CUCINA NELL'ANTICA ROMA

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    L'alimentazione degli antichi Romani


    anticaromafood



    I mercati e l'annona

    I ricchi facevano venire i prodotti dai loro domini, mentre le classi più povere si recavano ai mercati della città.
    I negozi erano vicino al Foro, cioè nel centro della città.
    Un esempio famoso è il mercato di Traiano a Roma, formato da due terrazze di negozi e magazzini. Vi si vendevano prodotti alimentari, dell'artigianato e vasellame. A Roma c'erano anche mercati del pesce, del bestiame e delle verdure.
    L'annona era il servizio che assicurava la distribuzione e il controllo sulla vendita del raccolto dell'anno sopratutto del grano e del vino. L'annona salaria era il prezzo del sale.

    Il penus familiare e il focolare

    Il penus era la riserva familiare delle provviste per i membri della famiglia, i servitori e gli schiavi.
    La nicchia del penus era accanto al focolare.
    Il primo elemento del focolare, centro della vita, era la legna.
    Le carbonariae tabernae erano imprese di legname e depositi di carbone.
    Il carbone era usato per la cottura di certi alimenti e per il riscaldamento.
    Le ceneri venivano utilizzate per il candeggio della biancheria e come fertilizzante per i campi.



    L'acqua

    L'acqua era importante nell'alimentazione e nell'igiene quotidiana; serviva inoltre per l'irrigazione dei giardini.
    L'impluvium era la cisterna che nelle case raccoglieva l'acqua piovana.Poiché quest'acqua imputridiva, veniva fatta bollire e si beveva calda o raffreddata.

    A Roma vennero costruiti 14 acquedotti. Avere l'acqua in casa era però una vera rarità. Essa era un dono pubblico, alla portata di tutti.
    I romani la raffreddavano con la neve: così gli alimenti troppo caldi erano accompagnati da bevande molto fredde.
    C'erano diversi tipi di bevande: la posca, formata da acqua e aceto, l'acqua mulsa, formata da acqua e miele, l'idromele, formato da acqua piovana e miele.




    Il sale

    Era conservato nel penus. Serviva per le offerte agli dei, per il nutrimento, per la conservazione di alcuni alimenti, per preparare il vino e per impedire che l'olio diventasse spesso. 1 Romani lo mangiavano da solo con il pane.

    Il pane

    Era un alimento di base.
    Prima di conoscere il pane i Romani mangiavano la polta, cioè una zuppa di cereali.
    Il primo frumento usato per fare il pane era chiamato farro o spelta.
    La prima focaccia romana era guarnita con formaggio, olive, uova e funghi. Poiché il pane era molto duro, veniva mangiato intinto nel vino, nell'olio, nelle minestre o con le salse.
    Cerano molte varietà di pane: alcuni tipi erano scadenti, altri erano pani preparati con miele, vino, latte, olio, frutti canditi e pepe.

    Anticamente il pane veniva fabbricato in casa; poi vennero aperte le panetterie da cuochi e artigiani specializzati che avevano mulini e forni.
    I pistores dulciarii erano gli artigiani specializzati nella preparazione dei dolci.

    Le verdure

    I Romani mangiavano diversi tipi di verdure: radici, rape, barbabietole, carote, ravanelli, maceroni, bulbi, cipolle, aglio, porri, asparagi, funghi, cavoli, lattuga, cicoria o indivia, carciofi, cetrioli, fave, lenticchie e piselli.

    La frutta

    1 Romani mangiavano diversi tipi di frutta: nocciole, prugne, ciliegie, more, fragole, sorbe nere, mirtilli, pinoli, castagne, ghiande, mele, uva, fichi, olive, pesche, albicocche, datteri, melone, cocomero e zucca.

    I prodotti animali



    I Romani, fin dai tempi più antichi, consumarono alimenti di origine animale. Per questo allevavano animali, dai quali ottenevano uova, formaggi, latte e carne.

    Le uova

    I Romani mangiavano le uova per un loro equilibrio alimentare e questo spiega il loro rispetto per i volatili.
    Venivano preparate come oggi, alla coque, al tegamino, sode oppure strapazzate.

    Il latte e il formaggio

    Il latte inizialmente era un alimento indispensabile per i Romani in tutti i pasti e veniva impiegato in vari prodotti.
    Veniva utilizzato il latte di capra, di vacca, di asina e di cavalla.
    Era bevuto fresco oppure aromatizzato. Inizialmente era usato anche per zuppe e minestre; poi il brodo di carne sostituì il latte.
    Trovò un impiego fondamentale nelle pasticcerie.
    Il burro era usato raramente, in quanto non era conosciuta la tecnica per conservarlo.
    Lo yogurt era fatto con latte, aceto e cipolla.
    Il formaggio diventò presto una pietanza completa: veniva ottenuto amalgamando il latte con un succo ottenuto dal rigurgito di un vitellino o di un bambino non ancora svezzato.
    I formaggi avevano diversi sapori: quello affumicato era ottenuto facendo assorbire il fumo alla forma di formaggio che era tenuta nelle fiscellae (contenitori forati); quello salato era pressato a mano e poi immerso in salamoia. Il formaggio era utilizzato per fare la polenta taragna e veniva usato come condimento.

