Marlon Brando

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    Marlon Brando

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    biografia

    Massimo rappresentante del nuovo metodo di recitazione dell'Actor's Studio che si andava affermando nel cinema americano nella metà degli anni '50 (il famoso "Metodo Stanislavsky"), Marlon Brando si è imposto dapprima come attore di notevole spessore e poi come vera a propria icona grazie alla sua capacità di vivere i personaggi che interpretava ampliandone le interne pulsioni psicologiche, spesso appena suggerite dalle sceneggiature.

    Nato ad Omaha, Nebraska, il 3 aprile 1924, figlio di un commesso viaggiatore e di una attrice di seconda linea, prima di fare l'attore tenta inizialmente la carriera militare ma, indisciplinato e insofferente alle regole gerarchiche che vigono in caserma, viene espulso dall'Accademia Militare del Minnesota. Si trasferisce a New York e frequenta un corso di arte drammatica debuttando nel 1944 a Broadway. Tre anni più tardi trionfa in teatro con il personaggio di Stanley Kowalski, il protagonista dello struggente dramma di Tennessee Williams "Un tram che si chiama desiderio". Nel 1950, sotto la guida di Elia Kazan, frequenta il già citato celeberrimo Actor's Studio, che gli apre finalmente le porte per il cinema.

    Dopo il lungo e faticoso tirocinio all'Actor's Marlon Brando esordisce sul grande schermo nel 1950 con il film "Uomini" di Fred Zinneman, nel quale interpreta un paraplegico reduce di guerra. Per questo ruolo si chiude per un mese a studiare il comportamento dei disabili in un ospedale specializzato. Il suo volto, il suo magnetismo, rimangono molto impressi negli spettatori che vedono il film; Brando tiene inchiodati gli spettatori con la sua forza, le sue intense espressioni, nonché per una permeante sensazione di virilità che riesce a far percepire quasi fisicamente.

    Il vero successo gli arriva però l'anno dopo, con le stesso testo che lo lanciò in teatro: la versione cinematografica di "Un tram che si chiama desiderio" (regia di Elia Kazan, con Vivien Leigh) lo proietta direttamente nell'immaginario femminile di un'intera generazione. Sullo schermo Marlon Brando è di un fascino immenso e il suo personaggio coniuga caratteristiche contraddittorie che, a quanto sembra, colpirono in modo particolare le signore del tempo: non solo è bello in modo disarmante, ma è anche allo stesso tempo duro e profondamente sensibile, ribelle e anticonformista. Insomma, un ruolo che non poteva passare inosservato in una società così legata alle regole e alle convenzioni come l'America di allora.

    Purtroppo, negli anni a venire di questo grande fascino resterà solo l'ombra. Brando, inspiegabilmente, perde del tutto la magnifica forma fisica di un tempo e, forse per i grandi problemi legati alla sua famiglia (il primo figlio ha assassinato l'amante della sorellastra Cheyenne ed ha subito la condanna al massimo della pena, dieci anni, nonostante il padre abbia testimoniato in suo favore. In seguito Cheyenne si è suicidata impiccandosi), si è completamente lasciato andare. Arriverà a pesare qualcosa come 160 Kg e i giornali scandalistici faranno a gara nel pubblicare foto recenti, mettendolo spietatamente a confronto con le immagini dei tempi d'oro.

    D'altronde, a parte l'allucinante episodio del figlio, anche il resto della vita privata di Brando non è stato esattamente come affrontare una vacanza. Non solo è stato sposato tre volte (con Anna Kashfi, con Movita e con Tarita), ma ha avuto altre relazioni importanti conclusasi, nel migliore dei casi, con un doloroso addio. Fra le sue molte donne Pina Pellicier si è suicidata nel 1961, mentre Rita Moreno ha tentato due volte senza successo. Brando ha inoltre al suo attivo altri otto riconoscimenti di paternità.

    Non meno travagliati sono i suoi rapporti con la statuetta più ambita da tutti gli attori: dopo quattro nominations consecutive (a partire dagli anni '50), finalmente con "Fronte del porto" (1954), diretto da Elia Kazan vince l'Oscar come miglior attore protagonista, con il ruolo di Terry Malloy. Conquista anche il premio come miglior attore al Festival di Cannes.

