro nel tempo, quando i Celti si trasferirono in Piemonte e in Liguria, unendosi in parte ai liguri già 1000 anni a.c. formando nuclei alle spalle di Sanremo, a Bajardo e Seborga.

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    FRAGOLE NERE

    Si tratta di una specie che può essere coltivata sia al sole sia nei posti in ombra, l’importante è il clima freddo. Le temperature ideali affinché le fragole nere raggiungano la maturazione sono infatti quelle basse. Il sapore della fragola nera è dolciastro ed anche abbastanza forte, a causa dell’elevata presenza di zuccheri. Non è un caso sono indicate ed utilizzate per la realizzazione di marmellate.Ha un’alta concentrazione di polifenoli e un contenuto non indifferente di antociani. Il colore ne è una conseguenza. Si va dal rosso profondo ad un vero e proprio nero. È una varietà nuova come la bianca, che ha la particolarità di non avere allergeni. Il contenuto di antociani e polifenoli non incide sul sapore e tanto meno sulla dolcezza. Non c’è correlazione tra colore e sapore. Naturalmente, l’alto contenuto di antociani ha dei benefici dal punto di vista nutrizionale (gli antociani aiutano a ridurre il rischio di malattie cardiovascolari e altre patologie
    Le fragole nere sono caratterizzate da un aroma forte e molto particolare, un profumo così peculiare ed esclusivo che contribuisce a renderle immediatamente riconoscibili; amano il freddo e il pieno della loro fertilità in fiori, avviene a fine giugno.
    Sono un serbatoio di vitamina C e di flavonoidi, nei quali rientrano anche gli antociani che conferiscono proprio questo colore particolare. E’ di questi frutti aggregati un eccezionale potere antinfiammatorio grazie proprio ai flavonoidi in quantità sei volte maggiore rispetto alle fragole rosse che tutti conosciamo. Non solo, consumare fragole nere significa anche fare il pieno di polifenoli che, rispetto ai frutti di colore rosso, sono contenuti in quantità elevatissime, addirittura 18 volte superiori.
    La presenza di questi antiossidanti naturali assicura, con un consumo regolare e costante, effetti positivi sia sull’intero sistema cardiocircolatorio che per la regolazione della glicemia.

    La scoperta di questi frutti “dark” risale ai primi anni del XX secolo e precisamente al 1904 e pare sia avvenuta in Germania, ad Amburgo. Chiamate da subito “fragole nerina” a causa dell’inusuale colore che caratterizza non solo la superficie del frutto ma anche la sua polpa. Si tratta di una varietà ai più non molto nota, ma particolarmente ricercata soprattutto dai veri intenditori che, tra le fragole, la eleggono tra le migliori in assoluto.

    In Italia, una terra custode di questa rara varietà di fragole dal colore nero è la Liguria e, più precisamente, la zona di Imperia. La motivazione è che la cultura celtica in queste zone ha lasciato in eredità un atteggiamento particolarmente attento e rispettoso della natura. Non a caso furono proprio i sacerdoti celti a tramandare i segreti della coltivazione e l’amore per le piante e, tra queste, anche per le fragole nere, relegate nella lista dei cosiddetti “frutti dimenticati”. L’Agriturismo Monaci Templari di Seborga di Emanuela Rebaudengo, cercherà di riportarla in vita in maniera preziosa, per valorizzare non la quantità di produzione ma come qualità riservata alla biodiversità, e, in qualche modo nell’antico ricordo di civiltà vissute in queste splendide colline dell’entroterra Ligure.

    A Seborga esistono tutte le piante ancora oggi che i Celti veneravano, dalla Quercia al Castagno, alle piante da frutto, sino a portare con se dal nord, in questa fertile ma irta terra, le Fragole nere, in onore della luna, quando gran parte degli dei erano rivolti al sole. I Celti, nonostante la profonda cultura e rispetto per la natura, non scrivevano quasi mai nulla, ma trasmettevano tradizioni e usanze oralmente. Sia i Romani svalutandoli come Barbari che i monaci Cristiani mistificando i racconti e le esperienze druidiche a favore del cristianesimo, fecero perdere in parte le loro conoscenze. Occorrevano circa vent’anni per diventare druidi, e in tutto questo ciclo, venivano tramandate le conoscenze e le tradizioni. Solo la festa di San Giovanni, il cui nome viene ricondotto spesso a Seborga, tra paganesimo e magia viene festeggiato il 24 giugno, come tradizione di culto celtico.

     
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