CUCINA NELLA STORIA.......curiosità

....oggetti, abitudini, credenze...del passato

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    cotoletta alla milanese

    Dove sia realmente seppellito Virgilio, dove sia nato il poeta latino Properzio, o ancora chi abbia inventato veramente la lampadina, chi sia il vero artista capace di dipingere gli sfondi sfumati alle spalle della Vergine delle rocce di Leonardo. Il mondo è pieno di diatribe sull'attribuzione di paternità più o meno incerte - di opere d'arte -, lotte di campanile per la supremazia di un'invenzione, un'opera, un prodotto rispetto a quello del paese accanto. La gastronomia, non fa eccezione e mentre Emilia Romagna e Campania litigano per il ragù migliore, tra Milano e Vienna da secoli ci si interroga sulla vera identità della cotoletta. Italiana o austriaca, migliore di maiale o di vitello, più nobile l'una o l'altra ricetta: una diatriba gastronomica con alle spalle ragioni storiche e alimentari ben definite. All'alba della giornata internazionale della Wiener Schnitzel, ovvero la cotoletta viennese, proviamo a raccontarla.

    Le due principali campane del racconto si palleggiano la paternità del piatto con supporti storici più o meno evidenti, legati innanzitutto alla dominazione austriaca nel lombardo-veneto. Secondo una delle teorie in campo, infatti, la Wiener Schnitzel sarebbe stata importata a Milano dagli austriaci in un momento imprecisato dopo il crollo dell'impero napoleonico e la restaurazione delle monarchie europee. Plausibile, se non fosse che la controparte italiana, convinta della superiorità o quantomeno della più radicata identità territoriale della sua ricetta, la rivendica proprio utilizzando uno dei personaggi storici più importanti nel rapporto tra Milano e Vienna. Ovvero il Maresciallo Josef Radetzky che, secondo gli aneddoti che circolano in vari ambienti, avrebbe parlato in una lettera al suo Imperatore, Franz Joseph d'Asburgo-Lorena, di questa "carne avvolta nel pane" la cui ricetta avrebbe conosciuto grazie al matrimonio con una nobile friulana, Francesca Strassoldo.

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    cotoletta viennese

    Entrambe le rivendicazioni sarebbero legittime - e la seconda ha sicuramente dei fondamenti storici notevoli, anche se sull'effettiva esistenza della lettera del maresciallo all'imperatore ancora si dibatte -, ma tutto si spegne, i fuochi si acquietano, grazie a un lavoro dello storico Romano Bracalini che, citando Pietro Verri e la sua Storia di Milano, porta alla luce un documento del XII secolo d.C. Ovvero un menu antichissimo, probabilmente appartenente a un monastero e oggi conservato nella Cattedrale di Sant'Ambrogio, che recitava così: "In secunda, pullos plenos, carnem vaccinam cum piperata, et turtellam de lavezolo: in tertia, pullos rostidos, lombolos cum panitio, et porcellos plenos". I lombolos cum panitio altro non erano che una lombata di vitello impanata, e il carteggio portato alla luce dal Verri, una prova inequivocabile.

    Una volta seduti a tavola, però, quali sono le reali differenze tra questi due piatti tanto vicini da essere parenti, l'uno discendente dell'altro? Innanzitutto, forse banalmente ma nemmeno tanto, la forma che, come sottolinea lo chef Cesare Battisti del Ratanà di Milano, "deve essere quella di una costoletta". Deve avere, cioè, "l'osso, il manubrio, e venire dalla parte centrale del carrè di vitello". Attenzioni dalle quali non si può prescindere perché questa "ricetta che affonda le radici nei tempi che furono" merita il rispetto che si deve a una "delle anime della città" a parte della sua identità, a uno dei piatti "dei pochi, con cui Milano ha contribuito a rendere famosa nel mondo la cucina Italiana".

