OGGETTI nei ricordi e nella storia

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  1. gheagabry
     
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    La storia del tappeto..



    Il tappeto orientale è senza dubbio una delle prime espressioni artistiche di quei popoli che attorno al 2800-3000 a.C. iniziarono a sentire l’esigenza di migliorare le proprie condizioni di vita circondandosi di manufatti che, oltre a fungere da ornamento delle dimore, assumevano un intimo significato artistico e religioso.
    I primi lavori tessuti a telaio di cui si hanno testimonianze risalgono al 2100 a.C. (età del bronzo inferiore) ed al periodo neolitico. Pitture tombali della Mesopotamia testimoniano l’uso di tappeti di lana colorati fin dal IV°millennio a.C. quindi già in epoca Sumera.
    Ma la testimonianza storica assoluta rimane ancora oggi il monocromo di Pazyryk, frammento di eccezionale valore storico rinvenuto nel 1949 durante lo scavo del quinto tumulo sepolcrale (kurgan) nella valle di Pazyryk, non lontano dalla Mongolia oggi abitata dai Calmucchi bianchi. L’esemplare di rara bellezza ed elevata tecnica esecutiva, mostra segni di fattura persiana policroma benché il tempo lo abbia reso monocromo. Il disegno del frammento ricorda i mosaici pavimentali Assiri del II° millennio a.C. ed è verosimile che avesse una funzione di copertura di tavoli da gioco.

    Questo conferma quindi che la tradizione di annodatura trattata dai testi solo dal 1500-1600 d.C, in realtà risale ad almeno quattro millenni prima modificandosi e seguendo tutte le vicissitudini storiche dell’Oriente.
    I ritrovamenti successivi sono costituiti da alcuni frammenti databili attorno al VI e all’XI Sec. d.C.: essi hanno colori semplici e disegno di tipo primitivo.
    Dei periodi successivi, tra il XV ed il XVIII secolo, si conservano circa 1500 esemplari in musei e collezioni private e rappresentano quello che può essere definito il periodo storico del tappeto. In quell’arco di tempo in Anatolia si annodano tappeti dai grandi motivi floreali (Usciak), mentre tra la fine del ’500 ed il ’700 fiorisce la produzione di tappeti in seta dai colori delicati detti “polacchi” ma di manifattura persiana; anche nelle colonie indiane si annodano tappeti detti portoghesi o Gòa ed è dall’Anatolia che arrivano i tappeti detti Holbein famosi per la loro raffigurazione ricorrente nei dipinti del 1500.
    Solo alla fine dell’800 questa espressione artistica viene divulgata con grande riscontro in tutto il mondo come testimonianza di una tecnica e di una cultura antichissima, ma ancora intatta nello spirito.
    Oggi si usa spesso identificare la Persia con lo stato dell’Iran, ma nell’antichità la Persia comprendeva un territorio vastissimo che si estendeva ad Est fino ai confini dell’India e della Cina, ad Ovest fino all’attuale Bulgaria e Romania e a Nord fino all’attuale Russia includendo quindi anche Turchia, Afghanistan e Caucaso. La capitale stessa era un tempo al di fuori degli attuali confini dell’Iran. Per queste ragioni storico-geografiche tutti i tappeti annodati in questi territori sono altrettanto pregiati ed unici quanto quelli Iraniani.
    (iranianloom.it)


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    affascinante!grazie
     
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  3. gheagabry
     
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    La storia delle "SCATOLE DI LATTA"



