CUCINA NELLA STORIA.......curiosità

....oggetti, abitudini, credenze...del passato

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  1. gheagabry
     
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    La storia del panino



    Se dal presente proviamo a spingerci indietro nel tempo, per ricostruire la storia di questo pasto pratico e gustoso, scopriamo che pane e companatico risulta essere un connubio che affonda le radici nella notte dei tempi... forse addirittura quando nasce il pane stesso.
    Una storia che inizia da Roma. Proprio qui infatti sembra che abbia cominciato a diffondersi l'usanza di consumare il pane con qualcos'altro in mezzo. Quella che oggi è chiamata via Panisperna, infatti, deve il proprio nome al Panis ac perna, panini al mosto e prosciutto cotto nell'acqua di fichi secchi, molto graditi alla folla di persone che dovevano provvedere alla questione cibo e rifocillarsi senza perdere troppo tempo.
    Ecco dunque la nascita del fast food ante litteram, laddove fast implica la fruizione rapida e pratica delle specialità espresse, sfornate a richiesta dalle “cucine di strada”. E il pane, caratterizzato da impasti diversi a seconda della regione funge da epicentro attorno a cui ruota tuttora il multiforme panorama dello street food all'italiana.

    Ma la storia del panino passa anche attraverso il genio rinascimentale di Leonardo Da Vinci, grande appassionato di arti culinarie. Tanto da dar vita nel “Codex Romanoff” a bozzetti su arnesi e ricette da cucina. I leonardisti sono divisi circa l'autenticità del suddetto codice; fatto sta, comunque, che in questo divertente e insolito excursus gastronomico compiuto dallo scienziato trova posto anche un antesignano di quello che, qualche secolo più tardi, diventerà il tramezzino: “Pensavo di prendere una fetta di pane e metterla fra due pezzi di carne: ma come posso chiamare questo piatto?”, si chiedeva già allora il maestro...La risposta all'interrogativo leonardesco la darà due secoli più tardi un anglofono conte, che lascerà una traccia indelebile nella storia della cultura del panino.
    Lord Sandwich è un giocatore di carte incallito, talmente preso dal suo vizio da non riuscire ad abbandonare il tavolo verde nemmeno per andare a pranzo. Per ovviare ai morsi della fame, dunque, si fa venire un'idea geniale: l'arrosto di carne, che costituisce la sua cena quotidiana, gli verrà servito non più su un ingombrante piatto da portata insieme a coltello e forchetta, bensì tra due fette di pane imburrato...
    Rapidità, praticità, gusto. Se infatti non fosse stato subito chiaro a che prelibatezze potessero dar vita i vari accostamenti possibili tra pane e ripieni diversi, l'intuizione made in Britain avrebbe avuto scarso successo. E invece tuttora parlare di sandwich fa venire l'acquolina in bocca, soprattutto se ci si riferisce al Club Sandwich, il più celebre degli eredi dell'antenato londinese. Che, tuttavia, nasce nei circoli privati degli Stati Uniti dell'Ottocento, e si diffonde in particolare negli scompartimenti ferroviari dei treni che percorrono l'East Coast. Qui i viaggiatori compiono lunghissime traversate insieme, giocano e mangiano. E bisogna ringraziare la loro golosità se la versione originale dello spuntino britannico comincia ad arricchirsi, a crescere in altezza e a contemplare più farciture. Il “Club” diventa così il “break” alla moda per eccellenza, e qualche anno più tardi di nuovo attraversa l'Atlantico per entrare a far parte dei raffinati menu dei grand hotel parigini. E infatti, se è vero che oggi è possibile gustarlo un po' in tutto il mondo, è altrettanto vero che i più prelibati sono quelli del bar dell'Hotel Ritz di Parigi, dove alcuni dei nomi più famosi del bel mondo fra le due guerre, uno fra tutti Ernest Hemingway, ne erano i più affezionati estimatori.....Nell'Italia del boom, della Cinquecento e delle prime gite fuoriporta domenicali che segnano uno dei riti degli anni Sessanta, il panino diventa l'emblema del pranzo al sacco, farcito magari di cotoletta o frittata, istantanea gastronomica di una nazione che sta cambiando anche nelle scelte compiute a tavola. Bisogna aspettare gli anni Settanta e la nascita delle paninoteche, tuttavia, perché le due fette di pane con “dentro qualcosa” diventino l'epicentro di esperienze sociali, momenti di ritrovo e aggregazione soprattutto per le nuove generazioni.
    (informacibo.it)


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  2. arca1959
     
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    grazie Gabry
     
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  3. gheagabry
     
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    "La cucina al tempo dei Gonzaga"



    Bartolomeo Stefani fu cuoco bolognese al servizio della corte dei Gonzaga a Mantova. Deve la sua fama in particolare all’aver scritto e pubblicato nel 1662 presso gli Osanna, stampatori ducali, "L‘Arte del ben cucinare et instruire i men periti di questa lodevole professione Dove anco si insegna a far Pasticci, Sapori, Salse, Gelatine, Torte e Altro dedicato al Marchese Ottavio Gonzaga".

    Il merito dello Stefani, è quello di dare istruzioni per distinguere ordini, disporre vivande, regalare e adornare piatti, in base alle diverse possibilità economiche tanto da poter soddisfare ogni palato in sostanza (è lo spirito che noi abbiamo adottato per costruire queste pagine web dedicate alla cucina).. Quindi per la prima volta viene prestata attenzione all’economia delle vivande proposte, anche se lo Stefani lavorando nella corte dei Gonzaga, propone vivande elaborate per banchetti sontuosi e raffinati adatti ovviamente alla ricchezza ed il fasto che aleggiava intorno alla corte dei Gonzaga.
    Il libro dello Stefani racconta anche dei tre banchetti ordinati dal Serenissimo Duca di Mantova per la regina Cristina di Svezia, convertita al cattolicesimo, di passaggio per recarsi a Roma e ricevere la comunione dal papa Alessandro VII alla vigilia di Natale.

    turguastallaportici

    Nell‘ultimo dei tre banchetti a lei offerti dal Duca, il 27 novembre del 1655, lo Stefani descrive con ricchezza di particolari anche lo sfarzo delle apparecchiature e l’abbondanza dei servizi, e l’imponenza dei trionfi:

    "Nel mezzo della tavola sorgeva un trionfo fatto di zuccaro, ed era il monte Olimpo con l'altar della fede, nella sommità del quale erano due puttini che sostenevano una corona reale sopra l'arma di Sua Maestà." Fastoso era anche il susseguirsi dei servizi in cui erano spesso presentati altri "trionfi di zucchero",
    vere e proprie sculture. I banchetti venivano approntati per mostrare il potere, la ricchezza, la generosità del Signore. Così l'arte di convitare era uno strumento di comunicazione ed il banchetto si trasformava in spettacolo e teatro delle meraviglie.



    Ecco alcune delle ricette dello Stefani nella versione originaria con le traduzioni degli ingredienti e delle terminologie usate a quel tempo


    Minestra di finocchio
    Toglierai il finocchio bene mondato, ed laverai in acqua fresca, e prima rifatto in brodo magro, tagliandolo in bocconcini, e lo metterai in un vaso vitriato (terrina) con un poco di brodo di cappone, e quando sarà alla cottura, vi metterai un a poco d'uva passa, un bicchiere di panna di latte, 2 once di pignoli (pinoli) lavati in acqua rosa (acqua con petali di rosa), ammaccati (pestati) nel mortaio, e la stringerai con un brodetto di quattro rossi d'ova, e succo di limone, e sotto limiterà ai fette di pane e fritte in butiro (burro) , così ne farai minestra, che sarà molto delicata, servendola calda, polverizzata con cannella.

    Pasticcio di pesce
    Pasticci piccioli, uno per convitato, pieni di polpa di pesce cappone, pesce molo (specie di merluzzo), code di gambari (gamberi) , brugnoli (prugne secche), e le solite speciarie (spezie), e se li farai sopra un brodetto di rossi d'ova, e butiro (burro) , sarà buono, e li servirai caldi con zuccaro sopra, e un copertore fatto a gelosia (a guisa).