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    cotoletta viennese

    "Una delle differenze fondamentali con la viennese, in quanto a ricetta, parte proprio dalla questione della carne. La loro consiste in un taglio di maiale battuto, appiattito in modo che sia largo, a orecchio di elefante come si suol dire, la nostra deve essere necessariamente alta e, ad oggi, esclusivamente di vitello". Nonostante in passato questo taglio fosse riservato a nobili ed ecclesiastici - come nel menu riportato da Pietro Verri - "e quindi non è detto che, nella sua versione più popolare, in passato non sia stata preparata con carne di maiale anche la versione nostrana". In città, oggi, "la fanno in mille modi, con i grissini sbriciolati, tanto quanto con il pane giapponese sbriciolato, in modo da avere delle scaglie sulla superficie della carne. Noi (al Ratanà la costoletta si può mangiare solo previa prenotazione, ndr) utilizziamo un particolare pane integrale impastato con acqua di fonte", fatto da un "mio amico folle, innamorato della panificazione". Ma un piatto della tradizione come la cotoletta, può essere considerato gourmet?: "Come tutti i piatti molto semplici, se cotto con la giusta e doverosa attenzione, può diventare un piatto sublime". Imprescindibile, resta "l'altezza, che deve essere tale da mantenere l'interno della carne rosa". La vera cotoletta alla milanese "non può essere ben cotta, in quanto il sangue della parte rosata ha una duplice funzione": quella di mantenere un contrasto di consistenze "tra la parte croccante della panatura e l'interno, che in caso contrario renderebbe il morso affatto confortevole". E, come sottolinea lo chef Giovanni Traversone della Trattoria del Nuovo Macello, quella "di rappresentare la parte acida del piatto. Se la costoletta alla milanese è cotta con tutti i crismi, non c'è affatto bisogno di abbinarci del limone".

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    cotoletta alla milanese

    I 10 punti per la cotoletta perfetta (dello chef Giovanni Traversone)

    1. Il primo passo è dal macellaio, rigorosamente uno di fiducia. Il taglio deve essere il carrè di vitello, tenuto ben alto.
    2. Prima di procedere alla panatura, il taglio di carne va pulito dal grasso, anche se qualche accenno, nella preparazione casalinga, è accettato.
    3. Per preparare la carne alla panatura, va prima passata nella farina, in modo che sia ben asciutta. E' importantissimo pulirla, non deve restare alcun eccesso.
    4. Dopo la farina va fatto il passaggio nell'uovo, assolutamente non salato.
    5. Infine, il momento fondamentale: la carne va messa in una teglia piena di panatura, facendola stare alcuni istanti per ogni lato e poi lasciandola riposare per circa cinque minuti prima di procedere alla cottura.
    6. La scelta della panatura è importante. La resa migliore è con un macinato di pane di grano duro
    7. Altro ingrediente fondamentale per una vera costoletta alla milanese è il burro chiarificato, che va scaldato tenendo la fiamma a livello medio.
    8. Quando il burro sfrigola, si può passare alla cottura della carne. Circa cinque o sei minuti per lato, facendo attenzione che il fuoco sia ben basso.
    9. Fondamentale è che l'interno resti rosato, solo così si può dire che la cottura è perfetta.
    10. Una buona cotoletta è tale a prescindere dall'abbinamento di contorno. Se si vuole fare un po' di attenzione, l'importante è che ci sia un elemento umido, d'estate una purea di verdure (alla Trattoria è di zucchine) e d'inverno o la classica purea di patate, oppure per un contorno più elegante, un finocchio in agrodolce con purea di carote.



    (articolo di LARA DE LUNA, www.repubblica.it , 7 settembre 2018)
     
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    Dal Cous Cous Klan al tortellino doc.