    La storia lascia sugli oggetti che ci circondano dei segni indelebili; quello che vi proponiamo è un viaggio nel tempo per rivivere attraverso le immagini litografate sulle scatole si latta cento anni di cambiamenti storici, di stili e gusti del nostro paese. L’ Ottocento stava per finire e l’Italia, finalmente unificata, si stava lentamente organizzando come Nazione; crescevano gli scambi favoriti dal veloce sviluppo dei mezzi di trasporto e un discreto benessere si andava diffondendo soprattutto nelle fasce più avanzate della borghesia. L’industrializzazione partita dall’ Inghilterra aveva conquistato l’Europa, scendendo anche da noi, a cominciare dal settentrione. Le industrie nascenti attiravano sempre più gente dalle campagne, le città si espandevano e la popolazione inurbata cresceva rapidamente.La certezza di un salario per molti, e il raggiungimento di un discreto benessere della borghesia, favorirono l’aumento dei consumi e crearono nuove tentazioni che colmavano antichi bisogni. L’ aumento dei consumi interni, il raggiungimento di nuovi mercati grazie allo sviluppo dei mezzi di trasporto, e la partecipazione alle grandi Esposizioni, trasformarono nel giro di pochi anni pasticcerie e cioccolaterie a conduzione familiare in piccole industrie, grazie anche all’impiego dei nuovi macchinari azionati dalla forza motrice del vapore. Le grandi Esposizioni Nazionali ed Internazionali erano il punto d’incontro per scambi di merci, nuove invenzioni e macchinari, qui i migliori prodotti venivano premiati con Medaglie ed Onori
    onorificenze. A Torino, regno del cioccolato, oltre che dei Savoia, nascevano in quegli anni Ditte che hanno scritto la storia delle scatole di latta italiane. Fra queste: Caffarel Prochet (1826), Michele Talmone (1850), Moriondo e Gariglio (1850), Baratti e Milano (1858), L. Leone (1875), Silvano Venchi (1878) e De Coster (1880). Nel 1890 Torino contava 205 addetti nel settore dolciario, un censimento effettuato nel 1911 rivelò che erano diventati 1.200. L’industrializzazione conquistò anche altre città; a Vercelli nel 1858 fu fondata la Luigi Rossa, specializzata nella produzione del “Caffè Rossa”, che veniva distribuito ai negozianti in stupende scatole di latta; la famosa serie degli “Elefanti” di cui, ad oggi, si conoscono oltre trenta esemplari che spaziano dal liberty al futurismo. A Martignacco, in provincia di Udine, nel 1891 nacque la Delser, cui si devono una bellissima serie di scatole storiche, oltre a modelli di auto-giocattolo porta-biscotti. A Saronno, nel 1888, Davide Lazzaroni, figlio di Carlo, che già aveva avviato la produzione dei famosi amaretti, fondò l’omonima ditta che da subito legò la sua immagine a bellissime scatole di latta acquistate inizialmente sul mercato inglese.
    Alla Saiwa (Società Accomandita Industria Wafer Affini), fondata a Genova nel 1900, dobbiamo la più bella e vasta serie di lattoni per la vendita dei biscotti sfusi (detti comunemente “bidoni” per le loro dimensioni). Ma il centro Italia non era da meno; nel 1890, a Roma, Pietro Gentilini fondava l’omonima ditta, cui dobbiamo una serie di scatole che possono competere tranquillamente con quelle delle aziende del nord. Accanto a queste grandi ditte, fiorivano in quegli anni una miriade di altre piccole pasticcerie e cioccolaterie a livello locale, che ci hanno lasciato degli esemplari mirabili di imballi in latta.
    Intanto la clientela aumentava e i mercati da raggiungere erano sempre più lontani; dal locale si passò al regionale, poi al nazionale, fino all’estero. Serviva un imballo solido ma allo stesso tempo leggero, che non alterasse i sapori e mantenesse la fragranza del contenuto. Le scatole di latta si rivelarono ben presto l’ideale, avevano in oltre il grande pregio di poter essere personalizzate a piacere con la stampa litografica. Erano anni in cui quasi tutti i prodotti venivano venduti “sfusi”, biscotti, cacao e caramelle arrivavano nei negozi in capienti scatole vuoto a rendere; finita la scorta i lattoni vuoti venivano ritirati dai rappresentanti, portati in fabbrica, lavati e di nuovo riempiti per iniziare un nuovo dolce viaggio. Una scatola di latta poteva così durare anche qualche anno e ciò consentiva di ammortizzare gli ingenti costi iniziali.L’utilizzo della latta in campo alimentare aveva in realtà origini ben più lontane; infatti, già a partire dal XIII secolo la Germania, grazie ai suoi giacimenti di ferro e stagno, aveva sviluppato una fiorente industria per la lavorazione della banda stagnata (così chiamata perché composta da un