CUCINA NELLA STORIA.......curiosità

....oggetti, abitudini, credenze...del passato

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    La cucina del Seicento, il Barocco in tavola











    Il convivio






    Il convivio è il luogo metaforico in cui la società ama rispecchiare la propria immagine e raffigurare la propria identità, espressione dell’uomo «sociale», che vive, e mangia, solitamente assieme ai suoi simili. L’intensità della valenza comunicativa del cibo e dei comportamenti conviviali è frutto del rapporto estremamente viscerale che gli uomini continuano ad avere col cibo. In Età Moderna il reperimento quotidiano del cibo è stato vissuto da molti come un problema drammatico, angoscioso: campagne e città hanno conosciuto la fame, o almeno la penuria di cibo, con frequenza e intensità difficilmente raggiunte in passato. L’immagine del cibo come attributo del potere è un dato culturale antichissimo e in qualche modo originario, almeno quanto la consapevolezza che avere da mangiare sempre e in abbondanza è prerogativa di pochi. Nell’immaginario medievale l’appetito robusto e la possibilità di soddisfarlo non erano forse una componente essenziale della figura del potente? Ma quell'immagine si era modificata, non più tanto la forza fisica entrava nel novero delle virtù positive e degli attributi del potente ma l’abilità amministrativa e diplomatica; non più la possibilità di mangiare molto ma la disponibilità di cibo sulla propria tavola: da mostrare, da offrire, da gettare. Il carattere eminentemente ostentatorio diviene il segno distintivo della mensa dei potenti a iniziare dagli ultimi secoli.






    La forma






    Forme gastronomiche: la confezione delle vivande, il loro aspetto, il colore... Forme ambientali: la scenografia conviviale, i modi di presentazione del cibo, le gestualità del servizio... Forme di comportamento: le «buone maniere», il corretto uso delle posate, le regole per masticare... Tutto ciò, ed altro, allo scopo di definire un’area conviviale separata e per così dire «protetta»: diversa, distinta, isolata. L’elaborazione delle forme conviviali e delle «buone maniere», che sanciscono l’emarginazione culturale e l’esclusione sociale di quanti non sono ammessi a parteciparvi, è un processo di lunga durata e di complessa natura, che si mette in moto nei secoli centrali del Medioevo e giunge a maturazione fra XV e XVI secolo. Due sono le direttive fondamentali: da un lato l’enuclearsi nella società aristocratica di un modello di vita cortese, contrapposto alla volgarità del «popolo» e soprattutto alla rozza bestialità dei contadini; dall’altro il formarsi nella società cittadina di un modello di vita urbano, contrapposto a quello della nobiltà ma soprattutto alla «villanìa» contadina. I due percorsi nascono e si sviluppano in modo autonomo, ed anzi, come si è detto, in opposizione reciproca: basti pensare all’irriducibile contrasto fra avarizia e generosità, risparmio e spreco, attenzione primaria alla ricchezza e attenzione primaria al potere: valori, gli uni, tipicamente «borghesi»; «aristocratici» gli altri. Ma alla fine anche quei valori tendono a innestarsi gli uni negli altri, a convivere pacificamente, stringendo un’alleanza che ha il suo punto di forza nella comune contrapposizione alla volgarità, alla rusticità, intesi come segni manifesti di una necessaria e inevitabile inferiorità sociale. L’assunto preliminare è che si deve mangiare «secondo la qualità della persona»: sul che sarebbe difficile non convenire, ove per «qualità» si intendesse la somma delle caratteristiche fisiologiche e delle consuetudini di vita proprie di ciascun individuo. Esattamente questa era stata la nozione di base del pensiero medico antico, ereditata e riproposta dalla scienza moderna: le modalità di assunzione del cibo vanno determinate in modo rigorosamente individuale, tenendo conto dell’età, del sesso, della «complessione umorale», dello stato di salute, del tipo di attività svolta; e poi del clima, della stagione e insomma di tutte le condizioni ambientali, rapportate all’impatto specifico che si presume esse possano avere sull’individuo, in base alla sua «qualità» soggettiva. Un programma dietetico piuttosto ambizioso, per il fatto stesso di richiedere molta attenzione, tempo, cultura: Ippocrate ne era perfettamente consapevole quando rivolgeva le sue minute prescrizioni ad una minoranza di persone facoltose e culturalmente preparate, riservando «alla massa degli uomini» poche indicazioni di carattere generale.






    Ad ognuno il cibo suo






    Tutto stava ad intendersi sul senso da dare a quella parola chiarissima e ambigua: qualità. L’immaginario culturale del tardo Medioevo e della prima Età moderna sembra non avere dubbi in proposito: qualità è il potere. Allo stomaco dei gentiluomini si addicono cibi preziosi, elaborati, raffinati; allo stomaco dei contadini, cibi comuni e rozzi. Chi non rispetta queste regole è perduto. L’errore si tramuta presto in dramma: come quando, nel Bertoldo di Giulio Cesare Croce, i medici di corte tentano di guarire la malattia del villano confortandolo con cibi rari e delicati, totalmente inadatti al suo stomaco grossolano; e lui, invano, a scongiurare «che gli portassero una pentola di fagiuoli con la cipolla dentro, e delle rape cotte sotto la cenere». Solo così, mangiando secondo la sua natura, si sarebbe salvato. Possiamo anche ammettere che ciò sia sempre avvenuto: anche nel millennio precedente, la mensa contadina non era di quelle invidiabili per abbondanza e qualità dei cibi. Indubbiamente, però, a iniziare dai secoli centrali del Medioevo essa perde molto in varietà: la riduzione degli spazi incolti e la sempre più accentuata agrarizzazione dell’economia; la progressiva emarginazione delle attività silvo-pastorali dal novero delle attività produttive; il moltiplicarsi delle «riserve» signorili e l’esclusione di tanti contadini dall’uso del bosco: tutto ciò finisce per impoverire notevolmente la dieta contadina, limitando la varietà delle risorse a disposizione. Escluso o fortemente ridotto l’apporto di prodotti animali, quelli vegetali vi assumono un ruolo preponderante e destinato a crescere ulteriormente nel lungo periodo. La farina ne diventa protagonista indiscussa.






    Tanta fame











    L’antidoto più efficace alla paura della fame è il sogno. Il sogno della tranquillità e del benessere alimentare; o piuttosto dell’abbondanza, dell’abbuffata. Il sogno di un paese di Cuccagna dove il cibo sia inesauribile e a portata di mano; dove gigantesche pentole di gnocchi siano rovesciate su montagne di formaggio grattugiato; dove le vigne siano legate con le salsicce, e i campi di grano recintati di carne arrosto e spalle di maiale. Da allora in poi, ben addentro l’Età moderna, l’utopia sembra connotarsi in senso francamente ventresco, con una decisa accentuazione del ruolo del cibo come strumento di soddisfazione del desiderio.
    La cultura dell’ostentazione e dello spreco non si comprende al di fuori della cultura della fame, le «due» culture si rimandano dialetticamente l’una all’altra. La fame, in senso proprio, è un’esperienza sconosciuta ai ceti privilegiati; non però la paura della fame, la preoccupazione di un approvvigionamento alimentare che sia all’altezza delle proprie aspettative. Viceversa, il mondo della fame è un mondo dell’abbondanza e dell’ostentazione: anche la società contadina conosce momenti di sperpero di cibo, in occasione delle grandi festività e delle principali ricorrenze della vita (nascite, matrimoni, morti). Sperpero rituale, certo, e di valenza soprattutto propiziatoria; ma sperpero reale, concreto, che di fatto avvicina il comportamento alimentare dei «poveri» a quello dei «ricchi». Tutti devono vedere, tutti devono sapere: a Napoli, nel Settecento, una schiera di banditori grida per le vie della città l’elenco degli animali abbattuti e la quantità dei cibi che si sono consumati durante le festività natalizie: una prassi ostentatoria non dissimile, nel significato, dalla mostra di cibo che si fa nei palazzi nobiliari in occasione delle grandi feste e dei grandi sperperi: di cui nulla andava veramente sprecato.