    La carne, il pollame e la selvaggina

    La carne viene introdotta nella vita romana quando subentra l'urbanizzazione: i Romani la sostituirono ai vegetali, poiché, abitando in città, non coltivavano più l'orto.
    La carne più utilizzata dai Romani era quella di suino, perché del suino si mangiava tutto.
    La carne dei montoni e delle capre era la meno pregiata - infatti veniva venduta al mercato per pochi soldi - mentre quella dell'agnello e del capretto erano le più pregiate per la loro morbidezza.
    Il bue, invece, inizialmente non veniva utilizzato per la gastronomia, ma nel lavoro dei campi. Infatti esso non poteva essere mangiato poiché ritenuto sacro. Più tardi venne usato per i bolliti, a causa della sua carne che poteva essere conservata più a lungo e condita con salsine piccanti. Inoltre questa carne veniva utilizzata durante i banchetti in onore degli dei.
    Un contributo a tavola era la selvaggina che veniva cacciata.
    C'erano delle riserve chiamate vivaria dove veniva allevata la selvaggina di grossa taglia, come il cinghiale, la cui carne era la più ricercata e la più costosa. Tra la selvaggina di piccola taglia troviamo la lepre, il ghiro, l'oca, l'anatra e la lumaca.
    Importante è notare che la selvaggina non veniva sacrificata.



    Il pesce e i frutti di mare

    Molto più tardi arrivò nell'alimentazione romana il pesce. Tra i pesci più mangiati troviamo l'orata, la triglia, la sogliola e il luccio. Tutti questi pesci erano accompagnati da verdure bollite, carni o fegati.
    I frutti di mare anticamente erano mangiati durante il periodo della carestia, ma vennero ben presto considerati piatti pregiati e prelibati. Venivano mangiati cotti o crudi, conservai in giare con sale e insaporiti con salsine.
    Venivano consumati datteri di mare, ostriche, polipi, seppie, astici, scampi, gamberi e rane.


    menu


    Il vino

    Questa bevanda aveva soprattutto un carattere sacro - carattere che si è conservato nella religione cristiana.
    Gli uomini non potevano berlo prima di aver compiuto trent'anni ed era proibito alle donne;esisteva infatti una prova, chiamata "ius osculi" (diritto del bacio), che permetteva al marito di dare un bacio alla moglie sulla bocca per vedere se aveva rispettato questa regola.
    1 Romani conoscevano il vino rosso, che però chiamavano nero, e il vino bianco, ma non quello secco. I vini erano pesanti, acidi o amari.
    Il vino era bevuto in coppe molto larghe e quasi piatte.
    Esso si beveva anche se non era buono e veniva usato come condimento.
    Era conservato fino a 15 anni e più era vecchio più era costoso.
    Altri tipi di vino erano quelli mielati - con il miele - e quelli pepati.
    Una bevanda molto consumata dai Romani poveri e dai Barbari era la birra.


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    I Romani in cucina



    L'arte culinaria

    Ogni cittadino romano ricco possedeva una cucina vera e propria e aveva al suo servizio almeno due o tre schiavi capeggiati dai migliori cuochi, che gli preparavano i pasti. Per le grandi occasioni venivano addirittura messi a disposizione dei cuochi con tutta la loro squadra di cucina; insieme a loro si potevano anche affittare suonatori di flauto, artisti e acrobati. Il cuoco spesso faceva suoi i gusti del padrone per soddisfare al meglio i suoi desideri in cucina.
    Dei cibi venivano osservate prima di tutto le virtù dietetiche e medicinali.
    La culla della gastronomia europea è stata la Sicilia, punto d'incontro di varie influenze.


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    Nella cucina romana fondamentali erano i condimenti, che venivano usati per la maggior parte dei cibi. Nel corso della preparazione si pensa addirittura che i cibi perdessero il loro sapore originale per la cottura (la carne veniva cotta almeno due volte: la prima nel latte e la seconda o con le verdure o arrostita) e per i condimenti eccessivi; nelle ricette non compaiono mai i dosaggi.
    Le spezie indispensabili in cucina erano: lo zafferano, il pepe, lo zenzero, ecc.
    Il sale veniva adoperato sia per la conservazione sia per usi dietetici, ad esempio per allontanare la peste o il raffreddore o per la digestione.
    I Romani traevano molti condimenti dall'aceto; per legare le salse usavano la fecola e, non conoscendo lo zucchero, utilizzavano il miele come dolcificante.
    I Romani condivano il cibo con lo strutto (grasso di maiale) e con l'olio.
    Essi avevano la tendenza a mescolare il dolce con il salato. Nei vari impasti si mescolavano la carne di pollo, di porco e il pesce con gli uccelli selvatici. L'uovo era molto usato.
    Molto comune era una focaccia salata alle erbe e al formaggio, chiamata moretum.
    A conclusione del pasto c'era frutta e qualche stuzzichino.
    Nei condimenti facevano sempre la loro comparsa il miele e il garum, un condimento quest'ultimo fatto con scarti di pesce conservati col sale; il garum veniva usato anche quando il cibo era dolce.

    I brodi di verdura facevano bene al ventre, perciò la loro preparazione era considerata a metà strada tra la medicina e l'arte culinaria. Ad esempio, il brodo di cavolo, mescolato alla farina d'orzo, era considerato molto efficace per curare piaghe ed ulcere.
    Anche a quel tempo si facevano tisane, ma esse non erano decotti di foglie e di fiori, bensì una specie di crema intermedia tra la minestra e una salsa vera e propria.

    I cuochi romani erano bravissimi nell'imitare, in quanto sapevano far credere a chi mangiava i loro piatti di stare mangiando pesce al posto di anatra: ad esempio Nicodemo, il re di Britannia, una sera aveva desiderato acciughe pur trovandosi a grande distanza dal mare; il suo cuoco gliene servì un'imitazione consistente in una rapa tagliata a lunghe fettine bollite con olio, sale e semi di papavero.