lamierino di ferro rivestito di stagno da entrambi i lati). Per la sua caratteristica di non alterare i sapori, fu impiegata inizialmente nella produzione di attrezzi da cucina quali pentole, cucchiai e piatti; da lì si passò poi alle scatole. La Germania detenne il primato nella produzione e nell’esportazione in Europa fino al 1750, quando gli inglesi decisero di sfruttare le miniere di stagno in Cornovaglia; da allora l’ascesa dell’ Inghilterra fu inarrestabile. Nel 1885 su 131 fabbriche di latta al mondo, 97 erano in Inghilterra. Il primo utilizzo su larga scala delle scatole di latta fu in campo militare, per le scorte alimentari di eserciti, esploratori e marinai.Fino al ‘700 le battaglie combattute in Europa erano fra eserciti relativamente piccoli, il cui sostentamento era in gran parte dato da razzie nei territori attraversati e conquistati.
    Durante la Rivoluzione e poi con Napoleone, gli eserciti erano composti invece da centinaia di migliaia di uomini, e gli alimenti conservati in scatola si rivelarono decisivi nell’andamento di svariate battaglie. Le tecniche per la conservazione dei cibi in vetro, iniziate dal francese Appert sul finire del ‘700, furono portate avanti con successo dagli inglesi e, nel 1810 De Heine e Peter Durand brevettarono un sistema per la conservazione dei cibi utilizzando come contenitori le scatole di latta, loro specialità. L’industria in campo militare si affinò sempre più, arrivando a stupire i nostri genitori e nonni quando videro la famosa “ razione K” in dotazione all’esercito americano; era composta da due scatole: la prima conteneva una minestra, la seconda , meraviglia delle meraviglie, era divisa in sei compartimenti stagni che, partendo dall’alto, contenevano rispettivamente: carne di maiale, formaggio, prosciutto, torta di cereali, pastiglie polivitaminiche, e per finire qualche foglio di carta igienica! Quanto ai marinai, i cibi conservati, insieme a biscotti e galloni di succo di limoni, rappresentarono l’ancora di salvezza dallo scorbuto, che tanti di loro aveva decimato nei viaggi transoceanici. Parlando di marinai torniamo in Italia e più precisamente in Liguria, regione che svolse un ruolo chiave nella nostra storia negli anni a cavallo fra ‘800 ed il ‘900; qui infatti sorsero tutta una serie di “litografie su metallo” specializzate nella produzione di scatole di latta. In realtà, la lavorazione della banda stagnata si era sviluppata già all’inizio dell’ Ottocento, complice la vicina acciaieria e gli ingenti scambi commerciali dati dal porto; dai vecchi stagnini che potevano produrre si e no 100 scatole al giorno, si era poi passati alla piccole industrie metallurgiche. Il polo principale era Sampierdarena (Comune annesso a Genova nel 1926), oltre a Savona e Oneglia; quest’ultima si specializzò nella produzione di latte per olio. Sul finire dell’800, la stampa litografica applicata al metallo e il crescente numero di aziende private che utilizzavano scatole di latta litografate come imballi dei loro prodotti, attirò nel settore esperti provenienti dalla stampa su carta e dalla pubblicità, consapevoli delle vaste applicazioni che il nuovo mezzo consentiva, nascevano così in quegli anni il packaging e le insegne pubblicitarie in latta. Per molti anni la Liguria detenne il primato per la fabbricazione di scatole in Italia.Aziende dolciarie come Lazzaroni e Delser, che per anni avevano comprato le scatole nelle grandi esposizioni europee, poterono finalmente acquistarle nel mercato interno. L’Americana produsse scatole per la De Coster (To), Gatti (To), Marchisio- Wamar (To), Mondino (To), Saiwa (Genova) e Zeda (Intra). Lo Stabilimento Casanova di Genova Sampierdarena annoverava fra i suoi clienti I.W.A.T. (Industria Wafer Affini Torino), Zaini (Mi), Baratti e Milano (To), Chiarino (No) e Severino Cei (Mi). La Società Anonima De Andreis , fondata a Genova nel 1913, oltre a clienti italiani tipo Bertini e Donati (Na), Delser (Ud), Lazzaroni (Saronno), Naj (Ge-Mi) e Parenti di Siena, aveva aperto due filiali estere in Spagna e Francia. In quest’ultima, in particolare, oltre alle scatole aveva prodotto anche delle auto giocattolo; nel dopoguerra si fonderà con la Casanova dando vita alla De Andreis & Casanova, a cui devono due scatole Zeda disegnate da Dudovich e Mauzan.Gli scattolifici avevano generalmente un loro studio grafico interno che proponeva i bozzetti ai clienti. La Società Ligure Lavorazione Latta aveva nel suo staff Guerzoni, che ha firmato i bozzetti per decine di scatole vendute sia in forma anonima, che personalizzate per ditte come Saiwa e Paglierini e, fra gli altri clienti poteva annoverare Lazzaroni, Marchisio , Leone Gioberge, Biscottificio Tergeste e Bertolini e Dufour.Lo Stabilimento MoroT & figli realizzò alcuni degli esemplari della serie “Elefanti” della Luigi Rossa, mentre si devono alla Ditta Diana R.D. & C. le due bellissime scatole di forma insolita e decori esotici realizzate per la Elah e la De Coster. Ad Oneglia lo Stabilimento Renzetti, per soddisfare la domanda locale, si specializzò nella produzione di latte per olio, destinate sia al mercato interno che all’esportazione.