    Nuovi cibi






    Agli inizi dell’Età moderna, l’ansia di nuove scoperte e conoscenze, che caratterizza il lungo periodo dei viaggi oltre Oceano, sembra coinvolgere anche l’utopia cuccagnesca. I sogni di abbondanza vengono proiettati nelle terre al di là del mare, che si immaginano ricche di ogni ben di Dio, riserve infinite di cibo. Anche i viaggi e le scoperte «vere» lo rivelano. Di fronte a realtà effettivamente diverse, a piante e ad animali sconosciuti, a cibi inusitati, gli esploratori europei palesano un atteggiamento di grande curiosità. Faticano però a inquadrare, a «classificare» teoricamente le nuove esperienze. Le loro descrizioni mirano a «tradurre» queste esperienze nella propria lingua, a riportarle nell’ambito della propria cultura. Dal momento in cui le nuove piante e i nuovi cibi furono conosciuti dagli europei, a quello in cui diventarono effettivamente importanti nel loro sistema alimentare, passò un lasso di tempo lunghissimo: due, tre secoli furono necessari perché si verificasse l’assimilazione di quelle realtà nel nuovo contesto. In generale si può dire che essi vennero accolti all’interno del sistema solo nel momento in cui il sistema stesso cominciava a scricchiolare, bisognava restaurarlo. In altre parole, non fu la presenza dei nuovi prodotti americani a modificare la cultura alimentare europea; fu, piuttosto, la crisi interna del sistema alimentare europeo a modificare, col tempo, l’atteggiamento di rifiuto o di diffidenza nei confronti di quei prodotti e a far sì che venissero infine accolti. Di questa trasformazione, il loro successo fu la conseguenza, più che la causa. Inoltre, il loro accoglimento fu reso possibile solo da un processo di omologazione culturale che ne cambiò le modalità d’uso, adattandoli a tradizioni prettamente locali. Fu questo il caso, esemplare, del mais. Solo le ragioni della fame convinsero i contadini a sperimentarne la coltivazione nei propri campi, a prevalente destinazione di autoconsumo. Non c’è testo che non ponga una stretta equivalenza fra farine, penuria, carestia, da un lato; coltivazione del mais, dall’altro. Per molti versi analoghe sono le vicende europee della patata. Anche qui lunghi secoli di estraneità o di diffidenza. Anche qui un’introduzione tardiva, legata da un lato a campagne di promozione sollecitate dagli intellettuali e dai proprietari terrieri; dall’altro all’urgenza di risolvere i problemi della fame. Il senno di poi ci ha mostrato quali e quante raffinate elaborazioni gastronomiche siano possibili con questi strani tuberi; ma non possiamo dimenticare lo spirito con cui essi furono accolti dai contadini europei di due secoli fa. Cibo da bestie, parevano; e però anche da contadini. Significativamente, anche la patata venne accolta dai contadini europei con l’aspettativa che la si potesse utilizzare secondo i canoni tradizionali della cultura alimentare nostrana: anche qui un tentativo di omologazione, di «reinterpretazione».






    Cibo e morale






    Il messaggio della Chiesa non fu di quelli che potessero favorire l’instaurarsi di un atteggiamento equilibrato sereno nei confronti del cibo e, più in generale, delle esigenze del corpo. Nella scia di una tradizione già pienamente consolidatasi durante il Medioevo, la Chiesa tridentina continuò a negare la legittimità del piacere come naturale componente dell’equilibrio umano, a proporre modelli di comportamento alimentare improntati alle nozioni di sacrificio e di rinuncia. Centrale rimane in quel contesto culturale la virtù dell’astinenza, mentre il modello eucaristico continua a fare aggio sulla bontà del regime alimentare quotidiano. Né mancano esempi eccessivi di mortificazione corporea, talora decisamente sconfinanti nella patologia. Basti per tutti il riferimento all’anticucina di Giuseppe da Copertino, così come ce la presenta il suo biografo: non solo la privazione, ma il consumo stesso di cibo diviene qui strumento di penitenza, in una accurata ricerca di sapori disgustosi e nauseabondi. Una cultura che trova nella normativa quaresimale un importante momento di verifica e di controllo del comportamento «privato» dei fedeli. Esasperati sono anche gli aspetti formali della questione. La problematica quaresimale sembra assumere nella trattatistica cattolica cinque-seicentesca un carattere sempre più minuzioso e burocratico. Si discute con sottili argomentazioni sulla congruità di ogni singolo cibo ad essere consumato in tempo di digiuno. In ogni caso viene seccamente respinta l’ipotesi umanistica di un «piacere onesto» che contemperi i desideri di soddisfazione corporale con la saggezza e la morale. Ne scaturisce una cultura alimentare profondamente ambigua e contraddittoria: una cultura del «fare ma non dire», dove una sostanziale tolleranza di fatto si sposa a una sostanziale intolleranza di principio. Al piacere della gola e dello stare insieme a tavola non si può negare il diritto di esistenza; ma appunto di peccati si tratta, come per ogni forma di tradimento ai desideri della carne. Né si deve dimenticare che il piacere del cibo e il piacere sessuale sono fra loro intimamente collegati, sia in senso tecnico e meccanico, sia in senso metaforico e analogico: meccanismi fisici e mentali su cui i Padri della Chiesa si erano lungamente soffermati. Certo ci sono anche i moralissimi «contrasti» fra Carnevale e Quaresima ma anche qui è difficile sottrarsi all’impressione di una diffusa simpatia per le abbuffate carnevalizie, più che per le rinunce quaresimali. Il che evidentemente non significa postulare un insondabile senso di colpa nella declamazione dei piaceri gastronomici; ma solo, e semplicemente, che il risultato di questo intreccio di valori contrastanti è una conferma, un consolidamento della schizofrenia culturale di cui abbiamo detto.






    La dieta











    Quello della dietetica è un settore di ininterrotta fortuna in tutti i campi della trattatistica: non solo in quello specifico della letteratura medica, ma in quelli della gastronomia, dell’agronomia, della botanica, e finanche della morale e della religione. Potrebbe sembrare un’ossessione culturale ma è facile spiegarla tenendo conto del vuoto di cui si diceva. Le considerazioni di natura igienico-salutare sembrano felicemente sposarsi con le esigenze del palato, fra i due campi non esiste una reale opposizione d’interessi: la lezione del pensiero antico, che aveva immaginato le esigenze della salute e del piacere come realtà strettamente integrate e indispensabili, all’equilibrio psicofisico dell’uomo, non si era certo perduta nella cultura medievale, sia nell’ambito scientifico e filosofico, sia in quello morale: anche il modello di vita monastico si informa, nelle sue versioni più equilibrate, a un’immagine di «piacere onesto» non troppo lontana da quella rivendicata dagli umanisti del quattrocento. Perciò viene a crearsi nella cultura dell’Occidente cristiano una netta contrapposizione fra salute e piacere; le ragioni dell’una e dell’altro si invocheranno non tanto in reciproco appoggio, quanto in reciproca concorrenza. Anche nel XVIII secolo, il richiamo alle esigenze primarie della salute e dell’igiene ebbe un carattere fortemente polemico contro il piacere gastronomico e l’arte della cucina: quella che serve a «far mangiare più del necessario». La rivendicazione della naturalità contro l’artificio, della semplicità contro l’eccesso di elaborazione, del crudo contro il cotto (artificioso, elaborato) è una componente essenziale del rivolgimento ideologico promosso dal pensiero illuminista contro la società e la cultura «tradizionale». Rivolgimento che paradossalmente sembra recuperare alcuni tratti fondamentali del pensiero cristiano. C’è molto della biblica immagine dell’Eden nel paradiso «naturale» teorizzato da Rousseau ed evocato in tanta letteratura del tempo. I cuochi ne sono banditi, lontani sono gli apparati di cucina e di tavola dell’opulenta società di corte. A queste utopie si affiancano progetti scientificamente rigorosi, che oppongono la lucidità della ragione e la precisione della chimica alla vorace passionalità del mondo feudale; i sapori e i cibi forti sono condannati e proscritti. Come è evidente, ci troviamo di fronte a una contestazione radicale, che va ben al di là dei consumi e degli stili alimentari. Questo è solo il primo livello di un più vasto attacco a valori sociali e culturali che si individuano come ostacoli al progresso civile. «Come può un vero democratico essere carnivoro?» si chiedeva Rousseau. Il discorso è fortemente ideologico prima che gastronomico. Una prova ulteriore che ogni discorso sul cibo è un discorso sulla società, sul mondo, sulla vita. E sulla morte, quando il banchetto è uno strumento per mettersi in contatto coi defunti, per parlare con loro.






