Marche ... Parte 2^

ANCONA..UNA ROTONDA SUL MARE..JESI E SUOI CASTELLI…LE GROTTE DI FRASSASI …E INFINE MACERATA

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  1. tomiva57
     
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    Treia





    Treia, il nome della terra

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    Il nome
    Deriva probabilmente dalla divinità greco-sicula Trea-Jana venerata nella Trea romana.

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    La Storia
    380 a.C. circa, il primo insediamento, ad opera dei Piceni o dei Sabini, è lungo un ramo della via Flaminia a circa due km dall’attuale centro storico. Il luogo diventa colonia romana e prende nome da un’antica divinità, Trea.
    II sec. a. C., Trea diventa municipio romano.
    X sec. (inizio), gli abitanti della Trea romana, per sfuggire ai ripetuti saccheggi, individuano un luogo più sicuro sui colli e costruiscono il nuovo borgo che prende il nome di Montecchio, da monticulum, piccolo monte.
    XIII sec., Montecchio si dota di un sistema difensivo comprendente una possente cinta muraria e si allarga fino a comprendere tre castelli edificati su tre colli, Onglavina, Elce e Cassero. Nel 1239 è assediata dalle truppe di Enzo, figlio naturale di Federico II, e nel 1263 da quelle di Corrado d’Antiochia, comandante imperiale che viene catturato dai treiesi.
    XIV sec., Montecchio passa alla signoria dei Da Varano e poi a Francesco Sforza.
    1447, posta dal Pontefice sotto il controllo di Alfonso d’Aragona, Montecchio viene in seguito ceduta da Giulio II al cardinale Cesi, e da allora segue le sorti dello Stato della Chiesa.
    1778, si apre la prima sezione pubblica dell’Accademia Georgica dei Sollevati, importante centro culturale ispirato ai principi dell’Illuminismo.
    1790, il Pontefice Pio VI restituisce al luogo l'antico nome di Treia, elevandolo al rango di città.

    Il mistero dell’infinito
    Mura turrite che evocano il Duecento, ma anche tanti palazzi neoclassici che fanno di Treia un borgo, anzi una cittadina, rigorosa ed elegante, arroccata su un colle ma razionale nella struttura. L’incanto si dispiega già nella scenografica piazza della Repubblica, che accoglie il visitatore con una bianca balaustra a ferro di cavallo e le nobili geometrie su cui si accende il colore del mattone. E questo ocra presente in tutte le sfumature, dentro il mare di verde del morbido paesaggio marchigiano, è un po’ la cifra del luogo. La piazza è incorniciata su tre lati dalla palazzina dell'Accademia Georgica, opera del Valadier, dal Palazzo Comunale (XVI-XVII sec.) che ospita il Museo Civico e dalla Cattedrale (XVIII sec.), uno dei maggiori edifici religiosi della regione. Dedicata alla SS. Annunziata, è stata costruita su disegno di Andrea Vici, discepolo del Vanvitelli, e custodisce diverse opere d’arte tra cui una pala di Giacomo da Recanati. Sotto la panoramica piazza s’innalza il muro di cinta dell’arena, inaugurata nel 1818 e poi dedicata al giocatore di pallone Carlo Didimi.

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    torre dell'Onglavina



    Da Porta Garibaldi ha inizio l’aspra salita per le strade basse, un dedalo di viuzze parallele al corso principale e collegate tra loro da vicoli e scalette. Qui un tempo avevano bottega gli artigiani della ceramica. Continuando per la circonvallazione, a destra la vista si apre su un panorama di campi rigogliosi e colline ondulate. L’estremo baluardo del paese verso sud è la Torre Onglavina, parte dell’antico sistema fortificato, eretta nel XII secolo. Il luogo è un balcone sulle Marche silenziose, che abbraccia in lontananza il mare e i monti Sibillini.

