DINOSAURI...e ANIMALI PREISTORICI

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    La madre di tutti gli tsunami

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    Sessantasei milioni di anni fa un asteroide che arrivò dal cielo aveva un diametro di 14 chilometri. L’impatto con la Terra creò un cratere di circa 180 chilometri di diametro.

    Lo scontro avvenne al confine tra la terraferma e il mare dove oggi vi è la penisola dello Yucatan, in Messico. Lo scombussolamento che si verificò è noto da tempo: la quantità di materiale che venne immessa nell’atmosfera terrestre fu tale da creare un’alterazione del clima che fu la concausa principale della scomparsa del 75 per cento delle specie viventi terrestri, tra le quali quella dei dinosauri.

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    Ma fino ad oggi nessuno aveva pensato di ricostruire lo tsunami che si verificò in seguito all’impatto. Ci ha pensato un gruppo di scienziati guidato da Molly Range, del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università del Michigan, il cui lavoro è stato presentato durante la recente Conferenza annuale di AGU (American Geophysical Union).

    “Non è stato per nulla facile ricostruire gli eventi, in quanto dapprima abbiamo dovuto dare un volto al cratere la cui forma ha poi determinato l’altezza delle onde che si sono propagate. Oltre a ciò abbiamo dovuto anche capire come si è comportata la crosta terrestre subito dopo l’impatto”, ha spiegato Range. “Unendo tutti i dati a disposizione fino ad oggi abbiamo determinato che il cratere raggiunse una profondità di un chilometro e mezzo e subito dopo l’impatto si ritrovò totalmente privo di acqua”, continua la scienziata. Immediatamente dopo però, l’acqua dell’Oceano Atlantico precipitò all’interno dell’immensa voragine, ma, come quando si butta violentemente dell’acqua in un catino questa fuoriesce immediatamente, così successe a quella che finì nel cratere. L’acqua si ritirò nel giro di pochi minuti producendo un’onda che si propagò alla velocità di quasi 150 chilometri all’ora. E quel che fu particolarmente impressionante fu l’altezza dell’onda dello tsunami che si creò: circa un chilometro e mezzo.

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    L’onda fece il giro del pianeta raggiungendo anche le aree più lontane dal Messico. Quest’onda, che fa impallidire anche quelle dei drammatici tsunami degli ultimi decenni, che raggiunsero altezze di 30-35 metri, fu accompagnata da un gran numero di altre onde che si produssero in seguito all’impatto in mare del materiale che fuoriuscì dal cratere. La ricostruzione di Range mostra che queste raggiunsero un’altezza di alcune centinaia di metri. Nei luoghi più lontani della Terra rispetto al Messico le onde arrivarono ad un’altezza di 4-5 metri. Tutto questo è il prodotto di ricostruzioni fatte attraverso modelli, ora sarebbe ottima cosa trovare i riscontri di quelle spaventose onde impresse in rocce di quel lontano periodo. Ma questo tipo di lavoro è molto più difficile è complesso.

    (Luigi Bignami, https://it.businessinsider.com)

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    Ulteriori prove arrivano dallo studio dei sedimenti sulle coste. Si va a caccia di tsunamiti: un simile impatto con la superficie del mare, non può non aver provocato uno tsunami le cui tracce potrebbero ritrovarsi sul litorale.
    La ricerca ha successo. In numerose località messicane e statunitensi, tutt’intorno al Golfo, per distanze che arrivano anche a 1000 km dal punto d’impatto, sono rilevati livelli sabbiosi, caotici e rimaneggiati, contenenti fossili marini di microrganismi strappati dal loro ambiente naturale e trasportati con violenza dalle onde. Questi livelli, deposti all’interno di sedimenti più fini, rappresentano una chiara evidenza di ambienti ad alta energia, quasi uno shock in una sedimentazione generalmente più tranquilla e regolare. Sono le tsunamiti. Nasce dunque un modello dell’evento, con ricostruzioni anche al computer. Non appena il gigantesco asteroide entra nell’atmosfera, genera un’onda d’urto così forte che il suo arrivo sulla superficie del mare provoca già uno tsunami. Segue l’impatto devastante la cui posizione geografica è individuata all’incirca nel nord-ovest dell’attuale Yucatan.