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    Il cibo era però diverso a seconda della classe sociale di appartenenza.
    Gli schiavi mangiavano cibo che non variava molto durante l'anno; era sempre costituito da grano, che variava da 4 moggi d'inverno a 4 moggi e mezzo d'estate. Esso veniva chiamato triticum. Agli schiavi spettava una razione giornaliera di vino non molto buono. Agli schiavi incatenati e ai soldati romani venivano distribuiti o 1 kg e 300 g di pane al giorno o fichi e 262 litri di vino all'anno; a tale nutrimento si aggiungevano bulbi di piante, cipolle, rape ed altre radici, leguminose e verdure fresche a seconda della stagione.
    Anche i contadini allo stato libero avevano lo stesso nutrimento degli schiavi.

    Fonte:dal web
     
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    La cucina "mimetica" romana




    La cucina romana amava mimetizzare gli ingredienti dei vari piatti manipolandone il sapore, in modo che chi li gustava rimanesse piacevolmente sorpreso. La cosa, oltretutto, serviva anche a mascherare il gusto poco gradevole di cibi non sempre freschissimi per la mancanza di strumenti di conservazione adeguati. A questo scopo si usavano spezie, erbe fini e condimenti svariatissimi che, alterando il sapore dei cibi, ne mascheravano anche il gusto e l'odore.
    Anche l'occhio voleva la sua parte: molti alimenti, sminuzzati o passati, venivano messi in stampi a forma di pesce o di volatile, pur non contenendo ingredienti tratti da questi animali, e serviti con ricche decorazioni.
    Il condimento più usato in assoluto era il garum o liquamen, una salsa a base di pesce azzurro messo a macerare per mesi in piccole vasche con sale ed erbe aromatiche.
    Usatissimo in cucina era anche il mosto o vino cotto, mescolato, a seconda dei casi, con miele, acqua o aceto e impiegato nella cottura per dare ai cibi una particolare colorazione scura.
    Il cibo dei ricchi era assai elaborato e sottoposto a lunghi processi di cottura in pentole spesso fatte con alluminio o piombo, metalli che rilasciano sostanze tossiche; nelle classi più abbienti erano dunque assai frequenti i disturbi gastrici, che talora sfociavano in malattie gravi se non addirittura mortali; assai più sana era invece l’alimentazione dei poveri, fatta di cibi semplici e consumati per lo più crudi.

    Il più completo manuale di cucina che possediamo in lingua latina è il De re coquinaria di Marco Gavio Apicio, vissuto nel I secolo d.C., sotto Augusto e sotto Tiberio. Da quest’opera, suddivisa per tipi di cibi come un moderno ricettario gastronomico, sono tratte le ricette qui riportate, che cercano dio riprodurre un pasto completo del ceto aristocratico dell’antica Roma imperia

    Proposta per un menu


    dal De re coquinaria di Apicio



    Gustum de holeribus
    Condies bulbos liquamine, oleo et vino. Cum cocti fuerint, iecinera porcelli et gallinarum et ungellas et ascellas divisas, haec omnia cum bulbis ferveant. Cum ferbuerint, teres piper, ligusticum, suffundis liquamen, vinum et passum ut dulce sit, ius de suo sibi suffundis, revocas in bulbos. Cum ferbuerint, ad momentum amulo obligas.

    Antipasto di verdure
    Condisci i bulbi con garum, olio e vino. Quando saranno cotti (aggiungi) fegato di maiale e di gallina, le zampe e le ali fatte a pezzi e fai cuocere tutto con i bulbi. Quando saranno cotti, macina pepe, ligustico, spargi un po' di garum, vino e vino passito per addolcire, annaffialo col suo sugo e versa sui bulbi. Quando tutto sarà ben cotto, al momento opportuno legalo con l'amido.



    Pulmentarium ad ventrem

    Betas minutas et porros requietos elixabis, in patina compones. Teres piper, cuminum, suffundes liquamen, passum, ut quaedam dulcedo sit. Facias ut ferveat. Cum ferbuerit, inferes.


    Zuppa digeribile
    Fai bollire delle bietole sminuzzate e dei porri conservati, poi componili in una scodella. Macina pepe, cumino, spargi del garum, del vino passito in modo che ci sia una punta di dolce. Fai bollire. Quando è cotto, servi.



    Porcellum assum
    Teres piper, rutam, satuxeiam, cepam, ovorum coctorum media, liquamen, vinum, oleum, conditum. Bulliat. Conditura porcellum in boletari perfundes et inferes.

    Maialino arrosto
    Trita pepe, ruta, santoreggia, cipolla, tuorli di uovo sodo, garum, vino, olio e condimento. Fai bollire. Versa il condimento sul maialino in un piatto da portata e servi in tavola.



    Salsum sine salsum
    Iecur coques, teres et mittes piper aut liquamen aut salem, addes oleum - iecur leporis aut haedi aut agni aut pulii - et, si volueris, in formella piscem formabis. Oleum viridem supra adicies.

    Pesce salato senza pesce
    Cuoci del fegato, tritalo e aggiungi pepe o garum o sale, aggiungi olio - il fegato di una lepre, di capretto, di agnello o di pollo - e se vuoi forma un pesce in uno stampo. Aggiungi sopra dell'olio verde.



    Herbae rusticae
    Liquamine, oleo, aceto a manu, vel in patina piper, cumino, bacis lentisci.

    Erbe di campo
    Alla mano (=crude) con olio, garum, aceto; oppure cotte in pentola con pepe, cumino, bacche di lentischio



    Patina versatilis
    Nucleos, nuces fractas, torres eas et teres cum melle-, piper e. liquamine, lacte et ovis . Olei. modicum.