    Fagiano
    Il fagiano sia grasso, e giovine, e ben affaticato dai cacciatori nel tempo d’inverno; si lasci morto per quattro giorni. Deve essere lardato minuto(avvolto in fette di lardo o pancetta), cotto nello spiedo a fuoco lento servito con salsa reale (Va2).



    Torta di fraghe (fragole)
    Piglierai due libbre di fraghe ben mondate, lavate nel latte, lasciandole ben asciugare, farai un foglio di pasta fina (pasta sfoglia) , e porrai le fraghe in un vaso di pietra, vi metterai sei oncie di butiro (burro) , polvere di mostaccioli, quattro oncie di zucchero fine, un ottavo di cannella, e con un cucchiaio d’argento mescolerai la detta composizione, e sopra l’altro foglio, intagliato con qualche fogliame di capriccio, servita fredda con zuccaro.



    (prontogeometra.it)


    Edited by gheagabry1 - 15/9/2018, 13:56
     
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  4. arca1959
     
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    grazie gabry
     
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  6. gheagabry
     
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    Origine del menu



    La nascita del menu, inteso come cartoncino posto a tavola a disposizione dei convitati, è relativamente recente.
    Il termine francese non vuol dir altro che minuta, ovvero l’appunto che il capo cuoco o il maggiordomo stilava ogni giorno presso il sovrano, il nobile, il diplomatico, il padron di casa aristocratica, il ricco borghese, in base alla disponibilità della dispensa, del mercato e della propria creatività.
    Si fa comunemente risalire il suo uso all’inizio dell’Ottocento, con la trasformazione dal “servizio alla francese” al “servizio alla russa”. Oggi abituati a quest’ultimo, non ci rendiamo conto di quanto innovativo e sorprendente sia stato all’epoca.
    Nel “servizio alla francese” tutte le portate erano disposte contemporaneamente a tavola, a disposizione dei commensali, che potevano servirsi liberamente da sé o con l’aiuto dei domestici. Per i piatti caldi vi era il sostegno di utili rechauds (scaldavivande) che mantenevano in temperatura i cibi.
    L’allestimento della tavola era molto scenografico: vassoi, campane, zoccoli con ricchissime decorazioni, e grandi trionfi portati all’eccesso; vi era addirittura una categoria di decoratori chiamata sableurs che disegnavano sulla tavola tappeti artistici con sabbia colorata, polvere di marmo, vetri frantumati, polveri di zucchero, briciole di pane.
    Un certo monsieur Carade inventò addirittura una neve artificiale che fondeva durante il pasto: allora si assisteva a ruscelli in disgelo, a prati ritornare verdeggianti, a boccioli che si aprivano e alla primavera che sostituiva l’inverno.
    Nel 1810 il principe russo Alexandre Boris Kourakin (1752-1818) ambasciatore straordinario e plenipotenziario di Russia a Parigi, nella sua residenza di Clichy (alle porte di Parigi), imposta per la prima volta i suoi pranzi abolendo l’abituale presenza di tutti i piatti contemporaneamente in tavola, ma facendoli uscire in successione prestabilita dalla cucina, metodo che si rivelò più pratico e conveniente, sostituendo in breve tempo il “servizio alla francese” e decretando la nascita del menu, come ben sottolineano gli autori della Cuisine classique (1864), Urbain Dubois (1818-1901) ed Émile Bernard (1797-1888):
    «La convenienza esige che i commensali siano informati sulla composizione del pranzo, affinché possano fissare la loro scelta e regolare il loro appetito. Bisognerà dunque che i maggiordomi ne distribuiscano sulla mensa una quantità sufficiente; uno per ogni due persone se il pranzo è numeroso».
    Naturalmente tutte le trasformazioni non sono mai opera di singoli, ma sono dovute all’apporto di più persone, provengono da stimoli diversi, sono effetto di molteplici cause; ad esempio il dizionario Larousse gastronomique (1938) afferma che il termine porta la data del 1718, «ma è all’inizio del 1800 che appaiono i menus moderni presso i ristoratori parigini del Palais-Royal; questi ebbero l’idea di far eseguire per i loro clienti delle riproduzioni ridotte della “carta” (écriteau) affissa alla porta, a volte illustrata da grandi disegnatori e da celebri pittori».
    La nuova procedura del “servizio alla russa” ha conquistato gli animi, tutto si semplifica e i cuochi si industriano a codificare la successione delle portate; la svolta moderna ce la offre Antonin Carême (1784-1833) che riepiloga le sue esperienze ne L’arte della cucina francese del XIX secolo in cui assegna alla minestra (potage) l’esclusivo ruolo di “primo piatto”; la sua assenza è impensabile in un pranzo perché equivarrebbe ad un’opera lirica senza ouverture. Così ricorda: «Ho visto mille volte a tavola i re, gli imperatori e tutti mangiare con delizia la minestra; ho conosciuti tutti i gastronomi del mio secolo e nessuno si è mai dimostrato contrario a questo alimento». La predilezione per la minestra va continuamente crescendo, se nel 1816 ne troviamo 33 specie nell’Art du cuisinier di Antoine Beauvilliers (1754-1817), nel 1856 ne troviamo 100 nella Cuisine classique di Dubois e Bernard.
    È indubbio che la cucina francese abbia influenzato la cucina aristocratica di tutta Europa e per quanto riguarda la nostra penisola, sia la cucina dei Savoia che quella del Regno Borbonico: lo si avverte chiaramente nella composizione e nello spirito del menu.
    In casa Savoia l’Aiutante Capo-Cuoco e Pasticcere Giovanni Vialardi (1804-1872) nel suo Trattato di cucina, pasticceria moderna, credenza e relativa confettureria del 1854, conferma il servizio di minestra al primo posto nei pranzi di Corte, che così giustifica: «Le buone zuppe o minestre sono le confortatrici dei convalescenti, l’annunzio foriero di un buon pranzo, e preparano lo stomaco a ben pranzare. Quando un convitato comincia con una bella, eccellente e buona zuppa, lo rende gioviale, colla speranza di ben pranzare».
    Egli non fa che confermare una situazione già ben consolidata, con una unica eccezione nella prescrizione della sua Minuta di primavera da 30 a 40 coperti in cui appare nel primo servizio una “Zuppa di maccheroni di Napoli agli asparagi con sugo”.
    Non farà eccezioni il suo diretto Capo della cucina di Corte, il francese Edouard Hélouis che gestirà la cucina dei Savoia ininterrottamente dal 1848 al 1875, dapprima al servizio di Carlo Alberto e dopo l’abdicazione, al servizio di suo figlio Vittorio Emanuele II, primo Re d’Italia.
    Hélouis è allievo ideale di Carême, del quale loda e segue gli insegnamenti; prima di portare i suoi servigi in casa Savoia è stato il prestigioso cuoco di re Luigi Filippo I di Francia (che nel 1848 abdica e fugge in Inghilterra per non fare la fine di Luigi XVI); il cuoco francese è il vero, autentico testimone dei pranzi ufficiali a cavallo dell’unità d’Italia, che diligentemente trascrive nel suo libro Les Royal-Diners – Guide du Gourmet contenant des menus pour chaque saison – Avec le maniére de le preparer e des conseils sur les service de tables nel 1878 stampato di ritorno nella natia Parigi a fine servizio.
    Il suo testo ha una impostazione innovativa, in cui il ricettario segue la specifica stesura di ogni menu (sei per ogni mese) nella reale successione del servizio, con l’accurato abbinamento dei vini (esclusivamente francesi); dei 221 menu elencati è riportata la data, il luogo, l’occasione, il numero dei coperti.
    Immancabilmente nei vari decenni documentati e descritti, la prima portata è sempre il potage, passando in rassegna tutta la gamma conosciuta a livello internazionale: Printanier à la Royal, à la Sevigné, à la Reine, à l’Imperatrice, à la Tortue, à la Villeroy, à la Julienne, de quenelle, de volaille, bisque d’écrevisse, d’orge perlè, tapioca, purée des legumes, e non deve ingannare la presenza dei numerosi Potage macaroni (à la Royale, à la Napolitaine, au Chasseur, à la Duchesse, à la Rossini, à la Sarde, au coulis de volaille, à la purée de lièvre) poiché anche in questi casi non si parla di pasta “asciutta” ma sempre di “Macaroni” tagliati della lunghezza di due centimetri, scottati, raffreddati, scolati per essere rimessi nella zuppiera del consommé.
    Dello stesso avviso sono gli chefs de cuisine delle LL. MM. il Re e la Regina di Prussia, i già citati Dubois e Bernard i quali affermano che «Le macaroni de Naples et le véritable fromage de Parme frais» sono indispensabili alla perfetta esecuzione del suddetto Potage Macaroni di cui danno ricette: à la Napolitaine, à la Camerani, à la Calabraise, à la Cussy, à la Princesse, à la Reine, à la Montglas, à la Cardinale, à la levantine.


