FIORI di CAMPO..e di MONTAGNA

tutti i tipi di fiori..spontanei

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  1. gheagabry
     
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    "Il tempo è un forte vento che disperde le gioie
    come soavi ed effimeri soffioni di tarassaco... libellule dei fiori"


    Il TARASSACO



    Il tarassaco più che con il suo nome botanico è noto con mille appellativi comuni che ne dimostrano l'enorme diffusione: "dente di leone", "soffione", "dente di cane", "cicoria matta" e "piscialletto" sono alcuni dei nomi in uso nelle varie regioni italiane per indicare questa erbacea perenne rustica, cioè resistente al gelo. Le foglie del tarassaco sono oblunghe, glabre, frastagliate cioè con i lobi triangolari dentati simili per forma ai denti del leone, e formano rosette alte anche una trentina di centimetri. Sono assai ricche di vitamine e sali minerali perciò si raccolgono in primavera, quando sono tenere, e si mangiano crude, mischiandole all'insalata.
    I fiori gialli, dal colore molto deciso, sono solitari, eretti su lunghi steli e appaiono tra aprile e ottobre. Se il tempo è cupo, quando viene sera e se vengono recisi e posti in un vaso questi fiori si chiudono. Al termine della fioritura avviene la loro trasformazione in quello che comunemente è detto "soffione", cioè la sfera lanuginosa tipica di questa pianta erbacea, i cui acheni disperdendosi facilmente al vento consentono la diffusione dei semi.
    In autunno giungono a maturazione le piccole bacche lucenti dette botanicamente drupe, di color nero-violaceo, dal sapore acidulo, riunite in grappoli, e molto ricche di vitamina C.
    Il tarassaco è pianta comune nei luoghi incolti situati presso il mare come in montagna, ove cresce numeroso nella zona del faggio, del castagno e delle querce.
    Questa perenne è molto diffusa nei campi e nei prati di tutta l'Italia.



    ......una favola.....


    C'era una volta un soffione che si librava nel cielo di primavera di un campo dove germogliavano dei fiori allegri, dei meravigliosi alberi da frutto e dei rigogliosi ciuffi d'erba. Il soffione aveva accettato le lusinghe del vento:
    " Vieni con me. Potrai volare e vedere degli altri luoghi."
    Un lieve sorriso dipinse il volto del soffione, mentre il vento incominciò a spirare più forte.
    Dopo un giorno di viaggio giunsero in un grande prato
    Di montagna. Notarono che la maggior parte dei fiori era mesta e silenziosa. I ciuffi d'erba sembravano stinti e malconci,mentre gli alberi erano ricurvi.
    Il soffione chiese al vento di portarlo vicino ad una genziana.
    " Perché sei così triste? " domandò il soffione.
    " In questo prato I fiori più grandi sono prepotenti e non siamo liberi nemmeno di parlare tra di noi. Ci sono, poi, dei fiori che non tendono un petalo per aiutare gli altri fiori che sono in pericolo perché non accettano questa tirannia ", rispose la genziana con fievole voce.
    Il soffione, dopo aver ascoltato quelle parole, chiese al vento di condurlo vicino ad un ciuffo d'erba.
    " Per quale motivo sei ridotto così? "
    Il ciuffo d'erba timidamente rispose:
    "Molti animali di questo prato strappano I miei fili. Alcune malvagie farfalle, invece, coprono una parte del mio corpo al solo scopo di non poter essere accarezzato dai raggi del sole."
    Il soffione respirò lentamente.
    " Adesso portami da quell'albero con la gobba", pregò il vento.
    " Sei molto ammalato per essere ricurvo in questo modo?"
    L'albero annuì. Trascorse qualche minuto e, replicò alla domanda del soffione.
    " Una volta ero un maestoso albero. Un giorno, tra queste montagne, è arrivata una perfida e forte corrente d'aria gelida che ha piegato il mio fusto, e quello degli altri alberi, affinché perdessimo la nostra regalità."
    Il soffione comprese l'infinita tristezza di ognuno di loro. Allora sibilò alcune parole al vento che lo adagiò Su di una nuvola bassa. Il soffione respirò di nuovo, ma questa volta con più forza. Si schiarì la voce ed iniziò a parlare.
    " Non c'è vita dove non c'è libertà. La libertà è il primo valore dell'esistenza di ogni creatura della natura anche della più piccola ed indifesa. La mancanza di libertà è un'asfissia lenta e dolorosa. Anche il rifiuto di afferrare il petalo di un fiore, per aiutarlo, significa vivere senza La vita."
    Il soffione riprese fiato:
    " Per essere veramente felici è necessario che, tutti voi, siate uguali e, non devono esistere delle diversità di grandezza e di forza. Ogni abitante, di questo prato di montagna, deve rispettare l'altro come se rispettasse se stesso."
    La nuvola, su cui era adagiato il soffione, si abbassò fino a lambire le foglie di quei poveri e gibbosi alberi.
    Il soffione continuò a parlare:
    " Affinché la pace regni in questo prato è indispensabile che i prepotenti assaporino la dolcezza dell'umiltà, i malvagi intingano, i loro cuori, nei colori dell'arcobaleno della bontà e, la solidarietà si sostituisca all'egoismo.
    Non è possibile che, a differenza del campo da cui provengo, dei fiori, dei ciuffi d'erba e degli alberi non possano vivere in pace per la crudeltà delle altre creature della natura ."
    All'improvviso il soffione ascoltò la forte voce delle genziane che erano libere di parlare tra di loro.
    Osservò dei petali di un fiore che abbracciavano il gambo di un altro fiore, una farfalla che conversava con un ciuffo d'erba illuminato dal sole, ed una fresca brezza accarezzava il fusto dritto di un albero...
    (Claudio Rinaldi)




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  2. gheagabry
     
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    Semplice il fiore che chiede solo
    un raggio di sole per poter vivere
    fugaci emozioni sotto l'azzurro del cielo
    anche se il suo giorno non è lungo
    abbastanza....
    (Carolina Parrilla)




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  3. gheagabry
     
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    Aquilegia


    Aquilegia_flabellata_Nana.



    aquilegia_caerula_blue_star


    Classificazione, provenienza e descrizione
    Nome comune: Aquilegia o Amor nascosto (per A. vulgaris).
    Genere: Aquilegia.
    Famiglia: Ranuncolaceae.
    Etimologia: dal latino “aquilegium”, serbatoio d’acqua, per le numerose goccioline di rugiada che si raccolgono sulle foglie e negli speroni dei petali.
    Provenienza: crescono spontanee in prati e boschi, fino a 2000 m. di altitudine, dell’America, dell’Europa e dell’Asia.

    Descrizione genere: comprende una settantina di specie di piante erbacee, rustiche e perenni, che presentano foglie formate da tre lobi, più o meno profondamente incisi (che ricordano quelle del prezzemolo), di colore variabile dal verde pallido al verde glauco e fiori (solitari o riuniti in pannocchie rade) dalla forma caratteristica: il calice, formato da cinque sepali lanceolati, racchiude i cinque petali della corolla, più o meno uniti e disposti a formare un imbuto. Questi presentano alla base una caratteristica estroflessione, detta sperone, che in alcuni casi può essere particolarmente pronunciata e nelle specie a fiore pendulo sono rivolti verso l’alto a formare una specie di coroncina. Le varie specie vengono suddivise in “specie alpine” e “specie da bordura”, in base alla taglia e quindi all’utilizzo che ne può essere fatto.