    Nel 1906 un pericoloso concorrente si affacciò all’orizzonte; a Milano fu fondata la Metalgraf che nel giro di pochi anni divenne leader del mercato, superando le frammentate industrie liguri. Conquistate le ditte storiche come Lazzaroni, Delser, Franck e De Coster, si rivolse poi con successo al mercato del sud, annoverando fra i suoi clienti il Monopolio Tabacchi (per le scatole di sigarette) e aziende dolciarie come: Gentilini e Loreti a Roma, Nunzia a L’Aquila e la Pelino di Sulmona. Fu aperta anche una filiale a Napoli, denominata Metalgraf Sud. Negli anni ’20 creò una divisione per la produzione di auto-giocattolo, realizzando per la De Coster un autocarro contenitore per le “pastiglie Minerva” ed una locomotiva. La moda dei giocattoli come contenitori di biscotti e caramelle veniva dall’ Inghilterra, dove ditte come Huntley & Palmers, Jacob e Crawford avevano in catalogo decine di bellissimi giochi che spaziavano tra carrozze e navi, carri da circo, carrozzine, mulini a vento e orologi a pendolo. In Italia le auto-giocattolo porta biscotti e caramelle conosciute sono in tutto una quindicina; fra queste il camion Fiat 18 prodotto dalla Cardini di Omega per la Elah ed il Biscottificio Italiano, in cui la scatola di biscotti veniva messa nel vano carico,l’ Alfa Romeo 1500 della Delser realizzata dallo scatolificio Passero di Monfalcone con tetto a ribalta per inserire le caramelle , la locomotiva e gli autobus Perugina prodotti dalla Cardini.
    C’è poi un giallo ancora irrisolto: su un catalogo dalla Saiwa degli anni ’20 è riportato un camioncino porta-biscotti, ma ancora oggi molti si domandano se esista davvero; chissà, forse è ancora in una soffitta, riposto con altri giochi in un vecchio baule… Sempre a Milano la Alemanni, specializzata in auto-giocattolo, realizzò per la Luigi Rossa di Vercelli svariate scatole della serie “elefanti”. In Sicilia il grosso del mercato era servito da scatolifici locali: Sevettiere di Palermo per le scatole del Cav. Salvatore Gulì , la Zincograf A. Cioni di Catania per Caviezel e Giuseppe Di Paola (Ct) e Tomasino per le scatole della Caflisch di Palermo. Questa regione si caratterizzò per la produzione di un particolare tipo di scatola tonda e bassa, denominata “cassata postale”, il nome deriva dal fatto che venivano utilizzate per spedire per posta le torte. Munite di anelli per la chiusura con piombo, potevano viaggiare tranquillamente mantenendo inalterato il gusto del contenuto; nella pubblicità della ditta Caviezel si leggeva “ Torta Savoja (garantita della durata di un mese)”. Le scatole litografate venivano prodotte in tre versioni, la più semplice ed economica era quella con un decoro generico (bambini, fiori, paesaggi, quadri famosi) non personalizzata (volendo si poteva applicare all’interno un’etichetta in carta); la seconda versione prevedeva la personalizzazione litografica nella parte interna del coperchio; in entrambi i casi lo stesso modello di scatola poteva essere venduto a clienti diversi. Le scatole più pregiate e costose erano quelle per cui era stato creato un bozzetto ad hoc con il nome della ditta in primo piano. Erano gli anni in cui la pubblicità muoveva i primi passi; l’ 11 febbraio 1887 la Giunta Comunale di Torino aveva deliberato l’istallazione di cartelloni pubblicitari. Manifesti nelle strade e scatole e targhe in latta nei negozi, erano i mezzi pubblicitari del tempo; nel manifesto mode e stili si riflettevano in tempo reale, sulle scatole di latta i cambiamenti erano più lenti. Una volta definito il decoro, la scatola, con il sistema del “vuoto a rendere”, poteva durare anche qualche anno. In casi eccezionali può anche accadere che un disegno del 1890 superi indenne i cento anni, arrivando fino ai giorni nostri; è il caso dei “Due Vecchi” della Talmone, realizzato dal tedesco Ochsner, che apparve sulle prime scatole della Michele Talmone all’inizio del ‘900, continuò nel 1924 quando la società fu assorbita dalla Unica, ed ancora nel 