CUCINA NEL MEDIOEVO e NEL RINASCIMENTO

..un salto nel passato

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  1. gheagabry
     
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    Il BIANCOMANGIARE



    biancomangiare_hi




    Il biancomangiare non era una ricetta specifica, ma una preparazione medievale basata sulle presunte qualità del colore bianco, simbolo di purezza e ascetismo. Cibo destinato alle classi superiori, prese il nome dal colore degli ingredienti che prevalevano nella sua elaborazione, come petto di pollo, latte, mandorle, riso, zucchero, lardo, zenzero bianco, ecc.
    Questa era una ricetta dolce o salata interpretata variamente a seconda delle diverse aree geografiche, perché non esisteva IL biancomangiare, ma I biancomangiare.
    Si ritiene che abbia avuto origine in Francia per la frequente presenza negli antichi ricettari di termini come blanche mangieri, balmagier, bramagére.
    Diffusosi in Italia intorno all'XI secolo, venne nominato per la prima volta fra i piatti del celebre banchetto organizzato da Matilde di Canossa per la riappacificazione fra il Papa e l'Imperatore.
    Nel Liber de coquina (XIV sec.), primo ricettario in volgare, il biancomangiare risulta confezionato con petti di pollo cotti e tagliati a filetti, farina di riso stemperata in latte di capra o di mandorle, il tutto messo a bollire a fuoco lento con zucchero in polvere e lardo bianco sciolto, finche acquisti una certa densità. Lo stesso ricettario propone una variante per la Quaresima, nella quale viene escluso il lardo e parte dominante assumono le mandorle per il loro latte, mentre la carne è sostituita da polpa bianca di pesci e l’aggiunta di porri lessati in acqua.
    Nel ‘400 Mastro Martino suggerisce una confezione più elaborata e delicata, con l’eliminazione del lardo e l’introduzione di brodo di cappone, mollica di pane bianco, acqua rosata, agresto e zenzero.
    Altre varianti si incontrano nei ricettari del Messisbugo, dello Scappi, fino ai trattati seicenteschi, in particolare dello Stefani, dai quali si deduce che il biancomangiare era concepito come minestra, secondo piatto o salsa da versare su carni soprattutto lessate.
    La ricetta più nota di epoca contemporanea venne proposta da Careme che elaborò sostanzialmente una gelatina fatta con latte di mandorle dolcificato.
    Oggi il biancomangiare è una preparazione dolce e delicata, curiosamente tipica di due regioni italiane lontane tra loro: la Valle d'Aosta e la Sicilia.
    In Valle d'Aosta prende il nome di Blanc Manger e si prepara in due versioni, la prima è fatta con latte di mandorle, la seconda più elaborata utilizza latte di mucca.
    In Sicilia il biancomangiare è una crema preparata con mandorle tritate, zucchero, amido, buccia di limone, cannella, e messa a raffreddare in forme di terracotta.


    (taccuinistorici.it)
     
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  2. gheagabry
     
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    220px-6-alimenti,_pasta,Taccuino_Sanitatis,_Casanatense_4182.



    Colori e forme degli alimenti medioevali



    I colori avevano grande importanza nella composizione del cibo medievale, un cuoco che per un piatto necessitava del bianco abbinava riso, mandorle o carne di pollo, se invece decideva di usare il giallo usava tuorli d'uovo e zafferano.
    Le salse poi, che non avevano lo scopo di nutrire ma di ravvivare o correggere il gusto delle vivande, venivano preparate di svariati colori e servite in diverse ciotole, le une accanto alle altre. Il commensale sceglieva la salsa più in base al colore manifesto che al sapore presunto.
    La tavolozza dei cuochi medievali era formata da colori naturali ottenuti da bietole, spinaci, prezzemolo e basilico, o da spezie come cannella, zafferano, o ancora da frutti come uva nera, more, uva passa, prugne.
    Nonostante ciò, la gamma dei colori tratti da ingredienti base di cucina era troppo povera, e per la composizione di vivande d'effetto, i cuochi "artisti" non disdegnavano l'uso di coloranti “artificiali”. Troviamo così il succo del legno di sandalo che dava un colore rosa antico, o la radice di alcanna dal colore rosso luminoso che sapientemente usati modulavano dei rossi che arrivavano al violaceo e al blu.
    Nel Medievo, aveva notevole importanza oltre al colore anche la forma dei cibi. Erano amati quelli che riproducevano linee realmente esistenti e rassicuranti, come per esempio torte e pasticci modellati a forma di ferro di cavallo, anello o lettera dell'alfabeto.

    (taccuinistorici.it)
     
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  3. gheagabry
     
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    un salto nel RINASCIMENTO

    lussy ....vieni con me nella macchina del tempo....andiamo a mangiare nel medioevo.....



    andiamo anche ad un matrimonio....come sono educati..





    ad un banchetto...