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    Altre onde, di altezza media intorno a 150 metri ma con punte fino a 300 metri, vengono generate, propagandosi in tutte le direzioni. Il loro arrivo sulla costa è assolutamente catastrofico: riescono a penetrare sul continente per circa 300 km, risalendo tra l’altro i bacini degli attuali Rio Grande e Mississippi. Infine si verifica un fortissimo effetto-risacca per cui le onde continuano per diverso tempo ad andare avanti ed indietro, generando ulteriore distruzione.

    (www.meteoweb.eu)

     
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    Squalo preistorico fra resti del celebre T-Rex

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    Scoperti i denti di uno squalo preistorico d'acqua dolce, nascosti nel guscio roccioso che avvolgeva il fossile del più celebre T-Rex, chiamato Sue: la loro forma ricorda le astronavi aliene del popolare videogioco degli anni '80 Galaga. Per questo la nuova specie, vissuta 67 milioni di anni fa, è stata chiamata Galagadon nordquistae. Pubblicata sul Journal of Paleontology, la scoperta si deve ai ricercatori coordinati da Terry Gates, dell'americana North Carolina State University.

    La nuova specie nuotava nei fiumi di quello che è oggi il Sud Dakota. A differenza del suo gigantesco cugino megalodonte (vissuto anch'esso nella preistoria), Galagadon nordquistae era un piccolo squalo lungo circa 45 centimetri, parente dei moderni squali tappeto che oggi vivono per lo più nelle acque del Sud-est asiatico e dell'Australia. Anche i suoi denti erano molto piccoli: ognuno di essi misurava meno di un millimetro di diametro e questo indica che Galagadon non fosse un predatore come il T-Rex. "Questo squalo aveva denti che erano buoni per catturare piccoli pesci o schiacciare lumache e gamberetti", rileva Gates. Il ricercatore ha scoperto oltre 20 denti setacciando i sedimenti che avvolgevano il fossile di Sue, che è conservato presso il Field Museum of Natural History a Chicago.

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    Secondo Pete Makovicky il curatore della sezione dinosauri del Field Museum, "probabilmente questo squalo aveva una faccia piatta e una pelle maculata, come quella dei suoi parenti di oggi, e passava una buona quantità del suo tempo sdraiato sul fondo del letto del fiume". La scoperta della nuova specie è un tassello che aiuta a ricostruire come era l'ambiente durante l'epoca che ha preceduto l'estinzione dei dinosauri. Ogni specie in un ecosistema svolge un ruolo specifico, di supporto all'ambiente in cui vive: "non possiamo comprendere cosa sia cambiato nell'ecosistema durante l'estinzione di massa avvenuta alla fine del Cretaceo - conclude Gates - senza conoscere tutte le specie che esistevano prima".




    www.repubblica.it
     
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    La scoperta in Siberia della testa
    quasi totalmente intatta di un lupo
    vissuto almeno 30mila anni fa


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    La testa era stata scoperta nel 2018 nella zona di Abyjskij nella Russia siberiana orientale. Era rimasta per decine di migliaia di anni protetta nel permafrost, la parte del suolo che rimane perennemente ghiacciata. Un abitante della zona aveva notato qualcosa di strano nel terreno, in un punto dove il permafrost stava cedendo a causa delle temperature estive più alte del solito. I ricercatori stimano che l’animale fosse morto quando aveva tra i 2 e i 4 anni, in circostanze ancora da chiarire. La testa è notevolmente più grande rispetto a quella dei lupi odierni: raggiunge una lunghezza di 40 centimetri circa, contro quella degli attuali lupi di 23-28 centimetri.
    Nel complesso, la testa è ben conservata: oltre al pelo, si sono preservati il naso, buona parte della pelle e le fauci. Anche il cervello si è conservato relativamente bene e una sua analisi potrebbe offrire qualche dettaglio in più sulle caratteristiche degli antenati dei cani odierni.