    Torta da rovesciare
    (Prendi) dei pinoli e delle noci tritate, tostali e sminuzzali con miele, pepe, garum, latte e uova. Un po' d'olio.


    Fonte:dal web
     
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    Ricette dell’antica Roma, rifatte ai nostri giorni





    EPITYRUM
    Snocciolare e tritare delle olive nere, possibilmente quelle molto grandi e seccate (le “passolone” siciliane, ad esempio, o similari), utilizzando un frullatore. Aggiungere lentamente un po’ di olio e un po’ di aceto. Poi aggiungere un pizzico di ruta (se disponibile altrimenti si può sostituire con poco prezzemolo e foglie di sedano), di semi di coriandolo, di cumino, di finocchiella selvatica, di menta. Si formerà in questo modo una sorta di paté che può essere conservato anche per più tempo in un barattolo di vetro in frigo.

    CAROTE CUMINATE
    Lessare delle carote e tagliarle a rondelle. Preparare una salsa tritando insieme molto cumino con levistico (in mancanza si può usare prezzemolo e foglie di sedano), menta secca e, se disponibile, del nardo. Unire miele, aceto e garum.
    Condire le carote con questa salsa e spolverare il tutto con una piccola manciata di cannella in sostituzione del malobatro, erba ormai introvabile.





    FORMAGGIO ALLE ERBE
    Tritare insieme del pecorino fresco e del formaggio fresco (ad esempio ricotta del tipo romano) in proporzione di 1/3 di pecorino e 2/3 di formaggio fresco.
    Aggiungere all’impasto un ciuffetto di santoreggia, poca ruta (in mancanza usare prezzemolo e foglie di sedano), qualche foglia di coriandolo verde, un gambo di sedano, un paio di cipolline fresche, qualche foglia di rucola e di lattuga, qualche pizzico di timo e menta. Amalgamare con olio. Infine aggiungere un po’ di aceto e pepe tritato.

    INSALATINA AL GARUM
    Preparare come una normale insalata, condendo della rugola e del songino (o altra insalatina) con delle cipolline fresche (se piacciono), poco olio, poco aceto, una manciata di timo verde e garum, aggiungere un pò di sale se necessario.

    BEVANDA ALLA RUCOLA
    Per prepararla frullare tre foglie di rucola con un cucchiaio di mele ed un po’ di acqua. Lentamente aggiungere ancora acqua fino ad arrivare ad un litro. Le proporzioni possono variare a seconda del gusto.







    MORETUM
    Sbollentare qualche spicchio di aglio in un pentolino, passarli nel frullatore insieme a del pecorino (100 gr. di formaggio per ogni spicchio di aglio), del sedano, un pizzico di coriandolo in foglie e della ruta. Amalgamare il tutto aggiungendo un po’ d’olio e di aceto. Aggiungere un po’ di sale, se necessario.

    SFORMATO DI ORTICHE
    Sbollentare le ortiche per pochi minuti finché si afflosciano, poi tagliuzzarle o passarle al tritatutto. Battere in una scodella delle uova intere (5 per un chilo di ortica), amalgamare con gli altri componenti e versare in un coccio ben unto ed infarinato che si farà cuocere a bagnomaria oppure a forno moderato.


    ORTICHE IN ZUPPA
    Cuocere in acqua o al vapore per pochi minuti le foglie e le cime tenere di ortica. Unire con cipolla affettata ed erbe aromatiche (menta e levistico) aggiunte alla fine. Accompagnare con crostoni sfregati con aglio ed insaporire con una goccia di aceto.





    RAPE ALLA CURIO
    Tagliare le rape a fette e cuocere in una pentola chiusa con mezzo dito di acqua. Condire con olio ed aceto.

    CAROTE FRITTE
    Tagliare le carote a fettine o bastoncini e friggerle. Preparare una salsa frullando insieme una ventina di grani di pepe, due gambi di sedano e del prezzemolo, aggiungendo poi del garum, un cucchiaino di miele e mezzo bicchiere di vino rosso. Porre la salsa sul fuoco aggiungendo un po’ d’olio e facendo bollire lentamente. Quando è cotta, legare la salsa con un po’ di amido e poi condire le carote.

    La “cassata” di Oplontis
    In un affresco di un triclinio della Villa di Oplontis (Torre Annunziata) è raffigurato un dolce dalla incredibile somiglianza con una moderna cassata, il tradizionale dolce siciliano a base di ricotta e zucchero. Ecco una ricetta basata su ingredienti esistenti all’epoca.
    Tagliare a dadini della frutta secca composta da albicocche (150 gr.), prugne (150 gr.), uva sultanina (100 gr.), datteri (a piacere) e mettere da parte alcuni frutti interi per la decorazione. Far cuocere in poco miele 100 gr. di noci spellate e dei pinoli fino ad ottenere una miscela caramellata consistente. Lasciar raffreddare e poi sminuzzare. Passare 1 kg. e mezzo di ricotta vaccina al setaccio lasciandone 100 gr. per la decorazione superiore. Mescolare il resto aggiungendo gradatamente 500 gr. di miele fino ad ottenere una crema di dolcezza pari a quella della normale cassata. Continuare a mescolare fin quando la crema non diventa morbida e leggera. Aggiungere la frutta a dadini ed il caramello sminuzzato. A parte impastare 150 gr. di farina di mandorle con un po’ di miele ed un po’ di colore rosso da pasticceria in polvere così da ottenere una sorta di marzapane rosso. Foderare una teglia dal diametro di 30 cm. con carta unta con olio dalla parte interna. Stendere il marzapane rosso con un mattarello per ottenere una striscia con cui foderare i fianchi della teglia. Riempire il vuoto della teglia con la crema di ricotta ed infilare il tutto nel frigorifero. Lasciare riposare un giorno, poi sformare la cassata su di un vassoio staccando la carta delicatamente. Coprire la parte superiore con un velo di ricotta passata al setaccio e decorare con la frutta messa da parte.