    SPECIE ALPINE
    Aquilegia alpina: cresce spontaneamente nelle Alpi, raggiungendo i 30-50 cm. di altezza. Presenta foglie fortemente incise e fiori, di colore azzurro carico, larghi 3-5 cm., con sperone molto pronunciato e ricurvo. Ne esistono anche varietà a fiori di colore bianco e azzurro-violetto.
    Aquilegia bertolonii: questa specie nana, che non supera i 15 cm. di altezza, spontanea nelle Alpi, produce, in maggio-giugno, grandi fiori blu-porpora.
    Aquilegia discolor: originaria della Spagna, questa specie, adatta al giardino roccioso e alla serra alpina, produce fiori larghi 3-4 cm., che presentano sepali azzurro pallido e petali bianchi. Non supera i 10-15 cm. di altezza.
    Aquilegia ecalcarata: originaria della Cina, questa specie presenta fiori senza speroni, di colore rosso porpora, che sbocciano riuniti in piccole pannocchie. Cresce fino a 30 cm. di altezza.
    Aquilegia flabellata: originaria del Giappone, questa specie presenta fiori ricadenti, con petali bianchi e sepali verdastri, che sbocciano da aprile a luglio. Grazie al suo aspetto compatto e alla sua taglia ridotta (non supera i 15-25 cm. di altezza) si presta molto alla coltivazione in vaso. Tra le varietà in commercio segnaliamo: “Cameo”, che cresce fino a 10 cm. e produce fiori nei colori blu e bianco (“Cameo Blu-White”) e rosso e bianco (“Cameo Red-White”); “Nana Alba”, a fiori bianco puro; “Ministar”, a fiori blu intenso. A. flabellata pumila (nota anche come A. akitensis) presenta fiori rosa o azzurro scuro e non supera i 10 cm. di altezza.
    Aquilegia pyrenaica o A. einseleana: cresce fino a 15-25 cm. di altezza e presenta fiori molto piccoli di colore azzurro-violaceo.
    Aquilegia scopulorum: originaria dell’America Settentrionale, in estate produce fiori di colore viola, con sfumature più scure sugli speroni. Cresce fino a 15 cm. di altezza.
    SPECIE DA BORDURA
    Aquilegia caerulea: originaria delle Montagne Rocciose dell’America Settentrionale, presenta foglie larghe di colore verde glauco. Da aprile a luglio produce fiori con petali bianchi (a volte con sfumature e speroni azzurri) e sepali azzurri grandi il doppio dei petali. Cresce fino a 40-80 cm. Ne esistono varietà con fiori di diversi colori (gialli e rossi, gialli e azzurri ecc.). Tra gli ibridi ricordiamo x “Olimpia Red-Gold”, a fiori di colore rosso e giallo e x “Olympia Blu-White”, a fiori di colore blu e bianco.
    Aquilegia canadensis: originaria dell’America Settentrionale, questa specie presenta fiori ricadenti di colore giallo, con speroni rossi, che sbocciano da maggio a luglio. Cresce fino a 40-50 cm. di altezza.
    Aquilegia chrysantha: originaria dell’America Centrale, questa specie presenta foglie di colore verde glauco e fiori larghi 5-7 cm., con sepali gialli striati di rosso e petali gialli, con speroni lunghi 4-5 cm., che terminano con un rigonfiamento. Fiorisce da maggio ad agosto e cresce fino a 1 m. di altezza. La varietà “Yellow Queen” presenta foglie che ricordano quelle delle felci e fiori giallo oro rivolti all’insù con speroni lunghi e leggermente ricurvi.
    Aquilegia longissima: originaria dell’America Centrale, questa specie produce fiori gialli con sepali lanceolati e petali che presentano speroni lunghi anche 7-8 cm. Fiorisce da giugno a settembre ed è bene asportare i fiori appassiti per prolungare la fioritura. Cresce fino a 30-60 cm. di altezza.
    Aquilegia vulgaris: originaria dell’Europa, questa specie chiamata anche amor nascosto presenta fusti che tendono a ramificarsi nella parte superiore. A maggio-giugno produce fiori penduli, larghi 2-4 cm., di colore blu o viola scuro, con speroni corti. Può crescere fino a un metro e più di altezza. Tra le diverse varietà in commercio ricordiamo: “Alba”, a fiori bianco puro; “William Guinnes”, con la corolla vinaccia scuro, con sfumature rosa chiaro e bianche al centro; “Ruby Port”, con fiori rosso rubino; “Adelaide Addison”, a fiori viola con cuore bianco; “Nora Barlow”, a petali rosa scuro, più chiari all’estremità; “Pink Cascade”, fiori rosa tenero; “Pom Pom White”, a fiore doppio bianco puro. A. vulgaris atrata presenta fiori viola con lunghi stami che fuoriescono dalla corolla. In commercio si trovano molti ibridi di A. vulgaris con fiori, a sperone lungo, di colore bianco, blu, giallo e cremisi.


    Esigenze ambientali, substrato, concimazioni ed accorgimenti particolari
    Temperatura: sono piante perenni e rustiche.
    Luce: sono adatte sia a posizioni soleggiate (specie quelle derivate da A. chrysantha), che a mezz’ombra. Bisogna comunque fare attenzione ai colpi di sole, che possono causare una rapida disidratazione delle piante.


    Substrato: terreni umidi e freschi, ma ben drenati e ricchi di sostanza organica, con aggiunta di terriccio di foglie. A. vulgaris invece preferisce terreni calcarei.
    Concimazioni ed accorgimenti particolari: le specie alpine (in modo particolare A. flabellata e le sue varietà) possono essere coltivate anche in ciotole di 20-25 cm. di diametro, in gruppi di 3-4 piante per contenitore. Si rinvasano, in marzo, ogni due anni. Se si preferisce piantarle all’aperto, si deve procedere in settembre o in marzo. Da tenere presente che le aquilegie presentano una vita abbastanza breve e devono essere rinnovate dopo qualche anno di coltivazione.
    Moltiplicazione e potatura
    Moltiplicazione: le aquilegie si riproducono per seme. Generalmente si procede all’inizio della primavera, utilizzando un composto a base di torba e sabbia, in cassone freddo. Le nuove piantine dovranno essere trapiantate in settembre-ottobre. In serra si possono seminare anche a ottobre. In tal caso si procederà alla messa a dimora definitiva nella primavera successiva. Sono piante che si ibridano spontaneamente con grande facilità e, di conseguenza, i semi raccolti in terreni dove siano coltivate più specie o varietà non danno la certezza di ottenere esemplari con caratteri costanti (meglio in tal caso ricorrere a seme acquistato). Nuovi esemplari possono essere ottenuti anche per divisione dei cespi, ma è un metodo poco utilizzato.
    Potatura: dopo la fioritura, i fusti delle specie alpine devono essere sottoposti a cimatura; mentre quelli delle specie da bordura devono essere tagliati a livello del suolo.
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    Malattie, parassiti e avversità
    - Ruggine: si può manifestare in primavera, con la comparsa di macchie brune sulla pagina inferiore delle foglie. Si combatte con prodotti specifici.
    - Virus del mosaico del cetriolo: si manifesta con la comparsa di piccole macchie gialle fra le nervature delle foglie. La lotta consiste nella prevenzione di tutte le cause di infezione e nell’eliminazione delle piante infette.
    - Larve dei minatori delle foglie: scavano gallerie nei tessuti fogliari. Si combattono con prodotti specifici.
    - Afidi: attaccano foglie e fiori. Succhiano la linfa e rendono la pianta appiccicosa. Si eliminano utilizzando insetticidi specifici.
    COLOMBINA%20AQUILEGIA%20MIX



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    AQUILEGIA....il fiore dai mille segreti....

    Nessun innamorato offrirebbe questo fiore all’amata, anche perché nel linguaggio dei fiori esprime il capriccio, la lussuria più sfrenata,l’egoismo e l’ipocrisia...
    Ma, nonostante tutto, l’aquilegia ha un fascino immenso, sia per la sua rarità allo stato selvatico, che per il mistero che la sua forma particolare si porta dietro: il più grande dei misteri, quello legato all’amore e ai suoi segreti più oscuri.
    Sembra quasi che con la sua forma strana, i suoi colori così particolari, se le sia un po’ cercate, le tante leggende che le sono nate intorno. A partire dal nome, che richiama sia un contenitore d’acqua (dal latino “aquilegium”), sia la regina dei rapaci, l’aquila (forse per i suoi corni che somigliano ad artigli). Ricorda inoltre il cappellino degli gnomi, i dispettosi abitanti dei boschi, non sempre benevoli con gli uomini.

    Nella magia la pianta ha un ruolo importante, I nativi Americani la usavano un infuso di varie parti della pianta per una gran varietà di cure, dal mal di cuore alla febbre e come anti-veleno. Polverizzavano i semi e ne strofinavano la farina sulle mani come afrodisiaco e come profumo da uomo per attrarre la donna desiderata....




    dal web
     
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  4. gheagabry
     
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    Lungo il rivo, a specchio dell'acqua, fioriscono i nontiscordar di me.
    Dalle umili foglioline, sugli steli piegati spuntano i fiori:
    sono pezzettini di cielo
    e in mezzo a ognuno splende un grano d'oro,
    come il riflesso d'un raggio di sole.
    Alcuni si piegano e bagnano la fronte nell'acqua, tremando.
    (G. Fanciulli)


    NON TI SCORDAR DI ME



    Il genere Myosotis (termine che in greco significa orecchie di topo dalla forma della foglia), della famiglia delle Boraginaceae, comprende circa 50 specie di erbe annuali o perenni, alcune conosciute anche come nontiscordardimé e/o occhi della Madonna.
    pianta erbacea perenne originaria dell'Europa, del nord America e della Nuova Zelanda. Sono piccole piante con foglioline oblunghe e fiorellini caratteristici, blu intenso, che sbocciano a profusione in primavera e all'inizio dell'estate riuniti in grappoli. E' una pianta molto rustica, che si può trovare anche allo stato selvatico, solitamente si sviluppa lentamente, ma tende ad occupare tutto lo spazio disponibile.
    Il nome di "non ti scordar di me" pare legato a una storia austriaca, occorsa lungo il Danubio:


    La leggenda di origine austriaca narra che due giovani innamorati si trovavano lungo le rive del grande fiume, scambiandosi parole d’amore. Il ragazzo per cogliere un fiore in riva al corso d’acqua ci cadde dentro e trascinato via dalla corrente. Capendo il suo inesorabile destino guardò la sua bella e pronunciò la famosa frase “Non ti scordar di me!”. Una storia sicuramente non a lieto fine ma estremamente romantica.