    Sempre nel 1954 interpreta un giovane ribelle ne "Il Selvaggio" di Laszlo Benedek e diventa il simbolo di una generazione sbandata e disillusa. Per prepararsi all'interpretazione frequenta bande giovanili come quelle descritte nel film arrivando a finire in prigione per una notte.

    Gli anni '60 rappresentano un decennio di declino per l'attore, capace solo di inanellare una serie di opere mediocri (con l'eccezione della sua unica regia del 1961, "I due volti della vendetta"), e di creare una serie infinita di problemi sui set che frequenta e alle produzioni che lo ingaggiano (nel 1969 esaspera il solitamente pacato Gillo Pontecorvo durante le riprese del film "Queimada", tanto che il regista ripudierà la pellicola).

    Negli anni '70 Marlon Brando resuscita letteralmente: è il 1972 quando azzecca un ruolo che rimarrà nella storia dell'interpretazione, quello di Don Vito Corleone nel film "Il Padrino" di Francis Ford Coppola. Durante il provino Brando improvvisa l'ormai celeberrimo trucco per "diventare" Don Vito: capelli tenuti indietro con la brillantina, sfumature di lucido da scarpe su guance e fronte, guance imbottite di Kleenex. Per la parte riceve ancora una volta l'Oscar ma, con una mossa a sorpresa, si rifiuta di ritirarlo e, per protestare contro il modo in cui il governo USA tratta gli indiani, manda al suo posto una giovane Sioux.

    Nello stesso anno recita nel film scandalo "Ultimo tango a Parigi" di Bernardo Bertolucci, pellicola che, fra le sue disavventure, si vede anche bruciata sulla pubblica piazza. Anche in questa occasione il "marchio" Brando si fa sentire e lo stile, gli atteggiamenti strafottenti che dona al suo personaggio, diventeranno emblematici ed inimitabili.

    Nel 1979 è la volta di un altro grande, magnetico ruolo, quello del colonnello Kurz in "Apocalypse Now" di Francis Ford Coppola. La sua apparizione nelle fasi finali del film è agghiacciante, sorprendente, l'attore appare del tutto irriconoscibile. I critici gridano al miracolo, qualcuno lo osanna come il miglior attore di sempre. Finito di girare il capolavoro di Coppola l'attore si ritira dalle scene per circa un decennio: in seguito apparirà solo in ruoli cameo. Tra i suoi ultimi film di rilievo ricordiamo "Don Juan De Marco maestro d'amore" (1994, con Johnny Depp), e "The Score" (2001, con Robert De Niro e Edward Norton).

    Per capire la grandezza di Brando è significativa una battuta di Al Pacino, poi divenuta celebre, che ha recitato con lui ne "Il padrino": "È come recitare con Dio".
    L'indimenticabile attore si è spento a Los Angeles all'età di 80 anni il 2 luglio 2004.
     
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    Marlon Brando in una sequenza de Il Padrino
     
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    GRAZIE LUSSY
     
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    Marlon Brando è morto da gigante. Come tutti i giganti ha saputo costruire la sua leggenda fino alla fine. Se n'è andato nel mistero, in una calda notte d'estate, a Los Angeles, sul letto di un ospedale; una morte banalissima, a ottant'anni e sotto il peso vistoso di centocinquanta chili. Eppure, chi di noi, alla notizia della morte, non l'ha immaginato morente altrove, in un luogo lontano ed assoluto (proprio come era lui), magari a Tetiaroa, il suo atollo perso nel Pacifico? E', questo di fare della propria vita una leggenda, un potere che forse solo il cinema riesce a metabolizzare in immagini perenni, in icone. Già, l'immagine, il mito. Perché lui é stato e sarà per sempre un autentico mito, un'altra icona immortale, forse l'ultima, del Novecento. Come Picasso, i Beatles, Marilyn Monroe, Pelè.