    Rarissimo menu del 1° marzo 1848 - uno dei più antichi della collezione di Academia Barilla - per il pranzo "alla russa" offerto dal Corpo Decurionale della Città di Torino a cinquanta convitati in occasione delle celebrazioni per lo Statuto Albertino, che verrà proclamato ufficialmente tre giorni dopo. Notevole anche la lista delle vivande, che si apre come di prassi, con un brodo, in questo caso un’eccezionale e oggi improponibile Zuppa di testuggine. [Biblioteca Gastronomica Academia Barilla - Collezione di menu storici "Livio e Wilma Cerini di Castegnate" Italia - Avvenimenti].Rarissimo menu del 1° marzo 1848 - uno dei più antichi della collezione di Academia Barilla - per il pranzo "alla russa" offerto dal Corpo Decurionale della Città di Torino a cinquanta convitati in occasione delle celebrazioni per lo Statuto Albertino, che verrà proclamato ufficialmente tre giorni dopo. Notevole anche la lista delle vivande, che si apre come di prassi, con un brodo, in questo caso un’eccezionale e oggi improponibile Zuppa di testuggine. [Biblioteca Gastronomica Academia Barilla - Collezione di menu storici "Livio e Wilma Cerini di Castegnate" Italia - Avvenimenti].




    Banchetto offerto dagli elettori del IV collegio di Roma a Francesco Crispi (1819–1901) il 23 maggio 1895. Portate d'occasione e simbologia (la lupa capitolina, lo stemma SPQR e il Pantheon alludono a Roma; lo stemma della Trinacria alla Sicilia, patria di Crispi, il medaglione all'Italia e l'alloro alla vittoria) per un menu di grande gusto decorativo, fedele specchio della sua epoca. Le portate – prevalentemente a base di carne e cacciagione, si aprono con una immancabile Zuppa alla Principessa.
    [Biblioteca Gastronomica Academia Barilla - Collezione di menu storici "Livio e Wilma Cerini di Castegnate" Italia - Regno d'Italia - Personaggi: Statisti].




    Menu del pranzo offerto a Roma il 26 febbraio 1906 da Casa Savoia con una grafica frivola ispirata al gusto Liberty e dorature a rilievo, del tutto inusuale fra gli austeri cartoncini di Corte. Di particolare rilievo la lista delle portate, che apre con un Consommé de volaille en tasse, espressa ancora in francese, come di consuetudine fino al 1907, quando Vittorio Emanuele decretò l'uso dell'italiano nella compilazione della lista, seguita da una scelta di vini di tutto rispetto.
    (academiabarilla)








    L'eco della marcia nuziale di Mendelssohn si era appena spento, quando a molti invitati venne l'acquolina in bocca leggendo su di una piccola pergamena quello che stava per essere servito sulle regali tavole. Cadeva il 14 aprile 1883. Nel castello di Nymphenburg in Baviera, il principe reale di Savoia-Genova, Tommaso Alberto Vittorio, duca di Genova, era a fianco della giovane novella sposa, S.A.R. Isabella di Baviera.
    Mettendosi finalmente a sedere sulle poltrone di velluto azzurro, colore della Casa regnante, delicatamente sospinte da valletti in alta tenuta, gli sposi avevano dato inizio al pranzo di gala delle loro nozze. Così come fecero allora i convitati, meno commossi dei principi e con un robusto appetito che si era accresciuto durante la complicata cerimonia, conviene anche a noi, ora, dare un'occhiata al regale menu.
    Si tratta di un cilindretto lungo tredici centimetri, chiuso alle due estremità da due corone reali di metallo dorato girevoli e rivestito di seta blu a losanghe di blu più intenso, colori e simboli araldici della Casa Reale di Baviera. Attorno al cilindro, un nastro sottile a spirale a tre colori: il bianco, rosso e verde dei Savoia, quasi a significare l'abbraccio dello sposo che avvolge la sposa. Lungo il cilindro si apre una fessura dalla quale esce appena un lembo di pergamena fissato con un nastrino ad una asticciola in ebano, a sua volta collegata alle estremità con una cordicella ritorta a due colori ad un sigillo metallico dorato che recava, in rilievo, il leone rampante della Casa reale di Baviera. Tirando dolcemente il sigillo si svolge una pergamena lunga ventun centimetri ed alta poco più di undici, decorata, all'intorno, da simboli araldici: a sinistra la figura di un paggio in abiti rinascimentali che regge con il braccio destro gli scudi delle due Case regnanti e con il sinistro indica le portate del menu, che si riavvolge girando delicatamente le corone in senso inverso.
    Le portate meritano una attenta lettura. Per essere "à la page" nelle Corti e nelle Case dei potenti si doveva immaginare, pensare e scrivere di cucina secondo i dettami dei grandi cuochi francesi. Soggezione e imitazione non significano però necessariamente esatta e felice interpretazione o alta cucina impeccabile. Si inizia con le ostriche. Il potage caldo, che apre opportunamente lo stomaco è seguito dall'Hors-d'œvre, con un ottimo Salmone del Reno, ma servito con una Sauce Bernaise, utilizzata solitamente per carni alla griglia. Alle Atelettes al fois gras succede una insolita Sella di renna, servita però con una Salsa Cumberland abitualmente associata alla selvaggina fredda.
    Le Entrée propongono nuovamente selvaggina, con delle modeste beccacce primaverili, magnificamente guarnite, però, con tartufi, per poi tornare, poco opportunamente, al pesce, con aragoste e sauce mayonnaise, creando qualche difficoltà col vino. La Granita d'Ananas, allora non certo alla portata di tutti come oggi, alleggerisce e prepara all'Arrosto di Polletti (ma dopo le beccacce meglio sarebbe stato un arrosto di bue) con Asparagi.Il pranzo regale si concludeva con Gelatina al vino di Champagne, Gelato, Frutta e Dessert.Il menu si caratterizza, comunque, per la classica successione e per le presenze "canoniche" del brodo in apertura, degli arrosti e del dessert finale. Però, ad un evidente intento di magnificenza e ricercatezza dei singoli cibi non fa seguito un corretto ordinamento dei piatti ed una oculata gestione dei vini. Poteva accadere anche alla Corte di un Re…


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    “Listino delle vivande” del 18 ottobre 1919 scritto e dipinto a mano a Fiume d'Italia con firma di Gabriele d'Annunzio e dedica autografa "Al colonnello Dezzani, valoroso quanto generoso". Si tratta di un pezzo unico, rarissimo e di grande valore documentario: a poco più di un mese dall'occupazione di Fiume da parte del Poeta-soldato e di un manipolo di legionari, a pochi giorni dall'incontro con Mussolini, giunto in aereo da Novi Ligure e dall'appuntamento con Badoglio, Commissario straordinario del Governo italiano che inutilmente cercava di far terminare l'impresa, d'Annunzio si concede un abbondante pasto nella sala da pranzo del vecchio Palazzo del Bano Ungherese. Se il menu non è - data la situazione - di particolare rilievo gastronomico, è tuttavia da notare il rispetto della successione canonica delle portate, aperte da una curiosa quanto misteriosa Minestra in brodo alla Flik Flok.