    Olio e burro






    Fino al sedicesimo secolo l’olio era usato in tutta Europa sia per cucinare le carni nei giorni in cui si mangiava di magro, sia per condire l’insalata. Nel nord Europa l’olio era il più scadente, scuro e rancido e non veniva usato tanto per la sua bontà ma per la necessità di seguire i dettami religiosi che lo imponeva quasi un giorno su tre. Se nel nord Europa si sognava un olio incolore ed in sapore nel sud invece, essendo di miglior qualità, si gustava rigorosamente d’oliva. Questa abitudine alimentare ebbe termine per i paesi nordici dopo la riforma luterana che non imponeva più rigori alimentari. Una estensione degli allevamenti introdussero l’uso del burro anche per condire l’insalata e una crescente varietà di salse e creme sia in Inghilterra che in Francia.






    Nuove e vecchie bevande






    E’ riconosciuto che nel Medio Evo e fino al 600 l’uso di bevande alcoliche era maggiore rispetto ad oggi, questa abitudine la si deve a parecchie ragioni, c’era la convinzione che fossero bevande terapeutiche, era difficile recuperare acqua pulita e davano euforia. Oltre al vino nel 600 si distillano parecchie bevande figlie dell’alchimia, già era conosciuta l’acquavite fin dal XII secolo ma ora l’uso di Rum, Whisky, Vodka, Maraschino, Rosolio e ratafià fanno concorrenza a vino e birra. Con l’arrivo sul continente di tè e cafè, di cui si riconoscono subito le proprietà stimolanti, cambiano anche i gusti e gli stili di vita. Commessi ed artigiani ma in genere tutti i lavoratori iniziavano la giornata con una razione di birra o vino appesantendosi la testa e lavorando quindi lentamente. L’uso delle nuove bevande che tengono svegli migliora la vita.






    Il mais






    Le carestie perdurarono anche nel settecento e l’utilizzo del mais si diffuse proprio per sopperire alla mancanza di cibo. Il rendimento della pianta americana è di molto superiore a segale e frumento ma per contro se usato come unico alimento porta al male della pellagra che si diffuse proprio nel settecento e perdurò in zone d’Europa anche nell’ottocento ed in Italia addirittura fino agli inizi del nostro secolo.






    fonte baroque.it




    La cucina barocca siciliana












    Nel settecento la grande nobiltà siciliana, uniformandosi ad usi e costumi di tutte le aristocrazie europee, consumava cibi preparati secondo le regole fissate dalla grande cucina francese del secolo precedente. Quest'ultima aveva finito col dominare presso tutti quei paesi dove la lingua ufficiale dei signori era il francese e non c'erano norme religiose a condizionare abitudini alimentari. La grandeur di Luigi XIV si era imposta in Europa come potenza egemone e come cultura dominante: tutto si rifaceva a lei, dai libri, ai viaggi, dai matrimoni agli incarichi prelatizi, dalle ambascerie agli scambi professionali e commerciali , dalle monacazioni alle regole alimentari.

    Non c'era aristocratico palermitano con palazzo proprio che non avesse un cuoco francese, il Monsù, in cucina. Il termine deriva naturalmente dal francese “monsieur “, voce contratta, divenuta idioma dialettale che indicava il cuoco, tributandogli ben altro rilievo rispetto alla turba cenciosa e analfabeta degli sguatteri che affollavano la "sua" cucina; egli era chiamato così anche dai suoi aristocratici datori di lavoro che gli riconoscevano un ruolo differente rispetto agli altri servitori.

    “..il titolo di Monsù era solo per i cuochi di casata, cioè a chi aveva il privilegio di servire in palazzi nobili. Tutti gli altri, anche se alle dipendenze di gente ricchissima, ma non titolata, erano cuochi di paglietta e venivano considerati gente da non frequentare.”

    Al Monsù ci si rivolgeva dandogli del voi e tutti i Palazzi della nobiltà palermitana avevano sempre il “quarto del Monsù”: un alloggio privato, esclusivo per lui, come si rileva dai documenti notarili.

    Una indimenticabile figura di Monsù emerge dalle pagine de “Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa dove c’è il celebre “pran pron” di Monsù Gaston con cui annunzia l’arrivo in tavola dello splendido timballo di maccheroni in crosta servito a Donnafugata.

    Ma i signori siciliani, se nell’ufficialità dei pranzi e delle grandi riunioni conviviali, mostravano apprezzare i delicati sapori francesi, nel quotidiano invitavano i loro Monsù a creare cibi più robusti e dai sapori più decisi in ossequio delle antiche tradizioni alimentari isolane, con i generosi prodotti della terra, i gustosi animali cacciati o d'allevamento, i saporiti pesci del Mediterraneo.

    I Monsù rielaborarono quanto era a loro disposizione con la sapiente arte di chi sa bene utilizzare l’equilibrio dei sapori e degli odori. Si affermò così una cucina "alta" che utilizzava sia il burro che l’olio; che unendo il pomodoro a salse raffinate come la bechamel, permetteva di inventare sughi robusti che insaporivano le carni e i timballi di pasta; che alternava ai saporiti brodi di pesce delicati consommé.

    I Monsù che realizzarono per i loro aristocratici signori una serie di piatti che utilizzando quanto la calda terra di Sicilia produceva e quello che la grande tradizione isolana (un inimitabile mix di tradizioni greca, romana, araba, ebrea, normanna e spagnola) aveva saputo conservare, permisero il costituirsi di una cucina straordinariamente varia di cui moltissimi piatti sono giunti fino a noi come la caponata, molto più di un contorno, arricchita di uova sode, mandorle abbrustolite o addirittura piccoli polpettini fritti, la pasta con la ricotta profumata di cannella, il cacio all'argentiere, caciocavallo con origano saltato in padella, il gattò di ricotta dolce o piccante, e l’indimenticabile cassata, caleidoscopio di colori e sapori di Sicilia.












    fonte Natural voyages

    Edited by tappi - 15/8/2011, 12:02
     
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    La cucina del settecento, il Rococo' a tavola











    La cucina nuova






    Tra il 1680 e il 1715 l’asse culturale europeo si sposta dal Mediterraneo al Mare del Nord. Si assiste così alla progressiva emarginazione dell’Italia dai centri propulsori di nuove forme di cultura. Anche l’arte culinaria segue questo processo: entra in crisi la cucina della tradizione tardo-rinascimentale, e la scuola gastronomica romano-fiorentina cessa di dettar legge in Europa. Al suo posto subentra la cucina francese: la terra dei Galli esporta idee, philosophes, maestri di ballo, parrucchieri e cuochi di classe. Parecchie cucine nobiliari in tutta Europa cadono nelle mani esperte di cuochi transalpini che impongono la nuova moda culinaria. E’ la fine del luculliano pranzo medievale, caratterizzato da un caotico susseguirsi di gigantesche portate. Il nuovo motto è poca vivanda, ma in molte portate: tanti piatti con vivande leggere, da ammirare innanzitutto con gli occhi. Le carni pesanti lasciano il posto a salse preziose, estratti e consommé, brodi ristretti e gelatine. La masticazione viene assai ridotta, tutto è regolato da un ordine geometrico e una disciplina armonica. La ragione, esaltata dal Secolo dei Lumi, viene applicata dai philosophes anche alla “scienza del mangiar bene”. Colore, varietà, leggerezza sono le parole chiave di questa nuova gastronomia.

    Bisogna dire per amor del vero che gli illuministi talvolta predicano bene e razzolano male: non pochi di loro, sedendosi a tavola, dimenticano tutti i propositi di razionalità e leggerezza e si lasciano andare agli eccessi. Neppure Voltaire riesce a sfuggire a indigestioni memorabili.






    La cucina borghese






    Segno dei tempi è anche la nascita di una terza cucina, oltre all’aristocratica e alla popolare: la cucina del ceto medio, formato da avvocati, mercanti, artigiani. Meno raffinata di quella aristocratica, ma capace di abbuffate colossali tra arrosti, salumi e fritti di ogni genere.
    Roba da barbari, questa “cucina media”, per i raffinatissimi cuochi francesi al servizio dei più grandi signori d’Europa. Per questi, la cucina è un’arte quasi militare. Come armi hanno coltelli e girarrosti, per munizioni salse nuove e squisitissime. Ogni banchetto equivale a una battaglia dall’esito incerto, e un’eventuale sconfitta equivale alla perdita dell’onore: come ben dimostra il celeberrimo Vatel, che a causa di un mancato, tempestivo arrivo di pesce fresco si toglie la vita per lavare l’onta della sua débacle.