    Figlio dell'America stordita ed avventuriera, quella della Grande Depressione e della Guerra, il giovane Marlon fa parte di una generazione destinata a sconvolgere non solo lo star-system patinato di Hollywood, ma l'intera storia del cinema e del costume sociale. Lui, il divo che riesce a superare il divismo. Lui, l'uomo, l'artista, che riesce a superare il modello. Marlon Brando è stato innanzitutto questo, uno straordinario concentrato di arte ed intelligenza, di capacità mimetiche e di istrionismo, di dedizione e di sregolatezza, di forza virile e di dolcezza sensuale. Marlon Brando arriva al cinema abbastanza tardi. La dimensione del teatro lo cattura fin da giovanissimo (a sedici anni) e lo proietta già tra gli anni Trenta e i Quaranta ad essere riconosciuto come uno dei maggiori interpreti del Metodo, la tecnica di recitazione codificata da Stanislavskj e importata in America dall' Actor's Studio di Lee Strasberg. Proprio all'inizio dei Quaranta incontra nel suo percorso di formazione un grande maestro del teatro d'avanguardia, Erwin Piscator, fuggito dalla Germania messa a ferro e fuoco dai nazisti. Nella scuola da lui fondata insieme a Stella Adler, la Dramatic Workshop, Brando, coniugando due dimensioni recitative ed etiche profondamente differenti (la spiritualità interiore di Stanislavskj e la spersonalizzazione socio-politica di Piscator), costruisce i presupposti del suo mito di attore e di uomo, fondato su di un senso mai banale ed eticamente profondo della realtà vissuta
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    Tre almeno i ruoli memorabili della sua breve, ma folgorante carriera di attore teatrale: il romantico Sebastian ne L'aquila a due teste di J. Cocteau (accanto a Tellulah Bankhead), il giovane poeta Marchbanks in Candida (con Katherine Cornell) di G. B. Shaw e soprattutto Stanley Kowalski in Un tram chiamato desiderio di Tennesse Williams, un testo ed uno spettacolo che cambiano radicalmente la storia di Broadway e del teatro americano. Brando, con addosso solo una canotta sudata e un paio di jeans sudici, riesce ad andare oltre le ferree regole stanislavskiane ed inventa un nuovo tipo di realismo recitativo, quello che libera oltre i limiti la potenza erotica della fisicità. Per primo porta sulla scena il richiamo sessuale che si fonda sulla tensione emotiva, quella virilità che traduce, trasforma le psicologie dei personaggi in comportamenti. Una sorta di sentimento fisico del corpo che riesce ad andare oltre la mente, oltre i riflessi, per investire l'istinto, il supremo guizzo creativo dell'attore (sono forse queste le qualità maggiori che impressionano Visconti, e lo inducono negli stessi anni ad imporre il testo di Tennesse Williams alla compagnia di cui è regista, quella di Rina Morelli e Paolo Stoppa).

    La sfida dell'erotismo fisico aprirà poi la strada alla rivoluzione musicale del rock 'n roll con Elvis Presley e contribuirà alla creazione di due altri attori mitici come Marilyn Monroe e James Dean. Brando apre la strada, dunque, e decide il passaggio al cinema, quel fantastico mondo che, a differenza del teatro, proietta i suoi divi su uno schermo, rendendoli, anche fisicamente, giganteschi in un'immagine fissa ed eterna. Dopo la prima parentesi di Uomini (1950, di Fred Zinnemann) nel 1951 Stanley Kowalski viene portato sullo schermo grazie al combattivo regista Elia Kazan, che riesce ad imporre alla Warner lo stesso cast della produzione teatrale di Un tram chiamato desiderio: oltre a Brando, Vivien Leigh, Kim Hunter, Karl Malden.

    Il sodalizio con Kazan gli regala il primo Oscar nel 1954 con Fronte del porto in cui dà vita ad un personaggio strano, lunatico, a tratti paradossale (proprio come era nella vita reale) che resta memorabile nella scena in cui, pesto e barcollante per il sangue, si avvia alla chiamata per il lavoro. Sembra veramente un altro mondo, quello dei portuali in lotta, rispetto alle facili storie hollywoodiane; questo film segna il primo passo di una nuova era, quella dei Brando, appunto, dei Newman, dei Dean. Una generazione, questa, che si lascia alle spalle l'età dell'oro e che si sporca le mani nel fango dei conflitti sociali e generazionali. Il cinema americano prende un nuovo respiro, una nouvelle vague ante litteram fa soffiare una ventata di freschezza virile ed erotica sui meccanismi immobilizzati dell'America post-maccartista; il volto di questa nuova, giovanile sfrontatezza è quello de Il selvaggio che crea il mito del ribelle in giubbotto di pelle e dalla moto roboante (ma prima di questa prova Brando giganteggia portando sullo schermo per Mankiewicz un altro classico assoluto, il Giulio Cesare shakespeariano e nel 1959 si misura con Anna Magnani in Pelle di serpente).