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  4. arca1959
     
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    però quanto mangiavano...!!!!!!!

    grazzie gabry
     
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  5. gheagabry
     
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    Cucina non è mangiare.
    È molto, molto di più.
    Cucina è poesia.
    (Heinz Beck)


    UN "GRAN MENU' RINASCIMENTALE"
    A NATALE



    L'arte culinaria, dopo i secoli bui del Medioevo, ritrovò splendore e raggiunse finalmente il suo 'apice' nel periodo della rinascita delle arti e del galateo, nell’Europa del XVI secolo.
    Gli antichi libri di cucina vennero rivisitati e con l’estro bizzarro e fantasioso dei cuochi nacquero capolavori che metton alla prova lo chef del XXI secolo.
    Un banchetto rinascimentale ricavato dai documenti del tempo, ed in particolare delle descrizioni contenute in nel libro di Christofaro da Messisbugo. “Banchetti et compositioni di vivande et apparecchio generale“. Le ricette provengono da “De honesta voluptate et valetudine“, (1468), del Platina e dal “Libro de arte coquinaria” di Maestro Martino Da Como, scritto verso la metà del XV secolo, che riassumono tutta la tradizione gastronomica del tempo. Il banchetto rinascimentale fu una girandola di suoni, di colori, di fantasia, di magnificenza: serve per stupire, meravigliare, per far sembrare tutto più eccezionale e straordinario. Si apprezzano i cibi con cinque sensi: la vista, l’olfatto, il tatto, il gusto ed anche con l’udito, poiché ogni vivanda, naturalmente servita con il vino appropriato, veniva presentata, commentata ed accompagnata da musiche e danze specifiche. Ad arrivare in tavola non è più la quantità, ma la qualità e la creatività di chi prepara il piatto, secondo la stagione, l’occasione e la posizione degli astri. I banchetti rinascimentali vedevano la partecipazione di molti nobili con i loro seguiti, uno spaccato interessante e curioso di vita sociale. Attraverso una immagine grandiosa e splendida della propria corte, il Signore poteva infatti imporsi all’ammirazione ed al rispetto delle persone dalle quali dipendono le sue fortune: sovrani amici e nemici, ambasciatori, banchieri, uomini di cultura ed artisti, nobili, cortigiani e plebei. Così come avveniva in quelle feste, verranno realizzati degli intermezzi recitati, cantati, suonati e ballati, adatti a ricreare il clima festoso, colto ed aristocratico tipico di quella nobiltà.

    La cucina del Rinascimento di Hans-Peter von Peschke e Werner Feldmann è un classico dell’argomento che permette la rivisitazione dei piatti e la loro realizzazione. Nel Medioevo le pietanze erano o bollite o arrostite, non c'era un’arte culinaria consolidata, anche se le novità più rilevanti venivano dai monasteri, dove il mangiare bene era finalizzato al sostentamento di una vita molto rigorosa, divisa fra un ritmo di lavoro impegnativo e un orario di preghiera serrato. Il passaggio ad una concezione più raffinata del cibo fu legata all’evoluzione del costume e agli eventi storici e naturali. Guerre o epidemie, instabilità politica, carestie o invasioni determinarono il ritmo del cambiamento e delle consuetudini.

    Nel Rinascimento, frammentato politicamente in tanti piccoli stati ma ricco, grazie ai commerci con realtà molto diverse tra loro, nascono ricette elaborate, salse e intingoli eccellenti che accompagnano carni e il pesce. Influssi arabi, orientali in generale, veneziani, l’uso sapiente delle spezie e dei prodotti del Nuovo Mondo, veicolati dai Genovesi arricchiscono la tavola del signore, resa ancor più preziosa dalla cura per la forma. Vasellame prezioso, fiandra e lino a profusione per il tovagliato, essenze odorose per detergersi le mani, calici di vetro affusolati, ciotoline, saliere, composizioni di fiori, accompagnano la profusione di vivande accompagnate da vini ricercati. La convivialità di chi può permettersi di spendere ingenti patrimoni in quella forma di lusso e ostentazione che è la cura della tavola forma un contrasto stridente con la grande desolazione della vita “del popolo e del comune”.
    La cura per i ricevimenti, i pranzi di nozze, di cui qualcuno passato alla storia, i banchetti in onore di ospiti venuti da lontano, si allarga anche alla ferialità. Il pasto è il momento principale nel quale la famiglia si trova riunita, secondo una rigida etichetta che non risparmia i bambini. I servitori e il maestro delle cerimonie sono infatti il contorno fondamentale di ogni pasto, con un’attenzione maniacale al decoro.

    Per ritornare a quel tempo: la ricetta delle Uova alla Varenne
    E’ una ricetta dal sapore insolito e molto gradevole, semplicissima ma particolare per il nostro gusto moderno. Vi si trovano combinati due ingredienti prediletti dal Rinascimento: le uova, alimento ripreso dalla cucina romana, ma molto comune e sempre reperibile in tutti i periodi. Lo zucchero poi è segno di prestigio che contraddistingue la cucina dei ricchi.
    "Cuoci in una padella il bianco delle uova con il burro, poi mettilo in acqua bollente zuccherata e, cotto che sia, toglilo dall’acqua e versaci sopra acqua d’arancia
    Per quattro persone occorrono: 4 albumi, ½ cucchiaio di burro, i cucchiaino di fiori d’arancio e uno di zucchero, ½ dl d’acqua, 1 cucchiaio di succo d’arancia, 2 dl di acqua e altri cucchiai di zucchero. Far bollire i fiori d’arancio in acqua zuccherata, aggiungere il succo d’arancia, filtrare e lasciare raffreddare. Mescolare acqua e zucchero e fare bollire. Immergere nel burro l’albume a cucchiaiate, poi passarlo brevemente nell’acqua zuccherata in ebollizione. Togliere l’albume, disporlo su un piatto su un piatto e cospergerlo con lo sciroppo di fiori d’arancio."