    La cucina francese











    Ma quando comincia, precisamente, la grande stagione dell’alta cucina francese? E’ormai assodato che la sua nascita risale al tempo dei lavori per il trattato di Utrecht (1713-14). La cucina francese si raffina e si perfeziona proprio alle tavole dei plenipotenziari che negoziano la fine della Guerra di Successione Spagnola, per poi prendere il volo negli anni della Reggenza (1715-1723): da questo momento la nuova scienza dei sapori darà una verve straordinaria alla cultura del secolo. Ma non mancano le critiche: Rousseau, nel suo “Emilio”, scrive: I Franzesi credono di saper essi soli mangiare; ed io credo che sieno essi soli i quali non sappiano mangiare. Questo perché agli altri popoli, per mangiar bene, basta avere buon cibo e buon appetito, mentre ai Francesi è necessario avere anche un buon cuoco. Il conte Roberti, sempre ironico verso il “lezioso francese”, narra di un giovane signore italiano che si doleva con lui di non avere con sé il suo cuoco francese, dicendo: Io l’assicuro che non posso mangiare neppure un pollastro lessato, se non è cotto da lui o da un professore simile a lui. Al che il conte Roberti chiosa: O disgrazie di tali signori! Io mangerei non che un pollastro, ma un cappone, sebben fosse cotto nella castalda. Ma nonostante le critiche, ormai il dado è tratto. L’arte abbandona la gonfia e pesante maniera barocca adottando forme più snelle, leggere e aggraziate; lo stile rococò esige nobile semplicità e asciutto decoro; i larghi e ridondanti abiti maschili si restringono e s’affilano; di pari passo, la cucina della vecchia società non risponde più al gusto nascente. Buon gusto fa rima con sobrietà: lo spendere in eccesso, i pranzi luculliani non sono più la dimostrazione migliore del lusso e della liberalità. Venendo alle cibarie, ciò significa che le carni pesanti perdono terreno, sostituite da ostriche e tartufi. Le conchiglie surclassano i pennuti. Il declino della cucina rinascimentale e barocca è segnato dal tramonto delle grandi cacce, di tutto ciò che esprime movimento, forza, energia, vigore. Il Secolo della Luce Intellettuale preferisce cibarsi di organismi gelidi, inerti, semicadaverici: tartufi e molluschi, gelatine e brodetti. E sono proprio i rinnovatori dell’intelletto a scendere in campo: Riformare la cucina è il motto di Pietro Verri e del suo gruppo. Questi intellettuali vogliono liberarsi dal “grossolano nodrimento” del passato, dalla cucina delle generazioni feudali “assoporativa e dormitiva”.
    Ecco spiegato il trionfo del caffé: ricco di “virtù risvegliativa”, celebra il risveglio della cultura settecentesca grazie alla sua capacità di rallegrare l’animo e tener all’erta il cervello. La bevanda perfetta per “le persone che fanno poco moto e che coltivano le scienze”. Nel manifesto riformatore di Verri, i prodotti locali vengono snobbati: I nostri migliori vini non mi piacciono e preferirei il mediocre vin d’Austria all’ottimo di Lombardia. Il nostro si beve per ubbriacarsi; l’altro è una limonata spiritosa, che rallegra e non più. Bandite le carni viscide e pesanti, il nuovo gusto si orienta verso pollame, animali da cortile e cacciagione minuta. Assolutamente out il “selvaggiume” dai sapori violenti. Il pavone, relegato già dalla metà del Seicento a ornamento dei pranzi nuziali, nel Settecento cede definitivamente il passo al tacchino, e scompare dai menu. Vittime illustri del nuovo gusto sono poi le frattaglie, amatissime nell’età precedente. Le sperimentazioni barocche a base di gran fritture di cervelli e interiora varie vengono definite “barbarie” e censurate senza pietà. Intanto i vascelli olandesi, inglesi, spagnoli e francesi portano in Europa novità gastronomiche a palate. Le spezie innanzitutto, miscelate tra loro nei modi più svariati, e poi legumi strani, tabacco, cacao, peperoni e nidi di rondine, caffé e tè, vaniglia e tacchini. I nidi di rondine sono una vera raffinatezza culinaria importata dall’oriente. Francesco Redi li descrive così: Vi sono alcuni uccelletti non molto diversi dalle rondini, i quali negli scogli lunghesso il mare di Cocincina fanno i loro piccoli nidi di color bianchiccio e di materia non dissimile dalla colla di pesce; i quali nidi strappati da quelle rupi son venduti a carissimo prezzo per nobilitare i conviti, che vili sarebbono e di poca solennità reputati, se non fossero conditi di questa strana imbandigione, che veramente è appetitosa, se da cuoco intendente venga maestrevolmente condizionata. E uno de’ modi di condizionarla si è, che mettono in molle que’ nidi in buon brodo di cappone o di vitella fino a tanto che eglino invincidiscano e rivengano; quindi in esso brodo gli cuocono, e poscia con burro, con formaggio e con varie maniere di spezierie gli regalano (…)






    Cibo e precetti ecclesiastici






    Le prelibatezze della buona tavola non vengono disdegnate neppure dai membri altolocati del clero italiano. Questi, nei tempi di magro, ricorrono a ingegnosi trucchi culinari che, ingannando gli occhi, dissimulano cibi vietati sotto spoglie innocue. Scrive Francesco Ridolfi: Mi ricordo aver veduto di Quaresima a’ conviti de’ grandi ecclesiastici, dove non si vuole scandolezzare, minestre bianche, triglie, linguattole e trote: ma le prime eran lance di cappon liquefatte, le seconde polpe di starne, di francolini e fagiani composte in forme di pesci.






    Gli afrodisiaci






    Nella cucina del tempo non mancano i cibi afrodisiaci, o presunti tali. Le corna e il membro del cervo – animale considerato particolarmente lussurioso – compaiono spesso alle tavole dei grandi, e i cuochi ne compongono diversi manicaretti appetitosi. Con le corna dure si fanno vari tipi di gelatine, “molto gustose al palato” secondo l’opinione di Francesco Redi. L’elisir di lunga vita è identificato invece nella carne di vipera, citata fin da Plinio come cibo che avrebbe il potere di allungare sensibilmente l’arco della vita umana. I ricchi e i potenti dispongono che con questa carne si allevino i volatili che debbono finire sulle loro tavole. Il mito terapeutico della carne viperina, come quello afrodisiaco della carne di cervo, si protrae fino ai primi decenni dell’Ottocento.






    L'occhio vuole la sua parte











    La cucina del Settecento, come si è detto, privilegia anzitutto la vista: la mensa deve offrire un colpo d’occhio di qualità. La ricerca della leggerezza ha come conseguenza il rimpicciolimento del vasellame e dei piatti, spesso ridotti a “tondini”. In compenso, si assiste al trionfo degli apparati effimeri che dall’architettura barocca si trasferiscono alla gastronomia: il centro tavola può avere svariati soggetti, ma con una preferenza per il tempio costruito in zucchero “massé”; il dessert scenografico è edificato sopra un ampio zoccolo en pastillage, i vasi di fiori sono modellati con pasta di mandorle. Capolavori effimeri di arte decorativa, composizioni monumentali che possono richiedere anche 400 ore di lavoro, un quintale di zucchero e quindici chili di pasta mandorlata. Ma l’egemonia francese nel buon gusto e nella delicatezza non scalfisce del tutto il made in Italy: in tutta Europa si celebrano i liqueurs d’Italie e i glaces à l’italienne. La Toscana è rinomata per i liquori, Napoli per i gelati. I liquori da tavola sono il vanto della spezieria italiana, e non mancano mai nelle credenze dei signori.






    Gli odori della tavola






    Cucina per l’occhio, cucina per il naso: anche l’olfatto cambia nel Settecento. I profumi forti e pungenti dell’era barocca vengono respinti con disgusto. Banditi i sentori acri e maschili, il muschio, lo zibetto, l’ambra; prediletti gli aromi femminili, le delicate essenze vegetali. Sono tempi duri per cibi dall’odore forte, come formaggio, cavolo, aglio e cipolla. In una società salottiera e galante, dove la dama acquista un ruolo di grande rilievo, non sono ammessi afrori volgari. Il mondo aristocratico respinge gli odori plebei e assieme ad essi l’intero popolo borghese, trincerandosi nel proprio status privilegiato. Per questa elìte buongustaia, il protagonista assoluto delle “merende galanti” estive è senza dubbio il sorbetto al cioccolato, magari impreziosito dalla vaniglia, dalla scorza d’arancio, o da gocce di gelsomino distillato. Questo mirabile dono che il Nuovo Mondo ha fatto alla vecchia Europa ammorbidisce e raffina il gusto assuefatto da secoli alle droghe pungenti provenienti dall’Oriente. Quanto allo zucchero, si diffonde enormemente grazie al flusso continuo di zucchero di canna proveniente dalle Americhe che ne abbassa i costi, sostituendo parzialmente l’uso antico del miele e dei fichi.