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    Entrando per Porta Palestro si arriva in piazza Don Cervigni, dove a sinistra risalta la chiesa di San Michele, romanica con elementi gotici; e di fronte, la piccola chiesa barocca di Santa Chiara con la statua della Madonna di Loreto: quella originale, secondo la tradizione. Proseguendo per via dei Mille, si attraversa il quartiere dell’Onglavina che offrì dimora a una comunità di zingari, al cui folklore si ispira in parte la Disfida del Bracciale. Dalle vie Roma e Cavour, fiancheggiate da palazzi eleganti che conservano sulle facciate evidenti tracce dei periodi rinascimentale e tardo settecentesco, e denotano la presenza di un ceto aristocratico e di una solida borghesia, si diramano strade e scalinate. Nell’intrico dei palazzi, due chiese: San Francesco e Santa Maria del Suffragio. E tra di esse, un curioso edificio: la Rotonda. Nei pressi, la casa dove visse Dolores Prato, ricordata da una lapide, e il Teatro Comunale, inaugurato il 4 gennaio 1821 e dotato nel 1865 di uno splendido sipario dipinto dal pittore romano Silverio Copparoni, raffigurante l’assedio di Montecchio. Il soffitto è decorato con affreschi e motivi floreali arricchiti nel contorno da ritratti di letterati e musicisti; la parte centrale reca simboli e figure dell’arte scenica

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    Si può lasciare Treia uscendo dall’imponente Porta Vallesacco del XIII secolo, uno dei sette antichi ingressi, per rituffarsi nel verde. Resta da vedere, in località San Lorenzo, il Santuario del Crocefisso dove, sul basamento del campanile e all’entrata del convento, sono inglobati reperti della Trea romana, tra cui un mosaico con ibis. Qui sorgeva l’antica pieve, edificata sui resti del tempio di Iside. Il santuario conserva un pregevole crocefisso quattrocentesco che la tradizione vuole scolpito da un angelo e che, secondo alcuni, rivela l’arte del grande Donatello.


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    la piazza

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    panorama




    Santuario del SS. Crocifisso – Treia (Macerata)

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    Santuario del Ss. Crocifisso - Foto Mario Severini




    TREIA (Macerata) – Il Santuario del SS. Crocifisso di Treia, nelle Marche, risale agli inizi del 1900. Si tratta di un luogo di culto ricco di arte e di storia. Sembra infatti che la sua costruzione sia molto più antica e che un drammatico terremoto abbia fatto crollare tutto il complesso religioso in un secondo, facendo scomparire ogni traccia di tutto ciò che c’era prima.
    Alcune voci riportano che la prima chiesa, fosse una struttura contenente ori e preziosi oggetti posti in quel luogo grazie ai nobili dell’epoca che volevano onorare il santuario.
    Internamente è possibile visualizzare il Crocefisso del Cristo, riconducibile forse a Donatello, simbolo di devozione e di venerazione per tutti i fedeli che si recano sul luogo. Il viso del Cristo sembra raccontare la vita di agonia, ma nello stesso tempo di amore che ha trascorso nella sua esistenza.


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    Accademia Georgica Treia

    L'Accademia Georgica di Treia, detta anche dei Sollevati,ebbe il suo fulcro nel periodo dell'Illuminismo,e fu un vero centro di elaborazione di idee che resero la regione Marche un paese all'avanguardia a livello culturale e di innovazione.Furono elaborati proprio qui, degli studi per incrementare la produzione agricola,a seguito della crisi economica, che colpì l'Europa nella fine del '700.Acquistò notorietà e riuscì a collegarsi con l’Accademia di Firenze,e con quella di Berna. Si trova nella prestigiosa palazzina ottocentesca disegnata dall’architetto Giuseppe Valadier,nella Piazza di Treia. Troviamo un patrimonio librario con 12.000 volumi, un ricco patrimonio archivistico costituito dall’Archivio storico comunale e dal fondo diplomatico-pergamenaceo, l’Archivio degli Accademici,incunaboli, codici,conii,sigilli,la collezione di foto con dedica e autografo di personaggi famosi donata da Raffaele Simboli,quadri del pittore futurista Giacomo Balla.


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    Teatro comunale

    Nel 1792 si costituisce una Società di Condomini per promuovere la costruzione di un teatro pubblico e passano molti anni prima di reperire i fondi necessari per realizzare questa struttura,per la quale è stata prevista una spesa di duemila scudi.Nel 1801 l ’incarico di redigere un progetto è affidato all ’architetto treiese Carlo Rusca,a cui viene affiancato,come soprintendente generale,l ’architetto Giuseppe Lucatelli.I lavori hanno inizio sull ’area della demolita Chiesa di S. Martino e si concludono nel 1815 con la realizzazione del corpo principale con il palcoscenico e la platea.La seconda fase di lavori si chiude nel 1817 con la costruzione dei palchetti e dell ’atrio,la cui progettazione è stata affidata al maceratese conte Filippo Spada.Il teatro presenta una pianta a ferro di cavallo con tre ordini di palchi e il loggione a balconata;la soluzione a lunette cilindriche,per raccordare l ’ultimo ordine di palchi con il plafone piatto,sembra ispirata al Rusca dal Lucatelli.L ’edificio viene inaugurato nel 1821,mentre le decorazioni dei palchi,affidate al pittore Francesco Falconi,sono ultimate nel 1828.