    Poi ancora la ricetta dei gamberi in salsa di mela e la sfogliata di rana pescatrice; tra i piatti a base di carne la schiena di manzo alla veneziana e l’anatra selvatica in salsa di prugne. Contorni, verdure e passati, ma soprattutto molte creme, di frutta e di verdura. Tra i dolci, niente di dietetico: il famoso rotolo di datteri di Bartolomeo Scappi, la torta di fragole, alla panna, le corna di cervo, ovvero un tipo di biscotto duro ma squisito, con una forte base di uova, la torta al formaggio e quella di zucca.
    Nel libro "La cucina del Rinascimento" viene offerto un elenco di menù:

    Gran menù rinascimentale

    Sfogliata di vitella
    Ravioli con ripieno di parmigiano
    Salsa di erbe aromatiche, sfogliata di salmerino
    Polli variopinti
    Selvaggina al pepe
    Crema di piselli
    Crema di fichi
    Crema di amarene
    Tortino di riso
    Torta di pere
    Torta all’inglese



    Bartolomeo Scappi fu un cuoco dai requisiti e dalla tecnica prodigiosa che ha fatto scoprire il piatto freddo, le torte salate e lo zabaglione, dalla fama che perdurerà ben oltre la sua laboriosa esistenza. Il suo libro Opera di Bartolomeo Scappi, maestro dell’arte del cucinare, cuoco secreto di Papa Pio Quinto, divisa in sei libri si poté fregiare dell’insegna pontificia, e recava l’immagine “del corpulento e barbuto autore”. La cura estetica era per lo Scappi qualcosa di irrinunciabile assieme al piacere del palato.
    Un altro Menù:


    Rognoni di vitello su crostini
    Tortellini con ripieno di maiale
    Zuppa di funghi
    Pesce in brodetto
    Agnello macinato
    Riso gratinato
    Cavolo alla romanesca
    Rotolo di datteri


    Nel Rinascimento si tentò per la prima volta di mettere un po’ d’ordine nella sequenza dei piatti, ancora piuttosto arbitraria nel Medioevo, per cui i menù del classico banchetto rinascimentale iniziava con l’antipasto a buffet di “bocconcini”, proseguiva a tavola con le portate principali, sempre più leggere e si concludeva con una macedonia di frutta o la torta. Rimaneva tuttavia l’abitudine di preparare portate costose e di effetto scenografico, mentre si continuavano a portare in tavola diversi piatti contemporaneamente per soddisfare e sorprendere ogni esigenza possibile dei commensali.
    (Cristina Borzacchini - Rif. Hans-Peter von Peschke, Werner Feldmann, La cucina del rinascimento, Guido Tommasi Editore)
     
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  6. gheagabry
     
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    I TEMPLARI A TAVOLA



    Se il nobile, colui che combatte, deve mangiare carne per nutrire la sua forza e il monaco, colui che prega, si astiene dalla carne proprio come rifiuto della violenza e dei piaceri sessuali, il monaco-cavaliere, riunendo in sé queste due anime, deve necessariamente mediare tra le due alimentazioni.
    I monaci guerrieri, campioni di celebrate imprese militari in Terrasanta, nella società medievale si distinguevano anche per l’adozione di un’alimentazione equilibrata e sana.
    I cavalieri d’ogni casa del tempio si cibavano soprattutto dei prodotti approvvigionati localmente, e in base alla loro Regola il posto d’onore sulla tavola spettava al pane. Venivano privilegiati legumi, pesce, verdure, uova e formaggi, mentre l’uso della carne era limitato a tre volte la settimana.

    L’articolo 153, cita "le porzioni di carne dei fratelli del convento devono essere tali che con gli avanzi di due fratelli si possono nutrire due poveri". Spesso potevano essere serviti anche due tipi di carne "cosicché chi non ne mangia una può scegliere l’altra […], o tre […] quando ce n’è a sufficienza e i commendatori lo permettono".

    Diversi e prolungati erano anche i periodi quaresimali, quindi il pesce era un alimento abituale nella dieta templare e, per averne in quantità sufficiente, si sa che i Templari avevano potenziato le tecniche per la pesca, sfruttando le peschiere dei mulini, per cui potevano sempre disporre, nelle loro mansioni o commende, di pesce fresco di buona qualità in ogni periodo dell’anno.

    Pesce in salsa di frutta secca

    Disporre i filetti di pesce ( orata o branzino) in una teglia unta d’olio, salare e bagnare di vino bianco.
    Cuocere in forno sino a quando risulterà morbido.
    Nel frattempo preparare la salsa pestando in un mortaio.