    Fonte:paperblog.ricette-dell-antica-roma
     
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    Cibo di strada dell’antica Roma





    Lo hanno inventato circa tremila anni fa i popoli nomadi, i romani ne fecero un vanto, tanto che gran parte della popolazione consumava i pasti in piedi, velocemente, sostando in locali semi-aperti adiacenti alla strada. Di queste strutture rimangono importanti vestigia a Pompei. Qui le taverne erano oltre che meta dei viaggiatori di passaggio anche il luogo dove i poveri si facevano riscaldare le vivande (non sempre disponevano di fornelli a casa loro).
    Lo scrittore latino Marziale in un epigramma descrive il caos delle strade dell’Urbe prima dell’editto di Domiziano che aveva regolato l’esposizione e lo stazionamento di merci per strade e marciapiedi: “Non più fiaschi appesi ai pilastri… barbiere, bettoliere, friggitore, norcino; nel proprio guscio se ne sta ciascuno. Ora c’è Roma: prima era un casino”.

    Pasti fuori casa

    Il cittadino romano trascorreva molto tempo fuori casa e la preoccupazione di mangiare e bere costituiva uno dei motori della giornata. Se non poteva tornare a casa per pranzo, doveva acquistarlo in qualche negozio, così come i poveri e gli abitanti delle insulae che, non avendo spazio sufficiente per cucinare, dovevano per forza mangiare fuori. Esistevano perciò venditori ambulanti di salatini e dolciumi, detti lixae. I clienti, dipendenti per la loro sopravvivenza dalla generosità del patronus, spendevano così i pochi soldi ricevuti durante la salutatio matutina se il protettore non aveva distribuito loro direttamente la sportula, una sorta di cestino per il pranzo. Come oggi, gli ambulanti dovevano avere una licenza, concessa dal magistrato, e la loro attività era strettamente regolamentata soprattutto per coloro che esercitavano nei teatri, terme, stadi, arene, vale a dire nei luoghi più frequentati.

    Numerosi erano i luoghi di ristoro: potevano avere annesso un alloggio (hospitia), anche per i cavalli (stabula), e avevano tutti le proprie insegne, ad esempio “All’Elefante” a Pompei, “Al Gallo” a Narbonne, etc., al di sotto delle quali altre insegne commerciali vantavano la celebrità dei piatti della casa e dei cuochi. Sebbene godessero di cattiva reputazione erano molto frequentati anche dai ricchi.

    I proprietari e i gestori erano per lo più schiavi affrancati o comunque di origine servile, molti dei quali provenienti dalla Grecia e dall’Oriente ma vi erano anche delle donne a far da locandiere e da serve.Per molti secoli questi luoghi furono il punto d’incontro tra persone di classi sociali e paesi diversi e l’attrazione esercitata da essi dipendeva soprattutto dalla possibilità di mangiare e bere “caldo” a buon mercato. I prodotti più comuni offerti erano uova, formaggi, frutta fresca, verdure, ceci, focacce dolci e vino della casa mescolato con acqua e a volte arricchito con miele e spezie.

    La taberna, termine col quale inizialmente si designava la bottega degli artigiani in generale, divenne poi il luogo specializzato nella vendita di vino al dettaglio (taberna vinaria) con consumazione sul posto, tanto da essere giunto praticamente immutato fino a noi come sinonimo di osteria. Le tabernae disponevano di un bancone quadrato di pietra aperto sulla strada, generalmente dotato di cinque o sei giare incastrate in esso. Accanto al banco un piccolo fornello reggeva una casseruola nella quale era pronta l’acqua calda.

    La popina, nome di origine greca, non serviva vino al dettaglio ma era una trattoria/osteria dove la bevanda veniva portata ai tavoli solo per accompagnare i piatti del pasto.

    Più povero e volgare era il gurgustium (una specie di bettola) e più dissoluta la ganea o ganeum, oscura, sotterranea e simile alle “cantine” di oggi.

    Il thermopolium (il cui nome fa pensare alla vendita di acqua calda che infatti andava bollita per essere sterilizzata) e l'oenopolium (vendita di vini) erano di antica tradizione, tant’è vero che appaiono menzionati nel teatro plautino.



    Pompei, il Termopolio


    Simili alle popinae erano le cauponae, o osterie di campagna, stanziate per lo più lungo le strade carrozzabili e nelle province dell’Impero e meta probabile di gite festive.

    Sempre lungo le strade esistevano, a distanza di un giorno di viaggio, delle mansiones o alberghi per una notte corrispondenti quanto a funzione ai nostri motel, con scuderie per i cavalli (invece dei nostri parcheggi), confortevoli alloggi per i viaggiatori e magazzini di vendita (i negozi e i supermercati di oggi).

    I tabernarii e tutti gli altri imprenditori o gestori di locande erano raggruppati in un collegium, una specie di associazione corporativa che in certe regioni sopravvisse fino al IV secolo d.C. e anche oltre.