    I suoi anni Sessanta si aprono con lo strano caso del film mancato con Stanley Kubrick. Il regista newyorkese, dopo aver girato Spartacus (1960) con Kirk Douglas, lo cerca per scrivere con lui un western atipico e visionario (una sorta di rilettura della storia di Billy Kid), ma il progetto fallisce per cause misteriose. Tracce di questo lavoro incompiuto si possono ritrovare ne I due volti della vendetta, film di cui Brando, oltre ad essere protagonista, firma anche la regia. Western dalle fosche tinte, feroce e sanguinario come non mai, precede di poco Gli ammutinati del Bounty (1962), girato nei mari del Sud, in cui interpreta il ruolo di un ufficiale che guida la rivolta dei marinai su un vascello inglese del '700. Durante le riprese conosce la giovane indigena Tarita, decide di sposarla, di comprare un atollo nelle vicinanze e di chiudersi per sempre nel suo mito. Fa parte del suo modus vivendi la bizza anarchica (assolutamente contraria alla consuetudine hollywoodiana) di prendersi lunghe pause dalle scene e dai riflettori. E' anche questo un potere che hanno avuto sempre e solo i grandi e lui, già a metà dei Sessanta sa di esserlo.

    E sa anche che il cinema ha assolutamente bisogno di lui. Infatti, dopo alcuni piccoli lavori, Gillo Pontecorvo lo cerca per fargli interpretare l'avventuriero di Queimada (1969). Un'altra storia di avventure e rivolte, con tantissimi contrasti sul set, come proprio in questi giorni ha ricordato lo stesso Pontecorvo: "Era straordinario. E poi era un appassionato di cinema: metabolizzava la sua parte al punto che portarlo a quello che il regista voleva significava sudare quattro camicie. Detto questo era anche un professionista serissimo: si batteva fino alla morte affinché andasse in porto la sua versione della parte, ma alla fine si sforzava al massimo per fare quello che gli si chiedeva". Esagerato, eccessivo, testardo come non mai. Eppure Brando capisce che l'incontro con il cinema d'autore europeo è la più fresca àncora di salvezza per un gigante come lui, che altrimenti presto si sarebbe trasformato, involontariamente, nel simulacro di se stesso. Hollywood lo ha sempre fatto con i suoi divi assoluti.

    E' su questa scia d'intenti che nel 1972 accetta la parte di Paul in Ultimo tango a Parigi, il film scandalo di Bernardo Bertolucci. In coppia con Maria Scheneider dà vita ad una morbosa e decadente parabola di erotismo e dissoluzione verso la morte, riportando sul grande schermo anche il mito del nomadismo internazionale dell'americano. La sua è una morte a Parigi fatta soprattutto di silenzi. Brando scopre e fa definitivamente sua la tecnica che solo la Garbo (e forse Chaplin) era riuscita a realizzare a pieno, e cioè la capacità di rendere i silenzi e le pause più importanti delle parole; nelle stanze del desolato appartamento parigino Brando riesce, con un solo sguardo, con un solo breve ed impercettibile movimento, a reggere la scena silente per minuti interi, giganteggiando, addirittura esagerando. Ma non è l'istrionismo compiaciuto di un divo, è la sua grandezza. E la grandezza di un attore, si sa, si misura dalla sua capacità inventiva.

    A tal proposito il 1972 è davvero l'anno delle interpretazioni memorabili: da Parigi a New York, da Bertolucci a Coppola, da Paul al Don Vito Corleone de Il padrino (accanto ad un cast stellare, dal giovane Al Pacino ai già navigati Robert Duvall e James Caan). Brando si inventa uno straordinario dialetto siculo-americano e si invecchia il volto riempiendosi le guance di Kleenex; non è una cosa da poco perché così facendo obbliga chiunque voglia parlare con lui ad inchinarsi, ad omaggiarlo, per poter ascoltare gli ordini ed i consigli che impartisce la sua flebile voce; è la riverenza tributata ad un capo assoluto, ad un vecchio re quasi irraggiungibile, ad un arbitro del bene e del male, ad un padrone della vita e della morte. E' il preludio che un addio sta arrivando, infatti dopo Missouri (1976, di Arthur Penn, con Jack Nicholson), Brando si immerge nell'apocalittica odissea post-moderna di Coppola, Apocalypse now (1979). Appare solamente nella terza ed ultima parte del film, eppure il colonnello Kurtz aleggia, come un temuto spettro onnipresente, lungo tutto il viaggio all'inferno che compie quell'ufficiale da quattro soldi interpretato da Martin Sheen. La sua apparizione è quella dell'ultimo dinosauro sepoltosi nella giungla della civiltà e della coscienza. E' il magistrale gioco di luci ed ombre creato da Vittorio Storaro sul suo volto a consegnare al cinema il personaggio più colossale, gigantesco, esagerato e folle della sua storia. Nessuno ha più osato tanto. Nessuno è stato più grande. E non può che essere sua la voce che chiude l'Apocalisse recitando la macabra nenia "l'orrore, l'orrore".