    Questo fiore rimase infatti simbolo dell’amore eterno.
    Gli "occhi della Madonna" potrebbero essere legati allo stesso significato, cioè a quello di affidare, mediante il dono di questo fiore, la persona cara in partenza alla benevolenza divina.
    Nella Germania del 15simo secolo, chi indossava il fiore non sarebbe stato dimenticato dalla propria amata; mentre le donne lo indossavano come segno di fedeltà.
    La massoneria usa il "nontiscordardimé" per ricordare quei massoni vittime del regime nazista.
    Il non-ti-scordar-di-me è stato adottato a livello internazionale come fiore ufficiale della Festa dei nonni.



    Go visto i oceti dela madona,
    spuntar in fra le erbe insieme al Pisacan e le margharite;
    sule stradele de campagna.
    Xe vegnù el vescovo e tuti i se ga parecià bei lustri,
    tirà penel có i vestiti dela domenega,
    si siori,
    o'n vescovo li gá inbaucà,
    e la primavera xe rivá.
    Co i so fiori pí bei, come i vestiti dele done.
    Eco coxa che go visto!
    (Chiara Jommetti)




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  6. gheagabry
     
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    "Amo moltissimo le piante. Soprattutto i grandi alberi, le creature più generose della terra. Ma anche le piccole erbe di prato, persino quelle più impudenti, che si ostinano a resistere ai miei tentativi di estirparle dalle aiuole del giardino. Poca gente osserva le piante, forse le trovano noiose. Pochi sanno riconoscere un leccio, o addirittura distinguere un ippocastano da un tiglio. "
    (dal web)


    CARLINA CORYMBOSA



    Carlina (nome scientifico Carlina L. 1753) è un genere di piante spermatofite dicotiledoni appartenenti alla famiglia delle Asteraceae, dall'aspetto di piccole erbacee annuali o perenni dalla tipica infiorescenza stellata.
    L'infiorescenza è provvista di brattee (squame) che circondano l'involucro. Quelle esterne (inferiori) hanno l'aspetto di foglie; quelle più interne (le superiori, chiamate “squame raggianti”) sono lunghe, scariose o pagliacee, brillanti e talvolta colorate dando al fiore l'aspetto di un “semprevivo”. In realtà la funzione principale è quella di attirare gli insetti pronubi (compito che nelle Asteraceae normalmente viene svolta dai fiori ligulati del raggio esterno).

    Questo 'cardo' mediterraneo ha capolini floreali circondati da brattee raggianti, che assomigliano alle ligule delle margherite, di un tipico colore 'oro antico'. Eretto, con foglie oblunghe e spinosissime, cresce nei luoghi aridi del centro sud fino alle isole, sopportando con alterigia il sole ardente e implacabile dell'estate. Cresce nelle scarpate e persino ai margine delle spiagge. Come molte altre specie spinose, le bestie feroci del mondo vegetale, ha un portamento nobile e un aspetto attraente, ma non conviene avvicinarla troppo perchè le sue punture non perdonano.



    .....nella storia.....



    Il nome del genere (proposto nel XIV secolo dal botanico aretino Andrea Cesalpino e usato dal Rembert Dodoens (1518-1585), medico e botanico fiammingo) sembra derivare da Carlo Magno che si illuse di usare la pianta più rappresentativa del genere (Carlina acaulis) come medicinale durante una pestilenza dei suoi soldati nei pressi di Roma (informazione avuta in visione da un angelo). Questa racconto – leggenda ci viene tramandato da uno dei più antichi erboristi: Jacopo Teodoro Bergzabern (latinizzato in Tabernaemontanus).
    In altri testi si fa l'ipotesi che il nome derivi dalla parola carduncolos (diminutivo di cardo = “cardina” o “piccolo cardo”) e in definitiva da Carlo V di Spagna (questo secondo Linneo). In effetti esiste una certa somiglianza con le piante del genere “Cardo” (Asteraceae).
    Quello che è interessante notare, al di là delle varie leggende e racconti di difficile verifica, è che queste piante erano ben conosciuto già dal Medioevo e forse anche prima grazie alle loro proprietà meteorologiche: si dice che le popolazioni alpine dell'Italia, Francia e Austria già in tempi remoti usavano appendere fuori dai casolari i fiori di questo genere in luogo di un igrometro giacché le brattee esterne si chiudono all'arrivo della pioggia e si riaprono con il bel tempo.




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  7. gheagabry
     
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    ...nel silenzio...mille fiocchi bianchi sparsi nel vento....


    l' ERIOFORO



    L'erioforo è una graziosa pianticella erbacea dal caratteristico fiore a forma di piumino. Il suo nome, che si pronuncia con l'accento sulla prima "o", vuol dire, per l'appunto, "portatore di peli", definizione attribuita a questa pianta da Linneo. E' da notare che l'erioforo raggiunge il momento di maggior splendore quando sta per sfiorire. Le setole che compongono il fiore, inizialmente poco appariscente, si allungano e diventano filiformi e piumose, fino a conferirgli quell'aspetto che gli è valso, da parte degli inglesi, l'appellativo di "cotton-grass" (= erba di cotone). E sono questi candidi fili di seta che consentono ai semi di disperdersi, garantendo la riproduzione.
    Alla famiglia dell'erioforo, quella delle Cyperaceae, appartiene anche il genere Cyperus, la cui specie più nota è il Cyperus papyrus. Incredibile! L'erioforo e il papiro sono parenti.

    L'erioforo predilige i suoli umidi delle zone a clima freddo e piovoso. E' possibile trovarlo in Italia e nell'Europa del Nord, in America settentrionale, nell'Africa meridionale e nell'Asia extratropicale. Il suo punto di forza è il "numero". Quando infatti si mostra in insediamenti vasti e popolosi, questo fiore dà il meglio di sè: una distesa di eriofori sulle rive di un lago di montagna è uno spettacolo non facile da dimenticare.




    L'erioforo, chiamato anche Pennacchi di Scheuchzer o Piumini, il cui nome scientifico è Eriophorum Scheuchzeri, si trova negli acquitrini, nelle paludi e nelle torbiere in alta quota. Predilige il terreno leggermente acido dai 1500 ai 2800 metri circa di quota. Fiorisce in genere da giugno ad agosto a seconda dell'altitudine.
    È una pianta erbacea e perenne, con fusti robusti e cilindrici e piuttosto corti, dai 10 ai 30 centimetri.
    Le foglie sono numerose e lineari, guainanti lo stelo, lunghe circa 15 – 30 centimetri e larghe 2 -4 millemetri.
    I fiori sono poco appariscenti, con perianzio ridotto a squame o setole.
    La particolarità, che lo rende unico e facilmente riconoscibile, sono i suoi frutti, erroneamente chiamati fiori, formati da un'unica spiga quasi sferica, sempre eretta che persiste a lungo dopo la fioritura come un vistoso morbido fiocco di cotone, con sete bianco – lanose lunghe da 2 a 4 cm.