    Nel 1844 il pittore romano Enrico Copparoni,discepolo di Francesco Podesti,dipinge il sipario ispirandosi al quadro del Minardi Corrado d ’Antiochia all ’assedio di Montecchio,mentre nel 1863 il pittore treiese Tobia Lausdei realizza le nuove pitture del soffitto.La facciata,di chiara impronta classicheggiante,è riquadrata da sei paraste a capitello ionico ed ha un primo livello con il portale e quattro finestre ad edicola;il secondo livello presenta cinque finestre architravate,mentre l ’attico è sovrastato da sei fusi in pietra d ’Istria sormontati da altrettante sfere. Sul cornicione della facciata è stata apposta la scritta Apollini et Musis. L ’edificio è in stato di avanzato restauro e se ne prevede l ’apertura entro il 2001.Capienza di 270 posti.

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    rocca di s. Marco



    “Se Giacomo Leopardi fosse stato di Treia – ha scritto Dolores Prato – avrebbe sentito lì il mistero dell’infinito...”.


    Il prodotto del borgo
    Il calcione di Treia è un saporito calzone a pasta morbida cotto al forno, caratteristico del periodo pasquale. Racchiude al centro un ripieno di farina, uova, pecorino, zucchero e olio, che lo rende apprezzabile come spuntino o come dessert. Si accompagna, in quest’ultimo caso, con la celebre Vernaccia di Serrapetrona. La particolarità del calcione è il contrasto tra il dolce della pasta esterna e il salato del ripieno.

    Il piatto del borgo
    La cucina treiese affonda le radici nella tradizione gastronomica marchigiana. Tipici della zona sono, pertanto, il ciauscolo, un gustoso salame a pasta morbida, e i vincisgrassi, un primo piatto di pasta al forno. Tra i secondi, sono da provare nei ristoranti il maialino alla brace e la polenta, entrambi protagonisti di sagre locali, il tacchino in porchetta e il coniglio alla cacciatora. Scroccafusi e cicerchiata sono i dolci tradizionali.

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    camporota di treia



    Il seguente brano è tratto da un articolo di Dario Zanasi del 1961, pubblicato su “Il paesaggio ritrovato” da Renato Gatta



    Il Potenza, che è il fiume leopardiano de La quiete dopo la tempesta, a Passo di Treia trova un varco tra una ruga collinosa che vorrebbe arrestarne la corsa al mare. Dopo un breve tratto di strada – se provenite da Macerata – dovrete voltare a sinistra e cominciare lentamente a salire. Lo spirito del silenzio accompagna il vostro viaggio turistico alla volta di Treia, posta sul cocuzzolo di un colle alto trecentoquaranta metri; e di solito è un silenzio così alto (oggi il cielo, ad esempio, è ritornato bello) che se vi arrestate sotto una quercia o un gelso potrete udire persino il gemito della tortora in una macchia lontana, oppure il battito del picchio affamato di vermi e di formiche sulla scorza dell’albero.

    Scusatemi. Qualora non abbiate fretta vi sconsiglio, di usufruire, dopo pochi chilometri, della scorciatoia che evita una più lunga e rotonda salita fino alle mura della città. Sarebbe un errore. Treia infatti va scoperta con metodo, con cautela, quasi vorrei dire con pudore. Treia è un cerchio di case abbastanza antiche che va possibilmente osservato con l’aiuto delle luci sommesse e non col bagliore che fa socchiudere gli occhi e offende il paesaggio. Giunti a questo punto, col vostro permesso, la salita la continuo da solo, anche per non correre il rischio di essere intimidito e distratto. Proseguo dunque la mia panoramica ascesa a larghi gironi attorno al colle, fino alle radici delle prime case. I quartieri di Treia, addossati con sapiente prospettiva l’uno all’altro, hanno il colore delle foglie secche. Sono quinte di cartone che attendono il tenore, la primadonna vestita di raso azzurro come Eleonora, i cori di un’opera da recitarsi all’aperto con largo impiego di voci bianche e di bassi.