    Pasti in casa

    Nonostante gli ambienti ricercati e ampi, le spaziose domus delle classi agiate avevano aree ristrette dedicate alla preparazione del cibo, mentre il forno del pane era installato in cortile. Il fuoco era l’unico elemento per far bollire l’acqua o friggere qualcosa e polvere, fumo e cattivi odori si sprigionavano dalla cucina che, essendo un ambiente disagiato, si presentava angusta e piuttosto piccola. Come tutte le stanze della casa veniva intonacata di bianco che in breve tempo diventava grigio e subito dopo nero e qualcuno, per evitare questo passaggio, ne dipingeva le pareti di nero sin dall’inizio. In cucina trovava posto un braciere sopra al quale erano posizionati treppiedi o griglie per reggere tegami, padelle o cuocere direttamente gli arrosti.



    Pompei, casa dei Vettii, cucina


    Rispetto alle abitazioni individuali, gli appartamenti delle insulae erano prive di questi ambienti, così come di camini, forni e installazioni fisse. Non c’era la possibilità di conservare a lungo gli alimenti, non si avevano vetri alle finestre (prerogativa solo dei ricchi) e l’illuminazione era inadeguata in quanto realizzata con torce e lanterne a base di pece e olio.

    Traiano e il primo centro commerciale

    Traiano, eletto impertore nel 98 d.C., fece a Roma grandi lavori, dalla ristrutturazione del foro, all’acquedotto, ed edificò un insieme di edifici articolati su più livelli: i Mercati Traianei.
    Apollodoro di Damasco nel II sec. progettò questo primo centro commerciale coperto della storia, considerato nell'antichità una delle meraviglie del mondo classico (oggi se ne può ammirare solo una piccola parte).
    Sei erano i piani su cui si sviluppava, con 150 negozi dove si vendeva un po' di tutto. Fiori, frutta, olio, vino, grano, pepe, spezie pregiate. All'ultimo piano si poteva acquistare pesce, conservato vivo in vasche d'acqua dolce o di mare rifornite mediante appositi acquedotti. C'era perfino una tavola calda e una specie di banca. Tra una spesa e l'altra, commercianti e clienti si fermavano nelle osterie del piano terra (tabernae) per fare due chiacchiere, bere e giocare a dadi.

    Fonte:dal web e Ilaria Basciani
     
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    La cucina romana, dalla frugalità iniziale all'opulenza imperiale





    I Romani, divenuti in poco più di 500 anni un’autentica potenza mondiale, si comportavano da signori del mondo, oltre che sui campi di battaglia, anche a tavola. La Città Eterna sarebbe però diventata, al contempo, l’ingordo “ventre del mondo”, per soddisfare la cui fame tutti i territori dell’impero facevano giungere, con un numero incredibile di navi da trasporto, prodotti alimentari di ogni genere, provenienti da tutte le terre allora conosciute.
    Ma Roma non fu sempre così, nè le sue mense sempre improntate all’insegna dello sfarzo assoluto: soltanto pochi secoli prima, il modo di mangiare dei Romani poteva tranquillamente dirsi frugale: il piatto principale era costituito dal plus, una pappa di cereali dall’aspetto non certamente invitante e dal gusto povero, cotta nell’olio come focaccia.
    Altre consuete presenze sulle mense d’allora erano le uova e la crema di latte inacidito (ciò che oggi viene comunemente chiamato “quark”); il miele serviva da dolcificante.
    Il pasto di un povero contadino si differenziava da quello del ricco signore soltanto per la maggiore o minore quantità di carne di maiale o di pollo che conteneva.
    Ma a seguito dell’espansione militare e delle tante battaglie vinte, così come dei tanti territori conquistati, tutti avevano preso gusto alla vita, nel senso letterale del termine, dai generali ai semplici soldati. Questo avvenne, di fatto, quando Roma entrò in contatto con le colonie della Magna Grecia, nell’Italia Meridionale, a seguito della loro annessione all’impero; la conquista di queste colonie, oltre a nuovi territori, portò a Roma anche un altro bene prezioso, ovvero i cuochi greci, raffinati ed esperti.
    Improvvisamente divennero fuori moda sia la semplicità dei costumi, sia la frugalità delle mense, alle quali fino ad allora si era ottenuto il nobile Romano.



    Ai tempi di Augusto, circa 350.000 e più cittadini romani rientravano nella fascia più povera della popolazione, che veniva nutrita e sfamata dalla mano pubblica. Anche il ceto medio (quello che oggi si chiamerebbe “borghese”) dipendeva dalla clemenza delle famiglie ricche (che a Roma erano circa 200 in tutto) e creava così la categoria degli assistiti (clientes), ognuno dei quali era autorizzato a ritirare la sua spatula giornaliera, in pratica un cesto più o meno pieno di viveri. Del resto, nei caseggiati a più piani abitati dai proletari si cucinava ben poco e a volte era addirittura proibito accendere fuochi.
    A casa propria, i Romani dei ceti più bassi mangiavano quasi tutto freddo: per colazione, un pezzo di pane che imbevevano nel vino e accompagnavano con olive, formaggio e uova; a mezzogiorno, formaggio di pecora o di capra, cipolle e, qualche rara volta, anche un pezzo di arrosto freddo.
    Volendo qualcosa di caldo e disponendo di un poco di denaro, un popolano si poteva recare in una delle tante osterie, piccoli locali che sul retro cucinavano al fuoco vivo (“alla griglia”) spiedini di carne e pesce.
    E mentre la maggior parte del popolo di Roma si arrabattava ogni giorno per il proprio sostentamento con cibi semplici e poveri, la classe nobile e l’aristocrazia spendevano tantissime risorse e tempo per rendere la cucina un vero e proprio spettacolo.