    "Guardando gli eriofori, ho ripensato ad uno dei passi di "Fame d'Erba" che più mi è rimasto impresso (introvabile libro scritto a più mani alla fine degli anni '70, narra la vita dei pastori vaganti biellesi, con emozionanti immagini del fotografo Bini). L'Autore, che da parecchi mesi stava seguendo i pastori, un giorno dice di essere stufo di fotografare pecore. Va a fare una gita in montagna, ma senza avere come meta un alpeggio, un gregge. Arriva ad un laghetto le cui sponde sono punteggiate da questi fiocchi bianchi.Inizia a fotografarli e, mentre li guarda nell'obiettivo, si rende conto che, con tutto quello che c'era intorno a lui, sta fotografando ciò che più di tutto assomigliava ad un gregge."
    ( Marzia Verona)




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  8. gheagabry
     
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    Ginestra


    Ginestra%20spinosa





    La Ginestra è un arbusto diffuso su scarpate e terreni difficili, sabbiosi o rocciosi, ed esposti al sole. Di notevole bellezza durante la fioritura, rappresenta una. macchia importante per l'assetto dei suoli in pendenza

    Della Ginestra odorosa in letteratura parlano Teofrasto e Plinio nell'età classica; immortalata da Giacomo Leopardi in una sua poesia, come simbolo della condizione umana di fronte alla natura crudele e distruttiva.
    Dal fusto si ricava una fibra tessile per la produzione di corde; dalla paglia residuata si può ottenere inoltre della cellulosa di buona qualità.
    I fiori della ginestra sono assai ricercati dalle api, poiché contengono un ottimo nettare. E sembra che già i romani e i greci la coltivassero proprio per questa sua peculiarità.
    La ginestra, secondo una credenza religiosa, non è gradita, perchè sembra che il rumore delle sue fronde al vento abbia disturbato Gesù in preghiera nel giardino dei Getsemani.



    La Ginestra di Giacomo Leopardi.


    Leopardi compose questa canzone libera nella primavera del 1836 a Torre del Greco, presso Napoli, durante il suo soggiorno nella villa Ferrigni per scampare dal colera che infuriava in Italia. “La Ginestra” è un lungo componimento poetico, il quale unito al “Tramonto della luna”, compone un dittico, quasi gemello, nel quale il Leopardi sintetizza, in modo chiaro e completo, tutto il suo pensiero filosofico e la sua Weltanschauung. “La Ginestra” è sicuramente una canzone poetica di largo fascino e suggestione per l’intensità del suo messaggio di fratellanza, per il lungo e stringente ragionamento filosofico, per l’intensità del discorso poetico e per il pathos che la sostiene che fa pensare, secondo me, alla stessa drammaticità del “Il giudizio universale” di Michelangelo Buonarroti. Ambedue i capolavori hanno parecchi punti in comune e principalmente il tema del giudizio universale che nella poesia è accennato nell’ultima strofa, nella quale la gentile ginestra verrà annientata dalla lava del Vesuvio che simboleggia la natura distruttrice. Con questa visione apocalittica il Leopardi riprende immagini sulla fine del mondo che aveva già descritto nelle “Operette Morali”.
    E il futuro del verbo piegare (piegherai) sottintende il participio passato dello stesso verbo (non piegato) del verso 307 e chiarisce anche il verso <<futuro oppressore>>. Apocalissi tutta terrena, dove non ci sarà l’intervento di Dio, a cui, credo, il Leopardi non credeva, teoricamente e logicamente, ma a cui credeva umanamente e sentimentalmente, come si evince chiaramente nell’ultima lettera scritta al padre appena 18 giorni prima di morire. Il Leopardi chiude questa lettera proprio richiamandosi a Dio, quando scrive: <<ringrazio teneramente Lei e la mamma del dono di dieci scudi, bacio le mani ad ambedue loro, abbraccio i fratelli, e prego loro tutti a raccomandarmi a Dio acciocché dopo ch’io gli avrò riveduti una buona e pronta morte ponga fine ai miei mali fisici che non possono guarire altrimenti. Il suo amorosissimo figlio Giacomo>> (Da Napoli 27 maggio 1837 a Monaldo Leopardi –


    Testo della canzone “La Ginestra”

    Qui su l'arida schiena
    del formidabil monte
    sterminator Vesevo,
    la qual null'altro allegra arbor nè fiore,
    tuoi cespi solitari intorno spargi,
    odorata ginestra,
    contenta dei deserti. Anco ti vidi
    de' tuoi steli abbellir l'erme contrade
    che cingon la cittade
    la qual fu donna de' mortali un tempo,
    e del perduto impero
    par che col grave e taciturno aspetto
    faccian fede e ricordo al passeggero.
    Or ti riveggo in questo suol, di tristi
    lochi e dal mondo abbandonati amante,
    e d'afflitte fortune ognor compagna.
    Questi campi cosparsi
    di ceneri infeconde, e ricoperti
    dell'impietrata lava,
    che sotto i passi al peregrin risona;
    dove s'annida e si contorce al sole
    la serpe, e dove al noto
    cavernoso covil torna il coniglio;
    fur liete ville e colti,
    e biondeggiàr di spiche, e risonaro
    di muggito d'armenti;
    fur giardini e palagi,
    agli ozi de' potenti
    gradito ospizio; e fur città famose
    che coi torrenti suoi l'altero monte
    dall'ignea bocca fulminando oppresse
    con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
    una ruina involve,
    dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
    i danni altrui commiserando, al cielo
    di dolcissimo odor mandi un profumo,
    che il deserto consola. A queste piagge
    venga colui che d'esaltar con lode
    il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
    è il gener nostro in cura
    all'amante natura. E la possanza
    qui con giusta misura
    anco estimar potrà dell'uman seme,
    cui la dura nutrice, ov'ei men teme,
    con lieve moto in un momento annulla
    in parte, e può con moti
    poco men lievi ancor subitamente
    annichilare in tutto.
    Dipinte in queste rive
    son dell'umana gente
    le magnifiche sorti e progressive.

    Qui mira e qui ti specchia,
    secol superbo e sciocco,
    che il calle insino allora
    dal risorto pensier segnato innanti
    abbandonasti, e volti addietro i passi,
    del ritornar ti vanti,
    e proceder il chiami.
    Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,
    di cui lor sorte rea padre ti fece,
    vanno adulando, ancora
    ch'a ludibrio talora
    t'abbian fra se. Non io
    con tal vergogna scenderò sotterra;
    ma il disprezzo piuttosto che si serra
    di te nel petto mio,
    mostrato avrò quanto si possa aperto:
    ben ch'io sappia che obblio
    preme chi troppo all'età propria increbbe.
    Di questo mal, che teco
    mi fia comune, assai finor mi rido.
    Libertà vai sognando, e servo a un tempo
    vuoi di novo il pensiero,
    sol per cui risorgemmo
    della barbarie in parte, e per cui solo
    si cresce in civiltà, che sola in meglio
    guida i pubblici fati.
    Così ti spiacque il vero
    dell'aspra sorte e del depresso loco
    che natura ci diè. Per questo il tergo
    vigliaccamente rivolgesti al lume
    che il fe palese: e, fuggitivo, appelli
    vil chi lui segue, e solo
    magnanimo colui
    che se schernendo o gli altri, astuto o folle,
    fin sopra gli astri il mortal grado estolle.

    Uom di povero stato e membra inferme
    che sia dell'alma generoso ed alto,
    non chiama se nè stima
    ricco d'or nè gagliardo,
    e di splendida vita o di valente
    persona infra la gente
    non fa risibil mostra;
    ma se di forza e di tesor mendico
    lascia parer senza vergogna, e noma
    parlando, apertamente, e di sue cose
    fa stima al vero uguale.
    Magnanimo animale
    non credo io già, ma stolto,
    quel che nato a perir, nutrito in pene,
    dice, a goder son fatto,
    e di fetido orgoglio
    empie le carte, eccelsi fati e nove
    felicità, quali il ciel tutto ignora,
    non pur quest'orbe, promettendo in terra
    a popoli che un'onda
    di mar commosso, un fiato
    d'aura maligna, un sotterraneo crollo
    distrugge sì, che avanza
    a gran pena di lor la rimembranza.
    Nobil natura è quella
    che a sollevar s'ardisce
    gli occhi mortali incontra
    al comun fato, e che con franca lingua,
    nulla al ver detraendo,
    confessa il mal che ci fu dato in sorte,
    e il basso stato e frale;
    quella che grande e forte
    mostra se nel soffrir, nè gli odii e l'ire
    fraterne, ancor più gravi
    d'ogni altro danno, accresce
    alle miserie sue, l'uomo incolpando
    del suo dolor, ma dà la colpa a quella
    che veramente è rea, che de' mortali
    madre è di parto e di voler matrigna.
    Costei chiama inimica; e incontro a questa
    congiunta esser pensando,
    siccome è il vero, ed ordinata in pria
    l'umana compagnia,
    tutti fra se confederati estima
    gli uomini, e tutti abbraccia
    con vero amor, porgendo
    valida e pronta ed aspettando aita
    negli alterni perigli e nelle angosce
    della guerra comune. Ed alle offese
    dell'uomo armar la destra, e laccio porre
    al vicino ed inciampo,
    stolto crede così, qual fora in campo
    cinto d'oste contraria, in sul più vivo
    incalzar degli assalti,
    gl'inimici obbliando, acerbe gare
    imprender con gli amici,
    e sparger fuga e fulminar col brando
    infra i propri guerrieri.
    Così fatti pensieri
    quando fien, come fur, palesi al volgo,
    e quell'orror che primo
    contra l'empia natura
    strinse i mortali in social catena,
    fia ricondotto in parte
    da verace saper, l'onesto e il retto
    conversar cittadino,
    e giustizia e pietade, altra radice
    avranno allor che non superbe fole,
    ove fondata probità del volgo
    così star suole in piede
    quale star può quel ch'ha in error la sede.