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    Qualche mese fa fu la cucina etnica, e il “Cous Cous Klan”, oggi è il tortellino. Nell’eterno derby tra i sovranisti e il resto del mondo la cucina ciclicamente viene presa di mira. E c’è un motivo preciso, purtroppo per loro (i sovranisti della dispensa): perché non c’è cosa più piena di scambi, contaminazioni, trapianti, mescolanze, impasti e rimpasti della cucina.
    E se dovessimo escludere da frigoriferi e tavole tutto quello che “non è nostro”, per produzione o tradizione o origine o storia o provenienza o ideazione, avremmo una dieta tristissima e povera. Per dire, niente pomodori (e gli italianissimi spaghetti? Che per giunta hanno origine dalla Sicilia araba, mentre il basilico viene dall’India), niente fagioli e patate, niente mele e pere, niente riso (e il risotto alla milanese, quello fatto con lo zafferano che viene da Creta?), niente melanzana (India), arancia (Cina), caffè (Etiopia)!
    Ma nemmeno tre quarti delle tecniche, delle idee, delle fogge di paste, dolci, pietanze d’ogni tipo. E non è solo questione di pura provenienza delle materie prime, ma anche di storia – sì, proprio quella che i sovranisti strepitano di voler difendere e regolarmente ignorano –, che è sempre storia di migrazioni, scambi, viaggi, scelte.
    Ora l’incolpevole tortellino, gloria bolognese (ma vi assicuro che lo facciamo e lo mangiamo anche qui al Sud, e senza passaporto), si trova trascinato in una guerra di religione, dopo l’idea del vescovo cittadino Zuppi di confezionarne anche col ripieno di pollo invece che di maiale, per chi non mangia carne di maiale per motivi religiosi. E apriti cielo.
    L’ex ministro delle Sagre, in particolare, toccato (per una volta) in una delle sue materie di competenza, strepita che “stanno cancellando la nostra storia” (e posta la foto d’un piatto di tortellini al ragù con la salsiccia, e birra, che lo farebbero squalificare a vita da Masterchef). Altri leghisti a caso s’indignano per “l’offesa a un’intera città”. Accidenti, questo sì che è scontro di civiltà.
    In realtà, il vescovo non si è inventato questa cosa per spiacere all’ex ministro delle Degustazioni, ma proprio perché i tortellini, simboli di Bologna, saranno i grandi protagonisti venerdì in Piazza Maggiore, dove ci saranno tre stand in cui ammirare le “sfogline” che li confezionano, gustarli e anche provare a farli, in un laboratorio per bambini. Pensare un tortellino identico, ma “alternativo”, non è cancellare una tradizione, ma fare posto a un gesto di amicizia, a un’offerta di condivisione estesa a chi non è cattolico, a chi non è di Bologna, a chi semplicemente voglia partecipare alla festa di Bologna, proprio consumando insieme un cibo consacrato dalla tradizione, e che si fa – letteralmente – accoglienza.
    Guardate quanto sono belli i nostri tortellini – è, appunto, il messaggio – , ne siamo fieri e vorremmo tanto che li assaggiaste, e per questo ve li confezioniamo in un modo per voi possibile. Non siamo bravi?
    Perché la storia della cucina – e pure la storia di Bologna città aperta – è proprio questa: assaggiamo, scambiamo, sperimentiamo e poi mettiamo un altro posto a tavola, per condividere. Altrimenti, che gusto c’è?


    www.huffingtonpost.it/ 01/10/2019 17:25
    Manginobrioches Giornalista e blogger, @manginobrioches
     
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    Le ricette che piacevano in passato,
    e che oggi farebbero orrore.