    Dosi per 4 persone
    50 gr mandorle, 50 gr pinoli, 2 fette di mollica di pane precedentemente ammollata nel latte, e 1 spicchio
    d’aglio (ricordando di togliere l’anima)
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    Quando avrete ottenuto un composto omogeneo unirvi il succo di ½ limone e allungare il tutto con il fondo
    di cottura del pesce tanto quanto basta a rendere l’impasto morbido e cremoso.
    Aggiustare di sale e travasare la salsa in una ciotola da servizio.
    Su un piatto da portata sistemare un letto di foglie di lattuga, adagiarvi i filetti di pesce, guarnirlo con
    spicchi di limone, olive nere, e servire con la salsa a parte.




    A metà del XIII sec. ogni monaco guerriero aveva la propria ciotola di corno o probabilmente in legno di quercia, e disponeva di un cucchiaio, di un coltello e di due coppe (una per i pasti consueti e una per quelli di festa).
    I cavalieri, i sergenti e gli scudieri mangiavano separatamente. C'erano perciò due servizi, detti «conventi», mentre nelle grandi commende se ne aggiungeva un terzo, in ragione del numero dei fratelli e della varietà di mansioni.
    Nel refettorio il posto d'onore spettava abitualmente al commendatario (o precettore) della casa.
    I primi arrivati e i più vecchi sedevano con le spalle al muro, e gli altri li fronteggiano.
    Il cappellano impartiva la benedizione, e i presenti si alzavano per recitare un Pater noster.
    A turno, uno dei fratelli prendeva posto nella cattedra per fare la lettura prevista dalla Regola.
    I commensali sedevano uno di fronte all’altro, su lunghe tavole ricoperte da tovaglie bianche, tranne il Venerdì Santo quando, in segno di umiltà, consumavano il pasto sul nudo legno.
    Ognuno aveva i propri suppellettili e un pezzo di pane. Sulla tavola non c’erano recipienti, perché le bevande venivano versate dai servitori.
    Gli uomini in bianco tagliavano il pane e lo intingevano nei grandi piatti che contenevano diversi tipi di carni e verdure.
    Era proibito parlare e perciò venivano utilizzati gesti convenzionali per chiedere quello di cui si aveva bisogno.
    Non ci si poteva alzare prima del commendatario, salvo che non si perdesse sangue dal naso o che si verificasse qualche evento straordinario.
    Accanto al precettore, un fratello mangiava per terra accovacciato sul pavimento, in segno di una penitenza formalmente prevista dalla Regola; era infatti prerogativa del maestro fare la carità di un po' di cibo al penitente.
    I Templari dovevano tagliare di netto con gesto elegante il pane, il formaggio, la carne e il pesce, perché gli avanzi venivano destinati ai poveri.
    Il regime alimentare dell’Ordine bandiva ogni ricercatezza gastronomica; ghiottoneria, voracità e intemperanza erano vietate.
    Il cibo dei cavalieri era per principio più abbondante di quello dei domestici. Anche se la qualità era per tutti uguale, i monaci guerrieri avevano tre razioni mentre i servitori due, anche perché questi ultimi non sottoposti all’obbligo degli stessi digiuni.


    Vino e birra erano le bevande più consumate, e potevano essere aromatizzate con anice o rosmarino.
    Il vino veniva anche bollito e speziato con cannella, chiodi di garofano, o con l’aggiunta di miele.
    L’espressione “bere come un Templare” non corrispondeva ad un comportamento reale, perché l’ubriachezza nell’Ordine non era tollerata e veniva punita molto severamente, anche con l’espulsione.

    "…e se un fratello è abituato a bere tanto da diventare ubriaco e non vuole correggersene, bisogna punire la sua colpa…"
    (Regola catalana – una versione della Regola generale)


    Il vino per i Templari era importantissimo perché indispensabile nelle funzioni religiose. Ogni precettoria, aveva l’obiettivo d’essere autosufficiente, e perciò quasi dappertutto si cercava di produrne. Come accadeva anche per gli altri ordini monastici, documenti testimoniano la presenza di numerosi vigneti posseduti dell’Ordine, in terre non sempre lavorate direttamente ma anche affidate ai contadini del luogo.
    In mancanza di vigneti, pur di mantenere l’autonomia produttiva, ci si dedicava alla preparazione d’altre bevande. Un esempio lo abbiamo nella precettoria inglese di Cowton, dove c’era un apposito locale per la fabbricazione della birra (consumata soprattutto nel nord Europa per le ovvie condizioni climatiche che rendevano troppo complessa la produzione del vino).



    fonte taccuinistorici.it, web
     
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    Leonardo gourmet

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    di Gastone Saletnich


    Si è recentemente indagato sul legame profondo e quotidiano che Leonardo da Vinci aveva con il vino, del quale era grande conoscitore e produttore, ma la sua passione e il suo genio lo portarono a interessarsi anche ai temi del cibo, della cucina, dell’alimentazione più in generale, tanto da poter ravvisare in alcuni dei suoi scritti e disegni richiami importanti per la definizione di quella che non è sbagliato chiamare cultura gastronomica in senso moderno.

    Nativo del piccolo borgo agricolo toscano di Vinci, possiamo ipotizzare che sin dalla sua infanzia sulla sua tavola non siano mai mancati i prodotti tradizionali tipici di quei luoghi: pane, olio formaggio frutta uova.