    Sovente in queste rive,
    che, desolate, a bruno
    veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
    seggo la notte; e sulla mesta landa
    in purissimo azzurro
    veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,
    cui di lontan fa specchio
    il mare, e tutto di scintille in giro
    per lo vòto Seren brillar il mondo.
    E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
    ch'a lor sembrano un punto,
    e sono immense, in guisa
    che un punto a petto a lor son terra e mare
    veracemente; a cui
    l'uomo non pur, ma questo
    globo ove l'uomo è nulla,
    sconosciuto è del tutto; e quando miro
    quegli ancor più senz'alcun fin remoti
    nodi quasi di stelle,
    ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo
    e non la terra sol, ma tutte in uno,
    del numero infinite e della mole,
    con l'aureo sole insiem, le nostre stelle
    o sono ignote, o così paion come
    essi alla terra, un punto
    di luce nebulosa; al pensier mio
    che sembri allora, o prole
    dell'uomo? E rimembrando
    il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
    il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,
    che te signora e fine
    credi tu data al Tutto, e quante volte
    favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
    granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
    per tua cagion, dell'universe cose
    scender gli autori, e conversar sovente
    co' tuoi piacevolmente, e che i derisi
    sogni rinnovellando, ai saggi insulta
    fin la presente età, che in conoscenza
    ed in civil costume
    sembra tutte avanzar; qual moto allora,
    mortal prole infelice, o qual pensiero
    verso te finalmente il cor m'assale?
    Non so se il riso o la pietà prevale.

    Come d'arbor cadendo un picciol pomo,
    cui là nel tardo autunno
    maturità senz'altra forza atterra,
    d'un popol di formiche i dolci alberghi,
    cavati in molle gleba
    con gran lavoro, e l'opre
    e le ricchezze che adunate a prova
    con lungo affaticar l'assidua gente
    avea provvidamente al tempo estivo,
    schiaccia, diserta e copre
    in un punto; così d'alto piombando,
    dall'utero tonante
    scagliata al ciel, profondo
    di ceneri e di pomici e di sassi
    notte e ruina, infusa
    di bollenti ruscelli,
    o pel montano fianco
    furiosa tra l'erba
    di liquefatti massi
    e di metalli e d'infocata arena
    scendendo immensa piena,
    le cittadi che il mar là su l'estremo
    lido aspergea, confuse
    e infranse e ricoperse
    in pochi istanti: onde su quelle or pasce
    la capra, e città nove
    sorgon dall'altra banda, a cui sgabello
    son le sepolte, e le prostrate mura
    l'arduo monte al suo piè quasi calpesta.
    Non ha natura al seme
    dell'uom più stima o cura
    che alla formica: e se più rara in quello
    che nell'altra è la strage,
    non avvien ciò d'altronde
    fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.

    Ben mille ed ottocento
    anni varcàr poi che spariro, oppressi
    dall'ignea forza, i popolati seggi,
    e il villanello intento
    ai vigneti, che a stento in questi campi
    nutre la morta zolla e incenerita,
    ancor leva lo sguardo
    sospettoso alla vetta
    fatal, che nulla mai fatta più mite
    ancor siede tremenda, ancor minaccia
    a lui strage ed ai figli ed agli averi
    lor poverelli. E spesso
    il meschino in sul tetto
    dell'ostel villereccio, alla vagante
    aura giacendo tutta notte insonne,
    e balzando più volte, esplora il corso
    del temuto bollor, che si riversa
    dall'inesausto grembo
    sull'arenoso dorso, a cui riluce
    di Capri la marina
    e di Napoli il porto e Mergellina.
    E se appressar lo vede, o se nel cupo
    del domestico pozzo ode mai l'acqua
    fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
    desta la moglie in fretta, e via, con quanto
    di lor cose rapir posson, fuggendo,
    vede lontano l'usato
    suo nido, e il picciol campo,
    che gli fu dalla fame unico schermo,
    preda al flutto rovente
    che crepitando giunge, e inesorato
    durabilmente sovra quei si spiega.
    Torna al celeste raggio
    dopo l'antica obblivion l'estinta
    Pompei, come sepolto
    scheletro, cui di terra
    avarizia o pietà rende all'aperto;
    e dal deserto foro
    diritto infra le file
    dei mozzi colonnati il peregrino
    lunge contempla il bipartito giogo
    e la cresta fumante,
    ch'alla sparsa ruina ancor minaccia.
    E nell'orror della secreta notte
    per li vacui teatri, per li templi
    deformi e per le rotte
    case, ove i parti il pipistrello asconde,
    come sinistra face
    che per voti palagi atra s'aggiri,
    corre il baglior della funerea lava,
    che di lontan per l'ombre
    rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
    Così, dell'uomo ignara e dell'etadi
    ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno
    dopo gli avi i nepoti,
    sta natura ognor verde, anzi procede
    per sì lungo cammino,
    che sembra star. Caggiono i regni intanto,
    passan genti e linguaggi: ella nol vede:
    e l'uom d'eternità s'arroga il vanto.

    E tu, lenta ginestra,
    che di selve odorate
    queste campagne dispogliate adorni,
    anche tu presto alla crudel possanza
    soccomberai del sotterraneo foco,
    che ritornando al loco
    già noto, stenderà l'avaro lembo
    su tue molli foreste. E piegherai
    sotto il fascio mortal non renitente
    il tuo capo innocente:
    ma non piegato insino allora indarno
    codardamente supplicando innanzi
    al futuro oppressor; ma non eretto
    con forsennato orgoglio inver le stelle,
    nè sul deserto, dove
    e la sede e i natali
    non per voler ma per fortuna avesti;
    ma più saggia, ma tanto
    meno inferma dell'uom, quanto le frali
    tue stirpi non credesti
    o dal fato o da te fatte immortali.




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  9. gheagabry
     
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    Come il fiore di cardo io sono, semplice e altero, fiore di terra umile e fiero.
    Come il fiore di cardo io sboccio, poi muoio, e sogno di levarmi al cielo
    come un libero pensiero, ma la terra mi trattiene, dolce e crudele!
    Come il fiore di cardo libero e prigioniero, io sono, fiore di terra umile e fiero...


    Il CARDO



    Carduus L., 1753 è un genere di piante spermatofite dicotiledoni appartenenti alla famiglia delle Asteraceae, comunemente note come cardi, dall'aspetto di erbacee annuali o perenni, mediamente alte, in genere molto spinose e dai fiori simili al carciofo.
    Originario dell'ambiente mediterraneo ed in particolare delle zone di questo più spiccatamente arido-asciutte, il cardo (Cynara cardunculus L.) è in natura una pianta spontanea nei siti erbosi, dove in estate è comune vederne estese fioriture.

    L'antichità del cardo viene attestata anche da antiche leggende che associano questo fiore al pastore siciliano Dafne, alla cui morte (grazie all'intervento di Pan e Diana), la Terra, piena di dolore, fece nascere una pianta piena di spine, il “cardo” appunto.
    È da ricordare ancora che anche nelle tradizioni ariane il cardo era associato al dio Thor (dio della guerra e dei fulmini) .

    Il cardo, da un punto di vista storico è una pianta molto antica : i primi riferimenti certi sono stati trovati nella civiltà Egizia; ma prima ancora sembra che fosse usato in Etiopia.

    Il cardo è il simbolo della Scozia. La leggenda racconta che un gruppo di vichinghi stavano per sorprendere nel sonno degli scozzesi; ma l'agguato fallì in quanto un invasore calpestando col piede nudo un cardo si mise a gridare. Negli stendardi scozzesi infatti il cardo vien associato ad un motto latino che tradotto significa “Nessuno mi avrà sfidato impunemente”



    ......una favola.....