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    Il lupo visse nel tardo Pleistocene, il periodo compreso tra 2,6 milioni e 11.700 anni fa. Più nel particolare, percorreva i territori della Siberia nel Pleistocene superiore, più o meno nell’ultimo grande periodo glaciale. La sua fine, tra i 20mila e i 10mila anni fa, coincise con l’estinzione di diverse specie che si erano adattate a vivere in un clima molto freddo. La scomparsa degli antichi lupi fu determinata dal cambiamento del clima, ma probabilmente anche dalle attività degli esseri umani che sottrassero loro le prede con cui sopravvivevano.




    tratto da ilpost.it
     
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    Un fossile misterioso e bellissimo

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    Nobuaki Mizumoto è un ricercatore presso l’Arizona University (Stati Uniti), si occupa di biofisica e di ecologia evolutiva, e da qualche anno cerca di risolvere il mistero di un fossile risalente a 50 milioni di anni fa. Il fossile è formato da 259 pesciolini che sembrano nuotare in gruppo verso la stessa direzione, ma ricostruire i loro ultimi istanti si sta rivelando un’impresa piuttosto ardua, per quanto affascinante.

    Mizumoto scoprì per caso il fossile nel 2016, mentre stava visitando il museo di storia naturale di Katsuyama, la sua città di origine in Giappone. Tra i vari fossili di dinosauri, notò in una posizione defilata un reperto molto ben conservato con un banco di pesciolini, conservati nel minimo dettaglio: occhi, pinne e il resto. Apparivano quasi tutti orientati dalla stessa parte, come se fossero stati fotografati 50 milioni di anni fa, prima di finire per sempre fossilizzati.




    tratto da ilpost.it
     
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    Scoperte le prime mani:

    hanno 380 milioni di anni e appartenevano… a un pesce!



    di Luigi Bignami


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    Ricostruzione pesce con le 'mani. Katrina Kenny


    Tra le tante cose che distinguono i vertebrati terrestri da quelli marini è senza dubbio la presenza delle “mani” che a livelli diversi, soprattutto tra i primati, hanno permesso di conquistare la terraferma.

    Ma quando i pesci iniziarono a mutare per dare origine a questi elementi così importanti per l’uomo? Fino ad oggi si sapeva più o meno il periodo, ma ora una nuova scoperta ha permesso non solo di avere una data molto più precisa, ma anche di poter studiare un esemplare di pesce la cui pinna presenta molte caratteristiche simili a quelle di un braccio di un uomo.

    Ricostruzione pesce con le 'mani. Katrina Kenny
    Tra le tante cose che distinguono i vertebrati terrestri da quelli marini è senza dubbio la presenza delle “mani” che a livelli diversi, soprattutto tra i primati, hanno permesso di conquistare la terraferma.

    Ma quando i pesci iniziarono a mutare per dare origine a questi elementi così importanti per l’uomo? Fino ad oggi si sapeva più o meno il periodo, ma ora una nuova scoperta ha permesso non solo di avere una data molto più precisa, ma anche di poter studiare un esemplare di pesce la cui pinna presenta molte caratteristiche simili a quelle di un braccio di un uomo.



    Si tratta della scoperta di un fossile di Elpistostege trovato a Miguasha, in Canada i cui studi sono stati pubblicati su Nature. Il fossile risale a 380 milioni di anni fa e nonostante l’età si trova in ottime condizioni.

    Lungo un metro e 57 centimetri è stato sottoposto scansioni computerizzate ad alta energia, una specie di TAC in grado di guardare all’interno di un fossile senza doverlo aprire, da parte di paleontologi dell’Università di Flinders in Australia e dell’Universite du Quebec a Rimouski in Canada.

    La TAC mostra chiaramente come lo scheletro della pinna pettorale sia composta da omero (braccio), raggio e ulna (avambraccio), oltre a file di carpo (polso) e falangi ben organizzate (dita).

    “Mai prima di questo reperto era stato possibile osservare in modo inequivocabile le ‘dita’ all’interno di una pinna di pesce così antico – ha detto John Long, dell’Università di Flinders – e questa scoperta spinge indietro l’origine delle dita stesse e dice anche che l’evoluzione della mano iniziò molto prima di quanto si è sempre ipotizzato, cioè poco prima che i pesci lasciassero l’acqua.