    La prima cosa che bisogna evidenziare è che il modello alimentare di Leonardo, oltre a rifarsi alle tradizioni agricole della sua terra natia, deve essere inserito in un contesto gastronomico più ampio, contesto che vide l’Italia del XV-XVI secolo assurgere ad archetipo per tutte le maggiori corti europee e che merita di essere brevemente illustrato.

    La storia della cucina Rinascimentale nel nostro Paese, vede nel periodo in questione un proliferare di testi e ricettari finalizzati alla miglior preparazione dei cibi, ai principi di qualità delle materie prime da utilizzare, alla disposizione degli strumenti adeguati alla loro realizzazione, ai ruoli a ed alle funzioni del personale di servizio, alla ottima disposizione della tavola e della sequenza delle portate.

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    In Italia più che nel resto d’Europa, fanno la loro comparsa nelle diverse corti, cuochi e professionisti della tavola che scrivono numerose opere dedicate alla gastronomia. Nei loro scritti, che riscuotono un enorme successo editoriale, la tavola non è solo il luogo deputato al nutrimento, ma anche e soprattutto l’ambiente ideale destinato alla civile conversazione, scuola del saper vivere, delle buone maniere improntate agli ideali cortesi di bellezza, grazia e disinvoltura; in definitiva il banchetto Rinascimentale è una rappresentazione del potere che si esprime per mezzo dell’ostentazione dei simboli della tavola attraverso i quali è esaltata la grandezza del principe. Roma, Mantova, Milano e Firenze solo per citare alcune città, esercitano un influsso senza precedenti in tutti gli ambiti, non ultimo quello relativo all’alimentazione.

    E’ in questo panorama culturale che va posto il rapporto tra Leonardo il cibo e il suo interesse per le pratiche alimentari. Resteremmo però delusi se immaginassimo il genio toscano intento a preparar intingoli o a redigere ricettari; il rapporto che il Maestro ebbe con il cibo va ricondotto in termini prevalentemente scientifici, salutistici e tecnici, caratterizzati da un profondo rispetto per la natura e per ogni forma di vita.

    Dai suoi scritti emerge infatti in modo chiaro l’aspetto virtuoso, per non dire sacrale, della percezione che Leonardo ha del cibo, fonte di benessere, contenitore e datore di vita:

    “La formica trovato un grano di miglio, il grano sentendosi preso da quella gridò – se mi fai tanto piacere da lasciarmi fruire il desiderio di nascere, io ti renderò cento di me medesimi- e così fu fatto “
    (Cod. At. fol. 188 v)..


    Il-Cenacolo-di-Leonardo-dettaglio

    Esperto appassionato di botanica Leonardo studia le materie prime, inventa macchine e utensili per la loro lavorazione, ragiona sulle caratteristiche dei territori di produzione, codificando disciplinari di alcuni prodotti. Il suo approccio a ciò che ci nutre lo porta ad esplorare le proprietà degli alimenti in relazione alla salute del corpo.

    A questo proposito scrisse favole, "profezie", e numerosi indovinelli e rebus ispirati al tema del cibo, nonché diversi prescrizioni alimentari quanto mai attuali “ Se voi star sano osserva questa norma: non mangiar sanza voglia e cena lieve, mastica bene e quel che in te riceve sia ben cotto e di semplice forma” ( Cod At. fol. 213 v.), non mancano neanche riflessioni a carattere scientifico “Al corpo […] se tu non li rendi nutrimento eguale al nutrimento partito, allora la vita manca di sua valetudine; e se tu levi esso nutrimento, la vita in tutto resta distrutta”.
    Su quest’ultimo passaggio è utile fare qualche considerazione, visto che può essere considerato a buon diritto come primo rilevante contributo del nuovo approccio scientifico, nato con il Rinascimento.

    Leonardo da Vinci, per primo, riflette sulle funzioni organiche del cibo e sul suo apporto calorico, intuisce che la nutrizione altro non è che il processo di utilizzazione e trasformazione dei nutrienti nel corpo, esprimendo così il fondamentale concetto di metabolismo energetico, che si studierà solo a partire dal XIX secolo.

    Sempre nel Codice Atlantico, è possibile trovare precisi riferimenti ad erbe e spezie: tra queste curcuma, aloe, zafferano, fiori di papavero, fiordalisi, ginestre, olio di semenza di senape e olio di lino.

    Considerate le sue origini, Leonardo dedica particolare attenzione a due prodotti tipici della sua terra: l’olio d’oliva e il grano. Sul primo le sue riflessioni si focalizzano sui i processi di produzione e sulla tecnologia d’estrazione, basti pensare ai disegni relativi a macine, mole e congegni di natura diversa ( Cod, Madrid I, fol. 46v.) e ad alcune note manoscritte: “Sappi che tutti gli olii che sono creati ne semi o frutti, sono chiarissimi di lor natura, ma il colore giallo che tu vedi loro non nasce se non dal saperlo trarre fuori” ( Cod. At. fol. 304v.).

    in_cucina_con_leonardo_da_vinci_cuoco_provetto_3

    Stesso discorso vale per il grano, per il quale Leonardo disegna un congegno meccanico per la macinazione che troviamo nel Codice Atlantico (fol. 87r) con la dicitura “modo di macinare grano”, del resto nei suoi numerosi elenchi per l’approvvigionamento che troviamo nei suoi scritti o al margine dei suoi disegni, il pane non mancava mai.