    In Italia l’impostazione di Hélouis del potage quale “primo piatto” avviata nelle cucine dei Savoia, dapprima Regno di Sardegna e successivamente Regno d’Italia, è destinata a rimanere invariata anche con i successivi regnanti, Umberto I e Vittorio Emanuele III; nonostante quest’ultimo con “motu proprio” del gennaio 1908 stabilirà che da quella data tutti i termini di cucina dovranno essere scritti in italiano, il cambio del potage in minestra sarà solo nominale, senza mutarne la sostanza.
    Nell’occasione lo stesso termine francese Menu verrà tradotto oltre al corrispondente antico termine di Minuta anche in Lista, Lista delle vivande, Distinta, Distinta del pranzo, ed anche con i più fantasiosi Gastrovivanda, Gastronota, Vivandaio, Godenda fino al più cameratesco Rancio.
    Ma il fatto più straordinario è che la prima portata non si limita al periodo del Regno ma continua incessantemente nei menu ufficiali dei Presidenti della Repubblica fino ai giorni nostri nella forma di Consumato in tazza, Ristretto (in tazza, di pollo), Crema (all’imperiale, San Germano), Vellutina (all’Italiana, di piselli, di pollo), Brodo vegetale come è ben documentato dal recente volume dell’Accademia Italiana della Cucina: I menu del Quirinale – 150 anni di menu per 15 Capi di Stato” (1861 - 2011).
    Naturalmente vi sono rare eccezioni come nella Minuta del 1947 in onore di Enrico De Nicola (1877-1959) con Ravioli alla genovese nella città di Firenze; il Timballo di maccheroni nel 1953 per Luigi Einaudi (1874-1961); nei menu di Giuseppe Saragat (1898-1988) appare uno sporadico Timballo di ravioli; vi è anche un curioso doppio servizio di Brodo in tazza seguito da Risotto alla certosina per Giovanni Leone (1908-2001),nei cui menu, nonostante l’origine campana, spicca la quasi totale assenza di specialità napoletane. Anche per Antonio Segni (1891-1972) il Ristretto o Brodo in tazza è seguito dalla portata di Maccheroni alla Duchessa, Tortellini alla panna, Cannelloni alla Nizzarda; il Ristretto in tazza per il settimo presidente Alessandro Pertini (1896-1990) è anch’esso seguito da un piatto “asciutto” di Tagliolini al prosciutto o di Crespelle alla Sorrentina; dopo Francesco Cossiga (1928-2010) e Oscar Luigi Scalfaro (1918-), la nuova usanza dei Cappellini in brodo è alternata da Ravioli burro e salvia e Mezze maniche alle melanzane con Carlo Azeglio Ciampi (1920-), mentre presso Casa Artusi a Forlimpopoli, l’attuale presidente Giorgio Napolitano (1925-) è festeggiato con Cappelletti all’uso di Romagna e a sua volta accoglie il Presidente della Repubblica di Slovenia con Timballo di tagliolini al ragù bianco.

    Le prime liste cibarie di Casa Reale scritte in italiano continuano a contemplare alla prima portata la “minestra”, convenzione ribadita dal Capo Cuoco di S. M. il Re (e poi Imperatore) Vittorio Emanuele III, Amedeo Pettini (1865-1948), nel primo orgoglioso testo de L’arte cucinaria in Italia (due volumi, 1910-1911) curato da Alberto Cougnet: «In attesa di innovazioni e di perfezionamenti, diciamo intanto che basta incominciare un buon pranzo servendo una minestra, sia composta che semplice, o legata, o formata con un passato; oppure un semplice consumato, con aromi in uso in un paese o nell’altro e con guarnizioni da porsi dentro o da servirsi a parte».
    Mentre la tradizione della cucina aristocratica continua a influenzare la cucina ufficiale (anche poi quella repubblicana) diverso è il percorso della cucina borghese e popolare che trova una svolta nel suo vate Pellegrino Artusi con la pubblicazione nel 1891 de La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene – Manuale pratico per le famiglie.
    Nel descrivere in appendice «tante distinte di pranzi che corrispondino a due per ogni mese dell’anno» egli adopera indifferentemente, sotto l’enunciazione unica di “minestra in brodo” sia i primi asciutti e sia quelli in brodo, per cui troviamo molti piatti di farinacei, pasta e riso che si consolidano nella futura tradizione: a gennaio Tortellini alla bolognese e Nocciole di semolino; a febbraio Agnolotti; ad aprile Pastine legate con uova e Parmigiano; a maggio Malfattini colla bietola e piselli; a giugno Strichetti alla bolognese; a luglio Riso legato colle uova e Parmigiano; ad agosto Taglierini; ad ottobre Gnocchi e Bomboline di riso; a novembre Maccheroni alla francese e Risi e luganighe; a dicembre Risotto colle telline e Cappelletti all’uso di Romagna.
    Quelli selezionati per i menu mensili sono solo una minima parte di quelli indicati nel ricettario, radunati nel capitolo generale di “Minestre asciutte e di magro” che contempla una varietà di preparazioni sia di Tagliatelle (col prosciutto, verdi, all’uso di Romagna), sia di Riso (risotto colle telline, colle tinche, nero colle seppie alla Fiorentina, coi piselli, co’ pomodori, alla milanese, coi ranocchi, coi gamberi, col brodo di pesce), sia di Maccheroni (alla francese, alla napoletana, alla bolognese), sia di Gnocchi (di patate, di farina gialla), sia di Paste ripiene (tortelli, raviuoli normali, alla genovese), sia di Spaghetti, mai degnati finora di menzione nei ricettari (colle acciughe, alla rustica, coi piselli).
    Il primo piatto di “pasta asciutta” stenterà comunque a ritagliarsi la priorità nei “menu della festa” borghesi e popolari fino al periodo tra le due guerre, come testimoniano le raccolte di menu, che a poco a poco vengono valorizzate per la validità della loro testimonianza, essendo l’unico documento autentico, indiscutibile del cibo realmente servito, non filtrato da interpretazioni e commenti, che documenta il pranzo in modo fedele con data, luogo e successione delle portate, oltre a riflettere l’andamento dei tempi, splendore o mediocrità, opulenza o ristrettezza.
    La conquistata priorità degli spaghetti non riuscirà ad essere scalfita dalla veemente campagna offensiva che scatena l’innovativa onda futurista con a capo l’artista a tutto campo Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944); servendosi delle pagine del quotidiano “La Gazzetta del popolo” il 28 dicembre 1930 pubblica il Manifesto della Cucina Futurista in cui al primo punto propone «l’abolizione della pastasciutta» e rilancia la sua sfida successivamente ne “La Cucina Italiana” dal maggio del 1930 al maggio del 1931 con referendum, polemiche, anatemi ai quali partecipa calorosamente una folta schiera di letterati, artisti, scienziati, medici, cuochi, politici raccogliendo sia benevoli adesioni quanto furiose contestazioni.
    Persa la battaglia contro la pastasciutta, Marinetti propone in modo più subdolo una nuova inchiesta «Verso una imperiale arte cucinaria» con undici quesiti a cui rispondere tramite le pagine della rivista “Scena illustrata” da maggio ad ottobre del 1938, tendenti a innovare radicalmente la cucina italiana; già il primo punto ne riassume lo spirito: «Credete proprio all’infrangibile dogma di una cucina italiana immodificabile e imperfezionabile chiusa in formule e ricette da applicare oggi e sempre come fecero i nostri avi?». Anche in questo Marinetti caso trovò molta resistenza a rimuovere le abitudini degli italiani.
    Nonostante un lungo percorso di convenzioni radicate dei menu e improbabili innovazioni futuriste, la pasta diventa lentamente la voce iniziale del pranzo nella seconda metà del XIX secolo, mentre fino a pochi decenni prima nessuno si sarebbe immaginato di servirla come primo piatto e nemmeno quale contorno, oppure servita nelle Entrée come consuetudine nei menu di fine Ottocento tra due carni, prima del Punch alla romana, come si può riscontrare dai ricettari dell’epoca, da Francesco Chapusot (1846) a Giovanni Vialardi (1854) a Edouard Hélouis (1878) a Ferdinand Grandi (1891). Non solo a fine Ottocento, se ancora nel diffuso Lessico di cucina di Riccardo Hering e Ferruccio Andreuzzi del 1920 gli Spaghetti al pomodoro e Parmigiano sono contemplati alla voce “Garniture Napolitaine” e i Maccheroni al pomodoro con julienne di funghi, tartufi e lingua salmistrata alla voce “Garniture Milanaise” in accompagnamento di “Carni”.
    Non si può fare a meno di pensare all’incongruenza di questa lenta conquista della pasta per giungere ad assumere il ruolo di “primo piatto”, in considerazione della sua antica storia, del suo continuo percorso, del suo ruolo durevole, della sua sacralità, per l’abbondanza dei tipi, sia fresca che secca, del mestiere che diventa un autentico patrimonio tecnico, culturale, gastronomico e “tipicamente italiano”.