    L’internazionalismo dei cibi e il cosmopolitismo del gusto si nota bene dando un’occhiata alla carta dei vini del Settecento. I prodotti italiani non se la passano benissimo: sulle tavole dell’Italia elegante arrivano vini tedeschi, austriaci, tirolesi, ungheresi; addirittura i bianchi e i rossi del Capo di Buona Speranza. Snobbati in patria, i vini italiani cercano riscatto all’estero: il Granducato di Toscana riesce a trovare un nuovo mercato per i suoi Chianti nell’Inghilterra di Carlo II. Chi resta fedele alla tradizione e ai modi di vivere italiani non può soffrire l’arroganza francese. L’abate Roberti, ben lungi dall’essere un asceta, amante di prosciutti, salami e mortadelle, critica le mode capricciose e frivole provenienti da oltralpe e adottate da molti aristocratici come vangeli. Soprattutto, detesta la disumanizzazione che affligge il suo tempo e certa cultura cosiddetta “illuminata”: la chiusura verso le classi inferiori, il venir meno dello spirito di solidarietà e di carità cristiana tra i ricchi e gli intellettuali ben pasciuti, il cinismo e l’insensibilità di certi famosi maitre à penser. Esemplare e incredibile l’aneddoto raccontato da Roberti a proposito di Bernard Le Bovier de Fontanelle, uno degli intellettuali più incensati di tutto il secolo: L’abate Dubos canonico di Beauvais visse familiarmente con Fontanelle, e si dicevano amici. Un giorno il canonico pranzava testa a testa coll’autore dei mondi, e fu presentato loro un mazzo di sparagi. Uno li voleva colla concia dell’olio, colla salsa l’altro. Convennero i due Socrati (…) dividerli per metà al gusto di ciascuno. Avanti che si apprestassero i due piattelli, l’abate Dubos fu colpito dall’apoplessia. Tutti i domestici furono in sommovimento. Fontanelle, il creator delle idee fine, diede gran prova di zelo, e corse sulla cima della scala a gridare, onde il cuoco lo intendesse: “tutti li sparagi colla salsa, tutti li sparagi colla salsa”. Sparito il cadavere, Fontanelle si mise a tavola e mangiò tutti gli sparagi, provando col fatto che ancora l’apoplessia era buona a qualche cosa.






    Il cibo della vita mondana











    Nel Settecento le corti vivono in un perpetuo giro di visite e di ciance, in cui cioccolato e caffé scandiscono i tempi di un cerimoniale e un’etichetta obbligatori. Chicchere, chiccherette, cioccolatiere entrano a far parte del panorama domestico di palazzi, ville, conventi, case agiate. Nascono quasi delle tossicodipendenze: alcuni ghiottoni si abbandonano a bevute spropositate di “brodo indiano”, come viene chiamata la cioccolata. Oltre a caffè e cioccolato si diffonde il tè e il sidro, che sbarca anche in Italia. Al successo delle bevande calde si aggiunge quello di sorbetti, gelati, sciroppi, cedrate e limonate. Le bevande calde si consumano soprattutto nell’intimità dei salotti, quelle fredde nei gala e nei ricevimenti solenni. Cambia il ritmo della vita, la notte sostituisce il giorno: alcune dame non dormono mai la notte, e a Parigi vengono dette graziosamente “lampadi”. Per queste dame, e per i loro accompagnatori, mangiare con appetito diventa sempre più faticoso. A furia di diete leggere e piatti vellutati, le gentildonne sono sempre più inappetenti e cadono svenute al primo sentore di una spezia un po’ forte. Queste salottiere del bel mondo, languide e frigidamente logorroiche fino allo svenimento, sono ben diverse dalle donne del secolo precedente, che si riempivano di cibi fortemente aromatizzati e avevano il gusto della lussuria istintiva e della carne. Queste dame galanti sono protagoniste di amori più parlati e guardati che goduti. Il libertinaggio, largamente praticato, è un segno d’intellettualizzazione dei giochi erotici, di fruizione oziosa e svagata del corpo.






    La cucina italiana






    La provincia italiana, dal canto suo, continua a perseverare nella propria tradizione culinaria senza curarsi troppo – o meglio, senza sapere granché - della “tavola riformata”. Una minestra lenta o zuppa, uno stufato, un fritto e un arrosto continueranno almeno fino all’Ottocento ad essere la struttura fondamentale di un pranzo dell’Italia settentrionale. Anzi, possiamo dire che questo menu si protrae fino ai nostri giorni: basta andare in una qualsiasi trattoria emiliana, lombarda o piemontese per constatarlo. Il “mangiar largo” sopravvive felicemente, nel Settecento, a tutte le riforme e tutte le mode. Non mancano i forestieri appassionati della cucina tradizionale italiana, come il nobile Charles de Brosses, prefetto della Vaticana e collezionista di manoscritti e libri, nonché raffinato buongustaio e osservatore attento dei costumi alimentari italiani. Della cucina romana apprezza le vivande più tradizionali e comuni, soprattutto gli arrosti, lo storione del Tevere assaggiato in casa del cardinale Acquaviva d’Aragona gli pare degno di Apicio, l’erudito latino autore del trattato gastronomico più famoso della Roma antica. Questo perfetto conoscitore della “scienza del saper vivere” non avverte in nessun modo, in Italia, la mancanza di certe “delicatezze sociali” che secondo Pietro Verri erano di esclusiva proprietà dei francesi, sconosciute agli italiani e soprattutto a quelli meridionali.






    La fine di un'epoca






    Nel primo decennio del XIX secolo, la dolcissima arte di costruire sulla polvere e d’imbalsamare l’effimero entra in un’amara agonia. Con la caduta dell’Ancien Regime cambia la società, e con essa il gusto. La viva e felice immaginazione della società settecentesca non rinascerà né sulle tavole della Restaurazione, né nella severa cucina dell’età romantica. L’età dello zucchero e dei capolavori dell’ingegneria credenziera è andata irrimediabilmente perduta.













    fonte baroque.it

    Edited by tappi - 14/8/2011, 21:26
     
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    La cucina nell' 800






    Il miglioramento delle colture agricole che si sviluppò in questo periodo creò una maggiore disponibilità di prodotti grazie anche all’ampliarsi dei mercati e dei trasporti. Siamo nell’ epoca coloniale, la quale portò all’introduzione e al consumo di nuovi alimenti come il mango, la soia, l’ananas, le arachidi. Mentre per cacao, caffè e the, conosciuti durante il Settecento, ci fu un vero boom di consumi tanto che nacquero numerosi esercizi specializzati nella vendita e nella distribuzione di questi prodotti. Due piante rivestirono una notevole importanza alimentare: la patata e la barbabietola da zucchero.
    Grande beneficio derivò anche dalle nuove pratiche di sanitizzazione del latte. Grazie a Pasteur si realizzò la pastorizzazione del latte su larga scala, mettendo a disposizione di molti un prodotto basilare per l’alimentazione in maniera più sana e sicura. Si svilupparono e si migliorarono i sistemi di conservazione degli alimenti come la refrigerazione, la concentrazione e la sterilizzazione. Con l’approfondimento delle scoperte microbiologiche e la conoscenza delle fermentazioni batteriche iniziate da Pasteur si ebbe un notevole miglioramento della produzione casearia. Infine verso la fine dell’ottocento in Francia nacque la margarina, un nuovo tipo di grasso inventato da un abate francese.
    Verso la fine del XIX sec. si verificò una grande trasformazione nel mondo della gastronomia, la nascita della ristorazione moderna. L’incontro di Auguste Escoffier chef e genio della cucina, con Cesare Ritz mago dell’imprenditoria. Alberghi, treni lussuosi, transatlantici, cominciarono a svilupparsi in tutta Europa ed Escoffier, oltre a sviluppare e studiare il funzionamento delle cucine in queste strutture in ogni suo dettaglio, inventò piatti nuovi ed estrosi da dedicare a principi e personaggi famosi (pesche Melba , i tournedos Rossigni, il soufflè Rothschild …) Escoffier aveva gusto anche nella presentazione dei piatti abbellendoli con più decorazioni. Possiamo dire che con lui si sviluppò la classica cucina francese.