    Vicino a una bella casa si trovava un bellissimo giardino ben tenuto, con alberi e fiori piuttosto rari. Gli ospiti esprimevano la loro ammirazione per quelle piante, la gente dei dintorni veniva dalla campagna e dalle città di domenica e negli altri giorni di festa e chiedeva il permesso di visitare il giardino, intere scuole si presentavano per lo stesso scopo.
    Fuori dal giardino, appoggiato a uno steccato vicino alla strada dei campi, si trovava un grande cardo; era molto grande, ramificato già sin dalla radice così da allargarsi parecchio, e quindi si poteva ben chiamare un cespuglio di cardo. Nessuno lo guardava, eccetto il vecchio asino che tirava il carro del latte delle mungitrici; quello allungava il collo verso il cardo dicendo: «Sei bello, potrei mangiarti!». Ma la corda non era abbastanza lunga e l'asino non riusciva a arrivare.
    C'era una grande festa in giardino; famiglie nobili della capitale, fanciulle molto graziose, e tra queste una signorina che veniva da molto lontano, dalla Scozia, e era di alto casato ricca di beni e di oro: una sposa che valeva proprio la pena di conquistare, dicevano parecchi giovani signori in accordo con le loro madri.
    La gioventù si riunì su un prato giocando a croquet; camminavano tra i fiori, e ognuna delle fanciulle ne colse uno e lo mise all'occhiello di uno dei giovanotti; ma la ragazza scozzese si guardò a lungo intorno, scartando in continuità: nessuno dei fiori sembrava le piacesse; infine guardò oltre
    10 steccato, là fuori c'era quel grande cespuglio di cardo con i robusti fiori rossi e blu, li vide, sorrise e chiese al figlio del padrone di coglierne uno.
    «È il fiore della Scozia!» esclamò. «Splende sullo stemma del mio Paese; me lo colga.»
    Così lui andò a prendere il più bello, ma si punse le dita; era come se la più aguzza spina di rosa crescesse su quel fiore.
    La ragazza lo infilò nell'occhiello di quel giovane, e lui si sentì molto onorato. Ognuno degli altri giovani avrebbe volentieri rinunciato al proprio fiore per poter portare quello donato dalle mani delicate di quella fanciulla scozzese. Se il figlio del padrone si sentiva onorato, pensate come si sentiva il cespuglio di cardo: fu come tutto pervaso di rugiada e di sole.
    "Valgo più di quanto non credessi!" disse tra sé. "In realtà dovrei trovarmi dentro lo steccato, non fuori. Ma si è messi al mondo in modo così strano! Però ora uno dei miei fiori è passato oltre lo steccato e se ne va in giro all'occhiello."
    A ogni gemma che gli spuntava e che sbocciava, la pianta raccontava quell'evento, e non passarono molti giorni che il cardo venne a sapere, non dagli uomini, non dagli uccelli, ma dall'aria stessa che conserva e ripropone ogni suono, e che veniva dai viali più interni del giardino e dalle stanze stesse della casa, dove le finestre e le porte stavano aperte, che il giovane che aveva ricevuto quel fiore di cardo dalle manine delicate della fanciulla scozzese, ora aveva ottenuto la sua mano e il suo cuore. Era proprio una bella coppia, un ottimo matrimonio.
    "Io li ho uniti!" pensò la pianta di cardo, ricordando il fiore che era stato messo all'occhiello. Ogni fiore che spuntò venne a sapere dell'avvenimento..."Ora verrò certo trapiantato nel giardino!" pensava. "Forse sarò messo in un vaso che stringe: sembra sia il massimo degli onori."..Il cardo ci pensò tanto che alla fine disse con grande convinzione: "Andrò nel vaso!".
    Prometteva a ogni fiorellino che spuntava che anche lui sarebbe finito nel vaso, forse in un occhiello; e che quella era la più alta onorificenza che si potesse raggiungere. Ma nessuno finì nel vaso, e neppure in un occhiello. Ricevevano aria e luce, si godevano il sole di giorno e la rugiada di notte, fiorivano, venivano visitati da api e da vespe che cercavano la dote, il loro miele, e la prendevano, ma loro lasciavano correre. «Che briganti!» diceva la pianta di cardo. «Se solo potessi infilzarli! Ma non posso.» ...I fiori piegavano il capo, languivano, ma ne sopraggiungevano di nuovi.
    «Arrivate come se foste stati chiamati» diceva il cardo. «Ogni momento aspetto che vengano a trasferirci al di là dello steccato.»
    Alcune margheritine innocenti e alte erbe lì vicine ascoltavano con grande ammirazione, credendo a tutto quel che veniva detto. II vecchio asino del carro del latte sbirciava dal ciglio della strada verso quel cardo in fiore, ma la corda era sempre troppo corta per raggiungerlo.



    Il cardo pensò così a lungo al cardo della Scozia, del quale si sentiva parente, che credette di venire dalla Scozia e che i suoi genitori in persona fossero cresciuti sullo stemma del regno. Era un grande pensiero, ma quel grande cardo poteva ben avere grandi pensieri.
    «Spesso si proviene da famiglie così distinte che non si osa neppure saperlo» disse l'ortica che cresceva lì vicino Anche lei aveva la sensazione che sarebbe potuta diventare "mussolina" se fosse stata trattata nel modo giusto.
    Giunse l'estate, poi l'autunno, le foglie caddero dagli alberi, i fiori si colorarono più intensamente ma con meno profumo. L'apprendista del giardiniere cantava in giardino di là dallo steccato:
    "Su per la collina, giù per la collina, tutto l'anno si cammina!"
    I giovani abeti del bosco cominciarono a avere nostalgia di Natale, ma c'era ancora tempo per Natale.
    «Io sono ancora qui!» disse il cardo. «Sembra che nessuno abbia pensato a me; e pensare che ho combinato io il matrimonio; si sono fidanzati, e hanno festeggiato il matrimonio già otto giorni fa. Io invece non faccio nemmeno un passo perché non posso.»
    Passarono altre settimane, il cardo ora si trovava col suo ultimo e unico fiore, grande e rigoglioso, che era spuntato proprio vicino alla radice. Il vento soffiava freddo su di lui, i colori svanirono, la bellezza svanì, il calice del fiore, grande come quello di un fusto di pisello, appariva ora come un girasole d'argento.
    Allora giunse nel giardino quella giovane coppia, ora marito e moglie: camminavano lungo lo steccato, e la giovane donna guardò oltre.
    «Il grande cardo è ancora lì!» esclamò. «Ora non ha più fiori.»
    «Ma c'è il fantasma dell'ultimo!» rispose il marito, e indicò quel resto argentato del fiore, che pure era un fiore.
    «È bello!» disse lei. «Uno così dovremmo intagliarlo nella cornice intorno al nostro ritratto.»
    Così il giovane dovette di nuovo scavalcare lo steccato e cogliere il calice del cardo. Si punse le dita, anche se lo aveva chiamato "fantasma". Così quello entrò nel giardino, nella casa, nel salone dove c'era un quadro: La giovane coppia. All'occhiello dello sposo era disegnato un fiore di cardo. Si parlò di quello e si parlò del calice del fiore che loro avevano portato, l'ultimo fiore del cardo che brillava d'argento e che doveva essere intagliato nella cornice.
    L'aria portò fuori il discorso, lontano.
    «Cosa mi deve succedere!» disse il cespuglio di cardo. «Il mio primogenito finì nell'occhiello e il mio ultimogenito nella cornice. Dove finirò io?»
    E l'asino stava sempre sul ciglio della strada sbirciando verso la pianta.
    «Vieni da me, mio caro! Io non riesco a venire fin da te, la corda non è abbastanza lunga!»
    Ma il cespuglio di cardo non rispose, continuava a pensare, pensò e pensò fino a Natale, e allora il pensiero fiorì.
    «Quando i figli sono sistemati, una madre si può adattare a rimanere fuori dallo steccato!»
    «È un pensiero dignitoso!» disse il raggio di sole. «Anche lei avrà un buon posto!»
    «Nel vaso o nella cornice?» chiese il cardo. ..
    «In una fiaba!» rispose il raggio di sole.
    Eccola qui.
    (Hans Christian Andersen)





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  10. gheagabry
     
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    Non basta aprire la finestra per vedere la campagna e il fiume.
    Non basta non essere ciechi per vedere gli alberi e i fiori.
    (Fernando Pessoa)


    Il VILUCCHIO



    Il suo nome deriva dal latino e significa “che si contorce, che si avvolge”. E' una pianta estremamente tenace e difficile da estirpare e proprio per questo motivo essa è l'emblema della caparbietà e convinzione.

    Pianta erbacea rampicante con fusto esile che tende ad avvolgersi e soffocare altre piante che le crescono vicino, in natura cresce in maniera spontanea, presenta foglie semplici o lobate.
    Il frutto può essere una bacca o capsula. Il fiore è a forma di campanula generalmente di colore bianco o rosato, ma lo si trova anche nelle tonalità del rosso. La sua altezza è limitata dai 15 agli 80 cm.