    Gli Italiani a Nizza «riuniti in fraternal banchetto» celebrano la festa nazionale il 3 giugno 1888. Ormai ceduta Nizza e la Savoia alla Francia nel 1860 in cambio del sostegno al processo di unificazione nazionale, gli italiani di Nizza, che ancora rimpiangono la perduta Patria, si riuniscono in occasione della festa nazionale degustando solo specialità regionali italiane. Spicca, dopo gli antipasti e la frittura alla milanese, il primo a base di Maccheroni alla Napolitana, precocissima attestazione di minestra asciutta sul finire dell’Ottocento.
    [Biblioteca Gastronomica Academia Barilla - Collezione di menu storici storici "Livio e Wilma Cerini di Castegnate" - Stato Francese – Collezione Cougnet].
    [Biblioteca Gastronomica Academia Barilla - Collezione di menu storici "Livio e Wilma Cerini di Castegnate" Italia - Personaggi - Scrittori].
    [Biblioteca Gastronomica Academia Barilla - Collezione di menu storici "Livio e Wilma Cerini di Castegnate" Italia - Regno d'Italia - Casa Savoia].





    Menu per il Presidente della Repubblica Italiana del 12 settembre 1968. Il pranzo, imbandito nella tenuta presidenziale di Castelporziano, graficamente sobrio ed essenziale, con lo stemma italiano in oro a rilievo in alto, è impostato in maniera tradizionale e presenta due primi: il classico Brodo in tazza è associato ad un piatto di Maccheroni all’ammiraglia, con sugo a base di pesce, mitili e pomodori, accogliendo così nei menu ufficiali di Stato la pastasciutta. Fa parte della collezione di 126 menu degli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento raccolti dal Conte Carlo Barbasetti di Prun e donati ad Academia Barilla dalla moglie, Signora Maria Sofia Apolloni nel 2010.


    Menu del 28 novembre 1977 a Vergiate (Varese) in casa del pittore Enrico Baj (1924-2003) una litografia di uno dei famosi generali, tanto cari all'artista, viene sovrastampata con le portate di un servizio originale per scelta e di straordinaria qualità. Firmato a matita da Baj è stato realizzato in soli venti esemplari ed è rarissimo. In apertura, dopo gli antipasti, Tagliolini freschi ai tre sapori: un tris di pasta all’uovo fatta in casa e cucinata asciutta.
    [Biblioteca Gastronomica Academia Barilla - Collezione di menu storici "Livio e Wilma Cerini di Castegnate" Italia - Personaggi - Disegnatori e pittori].
    [Biblioteca Gastronomica Academia Barilla - Collezione di menu storici "Carlo Barbasetti di Prun" Italia - Repubblica Italiana – Presidente della Repubblica].

    (academiabarilla)

    Edited by gheagabry - 20/8/2012, 20:25
     
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    Il cuoco milanese e la cuciniera lombardo-veneta



    Anonimo era ed è rimasto l’autore del ricettario, come quello di quasi tutti i Cuochi e le Cuciniere pubblicate tra la fine del XVIII e l’intero XIX secolo, derivati da Il cuoco piemontese perfezionato a Parigi pubblicato nel 1766.... Il cuoco milanese e la cuciniera lombardo-veneta
    Anonimo
    Milano, Pagnoni editore, 1863.

    La maggior parte dei ricettari generati dal Cuoco “perfezionato a Parigi” ha scarsa originalità. Quello qui considerato si adegua pedissequamente al modello, lo sbriciola e lo ricompone, per farne confondere le tracce. Ne risulta una miscellanea di suggestioni internazionali e regionali sfuggite al controllo del redattore. Senza la mente unificatrice del cuoco, ciò che resta è una compilazione, oggi si direbbe un redazionale, dai contorni imprecisi in cui si fatica a cogliere la tradizione lombarda e prealpina. Il linguaggio è tanto povero e generico da rendere spesso difficile la realizzazione delle ricette. Le dosi degli ingredienti e i tempi di cottura non sono mai indicati. La materia è ordinata, come d’uso nei ricettari non professionali, per ingrediente principale, anziché per utilizzo pratico o per collocazione del piatto all’interno del menù. Considerandone tutti i limiti, può stupire che un ricettario (e il modello culinario in esso sostenuto, legato alle forme gastronomiche dell’ancien régime) sia potuto sopravvivere floridamente per oltre cento anni, senza mutamenti. Si può ipotizzare che il ritardo socio-economico che separava la borghesia dell’Italia settentrionale da quella parigina, in parte per la dipendenza del Lombardo-Veneto da Vienna, abbia limitato, in qualche modo il formarsi di una coscienza gastronomica regionale, come invece si era andata precisando nel Piemonte sabaudo.



    Fino quasi all’epoca della rivoluzione francese, la differenza esistente tra la cucina quotidiana borghese e la cucina principesca era commensurabile solo in ordine all’abbondanza delle vivande e alle decorazioni. A partire dal 1750 circa, la cucina dei giorni normali si va distinguendo da quella dei giorni festivi, quella borghese da quella principesca per differenze di genere (si mangiano cose diverse), di qualità (freschezza, misura e peso, provenienza) delle derrate e di metodo, cioè di tecnica di preparazione. La cucina ordinaria invece resta ancorata ai vecchi usi, mentre quella festiva e delle case nobiliari esige tecniche e strumenti sempre più aggiornati e non disponibili ai cuochi non professionisti. Ciò anche come conseguenza del lavoro teorico realizzato da alcuni personaggi sui generis come Antonino Carême, il cuoco-pasticcere del principe di Talleyrand e dei Rothschild; come Anthelme Brillat-Savarin, il primo gastrosofo, autore della Fisiologia del gusto ossia meditazioni di gastronomia trascendente; come Alexandre Grimod de la Reynière, il capostipite dei giornalisti gastronomici, autore dell’Almanacco dei Buongustai ossia calendario nutritivo: tutti personaggi tesi a fare della gastronomia non più solo un’attività pratica ma una scienza e un’arte, come dirà alla fine dell’800, Pellegrino Artusi.




    Nella pratica, la cucina si sviluppava su tre livelli: quello dei grandi alberghi e ristoranti e di chi aveva al servizio cuochi professionisti; quello delle classi medie che utilizzavano cuoche di estrazione popolare provenienti da cucine professionali; quello di sussistenza, cui si piegavano le classi popolari. Il trait-d’union tra i diversi livelli era la cuoca popolare o contadina, impratichitasi da sguattera nelle cucine nobiliari, che assumeva la conduzione di una cucina borghese. Erano costoro le fruitrici della stampa gastronomica popolare, quale quella delle Cuciniere. Risultato: il ribassamento dei mezzi portava la riduzione delle pretese, ma contribuiva a dare alla media e piccola borghesia quel lustro e quel decoro cui aspirava.
    Nel nostro anonimo ricettario, il ricordo della tradizione padana e prealpina sfuma di fronte al modello parigino: trionfi di carni di montone, abbondanza di quella selvaggina che era stata ingrediente privilegiato nella cucina dei secoli precedenti, e di pesci di mare, nella pratica quasi assenti dalla gastronomia lombarda; oblio del riso e della farina gialla. La supremazia va, comunque alla carne di bue, di manzo e di vitello, regina incontrastata della tavola. In comune con la cucina padana ritroviamo l’uso costante di lardo e burro, la frequenza di salse bianche e di formaggio, la menzione di alcuni piatti, ancora oggi in auge: le carote al burro, il cavolfiore con la besciamella, le anguille allo spiedo.




    cucinalariana.com
     
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    L' ORO IN CUCINA



    L'oro è un metallo commestibile, anallergico, privo di gusto e chimicamente inerte. E 'autorizzato dall'Unione europea e dagli Stati Uniti per la decorazione del cibo. In gastronomia di lusso è disponibile in forma di polvere, fogli, scaglie o fiocchi.