    Ancora nel prezioso codice conservato a Milano nella Biblioteca Ambrosiana, troviamo diversi disegni, come quello del moderno cavatappi, del trita aglio, dell’affettatrice e perfino di un macinapepe. Tra gli appunti e i disegni di meccanica, anatomia e geometria, sono emersi anche gli studi e gli esperimenti per tenere calde le pietanze ed eliminare il fumo e i cattivi odori dalla cucina. Ma non c’è dubbio che il suo apporto alla gastronomia più suggestivo sia il famoso girarrosto meccanico (Cod. At. fol. 21 r.), ossia uno spiedo dotato di eliche rotanti che giravano con il calore della fiamma.

    A proposito di carne va definitivamente sfatato il falso mito di Leonardo vegetariano. Questo convincimento nasce sulla base di alcuni elementi, tra i quali una lettera dell’esploratore Andrea Corsali diretta a Giuliano de Medici del gennaio 1516 nella quale si parla di Leonardo come di un convinto assertore del vegetarianesimo:
    “E’ habitata da gentili chiamati Guzaratti: sono grandissimi mercanti. Vestono parte di epsi alla apostolica et parte ad uso di Turchia. Non si cibano di cosa nissuna tenga sangue et non consentono infra loro nuocere a nissuna cosa animata, come el nostro Leonardo da Vinci: vivono di risi, lacte et altri cibi inanimati”.

    In realtà il genio toscano era un consumatore di carne come si evince dalle numerose liste di approvvigionamento cui abbiamo fatto cenno, dove in più di una volta compare questo alimento, anche se possiamo ipotizzare che, dato il suo grande amore per il mondo animale, ne limitasse l’assunzione . “L’omo e li animali sono propi transito e condotto di cibo, sepoltura d’animali, albergo de’ morti, facendo a se vita dell’altrui morte, guaina di corruzione” (Cod. At. fol. 207v.).

    in_cucina_con_leonardo_da_vinci_cuoco_provetto_2

    Se è vero che Leonardo nella dimensione domestica abbia seguito un regime alimentare ben regolato, per non dire morigerato, ben altro approccio al cibo ebbe come “Mastro di cerimonie” presso la corte di Ludovico il Moro, per il quale nel 1489 organizzò a Tortona il banchetto nuziale del duca Giovanni Galeazzo con Isabella d’Aragona. Ludovico lo incaricò, di realizzare non un semplice banchetto, ma qualcosa di mai visto prima, un trionfo non solo di vivande, ma anche di musica e di poesia.

    Sembra che su precisa disposizione di Leonardo, per la prima volta nella storia, le portate furono servite in tempi successivi, anziché essere disposte tutte insieme all’inizio della festa. Ogni portata, accompagnata da canti, musiche, balli e poesie, fu preceduta da un carro allegorico ispirato al tema mitologico-encomiastico scelto a seconda delle vivande. Di questo evento, con relativo menu delle pietanze servite, ci è rimasta l’opera in versi, di Baldassarre Taccone, poeta della corte sforzesca, tratta da un incunabolo lombardo del 1489 oggi conservata a Lugano presso la Fondation BING (Bibliothèque Internationale de Gastronomie).

    banchetto-barocco

    Ordine de le imbandisone se hanno a dare a cena

    Prima imbandisone
    Primo gambari
    triumpho uno vitello inargentato qual
    serà pieno de ucelli vivi con duy vitelli cocti
    pieni de pernice e fasani cocti donato da
    Mercurio…..
    Item per tavole de sotto pernice neli piatelli o ver fasani con li gambari
    Lo alessio son suo sapore biancho e pernice
    Una a brodo lardero per menestra
    triumpho uno agnello dorato donato da Iasone
    Uno intermezzo
    Teste de vitelli cocti col corio
    triumpho testa una de porcho salvatico
    donato da Atalanta
    un fier cinghial mandato da Diana…
    Uno altro intermezo de lepore galatina
    triumpho uno cervo cotto donato da Diana
    el troppo ardire d’Acteon mi spiacque
    perché me vide dentro al fonte ignuda
    in cervo lo mutai con le sparse aque
    Alcun dicon per questo chio fu cruda
    ma non fu vero e le dovuta cosa
    chel temerario in bestia el corpo chiuda
    pur al suo fin esser gli vo pietosa
    Rosto sutto de caponi lonzi de vitelli columbi
    salsa verde limoncini confecte et olive
    Triumphi pavoni dui che conducano uno
    carro presentato da Iris
    Nuntia de Giunon sono io avisa
    celsa madona intorno alla mia veste
    portami el tuo signor per sua divisa…”.


    In qualità di Maestro di cerimonia e responsabile degli allestimenti presso la corte sforzesca, Leonardo affronta anche lo spinoso problema del bon ton, sottolineando come sia necessario presentarsi a tavola puliti, lindi e profumati, “to’ buona acqua rosa e mòllatene ne le mani; di poi togli del fiore di spigo e fregatelo fra l’una mano e l’altra, ed è buono” (Cod At. fol. 807 recto).