    I paleontologi sapevano che l’evoluzione dei pesci in tetrapodi, ossia vertebrati a quattro zampe dai quali discendono anche gli umani, uno degli eventi più significativi dell’evoluzione, avvenne tra il Medio e l’Alto Devoniano, ossia tra 393 e 359 milioni di anni fa, ma ora possiamo restringere tale momento che è così importante per l’evoluzione”.

    Prima di questo esemplare di Elpistostege i paleontologi ne avevano studiati altri due: il primo, scoperto nel Parco Nazionale di Miguasha, nel Quebec, e descritto nel 1938, possedeva solo la parte superiore del cranio e venne scambiato per un tetrapode a tutti gli effetti. Ulteriori ricerche lo hanno meglio definito, ma non essendoci pinne non ha portato a particolari scoperte, il secondo venne alla luce nel 1985 e lo studio stabilì che era un pesce dalle pinne molto avanzate, ma nulla più”. Il nuovo esemplare di Elpistostege è stato scoperto nel 2010 e la lunga ricerca con nuovo metodologie ha portato a questa sensazionale scoperta.

    Altri fossili del Devoniano, tra i quali fossili di Tiktaalik, trovati nel Canada artico avevano permesso di comprendere le trasformazioni anatomiche associate alla respirazione fuori dall’acqua, all’udito e all’alimentazione, ma nessuno aveva dato modo di ottenere informazioni sull’evoluzione degli arti.



    https://it.businessinsider.com/
     
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    ..DOPO I DINOSAURI..

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    I forusracidi (Phorusrhacidae), noti volgarmente come "Uccelli del terrore" (ing. "terror birds") per la loro efficienza nella caccia, sono una famiglia estinta di grandi uccelli carnivori non volatori, diventati i predatori dominanti in America meridionale nel corso del Cenozoico, tra 62 e 2 milioni di anni fa assieme ai mammiferi marsupiali ed ai coccodrilli, dopo l'estinzione dei dinosauri.

    Per gran parte dell'era cenozoica, gli uccelli del terrore hanno dominato il Sud America e cacciato con becchi simili ad asce, fino a quando non si sono estinti circa 2 milioni di anni fa.

    Sebbene siano state scoperte numerose specie diverse, la più grande era alta 10 piedi e pesava più di 1.000 libbre. Veloci e con un becco affilato, sono diventati rapidamente un predatore all'apice.

    Eppure, come i dinosauri, il regno degli uccelli del terrore finì. Queste enormi creature predatrici incontrarono la loro partita circa 2 milioni di anni fa, quando i continenti del Nord e del Sud America finalmente si unirono.

    Secondo un articolo pubblicato sul Journal of Paleontology dell'Università di Cambridge , l'uccello del terrore fu descritto per la prima volta da un paleontologo argentino di nome Florentino Ameghino nel 1887. Lui e suo fratello trovarono una "mandibola incompleta" nella formazione di Santa Cruz in Patagonia.

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    Darwin's Door riporta che Ameghino chiamò la sua scoperta Phorusrhacos longissimus , e giunse a credere che una volta somigliasse a qualcosa di simile a un'aquila oa un falco. Tuttavia, ulteriori scoperte suggerirono che l'uccello del terrore fosse più strettamente imparentato con il seriema, un uccello sudamericano.

    Da allora sono state scoperte circa 20 diverse specie di uccelli del terrore. Alcuni, come Llallawavis scagliai , scoperti nel 2010, sono relativamente piccoli e sono alti solo quattro piedi. Ma altri, come Kelenken guillermoi , scoperti nel 2004, inducono molto più terrore. Kelenken è alto 10 piedi e probabilmente pesava più di 1.000 libbre.

    Secondo il paleontologo Luis Chiappe, che ha descritto Kelenken nel 2007, il suo enorme cranio è "il più grande teschio conosciuto per gli uccelli.

    Tra 60 milioni e due milioni di anni fa, questi uccelli dominavano il Sud America, usando le loro dimensioni, velocità e il potente becco per regnare sul continente. Secondo la National Audubon Society, non potevano volare, ma potevano raggiungere velocità fino a 60 miglia all'ora a terra. Inoltre, probabilmente usavano il loro becco come "ascia di guerra" contro altri animali.


    gli uccelli del terrore iniziarono a scomparire circa due milioni di anni fa. Molti ricercatori ritengono che il loro declino e l'eventuale estinzione siano stati in linea con la formazione dell'istmo di Panama, che ha collegato per la prima volta il Nord e il Sud America.