    Il più grande consumatore è l'India con una stima di 12 tonnellate di oro all'anno. Mentre in Cina hanno l'abitudine di bere, in occasione del nuovo anno, sake ornato con scaglie d'oro e alcuni chef di sushi giapponesi utilizzano l'oro per dare un aspetto diverso alle loro preparazioni. In Pakistan l'oro è a volte consumato per le sue afrodisiache e stimolanti presunte virtù.
    In Francia e in Svizzera, gli chef del cioccolato decorano i loro tartufi con frammenti di foglia d'oro.



    L'oro per decorazioni alimentari è un prodotto molto delicato da manipolare infatti, dato il suo impalpabile spessore, non deve mai essere toccato con le mani, con oggetti umidi o messo a contatto con fonti di umidità o vapore che ne danneggerebbero la struttura.




    ...nella storia...

    Nell'antichità si considerava l'oro come sostanza perfetta e incorruttibile in esso si equilibravano i quattro elementi di cui si credeva composto il mondo: Aria, Acqua, Terra e Fuoco.
    A quell'epoca nei banchetti importanti, soprattutto in occasione di matrimoni di nobili casate o particolari festeggiamenti, torte monumentali venivano decorate con sottili lamelle d'oro e anche la selvaggina veniva posta in tavola ricoperta con il nobile metallo. Se l'artigiano era stato particolarmente bravo, il foglio era sottilissimo e aderiva perfettamente alle carni arrostite e alle torte, e quindi veniva gustato con il cibo stesso; se invece si presentava un po' troppo spesso, i commensali staccavano la decorazione che veniva lasciata nei piatti.

    A Milano, il Corio, descrive il banchetto offerto nel 1386 da Galeazzo Visconti in occasione delle nozze della figlia Violante, citando storioni dorati, ricoperti con una sottile foglia d'oro come si usa per i confetti e che la profusione d'oro a scopo decorativo non risparmiò in quella circostanza quaglie, pernici, anatre, carpe, trote e neppure un vitello intero.
    A Venezia, il Sanudo, ricorda come la sera del 16 novembre 1561 ad una festa in Canal Grande in onore del principe di Bisignano furono serviti il pane e le ostriche ricoperti di foglia d'oro. L'uso dell'oro in cucina nella Padova cinquecentesca divenne così eccessivo, tanto che l'autorità politica dovette occuparsene e il consiglio cittadino stabilì che nei pranzi nuziali non potessero essere servite più di due portate con questo metallo.
    Gli alchimisti, nel XV secolo, usavano preparare numerose sostanze medicinali utilizzando l'oro, considerato un buon rimedio per ogni disturbo. Nella Venezia rinascimentale la doppia funzione dell'oro di medicamento e simbolo della ricchezza fu raccolta nell'uso di servire alla fine del pranzo confetti ricoperti di foglia d'oro perchè rinforzavano il cuore e proteggevano dai reumatismi.
    Nella Milano Viscontea l'oro veniva impastato dagli speziali con le cattive cose che presentavano da inghiottire allo scopo di renderle più appetibili.
    Quest'abitudine di mostrare una ricchezza sfrenata rimarrà fino al Seicento. Con la rivoluzione francese l'uso dell'oro viene limitato all'abbellimento di oggetti e monili, non più posto sulle vivande, ma continua la sua valenza come terapia per la cura di alcune malattie. Da sempre simbolo di ricchezza, sfarzosità e anche vittoria,
    l'oro viene lavorato e ridotto in sottilissime lamine grazie alla sua notevole malleabilità. Pasticceri e cioccolatieri lo hanno usato in passato e continuano ad adoperarlo per decorare le torte importanti. Le classi più povere cercarono di imitare l'uso dell'oro in cucina: chi non aveva ricchezze sufficienti per ricoprire d'oro ciò che mangiava, imitava il suo biondo splendore con ingredienti semplici, come l'uovo, il pangrattato e il burro, come nella cotoletta alla milanese.



    Circa quindici anni fa Gualtiero Marchesi propose nel suo ristorante l'ormai celebre risotto oro e zafferano: un risotto alla milanese con tanto zafferano e, come tocco finale, un sottile foglio d'oro. Partito dalla ricetta
    tradizionale lombarda, lo chef la trasformò in una creazione inedita, quasi pittorica, giocando sul colore giallo e sull'inserimento di un unico elemento di forte caratterizzazione come la foglia d'oro sul piatto, pur rimanendo fedele ed esaltato al massimo il sapore originario degli ingredienti.
    A lui il merito di aver proposto in chiave moderna quanto elaborato dai grandi cuochi del Medioevo e Rinascimento.

     
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    SCOPERTA LA FARINA PIÙ ANTICA DEL MONDO,
    HA 32 MILA ANNI





    Scoperta la farina più antica del mondo: ha 32.000 anni, è di avena ed è stata macinata dall'homo Sapiens in una grotta del Gargano. Dimostra che le tecniche per preparare la farina dai cereali sono molto più antiche di quanto si immaginasse. Pubblicata sulla rivista dell'Accademia delle Scienze degli Stati Uniti (Pnas), la scoperta si deve al gruppo di ricerca coordinato da Marta Mariotti, dell'università di Firenze.

    I ricercatori hanno esaminato i residui vegetali rimasti intrappolati nei solchi di una macina nella Grotta di Paglicci a Rignano Garganico, in provincia di Foggia. ''Sulla superficie della macina - spiega Mariotti – abbiamo trovato granuli di amido di avena, molto probabilmente Avena barbata L., ed è al momento la prima testimonianza dell'uso di questa pianta''. Il particolare stato di conservazione dei granuli, aggiunge, ''ci ha indotto a credere che i chicchi siano stati sottoposti ad un trattamento a caldo prima di essere macinati''.

    La ricercatrice pensa che la lavorazione dei chicchi ''avvenisse a più stadi dopo la raccolta: il trattamento termico e la macinazione, rilevati in questo lavoro, e poi, presumibilmente, la successiva aggiunta di acqua e la cottura''. Un tipo di procedimento, sottolinea ''ancora in uso in Asia ai giorni nostri''.

    Alla ricerca hanno partecipato anche Bruno Foggi, dell'università di Firenze, Annamaria Ronchitelli, dell'università di Siena e direttrice dello scavo, Biancamaria Aranguren, della Soprintendenza Archeologica della Toscana e Anna Revedin, dell'Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria. Lo stesso gruppo di lavoro aveva scoperto ad aprile una farina nel sito di Bilancino, nel Mugello (Firenze), risalente a 30.000 anni fa.


    www.rainews.it

     
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    Chi è stato il primo cuoco della storia?



    Vi capita mai di chiedervi a chi sia venuto in mente la prima volta che lavorando il grano in un certo modo si poteva ottenere la farina e quindi pane e pasta e via dicendo? O chi sia stato il primo a friggere un uovo? La curiosità di sapere chi sia stato il primo cuoco (o la prima cuoca, si intende) è venuta anche agli studiosi dell'Università di Harvard che si sono messi a ricercare le origini del nostro modo di cucinare e, soprattutto, a che punto della sua esistenza l'uomo abbia iniziato a cuocere gli alimenti.

    I dati scientifici esaminati sono vari – come, per esempio, l'utilizzo del fuoco in maniera normale, la percentuale del tempo impiegata per mangiare, la dimensione della dentatura, la conformazione degli intestini... – e gli studiosi hanno potuto dedurre alcuni elementi interessanti:

    - sono quasi due milioni di anni che l'uomo (inteso come genere umano) cucina;

    - rispetto ai primati, gli ominidi impiegavano meno tempo per mangiare e questo potrebbe significare che gli alimenti erano trattati in qualche modo sì da fornire più calorie con minore quantità di cibo;

    - mangiando alimenti preparati secondo una certa arte culinaria è cresciuta la speranza di vita grazie a un maggiore stato di sanità;

    - essendo cotti gli alimenti risultavano più morbidi e la necessità di avere denti grandi e mandibola robusta per la triturazione degli stessi era minore.

    Si è, quindi, giunti alla conclusione che l'Homo erectus è stato il primo cuoco del mondo: parliamo di circa 1,9 milioni di anni fa. Ora, però, è sorta una nuova domanda: gli uomini hanno iniziato a cucinare perché erano intelligenti o invece la preparazione dei cibi ha fornito calorie in più sì che l'essere umano ha potuto usare l'energia in più per lo sviluppo del proprio cervello? Non sono uno scienziato, ma opto per questa seconda opzione, anche sulla scorta di un detto popolare che afferma: “A stomaco pieno si ragiona meglio”.