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    “I Burgundi sono talmente barbari che mangiano pidocchi e carne di cavallo..”. I Romani, per sottolineare quanto fosse barbarica questa tribù germanica, non avevano trovato di meglio che rimarcare le abitudini alimentari. In realtà, stando a quanto riferito da Plinio il Vecchio, anche gli antichi Romani mangiavano insetti, in particolare una larva dotata di corazza e chiamata cossus che veniva servita in “ delicatissimi piatti”. Per non parlare dei Greci, visto che Aristotele andava ghiotto di cicale, da gustare al meglio quando si trovavano allo stato di crisalide, prima dell’ultima muta; il filosofo precisava che “i maschi sono i migliori da mangiare. Invece dopo l’accoppiamento le più buone sono le femmine, tutte piene di bianche uova come sono” E pensare che in seguito gli insetti sono diventati un tabù alimentare per gli europei; si preferiva morire di fame anziché nutrirsene. Nelle cronache delle carestie medievali si citano il cannibalismo e l’autofagia (ci si tagliava un arto per mangiarselo, nell’illusoria speranza di sopravvivere), ma non si trovavano quasi mai nominati gli insetti.
    I gusti alimentari sono una questione culturale. Niente di strano se sul piatto finisce oggi la carne di cavallo. Ma non dappertutto: i cinesi giudicano questa abitudine con lo stesso disgusto con cui noi guardiamo al loro uso di mangiare cane o serpente. Gli americani, eredi dei cowboy, non toccherebbero mai la carne di puledro. E ancor oggi gli inglesi prendono in giro i francesi chiamandoli “mangiarane”, un cibo inconcepibile per loro. Ma il massimo del minimo, nel Medioevo, era il risotto alla cappuccina, ovvero approntato con quanto cisi limitava a raccogliere e quindi adeguato alla rigide regole alimentari dei padri cappuccini: rane, chiocciole e gamberi di fiume.
    Nella Roma antica e fino al Medioevo, si mangiavano tipi di uccelli che neanche ci sogneremmo di mettere sotto i denti. Il celebre gastronomo Apicio (I secolo), cita gru e fenicotteri, suggerendo di cuocerli lessi con tutte le piume, in modo che non si disfino. Nei secoli successivi si allargò il menù anche a rondini, gabbiani, cormorani, cigni, cicogne.
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    Il GHIRO
    Gli antichi Romani mangiavano molto pesce e poca carne, ma della seconda il loro piatto preferito era senz’altro il ghiro. Non si preoccupavano nemmeno di cacciarlo: lo allevavano in orci di terracotta bucherellati, in modo che l’animale potesse respirare, e lo nutrivano con noci, castagne, nocciole e miele. I ghiri ingrassavano ma rimanevano tenerissimi perché non si muovevano: in tal modo si otteneva un bocconcino succulento per il quale a Roma andavano pazzi. Ancora una volta è Apicio a fornirci la ricetta per degustarli: farcirli con polpette di maiale o anche con polpa della carne stessa del ghiro, aggiungendo pinoli, pepe, salsa di pesce e silfio. Una volta cucinata la farcitura, si mettevano in una casseruola e si cuocevano al forno. Si servivano cosparsi di salsa di miele e papavero. Ma che sapore aveva? Al di là dell’inquietante somiglianza del ghiro col topo, la sua carne chiara è delicata. In italia del resto lo si cacciò abbastanza comunemente fino al secondo dopoguerra (Oggi è proibito). La data tradizionale dell’apertura della caccia al ghiro era il 24 giugno, festa di San Giovanni Battista, e la si praticava nelle notti di luna piena.

    LA GRU
    Il cuoco Chichibio, protagonista di una novella del Decamerone di Giovanni Boccaccio, la combina grossa pappandosi una zampa di gru che aveva cucinato per il suo padrone. Non è pura fantasia letteraria: questo grosso uccello acquatico era molto apprezzato nel Medioevo, mentre oggi non abbiamo idea di quale sapore abbiano le sue carni. Idem per la cicogna, la rondine o il cigno, che finivano regolarmente sulle mense del ‘300. Purchè fossero mense di rango elevato: nella mentalità dell’epoca, chi stava in alto nella scala sociale doveva nutrirsi con ciò che stava in alto in natura, ossia i volatili. Nel libro della cocina, manoscritto toscano anonimo della metà del ‘300, si trova una ricetta per la gru. Probabilmente Boccacio, toscano pure lui, aveva in mente proprio quel manicaretto quando scrisse la novella. Ecco le istruzioni per prepararlo. Si prendeva una gru lavata e pulita e la si faceva bollire in una grande caldaia. Poi si infilzava in uno spiedo e si arrostiva senza però cuocerla del tutto. Si affettavano un paio di cipolle a dadini, soffritte in abbondante lardo e colorate con lo zafferano. Si aggiungeva del “vino buono”, dopodiché si faceva bollie l’intingolo, nel quale si metteva la gru a pezzi. Una volta cotto il volatile, si usava il brodo per ammollare il pane abbrustolito e si serviva. Il pane, nel Medioevo, si usava anche come piatto: sopra a ogni fetta i commensali trovavano un pezzo di gru cosparso di spezie.