    Vilucchio turco.....Appartenente alla famiglia delle Convolvulaceae, il genere Convolvulus comprende più di 200 specie di cui la specie in questione, il C. cneorum, è sicuramente una delle più note. Diffuso in tutta l’area del Mediterraneo (in Italia è presente lungo le coste di Toscana e Sicilia), il Vilucchio turco è una delle poche specie del genere a crescere come un arbusto e non come una rampicante. Conosciuto anche con il nome di Convolvolo grigio è una pianta rustica (resiste fino a -10° C) che si adatta bene alla coltivazione in vaso ma che, se lasciata libera di crescere in piena terra, sviluppa un rigoglioso cespuglio largo oltre il metro e alto altrettanto.



    Vilucchio marittimo....E' una pianta estremamente tenace e difficile da estirpare e proprio per questo motivo essa è l'emblema della caparbietà e convinzione. Pianta pioniera della spiaggia che nasce in prossimità del mare, grazie al suo apparato radicale rizomatoso e stolonifero e al suo portamento eretto verso l'apice, è capace di tornare rapidamente in superficie anche quando viene ricoperta dalla sabbia spostata dal vento.





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  11. gheagabry
     
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    Il fiore perfetto è una cosa rara. Se si trascorresse la vita a cercarne uno, non sarebbe una vita sprecata.
    (L’ultimo samurai)


    La BOCCA di LEONE



    La bocca di leone appartiene alla famiglia delle Scrofulariaceae e arriva a comprendere più di 40 specie di cui la più conosciuta e presente è la Majus.
    Spesso si coltiva come pianta annuale; il suo fusto è robusto e può arrivare a un’altezza anche oltre il metro, le foglie sono tipicamente lanceolate di un verde scuro, i fiori sono la peculiarità di questa pianta, la loro forma solo parzialmente tubolare ricorda la bocca aperta di un leone, da qui il nome. I colori dei fiori sono tantissimi dal rosa e bianco delicato fino al rosso quasi porpora, passando da un giallo sole molto romantico.
    I fiori sbocciano e ci donano tutta la loro bellezza a partire da maggio-giugno fino ai primi freddi, con queste bellissime infiorescenze a grappolo.
    Quando i fiori cadono, lasciano spazio ai piccoli baccelli ricchissimi di numerosi semi neri.



    "Tra la lavanda da una parte e tageti dall’altra , alla Colombaia, fiorivano le bocche di leone.
    Intorno al muro della vecchia cascina , in un ‘aiuola disordinata ,risaltavano, nascondendo un po’ le screpolature della casa. Crescevano ogni anno e fiorivano tutta l’estate...Si raccoglieva il fiore di Bocca di Leone e, premendo con le dita ai lati, si poteva vedere il fiore aprirsi come una bocca…di leone per l’appunto!"
    (dal web)


    ...storia, miti e leggende....


    La storia di queste belle e generose piante, è davvero antica. Se ne trovano notizie in alcuni scritti di Teofrasto (371-287 a.c.). Il filosofo ne parla di frequente la chiama di volta in volta o antirrhinon o kinokiahalon. I Romani la indicavano come antirrhinon o leonis, mentre l'attuale classificazione si deve a Tournefort e a Linneo.
    I nomi ad uso popolare, invece, si riferiscono soprattutto alle sue corolle che, se si stringe fra le dita, si apre e si chiude come le fauci di un animale, tanto che in Inghilterra è stata denominata "drago che morde".
    Proprio la conformazione dei fiori le ha anche attribuito magici poteri e la capacità di di proteggere gli uomini da qualsiasi meleficio. I trattati di magia ed erboristeria sono pieni di consigli sull'uso delle bocche di leone che venivano intrecciate a ghirlanda oppure a mo' di bracciali alti quando si dovevano affrontare ardue prove o per favorire la benevolenza degli Dei..
    .. racconta la leggenda per far sorridere venere e plutone che si erano accesi in una discussione
    che non aveva termine..allora era madre della terra fece fiorire questa pianta in mezzo a loro donando ad essa un potere di armonia e di pace..coltivata..nei nostri giardini porta a chi ce l’ha un senso di serenità solo a guardarla muoversi sospinta dal vento suo amico..
    La tradizione lo considera da sempre il fiore del capriccio; nel medioevo, infatti, le ragazze erano solite ornarsi i capelli con questi fiori per rifiutare i corteggiatori non desiderati. Per questo la valenza generalmente riconosciuta alla bocca di leone è l'indifferenza ed il disinteresse.
    Anticamente, la bocca di leone veniva utilizzato come cosmetico e anche adesso, in erboristeria potete trovare degli infusi con le foglie e i petali del fiore.



    .....una favola.....


    LA REGINA DEI FIORI n giorno non molto lontano, in un giardino incantato, viveva la Regina dei fiori. Si chiamava Caterina, ed era uno strano miscuglio fra i petali di una rosa, i colori di un ranuncolo, l'eleganza di un orchidea ed il profumo di una tuberosa.
    Viveva su una collinetta circondata da un prato di margherite. Tutti gli abitanti del luogo le volevano bene e le riconoscevano molta saggezza, tanto da andarla a disturbare per ogni bega od inezia, ma a lei non dispiaceva e cercava di essere sempre all'altezza di ogni situazione.
    La sua vita scorreva tranquilla, senza intoppi; ogni tanto un po' di acqua di colonia le dava la carica, ed andava avanti per giorni interi senza problemi, fino al giorno in cui la sua bellezza le procurò un grosso spavento.
    Stava tranquilla, a godersi una bella giornata, quando un ombra gigantesca le coprì il sole, ed una ragazza si chinò su di lei: dolcemente le prese il gambo tra le dita e la strappò alla sua terra. Caterina tremò, urlò, si dimenò, ma tutto fu inutile. In men che non si dica era già in un cesto, insieme ad altri fiori, pronta per essere acconciata per le feste.
    Era avvilita, la sua gioventù sarebbe sfiorita in un battibaleno, e l'angoscia l'assalì.
    Era ancora lì, disperata, quando delle mani gentili la accarezzarono, la coccolarono e la sistemarono al centro di un mazzo sontuoso. Era un bouquet da sposa e lei era ancora la regina, messa così in evidenza. Improvvisamente si risollevò, e curiosa cercò di scrutare meglio la sua nuova situazione. In fondo non era così male, e poi la sua amica era proprio carina, ed aveva una gran cura di lei.
    La cerimonia fu semplice ma sentita e lei quasi quasi si commosse. Tutto andò per il meglio, ed ancor oggi Caterina trionfa, al centro del mazzo essiccato con cura, in un vaso di Baccarat, nel grande salotto di quella giovane sposa.
    Forse i suoi colori sono un po' sbiaditi, ed il suo profumo non è più lo stesso, ma la sua giovane sposa non l'avrebbe cambiata per niente al mondo quella regina dei fiori che tanta fortuna le aveva portato.
    (Marzia)




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  12. gheagabry
     
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    L’amore è un bellissimo fiore,
    ma bisogna avere il coraggio di coglierlo sull’orlo di un precipizio.
    (Stendhal)


    l' ANDROSACE MATHILDAE



    Piccola pianta formante un cespuglio denso con foglie lineari e lucide. Fiori bianchi o rosei isolati su steli. Si rinviene nelle fessure delle rupi tra i 2100 e 2700 m di altitudine..Fiorisce da giugno a luglio. Predilige posizioni dove possano godere di almeno alcune ore di luce solare diretta.

    È una specie rara in base alla Lista Rossa delle Piante d'Italia. E' inoltre protetta ai sensi della L.R. n. 45/79 della Regione Abruzzo. La specie è inserita nell'appendice I della Convenzione di Berna. E' stata recentemente confermata la sua presenza nei Balcani (Montenegro) pertanto non è più considerata endemica bensì a distribuzione anfiadriatica
    Presenza nel Parco: E' localizzata in pochissime stazioni delle quote più elevate della Majella

    Pianta dedicata da Levier a sua moglie Matilde "per il suo coraggio durante la difficile ascensione al Gran Sasso e perché essa l'aveva per prima individuata.