    Dopo il film di Coppola, Brando tra il 1980 (La formula) e il 2001 (The score) gira altri dieci film. In nessuno di questi riesce a raggiungere la grandezza e l'originalità del passato. I debiti, la cattiva situazione finanziaria, le disgrazie familiari lo spingono ad accettare parti che lo fanno spesso apparire come un simulacro di se stesso, ridotto ad una buffa caricatura del suo mito, proprio ciò da cui aveva sempre cercato di fuggire. Lo star-system spesso dimentica che i suoi divi sono soprattutto uomini. Ed è anche per questo che, al di là dei discutibili meriti artistici della sua ultima fase, va reso a Marlon Brando il merito di essersi confrontato con due giovani attori che alla sua straordinaria lezione si rifanno: Johnny Depp ed Edward Norton. Stiamo parlando di due nuovi mostri sacri di Hollywood, naturalmente. L'incontro con Depp avviene nel 1995, sul set di Don Juan de Marco maestro d'amore, una grottesca rilettura del mito del Grande Seduttore, liberamente tratta da Lord Byron. Il film non è di quelli che restano nella memoria, ma Depp, davanti al maestro (irriconoscibile), mette a frutto molto bene quell'immagine da "Nuovo Selvaggio" che si è costruita in questi anni. Sregolato, eccessivo, istrionico come Brando, Johnny Depp è oggi più che mai il volto della Hollywood off.



    Basta una carrellata delle sue più celebri interpretazioni (Edward mani di forbice nel film omonimo, Gone Watson in Minuti contati, Donnie Brasco nel film omonimo, Raoul Duke in Paura e delirio a Las Vegas e George Jung in Blow) per capire come le scelte di Depp siano indirizzate sempre verso quelle parti che esigono un forte rigore creativo, rifuggendo dalla banalità e dall'autocompiacimento. E' stata questa la lezione che Brando ha lasciato ai più giovani. E ciò vale anche per Edward Norton (insieme a Robert De Niro è nel cast dell'ultimo film interpretato da Brando, The score), non a caso ormai riconosciuto come il nuovo campione del Metodo di Stanislavskij. Basterebbero su tutte le magistrali prove regalateci in Fight club (1999, di David Fincher) e ne La 25° ora (2003, di Spike Lee) per fugare ogni dubbio sulla grandezza interpretativa di Norton e sulla sua notevole capacità di mimesi creativa.

    La scia d'insegnamenti lasciata da Marlon Brando probabilmente si arricchirà di nuovi nomi e nuovi volti, se non altro per giustificare a posteriori ciò che una volta disse Al Pacino, e cioè che "recitare con Marlon Brando era come recitare con Dio". Eppure questo Dio ci ha spiazzati fino alla fine, regalandoci qualche anno fa forse la sua ultima grandissima interpretazione, ma non al cinema, bensì nello spot televisivo di una nota compagnia telefonica italiana. Se ne stava lassù, seduto in cima ad un dirupo, vestito di nero, con un immenso paesaggio montano ai suoi piedi. Guardava, alzava la testa e sogghignava sornione, mentre la sua voce off ripercorreva in meno di un minuto la sua vita. Un lirismo assoluto, sembrava davvero un Dio, nel suo silenzio lontano. Eppure la sua voce c'era e c'è tuttora: è la voce di chi ha identificato per quasi un secolo il mostro titanico del Novecento, e cioè il cinema, quel gigantesco caleidoscopio di immagini, sogni ed ossessioni che l'uomo ha eretto a simulacro eterno della realtà. Marlon Brando è stato il volto, la voce, il corpo di tutto questo. Il resto è Mito.
     