    Via | Publico tramite Directo al paladar
     
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    RICETTARIO MADE IN ITALY



    Dal caffè all’espresso - Il caffè entrò in Europa passando per Venezia. Il primo a notare la “nera bevanda”, nel 1573, fu Costantino Garzoni, già ambasciatore della Serenissima a Costantinopoli. Ma sino alla fine dell’800, il caffè si beveva “alla turca”, cioè in infusione. Proprio in Italia si inventarono le varie macchine a percolazione: per prima la napoletana, verso il XX secolo, poi i grandi apparecchi da bar e infine, nel 1933, la Moka Express Bialetti. In realtà, già nel 1910 fu brevettata la Victoria Arduino, primo successo globale nella storia delle macchine da caffè. Nacque pensando alle caldaie delle locomotive a vapore: Pier Teresio Arduino era stato arruolato nel genio ferroviere. Alfonso Bialetti concepì invece la sua Moka guardando la moglie fare il bucato. A tempo si usava una specie di pentolone, con un all’interno un tubo da cui l’acqua, quando bolliva, fuoriusciva per poi scendere spargendosi sui panni. Alfonso Gaggia, a Milano, nel 1948 mise a punto la prima macchina per l’espresso-crema.




    Cotoletta alla Milanese, Anzi no. - La prima citazione della Weiner Schnitzel è del 1831, la prima della cotoletta alla milanese è del 1855. La favola del federmaresciallo Radetzky che magnifica a Vienna la cotoletta degustata a Milano è una bufala riportata nel 1963 da un giornalista siciliano di origine e milanese di adozione, Felice Cunsolo. La storiella sarà poi immortalata nel 1969 dalla Guida gastronomica d’Italia del Touring Club. In realtà la cotoletta milanese nacque a Parigi, dove in un ricettario del 1746 ritroviamo una cotoletta impanata e cotta sulla griglia. La ricetta fu tradotta in italiano una ventina d’anni dopo e giunse a Milano passando per Torino. Nel 1855 lo chef Giuseppe Sorbiatti le diede l’assetto definitivo: “Costoline di vitello fritte alla milanese”.




    Mozzarelle da bongustai - “Mozzarelle fresche romanesche” scrive Bartolomeo Scappi nella sua Opera /1570. Fu allora che il formaggio a pasta filata di latte bufalino entrò ufficialmente nella gastronomia italiana. Scappi cita anche la “neve di latte”, probabilmente il fior di latte, formaggio a pasta filata di latte vaccino. A chiamare “mozzarella” anche questo formaggio furono gli industriali del Nord, nel 1942, con un colpo di mano ai danni del Sud. Un impulso fondamentale alla produzione di mozzarella lo diedero i Borbone, che verso la metà del 700 conquistarono la reale industria della Pagliara delle bufale di Carditello, primo caseificio nella storia dei questo formaggio. Soltanto negli anni Trenta , con l’arrivo del Ferrovia e dei carri refrigerati, divenne possibile per la mozzarella lasciare i luoghi d’origine ed affacciarsi sul mercato nazionale.




    Parmigiano …piancentino - Ci fu un tempo in cui il grana di qualità era detto piacentino e non parmigiano reggiano. Lo sapevano i veneziani, che omaggiavano il sultano con forme di “cacio piacentino”, e lo sapeva l’imperatore Carlo V che nel 1527 volle vedere di persona la confeziona della forma che i piacentini intendevano regalagli. Il “piacentino” era ben conosciuto. Lo cita Boccaccio, quando descrive la contrada di Berlinzone (ovvero il “paese della cuccagna”), dove “eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato”. E durante il rovinoso incendio di Londra, nel 1666, tal Samuel Pepys, segretario dell’Ammiraglio, scavò una buca in giardino per salvare dalle fiamme le sue forme di grana. La svolta arrivò nell’800, quando sia Piacenza sia Lodi abbandonarono quasi del tutto la produzione di formaggio grana per dedicarsi ai più redditizi formaggi freschi – a Lodi si inventa il mascarpone, Così il primato venne lasciato a Parma, Reggio e Modena.



    PESTO, Il rinfresco dei marinai - Dopo mesi e mesi di mare, mangiando puzzolenti alimenti mal conservati e gallette dure come il legno imbevute nell’acqua putrida o nel vino andato in aceto, consumare un po’ di erbe verdi e profumate doveva essere una specie di miraggio. E’ probabile che l’origine del pesto sia da cercare proprio nel desiderio dei marinai genovesi, e in generale liguri, di mettere finalmente in bocca qualcosa di fresco e gradevole. Qualcosa che poteva essere coltivato in vasi collocati sui balconi degli stretti caruggi, i vicolidi genova: il basilico. La prima ricetta conosciuta risale al 1863, ma l’uso del mortaio per “pestare” ingredienti è ben più antico, almeno rinascimentale. Le citazione più antiche mostrano una preparazione non codificata; potevano essere usate noci anziché pinoli, maggiorana o prezzemolo al posto del basilico, adirittura formaggio olandese invece del pecorino.



    La Pizza di Enea - L’origine della pizza è antichissima e…greca. In principio serviva da piatto: lo spiega Virgilio , che nell’Eneide descrive i Troiani così affamati da mangiarsi le stoviglie, ovvero le focacce su cui erano appoggiati gli alimenti. In Italia la portarono i Greci: a Napoli, capitale della Magna Grecia, e nella versione non lievitata – la piadina – a Ravenna, capitale dell’esarcato bizantino. A Napoli la pizza si trasformò in cibo di strada. Si mangiava condita con lardo, sugna (strutto) o pesciolini. Il pomodoro è un’aggiunta ottocentesca, epoca in cui però si metteva sopra la mozzarella. Quando la Regina Margherita di Savoia si recò in visita a Napoli, nel giugno 1889, Raffaele Esposito fu chiamato nella reggia di Capodimonte dove preparò tre pizze. Quando gli chiesero come si chiamasse quella che era piaciuta di più alla sovrana, rispose senza esitare: “margherita”. La pizza pomodoro, mozzarella e basilico esisteva già, ma Esposito ebbe la prontezza di battezzarla.



    Focus storia maggio 2015, I parte
     
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    La “torta di mais”: la polenta
    Quando il mais giunse dall’America, gli europei non sapevano che cosa farsene: lo trattarono come una curiosità da raffigurare in festoni dipinti a motivi di frutta e ortaggi. Fu Giovanni da Udine a dipingere le prime immagini europee di pannocchie nel 1517, nella Villa Farnesina di Roma. A metà 500, si coltivava mais nel Polesine, e presto la coltura si diffuse nelle pianure ricche d’acqua della pedemontana veneta, friulana e in parte lombarda. Ma per parecchi decenni il mais rimase un mangime per animali. Quanto alla polenta, ottenuta però con farina di farro o altri cereali bolliti nell’ acqua, era conosciuta già dai Romani: la chiamavano puls. Nel Medioevo i passò a farine di ogni tipo. Lo testimonia la “ polenta bigia”, di grano saraceno, citata da Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi. Ci vorranno fame e carestie per convincere gli essre umani a nutrirsi di quel cibo per gli esseri umani a nutrirsi di quel cibo per le bestie: nel 1634 i contadini del bellunese furono i primi a riempirsi la pancia con polenta di mais. Il che , alla lunga, rese endemica la pellagra, una malattia causata da carenze vitaminiche legate appunto alla cottura della farina di mais.




    La lunga attesa della passata – Tra i nuovi alimenti arrivati da oltreoceano dopo il 1492, il pomodori fu l’ultimo a entrare nelle abitudini alimentari. Non somigliava a nulla di esistente e non saziava come facevano polenta di mais e patate. Così la prima citazione della salsa di pomodoro è del 1690; e per trovarla abbinata alla pasta si dovette aspettare il 1839. Dopo l’Unità d’Italia, ai pomodori coltivati nell’ex Regno delle Due Sicilie si aprirono i mercati settentrionali. A Parma qualcuna ebbe la brillante idea: preparare concentrato e conserva di pomodoro su scala industriale. Il perché è presto detto. Prima dell’avvento della refrigerazione, il maiale si lavorava soltanto d’inverno. Gli operai dei prosciuttifici e dei salumifici d’estate restavano disoccupati. Metterli a lavorare sui pomodori, che proprio d’estate maturano, sembrava la quadratura del cerchio. La prima azienda di trasformazione aprì nel 1874 a Felino (Parma), località nota per il salame. E fu un piemontese, Francesco Cirio, a mettersi a inscatolare pelati.