    "Papaveri, margherite, fiordalisi ... belli, sì, ma sempre quelli", si diceva il contadino. "Perché non posso avere anch'io quei fiori delicati che fanno bella mostra nei negozi di città?"; e decise di costruire una serra in modo da coltivare tutto quello che gli fosse piaciuto. Spese tempo e denaro, ma infine il sogno fu realizzato e la sua gioia raggiunse il colmo quando i primi fiori si aprirono bellissimi.
    "Belli, non c'è che dire" pensava tra sé il fiore di campo nato nell'erba lungo il muro della serra. E li guardava con invidia vedendo il contadino profondere tutte le sue attenzioni: il concime, i vitalizzanti, il terriccio, la temperatura, l'umidità, tutto doveva essere sotto controllo. Al fiore di campo nulla di tutto questo: se la terra in cui era nato, se il cielo con le sue piogge non avessero pensato a lui, avrebbe fatto una misera fine. Ma era tenace e resisteva sotto il sole, sotto la nebbia, sotto la pioggia, nel vento.
    Nelle giornate miti e serene il contadino lasciava spalancate nelle ore più dolci le vetrate della serra e fu in una di queste occasioni che uno dei fiori sporse la sua corolla verso l'aria, verso il cielo. Si guardò attorno incuriosito e vide sotto di sé il fiore di campo. Gli sembrò subito brutto: non aveva le sfumature, la delicatezza, la morbidezza sua e dei suoi compagni e si sentì decisamente superiore, e poi che cosa faceva un fiore là fuori? doveva essere ben triste la sua sorte senza nessuno che si curasse di lui. Da allora lo guardò spesso con commiserazione ma anche con stupore per l'energia che dimostrava nel sopportare freddo e caldo, umidità e siccità. Intanto il fiore di campo più osservava il fiore di serra più si sentiva umiliato, maltrattato dalla sorte, addirittura rabbioso verso il compagno a suo dire più fortunato.
    Ma un giorno in cui la serra era rimasta aperta, il tempo cambiò rapidamente: un vento fortissimo portò densi nuvoloni e una pioggia violenta che si abbatté in ogni direzione. Il contadino, troppo lontano nei campi, non giunse in tempo a mettere al riparo i fiori che si trovarono in piena bufera. Quando l'uragano fu passato, il fiore di campo che da giorni attendeva un po' d'acqua, appariva turgido e smagliante; il fiore di serra chinava il capo avvizzito, i petali scomposti e lacerati, le figlie divelte. "Io che ero tanto orgoglioso della mia bellezza" pensava "e che mi vantavo delle cure che ricevevo! quanto sarebbe stato meglio che avessi imparato a vivere con le mie forze, secondo le mie energie...". Il fiore di campo guardava stupito il disastro dicendosi che lui invece, anche se era messo a dura prova, alla fine otteneva sempre ciò di cui aveva bisogno per vivere rigoglioso. Il più disperato fu il contadino, ma alla fine, riflettendo sulla vicenda, capì che ogni essere deve avere il suo ambiente e che anche i fiori di campo sono belli, ... forti e belli. (G.G.)




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    l' ERINGIO




    Piante erbacee interessanti per i fiori inconsueti, circondati da un collare di brattee finemente divise, spesso spinose, talvolta di una lucentezza metallica. In realtà esistono ben 230 specie, alcune rustiche e altre delicate e perciò spesso trattate da annuali.

    E' una pianta strana; è una Ombrellifera camuffata da cardo di cui imita le ombrelle bianche, fitte come quelle dei capolini delle Composite. E' chiamato con vari nomi, ma è un cardo nomade. Le radici dell'eringio si attaccano tenacemente al terreno creando per il diserbo gravi problemi ai coltivatori.
    Perenne ed è chiamata nomade, perchè in autunno il fusto si stacca naturalmente dal suolo e, secco e leggero, diventa preda del vento che lo trasporta altrove per la dissemina naturale.




    II genere Eryngium appartiene alla famiglia delle ombrellifere. È una pianta diffusa in Italia in particolare nelle zone dunali. È una pianta perenne dalle foglie spinose e coriacee di colore giallo-verde con sfumature azzurrine. I suoi fiori sono riuniti in densi capolini o in folte spighe, muniti di calice a cinque lacinie rigide e pungenti, la corolla è di colore bianco o azzurrognolo, mentre il frutto è munito di aculei o di tubercoli. Quando si staccano, le foglie diventano di colore giallo - ocra e restano spinose. La radice nera e grossa scende in profondità nella sabbia ed ha sapore dolciastro e odore simile a quello delle carote. L'Eringio può raggiungere i 70 cm di altezza ed ha un fusto ramificato.

    Il nome del genere (“Eryngium”) fa probabilmente riferimento alla parola che ricorda il riccio: “erinaceus” (in particolare dal greco “erungion” = “eringio”); ma potrebbe anche derivare da “eruma” (= difesa), in riferimento alle foglie spinose delle piante di questo genere. Il nome della specie deriva dal particolare colore bluastro-violetto dell’infiorescenza.




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  13. gheagabry
     
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    Le ORCHIDEE SPONTANEE



    Orchidee … e subito ci vien da pensare ai quei grandi e vistosi fiori tropicali che ammiriamo esposti dal fiorista, ma non meno belle e interessanti sono le più modeste orchidee nostrane.
    Con circa 25.000 specie diffuse in tutto il mondo, quella delle orchidee è la seconda famiglia in ordine di grandezza dopo le composite, mentre le orchidee tropicali sono per lo più EPIFITE vivono cioè sulle chiome o sulle forcelle degli alberi, le orchidee nostrane al contrario sono per lo più GEOFITE, cioè terricole, bisogna darsi da fare per trovarle: nascoste fra i cespugli, nell’erba, nella macchia spinosa, nei boschi di abete rosso e nelle pinete litoranee nonché fra gli ulivi, esse raggiungono al massimo un’altezza di 50 cm., i loro fiori, eccezione per la Pianella della Madonna sono piccoli e bisogna osservarli da vicino per riconoscerne tutta la loro bellezza, la vivacità dei loro colori e la stranezza delle forme.


    Orchidea piramidale
    Anacamptis pyramidalis



    © Alessio Di Leo


    La definizione del Genere è derivata dal greco "anakamptein", si pensa per i due segmenti eretti posti sul labello, il nome di specie "pyramidalis" deriva dal latino piramidale, per la caratteristica forma che assume all'esordio l'infiorescenza di questa orchidea. Diffusa in suoli particolarmente calcarei e asciutti, la troviamo presente e ben diffusa nell'intero territorio nazionale, oltre che nei prati collinari e montani, mi capita spesso d'incontrarla ai bordi delle strade interne delle aree boschive più aperte.


    Orchidea delle zanzare
    Gymnadenia conopsea



    La Manina rosea, o Orchidea delle zanzare (Gymnadenia conopsea) è un’orchidacea alta fino ad 1 metro.
    Presenta foglie molto lunghe e strette, e fiori profumati, colorati dal rosa al violaceo.
    Di origine euroasiatica, cresce nei boschi, nei prati.
    Questa pianta può essere impollinata solo tramite la sottile spiritromba delle farfalle, uniche impollinatrici del genere.
    “Conopsea” deriva dal greco kónops , “Zanzara”, per la somiglianza dello sperone con l’apparato boccale dell’insetto.


    Orchidea palmata, Giglio sambucino
    Dactylorhiza sambucina



    Il nome generico (Dactylorhiza) è formato da due parole greche: “dito” e “radice” e si riferisce ai tuberi suddivisi in diversi tubercoli (tuberi a forma digito-palmata). Il nome specifico (sambucina) deriverebbe dall'odore di sambuco che emanano alcune piante di questa specie.
    Il binomio scientifico di questa pianta inizialmente era Orchis sambucina, proposto dal botanico e naturalista svedese Carl von Linné (1707 - 1778) in una pubblicazione del 1755, modificato successivamente in quello attualmente accettato (Dactylorhiza sambucina), proposto dal botanico ungherese Károly Rezso Soó (1903 – 1980) nel 1962.
    In lingua tedesca questa pianta si chiama Holunders-Knabenkraut; in francese si chiama Orchis à odeur de sureau.
    Questa piccola orchidea, che si può trovare in diverse gradazioni di colore, che vanno dal giallo, al rosa, al rosso porpora, vegeta in prati aridi, pascoli, arbusteti e boschi radi, soleggiati.



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  14. gheagabry
     
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    Un giorno le stelle bisticciarono con la stellina più piccola del firmamento. Le dissero:
    Sei così piccina che dalla terra non ti vedono.
    Fatti più in basso . Il cielo non è per te.
    La povera stellina, avvilita, fuggì verso la terra.
    Cadde in un prato e si frantumò in mille stelline
    che cosparsero tutta l'erba. Il prato gioì: -Voi siete
    tutte' mie! Vi darò il mio nome: « Pratoline »!
    Le piccole stelle furono felici.
    Chiusero i petali per non vedere le superbe stelle del cielo e amarono il prato.

    L. Tridenti



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  15. gheagabry
     
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    Dobbiamo considerare le piante, non semplici macchie di colore,
    ma vecchie amiche sulla cui venuta possiamo sempre contare,
    e che, tornando di stagione in stagione,
    riportano con loro i ricordi piacevoli degli anni passati

    Henry Brigth



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59 replies since 28/9/2010, 15:16   80069 views
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