    Tra i primi a trasformare le cene in veri e propri spettacoli con i quali si esponeva pubblicamente il proprio grado di ricchezza, vi fu Lucullo. Sebbene generale e console di chiara fama, non ebbe considerazione per la politica, preferendole l’arte culinaria. Di ritorno da tutti i campi di battaglia che si trovava a percorrere, portava con sé ogni nuovo prodotti alimentari che riusciva a trovare, ad esempio, le ciliegie. Nel suo palazzo in Roma si contano 12 sale da pranzo, ognuna delle quali dedicata a un dio.
    All’epoca di Lucullo, nell’arte culinaria romana, si era venuta affermando l’idea che, se qualcosa è buono, deve essere anche caro! E dato che le cose buone venivano in genere da lontano, si era imposto anche il luogo comune che un cibo doveva essere tanto più gustoso quanto più esotico ne fosse stato il luogo d’origine.
    Già al tempo di Giulio Cesare era stato realizzato il 1° mercato romano di specialità gastronomiche che si presentava come un grande edificio di forma quadrata.
    Sulle facciate prospicienti il grande e luminoso cortile interno si aprivano, ovunque, piccoli negozi. Per proteggere le merci dai raggi del sole, venivano stese pelli di animali. Qui era soprattutto abbondante l’offerta di verdure ed ortaggi, i prodotti cioè di un campo nel quale gli agronomi romani operavano con risultati particolarmente apprezzabili.
    Erano riusciti, ad esempio, a coltivare per la prima volta la lattuga e la cappuccina e a far raggiungere ad asparagi e cavoli le dimensioni che ancora oggi mantengono e che ancora oggi sono amate dai romani.

    “Si potevano trovare 38 qualità di pere e 23 mele. Strettamente addossati l’uno all’altro, stavano i banchi dei verdurieri, che –urlando- vantavano la qualità delle proprie merci: pepe, cardamomo e valeriana dall’India, cumino dall’Etiopia, zenzero dall’Arabia, ed asaro dall’Illiria. I volatili erano appesi a lacci, così come il pesce secco. Accanto vi erano botti con il sale, nelle quali si trovavano ostriche ancora vive…”

    (anomimo cronista dell’epoca) che descrive così il mercato


    La richiesta dei nobili Romani di poter disporre di pesci e di altri frutti di mare quanto più freschi possibile anche se provenivano da contrade lontanissime, portò coloro che commerciavano in prodotti ittici a dover affrontare diverse problematiche, risolte con la realizzazione di particolari imbarcazioni equipaggiate di speciali vasche per il continuo ricambio dell’acqua o con lo sviluppo di particolari tecniche di conservazione per pesci e carni, che prevedevano il ricorso al sale o alla neve, quest’ultima immagazzinata in apposite cavità sotterranee dove si conservava almeno fino all’estate successiva.
    Il salmone del Reno, ovunque apprezzato, veniva trasportato lungo le strade della Germania in speciali carri cisterna, rinnovando l’acqua ad ogni stazione di posta.
    Il massimo di queste realizzazioni era rappresentato da una costruzione edificata durante il periodo imperiale all’interno del perimetro del mercato all’ingrosso: al 5° piano si trovava una gigante vasca per pesci che poteva essere rifornita di acqua dolce o di acqua di mare mediante appositi acquedotti
    Questo enorme complesso edile era situato al centro della città, nelle immediate adiacenze del Foro dell’Imperatore Traiano: si trattava dell’edificio più imponente di tutta la zona e può essere considerato il simbolo dell’importanza che l’antica Roma attribuiva al cibo.



    Marco Gavio Apicio
    Verso la fine del secolo a Lucullo, un modello di vita per gli antichi Romani, si affiancò un altro autentico gaudente di nome Marco Gavio Apicio, che ben presto divenne, per i filosofi della moderazione, il bersaglio ideale dei loro anatemi.
    Contemporaneo dell’Imperatore Tiberio, le poche notizie che si hanno di Marco Gavio Apicio – sovente ammirato con astio ed invidia – risalgono al 1° decennio del nuovo secolo. E’ probabile che Apicio sia nato intorno al 25 A.C.
    Pinio racconta del suo metodo di ingrassare i maiali con fichi secchi e di far loro bere piccole quantità di mosto dolce, prima di macellarli, con il risultato forse di ricavarne un fegato particolarmente saporito.
    Per di più, questo metodo deve avere tanto impressionato i suoi contemporanei che l’accezione classica “iecur” con cui a quel tempo si indicava questo organo fu sostituita dal solo aggettivo “ficatum”, “trattato con i fichi”, e come tale acquisita da tutte le lingue che derivano dal latino, come fegato in Italiano, foie in francese e higado in spagnolo.
    Apicio fu anche il primo a scrivere un libro di cucina, ricco di ricette e di curiosità.
    Proprio grazie a questo libro di cucina, il nome di Apicio non solo divenne noto ai suoi tempi, ma è stato tramandato fino a noi, divenendo, per così dire, il più longevo della letteratura gastronomica.
    L’attenzione incontrata da quest’opera sia presso i buongustai che presso i filologi del nostro secolo e di quello precedente ci consente di ritenere quanto meno in parte accertate la sua genesi e l’autenticità delle ricette.
    Probabilmente Apicio ha scritto, o fatto scrivere, 2 libri, uno di cucina in generale e l’altro sulle salse, poi condensati dai successivi trascrittori in una sola opera contenente suggerimenti per la preparazione dei vari piatti e 478 ricette. Di queste, 300 dovrebbero derivare dai 2 libri originali: le restanti sono state tratte, quasi sicuramente, da altri testi che si occupavano di agricoltura, medicina e dietetica.
    Comunque, è evidente l’intenzione di fare di un’opera, originariamente destinata al ceto socialmente più elevato dell’antica Roma, un testo adatto anche ai “normali cittadini”.
    Di conseguenza, è più che probabile che stiano stati omessi molti passi dedicati ad argomenti giudicati troppo stravaganti o economicamente eccessivi per la tasca dei nuovi lettori.
    In effetti, non sappiamo se gli originari libri di cucina di Apicio fossero tali da giustificare i giudizi negativi espressi sul suo conto da Seneca e da Plinio.
    Le versioni a noi giunte ci presentano piatti che potremo talvolta definire raffinati, ma sempre sapientemente equilibrati al punto che, fatto salvo qualche necessario adeguamento, possono certamente essere apprezzati anche oggi.
    Inoltre, dalla lettura di questo libro si possono desumere alcune informazioni precise in merito alla cucina romana dell’età imperiale.