    La cucina italiana d’inizio ‘800, non è seconda a quella francese per ricchezza e varietà di preparazioni. anche se guardata con un certa sufficienza dai buongustai d’oltralpe. La sua principale caratteristica è anzi la molteplicità di tradizioni regionali, ciascuna strettamente legata alle produzioni locali, che garantiscono la genuinità dei piatti più tipici. Accanto a questa differenziazione risalente ai secoli passati, ne troviamo un'altra corrispondente ai vari strati sociali. Gli aristocratici coltivavano un gusto raffinato, ispirato ai modelli della grande cuisine francese, mentre i più poveri, abituati a pasti assai frugali, si concedevano generose mangiate solo in occasione delle principali feste. Accanto a questi due ceti, si va però delineando una borghesia che comincia a dedicare sempre maggior attenzione alla tavola. Cultori di gastronomia e cuochi di famiglie signorili decodificano nelle loro opere il vasto patrimonio della nostra cucina regionale, con un lessico ancora incerto e in parte ricalcato su quello francese. Le varie cucine si distinguono per gli ingredienti impiegati. Nel Sud trionfano la pasta, il pomodoro e l'olio d'oliva, mentre nel Nord si affermano il riso, la polenta e il burro. La carne, bollita o stufata, comincia a entrare nell'uso comune, mentre il pollo e il cappone hanno un loro primato morale nei piccoli complessi familiari come sintomo di benessere e di festività.




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    La cucina dei nobili e delle corti risente dei vincoli di sangue e delle parentele d'origine. I Savoia guardano alla Francia, i Borbone alla Spagna e all'Austria, ma ognuno si innesta con entusiasmo nel filone della cucina locale che, a volte, ne guadagna con ingentilimenti e scoperte. La cucina rinascimentale sopravvive in qualche salsa speziata, nei timballi, nei pasticci, ove carni e salumi si mescolano a lasagne, maccheroni e riso.

    I pasti delle classi sociali alte, fino ad allora tre nell’arco della giornata, diventarono quattro o cinque, e gli orari del loro consumo si assimilarono ai contemporanei.
    - Prima colazione: tra le 7.00 e le 9.00;
    - Pranzo: tra le 12.00 e le 14.00;
    - Cena: verso le 20,30
    - Spuntino leggero: all’1.00 di notte, fatto da chi frequentava gli spettacoli.

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    Contenitori o " scatolette"

    Si chiamava Nicolas Appert, francese, e fù il primo che poco dopo l'inizio dell'Ottocento inventò le "scatolette", i contenitori di prodotti alimentari, dei
    quali oggi sono pieni i nostri frigoriteri e dispense.
    Prima di lui la conservazione dei cibi avveniva solo tramite salagione, essicazione, affumicamento dei cibi, che non preservavao l'uomo dalla minaccia dello scorbuto.
    Nel 1802 l'ingegnoso cuoco-pasticcere Appert, dopo molti esperimenti concluse che i cibi deteriorabili sigillati all'interno di bottiglie di vetro e successivamente immersi in acqua bollente, per un tempo determinato, potevano conservarsi a lungo.
    L'uso dei contenitori di metallo avvenne qualche tempo dopo. Napoleone I, ossessionato dalla moria dei suoi soldati a causa dello scorbuto e della malnutrizione (più che delle battaglie), si interessò agli esperimenti dell'Appert e gli fece assegnare un ricchissimo contributo di 12.000 franchi perche' applicasse la sua invenzione alla sussistenza militare.
    Il cuoco-pasticcere scrisse un trattato "art de conserv" che fu tradotto in molte lingue, e maturò la sua intenzione di passare dal vetro al metallo per la conservazione dei cibi, ma dimenticò di brevettare tale invenzione che gli fu "rubata" e brevettata dagli inglesi John Hali e Bryan Donkin.
    Nicolas Appert morì in miseria nel 1841 senza lasciare nemmeno i soldi per il suo funerale. Tardivamente al Francia, dopo la sua morte, gli conferì il titolo di "benefattore dell'Umanità".
    Oggi, nel mondo, ogni anno si fabbricano circa 300 milioni di contenitori in acciaio e in alluminio; solo in Europa la produzione raggiunge i 4 milioni di tonnellate.




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    L'aceto











    L’aceto inizialmente si manifestò come lo spontaneo e inatteso prodotto di un cattivo invecchiamento del vino.
    Plinio racconta l’episodio del banchetto di Cleopatra, durante il quale la regina, per tenere fede ad una scommessa, giunse a sciogliere la perla del suo orecchino in un bicchiere d’aceto.
    Nonostante questo liquido fosse derivato dal deterioramento del vino, i romani ne facevano largo uso e lo impiegavano per la posca: una mescolanza di acqua e aceto, sopratutto consumata dai legionari per combattere la sete, che secondo i vangeli venne somministrata a Gesù Cristo crocifisso.
    Durante il Medioevo l’aceto, insieme al vino e al succo del limone o dell’arancia amara, era una base per le salse, che non avevano soltanto l’obbiettivo di arricchire le pietanze ma anche quello di coprire, insieme alle spezie, l’odore e il sapore delle carni conservate troppo a lungo.
    La scuola medica salernitana considerava l’aceto sostanza pregiata, tanto che alla metà del ‘300 venne usato in grandi quantità come medicina contro la peste.
    Alla fine del Medievo l’aceto cominciò a scarseggiare e pertanto iniziò la sua produzione. Nacquero vere e proprie corporazioni di fabbricanti che addirittura obbligavano i propri iscritti a sottostare ad un giuramento di segretezza sulle procedure di realizzazione del liquido.
    Nel ‘400 Ficino riconobbe all’aceto “capacità di ristabilire la diminuita sensibilità del gusto e togliere la nausea”.
    Dal Rinascimento in poi l’aceto sembra non abbandonare mai né le cucine né le tavole occidentali, prezioso ingrediente nelle ricette o come base per salse.
    Nell’esegesi biblica l’aceto simboleggia la mente corrotta, per essere il frutto della corruzione del vino, l’inganno, la frode, ciò che il diavolo elargì al popolo dei giudei. Esso rappresenta inoltre l’empità.











    Prodotto ottenuto dalla fermentazione di liquidi poco alcolici, indotta dall’azione di microrganismi, detti batteri acetici, che trasformano l’alcol etilico in acido acetico.
    A seconda del liquido d’origine si può avere l’Aceto di vino, di alcol, di mele ecc. L’Aceto di vino si ottiene lasciando il vino in un recipiente aperto per far depositare i batteri utili all’ossidazione dell’alcol. A poco a poco si forma sulla superficie una sorta di pellicola (colonia di batteri), che viene chiamata “madre” perché utilizzabile per la produzione di altro Aceto.
    Questo versatile condimento è prezioso oltre che per il sapore anche per le sue proprietà conservative, emollienti, lenitive e disinfettanti.
    Noto nell’antichità, viene menzionato sia nella Bibbia che in documenti dell’antico Egitto. Presso i Romani, l’Aceto allungato con acqua costituiva una bevanda rinfrescante, mentre un’apposita ciotolina, detta “acetabulum”, veniva apparecchiata per ogni commensale affinché potesse impregnarvi il pane e sciacquarsi la bocca tra un piatto e l’altro. Nelle ricette di Apicio troviamo annotate le “acetaria”, insalate di verdure e frutta condite con diversi tipi di salse all’Aceto, e tra i legionari romani era molto in voga il “moretum” (insalata a base di aglio, cipolla, ruta, formaggio di capra e coriandolo, condita con olio e Aceto).
    Oggi in cucina gli impieghi dell’Aceto sono molteplici: serve per sgrassare salse troppo pesanti, rende più morbide le carni, e si usa anche per la cottura dei pesci d’acqua dolce. Larghissimo è anche il suo impiego nelle marinate e nelle conserve dette appunto: sottaceti.