    Piazza della Repubblica – il luogo più alto – è il palcoscenico e il balcone di questa armoniosa cittadina romana e papale. Ecco il municipio, la cattedrale, l’Accademia Georgica, il busto di Pio VI, la leggiadra fontana di bardiglio, cioè di un marmo bluastro uniforme, eretta per festeggiare l’arrivo delle freschissime acque di Papacqua e Fontelci. Una balconata lascia scoperta la piazza a levante permettendo un panorama vasto e incantevole di colli brulicanti di città e di paesi: Fermo, Corridonia, Macerata, Potenza Picena, Montelupone, Recanati, Montecassiano, il Cònero, Castelfidardo, Montefano, Camerano, Osimo, Filottrano. Di giorno, quando l’aria è trasparente, vicino al baluardo del Cònero si scorge anche una tenuissima striscia di mare. Di notte i paesi fiammeggiano come fascine accese, come bracieri, sembrano pugni di stelle cadute sugli uliveti. (…)

    La facciata dell’Accademia Georgica, disegnata con gusto neoclassico da Giuseppe Valadier, aggiunge nobiltà alla piazza che nel 1740 fu fatta abbassare dal cardinale Nicolò Grimaldi affinché il suo cocchio potesse più agevolmente raggiungere la cattedrale. (La piazza della Repubblica appare infatti moderatamente incassata tra i dignitosi edifici che la attorniano, e ciò serve ad accrescere il senso di salone privato che offre al visitatore il punto più elevato della città). (…)

    Il pomeriggio attenua intanto le sue luci filtrando l’atmosfera degli orizzonti. Da una finestra che guarda a ponente l’amico Leonori mi indica un’altra folla di paesi, le nuvole montuose dei Sibillini, il digradare e l’ascendere dei colli. Scorgo la rocca di Petino, scorgo Cingoli, a settecento metri d’altezza e perciò chiamata il balcone delle Marche.

    Peti bruttu se vede da per tuttu, dicono i maceratesi. E della seconda località: Cingoli sta su in alto e ce fa friu – se campa per miraculu de Diu.

    Usciamo dall’Accademia. Andiamo a dissetarci nel “grottino” di Bartolacci detto lu moru, che è una strana osteria a forma di budello, ricavata da un seminterrato dell’edificio del Valadier. L’ultima finestra, presso cui ci sediamo, si apre tuttavia sullo strapiombo dove è il campo di gioco del pallone col bracciale, e quindi sul fulgore dei colli che arrivano fino al mare.

    Il vino bianco sa insieme di verdicchio e d’orvieto. (…) Ogni tanto suona una campanella posta sulla finestra, mossa da una corda che giunge fino al campo del pallone. Il segnale che i giocatori hanno sete e allora la moglie de lu moru si accosta alla botte, riempie un boccale e lo depone in un cestello che vien calato in basso, mediante una carrucola, ai sitibondi atleti che vogliono continuare le gesta di Carlo Didimi.

    Il maestro Leonori mi narra di quella volta che venne Beniamino Gigli a cantare nella piazza di Treia, attratto dalla sua simpatia per il gioco del pallone col bracciale. Era l’anno 1927. Gigli era quasi al culmine della sua gloria canora. (…) Il tenore, insomma dormì poco, e alle quattro – dovendo recarsi a caccia con alcuni amici – era già seduto sui gradini della cattedrale, accanto al suo bravo fucile. Gli amici tardavano. E anche l’alba, ormai pigra alla fine d’agosto, stentava ad annunciarsi all’orizzonte. Allora Beniamino Gigli, onde ingannare quell’attesa, a gran voce cominciò a cantare le sue romanze.

    Tutte le finestre si aprirono come nel Paese dei Campanelli. La tenera atmosfera dell’aurora si riempì di applausi. Uomini e donne, presi dall’entusiasmo, vollero scendere in istrada, vestiti alla bell’e meglio, raffazzonati, ciabattanti, ma tutti presi da una corale allegrezza sebbene avessero ancora gli occhi ingrommati dal sonno.

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15 replies since 11/10/2010, 10:40   7663 views
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