    IL PAVONE
    L’uccello più ambito era però il pavone. Si è persa l’abitudine di mangiarlo quando è stato soppiantato dal tacchino, dopo la scoperta dell’America. Tuttavia, grazie a mastro Martino da Como e al suo Libro de arte Conquinaria, scritto verso la metà del XV secolo, sappiamo che si preparavano “pavoni vestiti con tutte le penne che cocto para vivo e butte foco pel becco”. In questo caso, più che la pietanza, è la ricetta a risultare impressionante. Bisogna innanzitutto ammazzare il pavone senza danneggiarlo, ossia trapassagli la testa con uno stiletto e far colare tutto il sangue. Quindi si doveva scorticarlo gentilmente in modo da non rovinare né pelle né penne. La pelle del collo veniva rovesciata in modo da formare una specie di cappuccio con all’interno la testa. Il volatile andava farcito di spezie, picchiettato di chiodi di garofano e cotto alla spiedo. La testa veniva avvolta in una pezzuola bagnata, in modo che non si cucinasse. Una volta cotto, il pavone veniva rivestito della sua pelle e poi gli doveva infilare un congegno di ferro dalle zampe fino al collo. Il supporto rimaneva nascosto all’interno del corpo e l’animale in questo modo si reggeva come se fosse vivo; sistemando poi “ molto bene la coda che faccia la rota”. Tocco finale: nel becco un pezzetto di canfora avvota in cotone bagnato di acquavite. Prima di portarlo in tavola, si dava fuoco al bolo per un effetto assicurato.

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    I CIBI DORATI
    Tutto nella cucina rinascimentale, era rivolto a stupire e a mostrare la ricchezza del padrone di casa. Niente di strano quindi, che gli alimenti venissero coperti con foglie d’oro. L’oro, si sa, è atossico. Ma è anche costosissimo (e fino al ‘500 lo era ancor di più di oggi perché ce n’era in proporzione meno, non essendo ancora stata scoprta l’America): quindi usarlo in cucina dimostrava sopra ogni altra cosa la capacità di spesa di chi offriva il banchetto. Durante le nozze di Annibale Bentivoglio con Lucrezia d’Este, celebrate a Bologna il 29 gennaio 1487, fra le tante stramberie (castelli di zucchero con dentro uccelletti vivi, per esempio) furono serviti anche i maialini coperti d’oro e con una mela in bocca. Si usava ricoprire d’oro pure le pagnotte: pare che il nome pandoro derivi proprio da questa usanza. E’ invece solamente una leggenda che la doratura con il pangrattato sia un succedaneo a buon mercato della foglia d’oro. I primi a indorare sarebbero stati infatti i Berberi del Nord Africa, che non avevano certo simili grilli per la testa.

    PIZZA e BISCOTTI
    Bartolomeo Scappi nel suo trattato di cucina del 1570 cita la pizza. Fu il primo a legare la pizza alla città di Napoli: “ Per fare torte con diverse materie, da’ napoletani detta pizza, scrisse. La ricetta che ne dà è perfettamente in linea con i dettami rinascimentali dell’amalgama e dell’agrodolce. Per fare la pizza “alla Scappi” si dovevano prendere mandorle, pinoli, datteri, fichi freschi, uvetta passa e pestare tutto nel mortaio stemperando con acqua di rose, in modo che ne risultasse una pasta. Poi si aggiungevano rossi d’uovo, zucchero, cannella in polvere, mostaccioli napoletani (biscotti con miele e spezie) polverizzati, ancora acqua di rose. Quindi si mescolava il tutto per farne una pasta alta un dito da infornare in una tortiera una di burro. Quella era la base sulla quale aggiungere altro: “ in essa pizza si può mettere d’ogni sorta e condite” precisa un altro ricettario “Opera”.