    Spaghetti: italiani o cinesi? - E’ uno dei dubbi amletici della gastronomia nostrana: gli spaghetti sono cinesi o italiani? La risposta non è semplice. Su chi sia stato il primo a produrre vermicelli non dovrebbero esserci dubbi: nel 2005 un archeologo ha rinvenuto in Cina, a Lajia, sul fiume Giallo, una ciotola al cui interno c’erano alcuni fili di pasta ancora bel conservati, risalenti al 4000 a. C. Lunghi, gialli e di farina di miglio, quei primi spaghetti si sono subito dissolto, lasciando appena il tempo di scattare una foto. Non si sa se quei vermicelli abbiano poi viaggiato lungo la via della seta giungendo in Italia, o se siano stati inventati automaticamente dalle nostre parti. La parola greca “ITRION”(pasta cotta in acqua) compare nel Talmud nel VI secolo. La ritroviamo, arabizzata il “itriyya”, nel libro di Ruggero del geografo al-Idrisi (1154). E a Trabìa (Palermo), si produceva la stesso tipo di pasta: oggi in siciliano tria indica capelli d’angelo. Da lì gli spaghetti partirono alla conquista dell’Italia intera.




    Tiramisù, l’ultimo arrivato – L’ultimo nato tra i portabandiera della cucina italiana ha bruciato le tappe: debuttò nel 1970 ma il tiramisù oggi è, come la pasta e la pizza, uno dei cibi italiani più conosciuti nel mondo. Il padre è quasi certo: Roberto Linguanotte, detto Loli, al tempo cuoco del ristorante Alle Becchiere di treviso. Loli improvvisa un dolce per “tirar su” la nuora della proprietaria della debolezza post partum. Aggienge mascarpone al classico uovo sbattuto (che tirava su ai tempi del Canova(, colloca il tutto su savoiardi imbevuti nel caffè e il gioco è fatto. Ma questa paternità è contesta: i discendenti dei titolari del ristorante Roma a Tolmezzo rivendicano il primato e per questo hanno avviato un’azione legale
    (Alessandro Marzo Magno, Daniele Venturoli - focus storia maggio2015)

     
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    L'arte di produrre formaggi e latticini potrebbe risalire a 9.000 anni fa, quando gli antenati dei moderni caseifici hanno cominciato a svilupparsi nelle rive del Mediterraneo settentrionale. Lo hanno scoperto gli archeologi dell'università britannica di York, guidati da Cynthianne Spiteri, che hanno pubblicato i risultati sulla rivista dell'Accademia di scienze americana (Pnas).

    Precedenti studi avevano dimostrato che l'attrazione per il latte aveva portato all'addomesticamento degli animali ruminanti, come mucche, capre e pecore. Questa ricerca combina le tracce della presenza di latte e dei resti di grasso trovati in 500 recipienti di terracott, con l'analisi delle ossa degli animali addomesticati, rinvenuti in 82 siti di scavo. Questi ultimi resti, trovati lungo le rive del Mediterraneo settentrionale e in Medio Oriente, risalgono al periodo compreso tra il VII e V millennio a.C.

    Dall'analisi di tutto questo materiale i ricercatori hanno dedotto che la produzione dei latticini era praticata sia nel Mediterraneo occidentale che orientale, ma sorprendentemente non nella Grecia settentrionale, dove i resti delle ossa animali testimoniano che probabilmente era più diffuso l'allevamento dei suini.

    ''La scelta di addomesticare alcuni animali per il loro latte potrebbe essere stata influenzata dal paesaggio vicino a queste comunita' del Neolitico. I terreni accidentati, per esempio sono più adatti all'allevamento di capre e pecore, mentre quelli ben irrigati sono ideali per le mucche'', osserva l'archeologa Rosalind Gillis. Anche se gran parte della popolazione non era in grado di digerire il latte, ''la nostra scoperta - ha detto un altro autore della ricerca, Oliver Craig, dimostra che il latte veniva lavorato e trasformato in yogurt e formaggio, per rimuovere il lattosio''.


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    Il formaggio più antico del mondo è’ stato trovato sul collo e sul torace di alcune mummie sepolte in un deserto in Cina. Risalenti fino al 1615 a.C., i pezzi di materiale organico giollognolo hanno fornito prove dirette del più antico metodo di fermentazione di latticini. Gli individui furono probabilmente sepolti insieme al formaggio in modo da poterlo gustare anche nel mondo ultraterreno

    Il formaggio di 3.600 anni è stato scoperto durante gli scavi archeologici effettuati tra il 2002 e il 2004 nel cimitero di Xiaohe, nel deserto di Taklamakan, sotto la guida di Idelisi Abuduresule, dell’Istituto di Archeologia di Ürümchi. La sepoltura era stata scoperta nel 1934 dall’archeologo svedese Folke Bergman, ed è uno dei siti archeologici sparsi nel bacino del Tarim. Il cimitero, costruito su una grande duna naturale, ospita centinaia di misteriose mummie con caratteristiche caucasiche, seppellite in bare di legno simili a barche capovolte. Dalla analisi del Dna si tratterebbe di una popolazione euro-asiatica.



    L’area, con le sue sabbie saline e ultra-aride, estremamente calda in estate e fredda in inverno, ha fornito le perfette condizioni per la mummificazione naturale. Le bare erano coperte da diversi strati di pelle di vacca, che le ha sigillate da aria, acqua e sabbia come se fossero sottovuoto. Pelle e capelli, finiti dentro i corpi disidratati, sono rimasti quasi intatti, come i tessuti di lana, i semi di piante, i cesti tessuti con erba e pezzi di materiale organico intorno a collo e petto. Non è stato invece trovato alcun oggetto di ceramica associato alla produzione o al consumo di cibo.

    I ricercatori guidati da Changsui Wang, dell’Accademia Cinese delle Scienze, hanno raccolto 13 campioni di materiale organico giallognolo da 10 tombe e mummie, tra cui la cosiddetta “Bellezza di Xiaohe”, una donna mummificata 3.800 anni fa avvolta in un raffinato sudario e con caratteristiche caucasiche quali naso lungo e capelli chiari. L’analisi delle proteine effettuata a Dresda ha mostrato che il materiale organico non era burro o latte, ma un formaggio prodotto con una sorta di kefir, una bevanda ottenuta fermentando il latte. L’analisi ha inoltre rivelato che il formaggio di Xiaohe non era stato fatto col caglio, un enzima estratto dall’intestino dei vitelli, usato sin dall’antichità per la cagliatura.



    Il formaggio era invece stato prodotto miscelando il latte con un mix di Lactobacillus kefiranofaciens e altri batteri e fermenti. La tecnica è usata ancora oggi per produrre il formaggio di kefir, simile ai fiocchi di latte, e una bevanda probiotica al kefir priva di lattosio, un cibo con un sapore leggermente acido menzionato per la prima volta da Marco Polo nel XIII secolo. Per gli studiosi di tratta della prima pratica conosciuta di caseificazione, che persiste fino a oggi in un modo pressoché inalterato. La scoperta sposta la misteriosa storia del kefir fino al secondo millennio a.C., rendendolo il più antico metodo di fermentazione caseario conosciuto.

    Commestibile per gli abitanti asiatici intolleranti al lattosio, il formaggio delle mummie era molto semplice da fare. La fermentazione del kefir non richiedeva l’uccisione del bestiame per ottenere l’enzima necessario alla cagliatura. Inoltre, il grasso del latte potrebbe essere stato fisicamente rimosso durante la produzione del formaggio, esattamente come si fa oggi comunemente nelle aree rurali della steppa euroasiatica e anche in Tibet.

    (articolo pubblicato in storia il aprile 2, 2014)

     
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