    Proprio all’acqua di rose è riconducibile l’unica ricetta realmente creata da Leonardo, una bevanda estiva che, al di là delle fantasiose suggestioni che lo vedono come inventore di grandi piatti e addirittura come gestore di un ristorante, notizie riportate nel fantomatico Codice Romanoff, è l’unica creazione riconducibile in ambito gastronomico al Maestro.

    A questo punto è utile qualche precisazione su questo manoscritto, la cui autenticità ad oggi è fortemente messa in dubbio. Si tratterebbe della trascrizione in italiano fatta da tal Pasquale Pisapia nel 1931 di un piccolo compendio di ricette, annotazioni di galateo a tavola, regole igieniche del tutto nuove per l'epoca, attribuito al grande artista-scienziato e conservato presso l’Hermitage di San Pietro Burgo in cui sarebbe arrivato nel 1835.

    I responsabili del museo negano l'esistenza di una simile opera di Leonardo nel loro istituto, rendendo a questo punto davvero difficile poter dimostrare l'autenticità del manoscritto.
    Secondo il Codice, a Firenze il giovane Leonardo sarebbe stato, come già detto all’inizio, garzone alla taverna delle Tre Lumache su Ponte Vecchio, di cui in un secondo momento sarebbe addirittura diventato il cuoco; avrebbe inoltre aperto una locanda con Sandro Botticelli, chiamata Le Tre Rane di Sandro e Leonardo.

    Tornando alla bevanda la ricetta prevede l’uso di “Zucchero, acquarosa, limone e acqua frescha colati in tela biancha: e questa è bevanda di Turchi la state” (Cod. At, fol.482r.).
    La ricetta di questa bibita rinfrescante è databile agli ultimi anni di vita dell’artista-scienziato, cioè al periodo francese, attorno al 1517. La descrizione che è arrivata sino a noi è precisa negli ingredienti e nel sistema di filtraggio; doveva essere servita ‘fresca’ e Leonardo la definisce bibita estiva per i Turchi, con evidenti riferimenti all’Oriente.



    Prima di concludere non potevano mancare richiami al cibo nelle opere pittoriche del grande Maestro, dove diventa materia di un linguaggio altamente spirituale: è il caso del Cenacolo, dove sulla tavola domina incontrastato del pesce tagliato in tranci (alcuni dicono anguilla) guarnito con agrumi, piatto diffuso nella cucina rinascimentale. Questi due ingredienti hanno un forte aspetto simbolico cristiano: il pesce è simbolo cristico, e l’arancia rinvia al Paradiso terrestre.

    Se è vero che il cibo dà alle storie una consistenza fisica che diviene suggestione, allora è possibile ritrovare questa suggestione nel rapporto che Leonardo ebbe sia con il vino che con il cibo. Ma se nel primo caso l’apporto dato dal Maestro risulta evidente, nel caso dell’alimentazione sembra più sfumato ma non per questo meno importante. I precetti, le novelle e i disegni ci consegnano un Leonardo interessato più al cibo come nutrimento e dono della natura che come prodotto finale di elaborate ricette. Quel che colpisce di questo rapporto non è tanto l’aspetto esteriore riconducibile alla magnificenza dei banchetti rinascimentali, quanto quello più intimo ed interiore, che ci porta a cogliere di questo legame gli elementi più spirituali profondi in relazione alla grande armonia che regna nella natura.

    (24 giugno 2019) © RIPRODUZIONE RISERVATA

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    Leonardo si occupò inoltre di galateo a tavola, stilando un elenco di regole ben preciso:

    Nessun ospite dovrebbe sedersi sul tavolo, e neppure con la schiena appoggiata al tavolo, tanto meno in braccio a qualche altro ospite.
    Né dovrebbe mettere i piedi sul tavolo.
    Nessuno dovrebbe rimanere a tavola troppo a lungo.
    Nessun ospite dovrebbe posare la testa sul piatto.
    Nessun ospite dovrebbe prendere il cibo dal piatto del vicino senza prima chiedergli il permesso.
    Nessun ospite dovrebbe mettere spiacevoli bocconi mezzo masticati nel piatto del vicino senza prima chiedergli il permesso.
    Nessun ospite dovrebbe pulirsi il coltello sulla tovaglia del vicino.
    Né usare il coltello per incidere il tavolo.
    Nessun ospite dovrebbe pulirsi l'armatura a tavola.
    Nessun ospite dovrebbe prendere il cibo dal tavolo per nasconderselo in borsa o negli stivali, e mangiarselo poi.
    Nessun ospite dovrebbe dare morsi alla frutta e poi rimetterla mangiucchiata nella fruttiera.
    Nessun ospite dovrebbe sputare davanti a sé e nemmeno accanto a sé.
    Nessun ospite dovrebbe pizzicare o leccare il vicino.
    Nessun ospite dovrebbe tirare su col naso né dare gomitate.
    Nessun ospite dovrebbe far roteare gli occhi né fare smorfie paurose.
    Nessun ospite dovrebbe mettersi le dita nel naso durante la conversazione.
    Nessun ospite dovrebbe fare modellini, né accendere fuochi, né stringere nodi a tavola.
    Nessun ospite dovrebbe lasciar liberi i suoi uccelli a tavola.
    E nemmeno serpenti o scarafaggi.
    Nessun ospite dovrebbe suonare il liuto, o qualsiasi altro strumento che possa infastidire il suo vicino.
    Nessun ospite dovrebbe cantare, né parlare, né gridare, né fare indovinelli come un ribaldo se c'è una signora accanto a lui.
    Nessun ospite dovrebbe tramare a tavola.
    Nessun ospite dovrebbe colpire gli inservienti (sempre che non sia per legittima difesa).
    E se deve vomitare, che lasci la tavola, parimenti se deve orinare.
     