    Ci sono prove evidenti che gli uccelli del terrore siano migrati verso nord, poiché i loro fossili sono stati scoperti in Texas e in Florida. Ma poi, alcuni sospettano, gli uccelli del terrore hanno incontrato la loro partita sotto forma di predatori come giaguari e gatti dai denti a sciabola, anch'essi migrati verso sud. Non essendo più il principale predatore, iniziarono a estinguersi.
     
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    “Tra gli addetti ai lavori lo chiamavamo ‘orso-lontra-gatto’”

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    Uno dei più antichi parenti dell’orso assomigliava più a un procione che a un grizzly ed era solito cibarsi di lumache, rompendone il guscio con i denti. Denominato Eoarctos vorax dai paleontologi, questo mammifero fossile aggiunge un tassello alla storia evolutiva del gruppo che comprende moffette, procioni, orsi e anche foche, comparsi sul pianeta circa 32 milioni di anni fa, nel pieno dell’era dei mammiferi.

    Sono stati necessari decenni di studi e ricerche per mettere insieme i pezzi e ricostruire l’identità dell’Eoarctos. Le spedizioni sul sito fossilifero di Fitterer Ranch nel Dakota del Nord iniziarono a portare alla luce frammenti di strane mandibole di una specie di mammifero carnivoro già negli anni ’40. Ogni volta che tornavano sul posto, i paleontologi speravano di trovare nell’antica formazione rocciosa qualcosa di più dell’animale. Poi, nel 1982, una squadra guidata dal paleontologo Robert Emry finalmente trovò uno scheletro quasi completo dello strano piccolo carnivoro.

    Al tempo, Emry e il paleontologo Richard Tedford, esperto di carnivori fossili, avevano tentato di descrivere lo scheletro. L’animale sembrava appartenere agli arctoidi, un ampio gruppo di mammiferi più strettamente imparentati ai cani che ai gatti.

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    L’immagine finalmente ricostruita ci mostra un animale diverso da tutti i mammiferi viventi. È il più antico tra questi che si nutriva di animali a guscio di cui si abbia notizia, aveva le dimensioni di un procione e artigli da gatto che, probabilmente, gli servivano per arrampicarsi sugli alberi delle antiche zone umide in cui viveva.

    Il paleontologo ricorda che l’Eoarctos aveva le proporzioni di un animale che si arrampica, piuttosto che correre. Questo carnivoro probabilmente si nutriva a terra, ma poteva rapidamente salire su un albero in caso di pericolo. Infatti, le proporzioni di questo mammifero assomigliano a quelle di un arctoide vivente: il procione, quindi è possibile che l’Eoarctos avesse un comportamento similare. Ma non tutte le caratteristiche dell’Eoarctos sono familiari: le mandibole dell’animale, ad esempio, rappresentano un enigma per gli scienziati.

    La mascella inferiore dello scheletro meglio conservato di Eoarctos è danneggiata: durante la vita dell’animale deve essere successo qualcosa che ha causato la perdita di diversi denti anteriori. E non si tratta di un caso isolato: altre mandibole dello stesso animale mostrano il medesimo tipo di danneggiamento, indicando che probabilmente facevano qualcosa che portava alla rottura dei denti anteriori e all’usura dei molari. La causa deve essere riconducibile a qualcosa che gli Eoarctos mangiavano.

    Secondo il paleontologo, “è possibile che stiamo osservando un’istantanea dell’evoluzione” che vede gli esemplari di Eoarctos con denti più resistenti probabilmente vivere più a lungo e subire meno infezioni. Se l’Eoarctos abbia dato o meno origine a una specie discendente con mandibole e denti più forti non è ancora noto, ma è possibile che da un momento all’altro venga trovato un fossile che lo dimostri.


    tratto da https://www.nationalgeographic.it/lo-stran...so-lontra-gatto?
     
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    quanto erano grandi i dinosauri?


    https://fb.watch/qneWBE7_pT/

     
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67 replies since 6/10/2010, 20:58   21399 views
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