1934 quando si trasformò Venchi Unica. Alla veneranda età di 115 anni i due vecchi entrano ancora nelle case degli italiani, questa volta con il marchio Nuova Venchi Unica. Dispensatrici di dolcezza un tempo, adesso le scatole ci raccontano il mondo in cui vivevano. C’erano Re e Regine che concedevano Brevetti di Fornitori Ufficiali e Cavalieri del Lavoro che mostravano con orgoglio i loro Stabilimenti. Romantiche bambine vestite in pizzo ed altre con grandi fiocchi nei capelli che dividevano a malincuore le caramelle con i fratelli, mentre eleganti mamme offrivano spumante e pasticcini agli ospiti. In vacanza si andava alle Terme, salotto della borghesia agiata e qualche volta al mare con castissimi costumi in lana pesante. Quella che appare è una società benestante; in realtà di povertà era ancora diffusa, ma l’ascesa della borghesia era inarrestabile. A lei si rivolgevano i produttori di cioccolato, biscotti e caramelle, alimenti considerati al limite del voluttuario che venivano quindi reclamizzati esaltandone le caratteristiche “digestive e supernutritive”. Il Cav. Silvano Venchi è la personificazione di un imprenditore di successo di fine Ottocento, nelle sue scatole ritroviamo molti dei motivi dominanti che caratterizzavano la comunicazione pubblicitaria di inizio ‘900. Aveva iniziato la sua attività a Torino in Via degli Artisti nel 1878, era fiero della sua ditta e quando si trattò di scegliere una scatola che lo rappresentasse degnamente anche all’estero non badò a spese. Ordinò alla Metalgraf di Milano una bella e solida scatola con gli angoli smussati, che con le sue immagini doveva raccontare la storia della ditta e delle sue specialità. Sul coperchio, come garante della bontà, c’era proprio lui, il “Cav. Silvano Venchi Fondatore della Casa”, elegante, con baffi a manubrio ed espressione fiera. Sui lati, in quattro lingue, la scritta: “Primo Stabilimento Italiano per la fabbricazione di confetti e cioccolato - S. Venchi & C. Società anonima Italiana Torino, Capitale Statutario L. 3.000.000 – Esportazione Mondiale”. La scatola, che poteva contenere confetti, cioccolato o caramelle sfuse, era generalmente appoggiata, complice la sua bellezza, in bella vista sul bancone del negozio; quando la si apriva per affondare il cucchiaio nel dolce contenuto appariva, incorniciata da motivi liberty, la bella immagine dello Stabilimento. Il Cav. Silvano Venchi ne era orgogliosissimo: trent’ anni di onorato lavoro si concretizzavano in quel laboratorio, che occupava una superficie di 3.000mq e dava lavoro ad alcune centinaia di persone, rappresentando il miglior esempio di industrializzazione nel settore dolciario. Aveva partecipato alle più importanti Esposizioni in Europa ed America ottenendo sempre ampi riconoscimenti, le famose “Medaglie delle Esposizioni”; erano diventate talmente tante che le aveva raccolte in un quadro detto “Medagliere”, riprodotto poi anche sulle scatole di latta. Ma la pubblicità fin da subito andò a caccia di “testimonial” di prestigio, i più ambiti erano senza dubbio i Regnanti di Casa Savoia, che concedevano i “Brevetti di Fornitore Ufficiale, speciale e pubblico contrassegno con concessione di innalzare lo Stemma Reale sull’insegna della fabbrica”, e da li su tutta quella che era la comunicazione dell’epoca, dalla carta intestata alle cartoline, alle campagne stampa, fino alle scatole di latta. Molte erano le ditte che erano riuscite ad ottenerli, fra queste la Lazzaroni di Saronno, la Gatti di Torino, la Zeda di Intra, la Francesco Cremona di Canelli, e per finire la Saiwa di Genova; quest’ultima ne mostrava con orgoglio addirittura due: accanto allo Stemma della Real Casa c’era quello di Gabriele d’Annunzio, Principe di Montenevoso. Scopriamo così una delle armi segrete di conquista del Vate: prendere le gentildonne per la gola, con fragranti biscottini e altre dolcezze. Lo Stato Pontificio non era da meno; il Cav. Alfonso d’Emilio era fornitore di Papa Pio X (regnante dal 1903 al 1914), e la Zeda di Intra di Pio XI (1922-1939). La Delser fornitrice dei “Sacri Palazzi” realizzò nel 1929 una scatola commemorativa dei Patti Lateranensi in cui comparivano PioXI, Vittorio Emanuele III, Benito Mussolini ed il Cardinale Gasparri. Accanto ai grossi lattoni per la vendita dello sfuso cominciarono ben presto ad essere prodotte anche delle scatole più piccole per uso privato. Drogherie e pasticcerie a livello locale realizzarono bellissime scatole con immagini di botteghe o vedute di città. Scatole regalo per occasioni importanti, o come ricordo di una vacanza