    ARROSTO e LESSO
    Per suscitare stupore ai banchetti c’era anche l’uso di servire pietanze per metà arrostite e per metà lessate. Ne parla nel III sec d.C. Ateneo di Naucrati, nel libro IX dei Deipnosoisti (“i dotti del banchetto”). Vi si cita un maialino per metà arrosto e per metà bollito, nonché farcito con tordi e stamaci di pollo: Nel 1475 il signore di Pesaro, Costantino Sforza sposava Camilla d’Aragona e alla coppia nunziale fu servito un grande pesce, lesso da un lato, arrosto dall’altro. L’uso del “mezzo e mezzo” rimase a lungo: il bolognese Vincenzo Tanara nel suo libro Economia del cittadino in villa del 1644, ci forniva pure le istruzioni per portare a tavola un maialino cotto con questa tecnica. Bisognava prima cuocerlo nell’acqua bollente, con molto pepe. Poi si mescolava farina d’orzo con vino e olio e si ricopriva con questo impasto la metà inferiore dell’animale. Quindi lo si riempiva di brodo facendo passare il liquido per la bocca (l’impasto di farina impediva che il brodo fuoriuscisse). Lo si infornava in una teglia di rame e lo si cucinava finchè la metà superiore non faceva una crosticina colorata. Si toglieva il maialino dal forno, si rompeva la crosta di farina e la si toglieva, “poiché la parte inferiore non ha sentito il calore del forno quindi risultava lessa.


    (Alessandro Marzo Magno, Focus Storia nr 114)
     
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    “Resterà forse sempre un mistero
    come certi gusti si radichino in una determinata epoca storica,
    fino a diventarne quasi un simbolo,
    per cadere poi nel dimenticatoio “solo” qualche secolo più tardi.”


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    L’ACETO AGRESTO

    L'agresto è un condimento acidulo ottenuto dalla cottura del mosto di uva acerba e dall'aggiunta di aceto e di spezie. L’aspetto è simile all’aceto balsamico, sia nella densità che nel colore, tendente però al rosso scuro. Le spezie gli regalano note aromatiche molto pronunciate, che arricchiscono un sapore complesso, in cui l’acidulo sembra prevalere sul dolce.
    L’agresto è ricco di acidi organici, catechine, polifenoli e ha proprietà antiossidanti valorizzate dal metodo di produzione. Condimento antico dicevamo: il termine deriva dal latino acer cioè agro o acre. Il Dizionario Enciclopedico italiano riporta “far l’agresto” pretesto con il quale i contadini coglievano l’uva immatura ma anche quella che non sarebbe loro spettata e, successivamente, si è indotto l’uso figurato nella frase : “far la cresta”.
    La nascita dell’agresto si deve probabilmente all’esigenza pratica di non sprecare l’uva raccolta compresa quella rimasta acerba. Lasciata appassire per circa 20 giorni, veniva trattata con estrema delicatezza, tanto che si racconta che i contadini una volta, quando la pestavano a piedi nudi, lo facevano sostenendosi ad un bastone per non esercitare troppa pressione. Il mosto ottenuto veniva travasato in grosse pentole e ne provocavano l’addensamento per ebollizione trasformandolo in una sorta di sciroppo. Veniva poi aromatizzato con l'aggiunta di dragoncello, cannella, aglio, cipolla e miele per l'ultimo quarto d'ora di cottura, si aggiungeva quindi dell'aceto di uva cui seguiva l’eventuale invecchiamento in botte.
    Si può usare come ingrediente per salse o direttamente soprattutto su carne e pesce, ma anche su verdure grigliate. L'Artusi lo cita nella ricetta del piccione in umido.
    L'uso e il gusto dell’agresto è oggi quasi completamente perduto con l'eccezione di poche famiglie di agricoltori che, soprattutto a San Miniato (Pisa), hanno tramandato la ricetta di generazione in generazione. Secondo i dati dell’ARSIA (Agenzia regionale per lo sviluppo e l’innovazione del settore agricolo e forestale), la produzione di agresto si attesta oggi a 4 quintali all’anno, di cui il 50% destinati al consumo locale, il 20% al resto d’Italia e un 30% all’export. Nel 2009, l'agresto di San Miniato è stato riconosciuto prodotto agroalimentare tradizionale della Regione Toscana.