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    Filmografia



    Attore

    Uomini - Il mio corpo ti appartiene (The Men), regia di Fred Zinnemann (1950)
    Un tram che si chiama Desiderio (A Streetcar Named Desire), regia di Elia Kazan (1951)
    Viva Zapata! (Viva Zapata!), regia di Elia Kazan (1952)
    Giulio Cesare (Julius Caesar), regia di Joseph L. Mankiewicz (1953)
    Il selvaggio (The Wild One), regia di László Benedek (1954)
    Fronte del porto (On the Waterfront), regia di Elia Kazan (1954)
    Désirée (Désirée), regia di Henry Koster (1954)
    Bulli e pupe (Guys and Dolls), regia di Joseph L. Mankiewicz (1955)
    La casa da tè alla luna d'agosto (The Teahouse of the August Moon), regia di Daniel Mann (1956)
    Sayonara (Sayonara), regia di Joshua Logan (1957)
    I giovani leoni (The Young Lions), regia di Edward Dmytryk (1958)
    Pelle di serpente (The Fugitive Kind), regia di Sidney Lumet (1959)
    I due volti della vendetta (One-Eyed Jacks), regia di Marlon Brando (1961)
    Gli ammutinati del Bounty (Mutiny on the Bounty), regia di Lewis Milestone (1962)
    Il brutto americano (The Ugly American), regia di George Englund (1963)
    I due seduttori (Bedtime Story), regia di Ralph Levy (1964)
    I morituri (Morituri), regia di Bernhard Wicki (1965)
    La caccia (The Chase), regia di Arthur Penn (1966)
    A sud-ovest di Sonora (The Appaloosa), regia di Sidney J. Furie (1966)
    La contessa di Hong Kong (A Countess from Hong Kong), regia di Charlie Chaplin (1967)
    Riflessi in un occhio d'oro (Reflections in a Golden Eye), regia di John Huston (1967)
    Candy e il suo pazzo mondo (Candy), regia di Christian Marquand (1968)
    La notte del giorno dopo (The Night of the Following Day), regia di Hubert Cornfield (1969)
    Queimada, regia di Gillo Pontecorvo (1969)
    Improvvisamente, un uomo nella notte (The Nightcomers), regia di Michael Winner (1972)
    Il padrino (The Godfather), regia di Francis Ford Coppola (1972)
    Ultimo tango a Parigi, regia di Bernardo Bertolucci (1972)
    Missouri (The Missouri Breaks), regia di Arthur Penn (1976)
    Superman (Superman: The Movie), regia di Richard Donner (1978)
    Apocalypse Now (Apocalypse Now), regia di Francis Ford Coppola (1979)
    Radici: le nuove generazioni (Roots: The Next Generations) (1979) - Miniserie TV
    La formula (The Formula), regia di John G. Avildsen (1980)
    Un'arida stagione bianca (A Dry White Season), regia di Euzhan Palcy (1989)
    Il boss e la matricola (The Freshman), regia di Andrew Bergman (1990)
    Cristoforo Colombo: la scoperta (Christopher Columbus: The Discovery), regia di John Glen (1992)
    Don Juan De Marco maestro d'amore (Don Juan DeMarco), regia di Jeremy Leven (1995)
    L'isola perduta (The Island of Dr. Moreau), regia di John Frankenheimer (1996)
    Il coraggioso (The Brave), regia di Johnny Depp (1997)
    In fuga col malloppo (Free Money), regia di Yves Simoneau (1998)
    The Score (The Score), regia di Frank Oz (2001)
    Superman returns (Superman returns), regia di Bryan Singer (2006) - (immagini d'archivio)

    Regista

    I due volti della vendetta (One-Eyed Jacks)






    Premio Oscar

    1952 - Nomination al miglior attore protagonista per Un tram che si chiama desiderio
    1953 - Nomination al miglior attore protagonista per Viva Zapata!
    1954 - Nomination al miglior attore protagonista per Giulio Cesare
    1955 - Miglior attore protagonista per Fronte del porto
    1958 - Nomination al miglior attore protagonista per Sayonara
    1973 - Miglior attore protagonista per Il padrino
    1974 - Nomination al miglior attore protagonista per Ultimo tango a Parigi
    1990 - Nomination al miglior attore non protagonista per Un'arida stagione bianca



     
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5 replies since 5/10/2010, 19:57   510 views
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