in una località termale, una città d’arte o un pellegrinaggio in città come Roma o Padova. La Gentilini in particolare realizzò una vasta serie di scatole ricordo con le vedute di Roma. Gli anni fra il 1900 ed il 1918 si contraddistinsero per un rapido sviluppo nel settore dolciario cui seguì un periodo di crisi che durò fino al 1923. Nel 1924 in Piemonte si assistette al primo esempio di concentrazione industriale: sei aziende che languivano furono riunite sotto uno stesso marchio e nasceva la Unica; in lei confluirono la Michele Talmone la Moriondo e Gariglio, la Bonatti, la Idea, la Fabbriche Riunite Galatine e Biscuit e la Dora. In pochi anni la Unica divenne una delle più importanti aziende dolciarie europee, con una fitta rete commerciale e una catena di negozi monomarca.
    La ripresa generale del mercato rimise in viaggio anche le scatole di latta. Era il tempo dei grandi cartellonisti, l’epoca d’oro del manifesto in cui valenti artisti collaboravano con le industrie. Nel settore dolciario, la Venchi nel 1923 si fece disegnare da Leonetto Cappiello un Arlecchino che rimase per molti anni il simbolo distintivo della ditta riportato sia sulle scatole di latta che sulla carta intestata. Sempre Cappiello disegnò per la Wamar un bellissimo unicorno, mentre Marcello Dudovich collaborò con la Unica e con la Zeda realizzando un “lattone”. Golia (Eugenio Colmo) illustrò una scatola per la M.A. Gatti di Torino e una campagna stampa per la Venchi. Pino Boccasile lavorò per Crastan, Ivlas, Caffè Haiti ed Olio Radino. Accanto alla fantasia dei grandi illustratori anche la politica e la storia conquistavano il loro spazio. La De Coster di Torino, in omaggio alla regnante Casa Savoia, aveva in catalogo due scatole; la prima riproduceva il Carosello Storico che si svolse a Torino nel 1928 in occasione del IV Centenario di Emanuele Filiberto e X° Anniversario della Vittoria, la seconda le nozze di S.A.R. Umberto di Savoia e S.A.R. Maria Josè del Belgio, celebrate a Roma l’8 gennaio 1930; erano state nozze di corte e di regime, con Mussolini in alta uniforme accanto al Re, legame ripreso nella datazione della scatola MCMXXX - VIII. A Martignacco, in provincia di Udine, la Delser propose ai suoi clienti una serie di scatole con l’effige di Vittorio Emanuele III e la Regina Elena di Montenegro, e un’altra con vedute di Roma e Milano incorniciate tra fasci littori. La storia si rifletteva non solo sulle scatole, ma anche sul loro contenuto; il catalogo Delser proponeva in quegli anni biscotti che si chiamavano “Vittorio, Elena, Italia e Montenegro” e la De Coster presentò la caramella “Fascio”. Intanto la guerra si avvicinava, la Campagna in Africa Orientale fornì nuovi spunti nei decori delle scatole. La Saiwa (Società Anonima Industria Wafer Affini) di Genova realizzò una bellissima scatola con due Ascari in moto, ma dovette sottostare alle leggi che vietavano l’uso di nomi stranieri e cambio così il suo nome Saiva (Società Anonima Biscotti Saiva). Nel frattempo la Unica di Torino presentava la caramella “Negus”, la Gentilini di Roma i biscotti “Tripolini” e la S. Giacomo di Genova le caramelle “Faccetta nera”. Erano anni di forte disoccupazione e contrazione dei consumi, molte aziende dolciarie chiudevano per gli elevati costi di produzione e la carenza di materie prime causata dalle leggi autarchiche, altre sopravvivevano ricorrendo all’uso di succedanei. L’industria bellica monopolizzava l’uso dei metalli e anche le scatole di latta si impoverirono, abbandonata la stampa litografica venivano personalizzate con etichette in carta, erano povere ma indispensabili e le varie ditte se le contendevano a man bassa, accade così di trovarne con tre o quattro strati di etichette di aziende diverse. Il colpo di grazia arriva negli anni della II Guerra Mondiale, quando i prodotti dolciari vengono messi al bando essendo considerati generi voluttuari e non semplici alimenti. Con la fine della Guerra le Aziende riprendono la produzione, per qualche anno continua l’utilizzo delle scatole di latta, finché non andarono in disuso con l’introduzione di quelle in cartone. Il nuovo imballo è leggero, economico e non pone problemi di immagazzinamento. Una volta vuoto si butta, e i rappresentanti non devono più viaggiare avanti e indietro con lattoni pieni e vuoti.
    Le scatole di latta per biscotti, cacao e caramelle scompaiono così lentamente dai negozi, salvo tornarci per occasioni speciali o in riedizioni di quelle prime scatole con cui avevano cominciato il loro dolce viaggio.
    (casadellescatole.org)