    La “cucina-spettacolo” dei nobili romani
    La carne era l’elemento più importante presente sulle mense conviviali.
    Sembra che né il manzo né il vitello incontrassero molto favore, e forse non erano così buoni come al giorno d’oggi: pertanto, si preferivano il maiale e il cinghiale, l’agnello e la cacciagione, nonché tutti i tipi di volatili.
    Dopo aver letto Apicio, molti studiosi sono giunti alla conclusione che i Romani aromatizzassero le loro carni in modo per noi assolutamente incomprensibile o che le “annegassero” in salse altrettanto indigeribili.
    A convalida di questi pregiudizi, si portano molte spiegazioni, non sempre coerenti. Forse la carne era meno tenera della nostra e pertanto non era raro che la si dovesse precedentemente lessare, come del resto era consuetudine nell’Antica Grecia. Forse, con il ricorso a molte spezie, si voleva dare più sapore alle altrimenti insipide carni per arrosto. Le stesse ragioni potrebbero essere addotte per la carne messa sotto sale e successivamente lavata.
    Si potrebbe anche pensare che la lingua dei Romani, assuefatta da secoli ad aromi così forti, con il tempo avesse perso sensibilità al gusto.
    Altro elemento importante della dieta era il formaggio, che gli Antichi Romani producevano con eccellenti risultati (furono loro a “inventare” la lavorazione del Pecorino Romano, ancora oggi prodotto secondo l’antica tradizione).
    I cuochi dell’Antica Roma erano maestri nella preparazione di polpettine, gelatine, e passati di carne, minestroni e bocconcini di tutti i tipi, graditi soprattutto in quanto, a tavola, si stava sdraiati.
    Ma anche qui si puntava sul super raffinato: laddove non si adoperavano almeno una dozzina di spezie, era comunque tutto un susseguirsi di modi diversi di cucinare.

    “Questa la preparazione dei crostini di fegato di maiale: fai arrostire del fegato di maiale. In precedenza provvedi a sminuzzare pepe e garum che aggiungerai al fegato dopo averlo tritato, mescola il tutto e forma con la massa così ottenuta degli gnocchetti. Quindi li avvolgerai in foglie di alloro e li farai affumicare. Prima di servire, riscaldare in forno!”

    (Apicio I 1,4)


    L’innata tendenza dei cuochi di Roma a sminuzzare e passare ogni cosa, per comporre poi in nuove strutture la massa ottenuta, ha portato al diffondersi di un’altra particolarità e cioè il vezzo di dare ad ogni cosa forme diverse da quella originale così che, durante le cene che si protraevano anche fino a tarda notte, gli ospiti potessero sfidarsi ad indovinare di quale carne fosse costituita questa o quella portata.
    Ai signori dell’impero non era sufficiente che i piatti per essi preparati fossero gustosi: sovente, era ancor più importante che il loro costo fosse elevato sia perché a base di prodotti provenienti da terre esotiche, sia perché quanto più possibile elaborati ed artefatti.
    Il pranzo del nobile era in genere uno spettacolo di società assai ben inscenato, dove erano in gioco il prestigio e la vanità.
    Inoltre si racconta di diverse stranezze a tavola, che appaiono ai nostri occhi piuttosto discutibili.
    Viaggiatori che provenivano dalla Grecia e dalla Gallia raccontavano di lumache che strisciavano fuori dai piatti dei commensali. Infatti, alcuni tra coloro che a Roma dettavano le tendenze in fatto di sciccherie avevano fatto circolare la voce che questi molluschi li si gustava ancora meglio vivi.
    Peggio andò ai moscardini (piccoli roditori, detti anche “topi delle nocciole” )che vivevano nei castagneti: essendo allevati, i loro cuccioli erano disponibili appena nati e venivano portati sulle tavole ancora vivi. Gli ospiti li afferravano per la coda, li immergevano in una salsa a base di miele e li inghiottivano.




    Sul vino, ancora nel I secolo A.C., a Roma, non si conosceva che un’unica qualità di vino cui veniva dato, per semplicità, il nome di uno dei consoli in quel momento al potere.
    Fu pertanto considerato null’altro che frivolezza, per quanto sensazionale, il fatto che Cesare, durante una delle sue feste, ordinasse di mescere 4 vini diversi.
    Nel suo testo di storia naturale Plinio cita però già 150 tipi di vino.
    A una parte di quello giovane si aggiungeva talvolta del miele, ottenendo così una specie di aperitivo dal sapore dolce. Il vino restante veniva chiarificato con resina, cenere ed anche acqua di mare, quindi filtrato ed, infine, travasato in anfore o botti che, una volta ben chiuse potevano essere ben conservate anche per anni.
    In questo modo si otteneva un vino asprigno, spesso di consistenza sciropposa e differente retrogusto.

    Fonte:brunelli.it/la-cucina-dellantica-roma
     
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