    Fra gli elementi unificanti della cucina Italiana dall’antichità romana in poi, hanno dominato l’aceto e il vino cotto. Da quest’ultimo è nato un ingrediente che non ha riscontro in nessun’altra cultura alimentare: l’aceto balsamico. Questa straordinaria eredità degli antichi Romani si depositò in un ristretto territorio dell’Emilia.
    Questo tipo di aceto sembra si sia meritato l’aggettivo di “balsamico” perché, oltre a rendere uniche le pietanza, per lungo tempo si è visto attribuire virtù terapeutiche dalla tradizione popolare. Nel ‘500 Lucrezia Borgia lo assumeva per riprendersi dai dolori del parto, mentre Francesco IV duca di Modena ne portava con sé un paio di ampolle per lenire i fastidi dell’ulcera.
    La base del suo processo produttivo è il mosto di uve, trebbiano o lambrusco, che viene cotto per 24 ore e poi fatto riposare in piccole botti per tutto l’inverno. Quindi, per almeno 12 anni, viene ripetutamente travasato in botti sempre più piccole, di legni diversi, che imprimono ciascuno una nota caratteristica al bouquet dell’aceto balsamico. Rovere (favorisce la concentrazione), castagno (accentua l’agro), ciliegio (esalta la nota dolce), gelso (delicato), ginepro (aromatico).
    Alla fine, da 350 chili d’uva si ricavano, si e no, 15 litri d’aceto. Un liquido bruno, denso, sciropposo, con un profumo penetrante e un sapore agrodolce vellutato. Sulle pietanze crude ne basta una lacrima, perché sprigioni tutto il suo magico gusto. L’aceto balsamico è variamente usato in gastronomia: quale aperitivo, così come fece Giosuè Carducci nel 1872 all’esposizione agricola di Vignola, degustandone uno di 175 anni d’età; quale condimento per insalate, pinzimoni o salse; quale elisir per insaporire formaggi, macedonie di frutti di bosco, creme pasticciere, gelati, panettoni e strudel.











    L'aceto balsamico di Reggio Emilia d.o.p.






    L’Aceto Balsamico Tradizionale di Reggio Emilia DOP si caratterizza per il colore bruno scuro, limpido, lucente. La densità è apprezzabile e di scorrevole sciropposità; il profumo è penetrante e persistente, fragrante, con gradevole acidità e bouquet caratteristico, anche in relazione ai legni utilizzati. Il sapore è dolce e agro ben amalgamato, di apprezzabile acidità ed aromaticità, in armonia con i caratteri olfattivi.

    Il primo antico scritto che se ne occupa risale all’anno 1046, quando l’imperatore di Germania Enrico II, in viaggio verso Roma per l’incoronazione, fece tappa a Piacenza. Da qui rivolse a Bonifacio, marchese di Toscana nonché padre della famosa contessa Matilde di Canossa, la richiesta di omaggiargli uno speciale aceto che “aveva udito farsi colà perfettissimo”. Proprio all’interno delle mura del castello che diverrà famosissimo qualche anno più tardi per “l’incontro del perdono” tra papa Gregorio VII e l’imperatore Enrico IV, si narra venisse prodotto un aceto, elisir e balsamo, tanto agognato dalle teste coronate. Il fatto storico è registrato nel poema Vita Mathildis dal monaco Donizone, il principale biografo della Contessa Matilde.

    Nei secoli XII, XIII e XIV si sa per certo dell’esistenza a Reggio Emilia, Scandiano e nei principali centri estensi di fabbricanti di aceto, riuniti in vere e proprie consorterie i cui affiliati dovevano tenere gelosamente custodito il segreto della pregiata produzione. Dopo l’imprimatur imperiale, per tutto il Rinascimento l’aceto balsamico compare spessissimo nelle tavole di re e duchi, in particolare alla mensa dei duchi d’Este. Con l’avvento nel 1476 di Alfonso I duca di Ferrara, la storia del balsamico ebbe un impulso determinante. Tutta la dinastia che governò il ducato di Modena, Reggio e Massa fino al 1859 arricchì per secoli le cronache di memorie sull’aceto balsamico tradizionale. Ludovico Ariosto, non a caso reggiano, scrive nella terza delle sue Satire dedicata al cugino Annibale Malaguzzi “in casa mia mi fa meglio una rapa ch’io coco, e cotta s’uno stecco inforco e mondo e spargo poi d’aceto e sapa”.

    Nel 1863, in una pubblicazione di Fausto Sestini leggiamo inequivocabilmente che “nelle province di Modena e Reggio Emilia si prepara da tempo antichissimo una particolare qualità di aceto a cui le fisiche apparenze e la eccellenza dell’aroma fecero acquistare il nome di Aceto Balsamico”. Le testimonianze sull’aceto balsamico si infittiscono nell’Ottocento, attraverso gli elenchi dotali delle nobili famiglie reggiane. All’epoca era buona norma, infatti, arricchire la dote della nobildonna che si maritava con botticelle di aceto balsamico pregiato e batterie di botticini dal contenuto prezioso.

    Il resto è storia dei nostri giorni. Una storia che si lega indissolubilmente con il territorio di produzione, con le origini in gran parte sconosciute e con chi ha saputo tramandare di padre in figlio questo prezioso alimento. Dato il prolungato invecchiamento nelle acetaie e le caratteristiche intrinseche che ne derivano, il prodotto non è soggetto a rischi di alterazione durante la conservazione. L’aceto balsamico va conservato in recipiente di vetro, avendo semplicemente cura di chiudere bene il contenitore e conservarlo lontano da sostanze che emanino profumi particolari o sentori pronunciati. Un comandamento ai fornelli valido sempre e comunque per tutti e tre gli Aceti Balsamici Tradizionali di Reggio Emilia è quello di evitare le lunghe cotture; l’aceto deve stare al fuoco solo per pochi istanti, quasi sfumare, per non perdere gli aromi così lungamente affinati.









    Aceto balsamico di Modena dop







    L’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena DOP si caratterizza per il colore bruno scuro carico e lucente. Ottenuto da mosto d’uva cotto invecchiato almeno 12 anni in serie di vaselli (botticelle) di legni diversi, manifesta la propria densità in una corretta, scorrevole sciropposità. Si distingue per il profumo fragrante, penetrante e persistente, di gradevole ed armonica acidità. Il sapore è dolce e agro, ben equilibrato. Per il prodotto invecchiato almeno 25 anni è consentita la citazione “Extra Vecchio”.

    Antica e avvolta dal mistero è la nascita di questo particolare e nobile tipo di condimento. Dal mosto cotto, eredità della cultura romana, è nato un condimento che non ha riscontro in nessun’altra tradizione alimentare: l’aceto balsamico, sviluppatosi nella ristretta zona tra Modena e Reggio Emilia, dove da secoli si preparavano aceti cosiddetti “speciali”. La prima menzione ufficiale di “Balsamico” è ritrovata nel “Registro delle Vendemmie e vendite dei vini, per conto delle due cantine segrete (Ducali) per l’anno 1747 tenuto nel libro degli inventari, presso la corte degli Estensi.

    Con la nascita dello Stato Italiano (1860), il risveglio dei mercati ha via via portato sempre più interesse sul Balsamico, con lo sviluppo di approfondite ricerche storiche e bibliografiche attorno a questo prodotto che, uscendo timidamente dalla segretezza e dalla ritualità delle acetaie patrizie, riscuoteva tanto successo. Nel 1839 il conte Giorgio Gallesio, studioso dell’epoca famoso per la sua imponente opera “La Pomona Italiana”, importante trattato di arboricoltura, si fermò in visita presso la residenza del Conte Salimbeni di Nonantola, suo amico, per studiare le varietà delle uve e dei vini nel modenese. In quell’occasione, rimase così colpito e incuriosito dall’Acetaia familiare che dedicò vari giorni allo studio delle tecniche di produzione. I suoi appunti manoscritti, ritrovati nel 1993 a Washington negli Stati Uniti, costituiscono il documento “tecnico” più antico in cui si descrivono i metodi di produzione dell’Aceto a Modena. Gallesio per primo illustra e classifica gli aceti in 2 categorie: quelli ottenuti da solo mosto cotto e quelli da “mosto fermentato e vin fatto”, definendo il primo come “eccelso”, l’altro come “pure eccellente”. Alla fine dell’800 l’Aceto Balsamico di Modena comincia a comparire nelle più importanti manifestazioni espositive, creando grande interesse anche a livello internazionale. Diversi documenti testimoniano di aceto fatto col mosto e aceto di vino utilizzando, a volte, metodi abbreviati che prevedevano anche l’impiego di spezie. Sempre in quegli anni hanno inizio le prime attività di ricerca scientifica sui prodotti proposti sul mercato. Il più noto produttore dell’epoca era la famiglia Giusti, le cui produzioni di Balsamico di Modena sono testimoniate fin dal 1605 e del quale sono rimasti gli attestati di partecipazione a numerose fiere ed esposizioni.