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  4. gheagabry
     
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    Come una candela ne accende un'altra e così si trovano accese migliaia di candele,
    così un cuore ne accende un altro e così si accendono migliaia di cuori
    (Lev Tolstoi)


    La storia delle CANDELE



    La prima luce artificiale - prima delle torce, delle fiaccole, prima che si nutrisse il legno di resina o di pece - è quella del fuoco. Sappiamo che gli uomini primitivi riuscivano ad accenderlo e impararono ad alimentarlo, ma la datazione del cosiddetto "addomesticamento del fuoco" è molto incerta, anche perché le tracce di cenere e le pietre annerite sono testimonianze insufficienti dell'uso controllato del fuoco, diversamente dai focolari, i cui resti più antichi sembrano risalire a 480.000-430.000 anni a.C.). Dopo il fuoco domestico, di bivacco o rituale, l’uomo creò il fuoco mobile, ossia la torcia, la fiaccola: un fascio di rami resinosi, poi un ceppo di legno impregnato di resina o di pece, materiali che rendono più vivida la fiamma. Mentre nella fiaccola, fiamma e combustibile sono tutt'uno, la straordinaria invenzione dello stoppino – fatto di cotone o di lino sfilacciato, torto o intrecciato - permise di separare fiamma e combustibile. Molto comune fu l’uso delle lucerne che erano delle ciotole variamente modellate e decorate, aperte o chiuse. Quelle chiuse erano dotate, oltre che di un'impugnatura, di un foro nel quale si versava l'olio combustibile e di uno o più beccucci per gli stoppini. Quella delle lucerne è stata probabilmente una delle prime produzioni in serie dell'antichità; spesso erano firmate, e infatti ci sono noti parecchi marchi di fabbrica, il più celebre dei quali sembra essere stato Fortis, che operava nella zona di Pompei tra il I e il III secolo d.C. Il combustibile più pregiato era l'olio d'oliva, il cui costo tuttavia era tale che la maggior
    parte della gente doveva sostituirlo con olii vegetali o grassi animali. Naturalmente, più l'olio era scadente e più gli ambienti si facevano fumosi e maleodoranti e le pareti annerivano rapidamente. Per dissimulare questo effetto del fumo, si era soliti dipingere le pareti con colori scuri.