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    Nidi e uccelli, cervi interi, piramidi e alberi con frutta candita Mettersi a tavola nel Rinascimento è un atto edonistico e politico ma anche pura scenografia con tanto di regista. Finché non si affacciano le norme che disciplineranno il piacere di mangiare...

    rin

    Nutrirci è una necessità primaria che però è diventata un piacere coi secoli, oltre che un atto sociale e politico. Va da sé che questa trasformazione, da sempre, avviene solo per chi può permetterselo, dai Trimalcioni di epoca romana ai nobili del Rinascimento ai diplomatici. Ma di fatto tra il Quattrocento e Cinquecento l’Europa è un pullulare di banchetti principeschi, ogni occasione è buona: matrimoni, incoronazioni, accordi stipulati. E la ricerca di effetti piacevoli, oltre che per il palato, per la vista e per l’olfatto è spasmodica, con decorazioni, musiche e giochi. E trattati sul tema.

    Già nel Libro della cocina dell’Anonimo Toscano, scritto fra il 1300 e il 1400, sono descritte tavole che ricordano le maquette degli architetti e i giochi dei bambini, con composizioni centrali a forma di torri, castelli e animali, fatti di paste dolci e marzapane. Fa sorridere che nello stesso periodo nei conventi prendesse piede invece la filosofia della dieta morigerata, “genitrice” della sana alimentazione e condotta di vita di oggi. Il Libro della cocina precede le meravigliose creazioni di messer Cristoforo di Messisbugo, che scrisse i Banchetti compositioni di vivande, et apparecchio generale (stampato nel 1549), al servizio degli Estensi a Ferrara: la sua “portata del giardino”, per esempio, prevedeva alberi colorati di pasta, adornati di frutta (fresca o candita), uccelli scolpiti e uova dipinte di giallo, verde e nero e infine una gabbia di uccelli vivi posta al centro. Messisbugo non era un semplice cuoco, ma uno scalco, ovvero quello che chiameremmo oggi art director, il direttore generale di banchetti, e aveva funzione di organizzarne specifici per feste, cene e ricevimenti. Altra personalità di rilievo del banchetto è il trinciante, esperto nell’arte di “trinciare”, importantissima per tagliare nel modo corretto carne e selvaggina, che fanno scena disposte in modo decorativo, spesso complete di piume e pelle, a volte perfino ricoperte di foglia d’oro, al centro della tavola.
    Una ricca tavolata secentesca nel quadro di Gaspar van den Hoecke Lazarus and the rich man's table
    Vincenzo Cervio che nel suo Trinciante elenca le forchette e i coltelli più adatti e può essere considerato il primo designer di utensili culinari, consiglia anche di usare la natura come vera e propria scenografia, allestendo il giardino quando possibile, arricchito con piante aromatiche, fontane e perfino peschiere. C’è da sbizzarrirsi anche con il manuale di Bartolomeo Sacchi, detto il Platina, De Honesta Voluptate et Valetudine, in cui troviamo come realizzare decorazioni per la tavola con tovaglioli, e come adornarla a seconda del mese dell’anno: il richiamo è a frutti e fiori di stagione e alla pulizia, perché “mettono buona disposizione nel mangiare”. L’olfatto era allora importantissimo: non c’era banchetto che potesse chiamarsi tale senza profumi ed essenze diffuse nell’aria, per coprire olezzi maleodoranti, normali per i tempi. In tavola più c’è e meglio è: castelli, navi, animali, alberi, piramidi, sculture. E l’artigianato artistico ha una grande spinta dalle eccentriche richieste di nobili e ricchi mercanti. Un gioioso caos che durerà ancora qualche secolo, fino alla Rivoluzione Francese, quando la cucina si apre anche alla borghesia nascente, pronta a fare di più e meglio dell’aristocrazia. Nascono così il rigido linguaggio della tavola e le sue norme, solo all’interno delle quali è concesso, anzi auspicato, stupire. Una messinscena che ancor più che in passato vuole tenere in pugno i convitati. D’altronde, come afferma lo storico Massimo Montanari nel grande Dizionario Enciclopedico Utet alla voce “Banchetto” “...le reciproche visite conviviali sono presso i popoli primitivi, ma il dato rimane valido anche nelle società più avanzate, delle vere e proprie gare a superarsi l’un l’altro. Chi invita un gruppo estraneo tende a sottometterlo con l’ospitalità”.


    di Elisa Poli
     
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