    L’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena DOP va conservato a temperatura ambiente in un recipiente di vetro, con l’unica accortezza di chiudere bene il contenitore (non è necessario sigillarlo) e di evitare la vicinanza ad alimenti dai profumi particolari intensi. Per le sue qualità e la sua versatilità, questo prodotto può essere utilizzato in cucina per la preparazione di innumerevoli ricette: dalle più povere e semplici alle più raffinate ed elaborate. Si abbina in modo ottimale a molte portate, esaltando i sapori e gli aromi più nascosti delle specialità con cui è utilizzato. L’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena trova la sua massima espressione nell’incontro con ortaggi freschi e lessati, con i risotti, con piatti a base di carne (come le scaloppine) e pesce, ma è ottimo anche gustato su scaglie di Parmigiano Reggiano, sul gelato e sulla frutta (ideale sulle fragole). Generalmente è quasi sempre l’ultimo elemento a comparire nella sequenza degli ingredienti utilizzati per una preparazione gastronomica. Su una verdura cruda, invece, è bene “aggiungere” l’aceto dopo il sale, ma prima dell’olio.













    L'aceto in cucina






    L'aceto è comunemente usato nella preparazione di pietanze, in particolare nelle vinaigrette, e nel processo di marinatura. L'aceto è usato anche come condimento di pesce e insalata. Dal punto di vista alimentare, rientra nella categoria degli alimenti nervini, cioè eccitanti.

    Esempi gastronomici dell'uso di questo ingrediente sono:

    i saraghi all'aceto dell'Antica Grecia
    il brodetto romagnolo
    l'abbacchio alla cacciatora
    la scapece pugliese
    il salame con l'aceto friulano
    il sushi giapponese (aceto di riso)


    Aceto di malto

    L'aceto di malto è prodotto dall'orzo da maltaggio, trasformando l'amido presente nei chicchi di orzo - parzialmente germogliati e seccati - in zucchero (maltosio). Dallo zucchero si ottiene una birra tramite fermentazione alcolica, che viene poi ossidata dall'azione degli acetobatteri e tenuta ad invecchiare. Un'alternativa meno costosa, chiamata 'non-brewed condiment', è una soluzione del 4-8% di acido acetico colorata con del caramello.

    Inglesi e americani usano comunemente l'aceto d'orzo sul fish and chips, sui tacos messicani e sul Kim chi.

    Aceto di vino

    L'aceto di vino è prodotto dal vino bianco o rosso, ed è il più comune tipo di aceto in Germania, in Italia e in altri paesi europei. Come con il vino, vi è una vasta gamma di qualità. Le qualità migliori sono fatte maturare in legno per almeno due anni ed esibiscono un sapore complesso e maturo. Si producono aceti di Champagne e di Sherry dal prezzo non indifferente.

    Aceto di mele

    L'aceto di mele (Axou de meie in lingua ligure) è prodotto dall'affinamento del sidro o del mosto di mela attraverso il processo di acidificazione e spesso è venduto non filtrato.
    Viene utilizzato per insaporire i cibi e aumentarne la digeribilità ed è diventato piuttosto popolare a causa delle sue presunte proprietà benefiche, delle doti disinfettanti e rinfrescanti e delle capacità anti infiammatorie del cavo oro-faringeo.
    L'aceto di mele può a volte essere molto pericoloso per gli occhi e la flora batterica; in alcuni Paesi, infatti, ne è sconsigliato l'abuso e in Canada non ne è consentito l'utilizzo al di sopra di una determinata percentuale di acidità.

    Aceto di pere

    L'aceto di pere è il prodotto della fermentazione del mosto di pere delle varietà a più alto contenuto zuccherino. Questo particolare tipo di aceto è contraddistinto da una gradevole e delicata profumazione aromatica tipica della varietà di pera dalla quale viene prodotto.

    Aceto di miele

    L'aceto di miele si ottiene per fermentazione dell'idromele. Di sapore acidulo, colore dorato e intenso profumo, è ricco di enzimi e sali minerali.

    Aceto bianco

    L'aceto bianco può essere prodotto dall'ossidazione di una bevanda distillata. In alternativa, può essere nient'altro che una soluzione di acido acetico in acqua.

    Aceto balsamico

    L'aceto balsamico è un tipo di aceto invecchiato e aromatico attraverso i barili di legno, ottenuto dall'acetificazione del mosto d'uva e confezionato a Modena o a Reggio Emilia, Italia.

    Aceto sopraffino

    L'aceto sopraffino è un tipo di aceto invecchiato a base di mosto crudo di uve Cabernet Sauvignon, Raboso e Merlot. Subisce in diversi anni una concentrazione naturale in barrique di rovere, dove annualmente si effettuano rincalzi con una miscela di mosto acetificato fresco. Ideato nella Casa Ducale Estense da Cristoforo di Messisburgo.

    Aceto di riso

    I giapponesi preferiscono un aceto di riso più delicato e lo usano in molti casi per gli stessi scopi degli europei. L'aceto di riso è disponibile nelle varianti bianca, rossa e nera. Quello rosso può essere usato come sostituto dell'aceto balsamico. Alcuni tipi di aceto di riso sono zuccherati.

    Aceto di cocco[modifica]L'aceto della noce di cocco, prodotto dalla linfa, o "toddy", della palma da cocco, è usato frequentemente nella cucina dell'Asia sudorientale, così come in alcune cucine dell'India.

    Aceto di canna

    L'aceto di canna, prodotto dal succo della canna da zucchero, è molto popolare nelle Filippine, ma è prodotto anche in Francia e negli Stati Uniti.

    Aceto di uva passa

    L'aceto fatto dall'uva passa è usato nelle cucine del Medio Oriente ed è prodotto in Turchia.

    Aceto di birra

    L'aceto fatto dalla birra ha un gusto maltato distintivo ed è prodotto in Germania, in Austria e nei Paesi Bassi. -

    Aceto del frutto della passione

    più comune in francia, colore albicocca intenso, particolarissimo sapore di frutta e di consistenza pittosto densa

    Aceti aromatizzati

    I popolari aceti di frutta includono quelli aromatizzati con i lamponi e i mirtilli. Alcuni degli aceti più esotici della frutta includono l'arancia sanguigna e la pera. Gli aceti alle erbe sono aromatizzati con erbe aromatiche mediterranee come timo e origano.












    fonte taccuinistorici e wikipedia
     
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    Guy Fawkes il cospiratore e le patate farcite


    Se quella sera novembrina del lontano 1605 Guy Fawkes non avesse provato a mandare all'altro mondo Giacomo I d’Inghilterra probabilmente oggi nessuno si ricorderebbe più di lui…
    La storia di Guy Fawkes è davvero singolare e contemporaneamente inquietante. Per certi versi potrebbe assomigliare a quelle vecchie fiabe che si raccontano ai bimbi per rabbonirli o convincerli a mangiare la minestra. Guy Fawkes nacque nella città di York nel 1570 durante il regno di Elisabetta I Tudor. Per anni si dedicò con relativo successo alla carriera militare e, pur essendo di umili natali, arrivò al grado di ufficiale. Questo perché partecipò alla Guerra degli ottant’anni (rivolta dei Paesi Bassi 1568-1648). Durante la vita soldatesca Fawkes imparò a conoscere armi ed esplosivi. Nel novembre del 1605, assieme a un manipolo di cospiratori cattolici tentò di far saltare in aria il re Giacomo I e i tutti membri del Parlamento inglese mentre erano riuniti nella Camera dei Lord. Grazie alla soffiata di un traditore, il complotto fu sventato e i trentasei barili di polvere da sparo resi innocui. Giacomo I – sovrano protestante – non era per nulla gradito all’entourage cattolico inglese. Questo fu il movente preminente che spinse Fawkes e gli altri fanatici ad architettare l’attentato. Guy Fawkes fu arrestato, torturato e impiccato (gennaio 1606). Infine, lasciato al pubblico ludibrio (come monito) per giorni – come si usava all’epoca. Da allora, ogni 5 novembre (data della fallita cospirazione) si festeggia la salvezza di re Giacomo, e per traduzione si consumano le stuzzicanti jacket potatoes (patate farcite o in camicia), arachidi e caldarroste, ingurgitando pinte di birra. Fino a qualche tempo fa oltre a far bisboccia, i ragazzini dopo aver preparato un fantoccio che ricordava le sembianze di Guy Fawkes fermavano i passanti chiedendo qualche obolo “a penny for the Guy Fawkes”. Con i soldi della questua compravano petardi e botti per ricordare lo scellerato complotto.
    Per quanto concerne le jacket potatoes sopraccitate, sono un piatto realizzato con ingredienti davvero saporiti come il bacon, il formaggio e vari condimenti.
    ( Stefano Buso, taccuini storici.it)


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