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    ...Storia...

    Le sue radici nascono nell’usanza della cottura del mosto, praticata dagli antichi romani che lo chiamavano omphacium, citato da numerosi autori tra cui Plinio e Dioscoride. Proprio il medico erborista del I secolo parlava di un prodotto fatto soprattutto nell’isola greca di Lesbo, ricordandone le proprietà adatte “ai deboli di stomaco, a chi soffre di dolori intestinali” ed esaltandone le proprietà astringenti.
    Staccavano gli acini di uve di varie qualità (la aminnea, la psitia e la thasia) a metà luglio, li pigiavano e versavano il succo in contenitori di rame che venivano coperti con canovacci ed esposti al sole. Di notte i recipienti venivano ritirati e il liquido rimestato per recuperare la parte condensata. Virgilio e Lucio Columella descrivono come il mosto cotto veniva raffreddato e conservato in botti per essere consumato dopo un anno.
    Nella cucina araba, l'agresto è presente come condimento in era medievale (soprattutto in Francia) con vari metodi di produzione: da “uva liquida” (cioè spremuto da uva acerba fresca), da “uva secca” (fatta appassire al sole), “agresto duro al fuoco” (cotto dopo la spremitura).
    L’agresto, veniva prodotto soprattutto nella Pianura Padana ed era utilizzato non solo per la preparazione di salse, ma anche per produrre bevande fresche estive mescolandolo al succo d’uva e al miele. Nella cucina medievale francese il Verius (agresto) si preferiva all’aceto di vino nelle ricette estive, ne è prova che la sua presenza nelle ricette riportate nel celebre trattato di cucina medievale Viandier de Taillevent. Nel nostro paese l’agresto era ben presente e ne troviamo la modalità di preparazione scritta nel XIV secolo nel primo trattato di agricoltura italiano scritto dal bolognese Piero De’ Crescenti. A partire dal La La sua gloria iniziò ad eclissarsi a partire dal Rinascimento, quando il gusto per l’agrodolce delle corti signorili cominciò a preferirgli l’aceto balsamico, fino a quel momento relegato ai consumi popolari. Fautori di questa tendenza furono soprattutto gli Estensi, ai quali si deve l’affermarsi della cultura dell’aceto balsamico nelle province di Modena e Reggio Emilia.

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    …. Alcune preparazioni….

    “Crescenzi scrive che per fare “uva liquida” si deve: pigiare l’uva acerba, salare il mosto ed esporlo al sole per due o tre giorni. Poi si deve decantare la parte liquida e lo si conserva così.
    Se invece si vuole fare “uva secca” si devono raccogliere uve molto acerbe ed esporre al sole gli acini in recipienti bassi e larghi per portarli a disidratazione fino al punto desiderato.
    L’Anonimo Padovano chiama quest’ultimo “agresto duro al sole”, mentre per fare “l’agresto duro da fuoco” si deve solidificare mediante bollitura.
    Un’altra distinzione va fatta tra “agresto nuovo” e “agresto vecchio”. L’agresto è più deperibile dell’aceto e con l’invecchiamento tende a perdere sia il colore verde sia l’acredine. Per questo il Ménagier de Paris consiglia di usare l’agresto nuovo, fatto a luglio, puro e soltanto da gennaio in avanti e di tagliarlo con l’agresto vecchio se si volesse usarlo prima. Nella preparazione dell’agresto anche la qualità dell’uva ha la sua importanza.
    Secondo il Crescenzi i vitigni migliori sarebbero il Trebbiano e l’uva schiava e albana. L’uva deve essere sempre preventivamente privata dei grani.”
    Esisteva quello estivo, che si otteneva dalla diradatura dei grappoli verdi di varie varietà di uve da vino, e quello autunnale fatto con grappoli che non raggiungevano la maturazione. Tra queste c’era “l’uva di tre volte” oggi scomparsa, che ritroviamo anche in un interessante trattato enologico pubblicato nel XVIII secolo da Saverio Manetti per l’Accademia della Crusca.

     
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