    L 'origine delle candele è legata alla storia della scoperta del fuoco da parte dell'uomo e dei suoi utilizzi. I popoli primitivi iniziarono con l'utilizzo di torce sporche di grasso animale per illuminare e successivamente delle fiaccole di resina. Popoli come gli Egizi, gli Assiri e più tardi i Greci e i Romani utilizzarono l'olio come combustibile per le loro lanterne. La nascita vera e propria delle candele non è però chiara: già gli Etruschi le costruivano con cera e sego e come stoppino giunchi o stoppa. Le candele venivano poste nelle case, nelle tombe, sugli altari. La cera veniva usata come impermeabilizzante degli scafi delle navi, usata come tavoletta per scrivere, per costruire statue votive e bambole. Le candele Anche la datazione delle candele è molto incerta, tuttavia si ritiene che esse abbiano avuto origine in Egitto, al tempo delle prime dinastie faraoniche. Nell'XI secolo a.C., erano fatte di fibre di papiro
    intrecciate e ricoperte di pece o di cera d'api. Le candele erano certamente diffuse tra i Greci e gli Etruschi: candele di cera d'api, ovviamente molto costose (infatti i furti di candele erano all'ordine del giorno), di sego (grasso animale) o fatte di giunchi secchi ricoperti da uno strato di grasso. Per Greci e Romani erano considerate proprietà degli Dei e la loro fiamma era simbolo di saggezza, di speranza e di vita. Le api, messaggere degli Dei, producevano la cera con cui erano fabbricate le candele. Queste ultime diventavano così dono divino e come tali venivano utilizzate sugli altari e nelle cerimonie sacre. Dato il costo elevato la cera d’api continuò ad essere utilizzata per secoli per produrre candele ad uso esclusivo di aristocrazia e clero. L’unica fonte di illuminazione per le classi più povere era rappresentata dalle candele di sego. Per renderne più efficace l'illuminazione, candele e lucerne venivano moltiplicate (nel '600 , per illuminare i giardini di Versailles si giunse ad accendere 24.000 lumi), poste innanzi a specchi e ad altezze diverse mediante colonne, candelieri, candelabri (ossia candelieri a più luci, come quello a sette bracci della cultura ebraica) o appese al soffitto con lampadari che venivano abbassati con sistemi di carrucole, corde o catene, in modo da poterli accendere. Anticamente, i candelieri più comuni erano di legno o d'argilla, mentre quelli molto elaborati erano di marmo o di bronzo, fabbricati specialmente a Taranto, a Egina. Pregevoli esemplari di candelieri in bronzo, del VII-VI secolo a. C., sono stati rinvenuti nelle tombe etrusche. Gli antichi fecero largo uso della cera per la preparazione di medicamenti e nei cantieri navali per impermeabilizzare il legname.  Con la cera si plasmavano statuette votive, bambole e fiori.  La cera venne utilizzata come materia per sculture e per tecniche di realizzazione di bozzetti.
    
    Al lume di candela sono stati scritti poemi, trattati scientifici e filosofici. Candelabri giganteschi pendevano dai soffitti delle chiese e dei castelli. Una carrucola permetteva di abbassarli per accenderli e spegnerli.  Le candele dei ricchi, fatte con cera d’api, bruciavano lentamente, emanando una fragranza di miele, quelle dei poveri, fatte con il grassi di animali, erano puzzolenti, ma illuminavano comunque.
    Le tecniche di produzione delle candele variarono nel corso dei secoli (dall'antico metodo nell'immersione al sistema del cucchiaio o della bacchetta, alla fusione in stampi di lamiera di ferro). Gli antichi romani utilizzavano candele che venivano fabbricate seguendo questo procedimento. Si immergeva una corda di canapa in un contenitore pieno di pece calda e liquida; estraendo lo spago, la pece che vi rimaneva appiccicata a poco a poco si solidificava. Successivamente la candela veniva immersa nella cera calda e allo stato liquido. Una volta estratta, anche la cera, a contatto con l'aria, diventava solida e la candela poteva essere utilizzata. I materiali rimasero gli stessi finché Braconneau e Simonin non introdussero - nel 1818 - le candele di stearina. Le candele utilizzate dai ricchi erano di cera d'api, bruciavano lentamente ed emanavano un gradevole profumo, le case dei poveri erano invece illuminate da candele fatte di grasso di animale alquanto puzzolenti. Nel 1831 dal sego venne estratta la stearina che brucia senza odori. La produzione industriale delle candele steariche ebbe inizio nel 1825, ad opera di Chevreul e Gay Lussac. Ma queste candele non bruciavano bene, e l'inconveniente fu risolto solo nel 1834, quando Cambacérès ideò uno stoppino ritorto imbevuto di acidi. Nel 1840, Cabouet realizzò il primo telaio a stampi multipli e nel 1846 Newton inventò una macchina per la fabbricazione delle candele, che contribuì a migliorarle e renderle molto più economiche; più tardi nel 1850 si ottenne dai derivati del petrolio la paraffina che viene usata tuttora nella fabbricazione delle candele un combustibile sintetico, sottoprodotto della distillazione del carbone - che faceva una luce più chiara e più pura e costava meno della cera, del sego e della stearina. Con l'avvento dell'energia elettrica si avrà una progressiva riduzione del consumo delle candele.

    Ai nostri giorni le candele e i candelieri vengono utilizzati come oggetti di arredamento, che creano un atmosfera romantica e incantata... Hanno però continuato ad esercitare il loro misterioso fascino sui bambini, che spengono con un soffio le candeline della torta di compleanno.  Bisogna spegnerle con un soffio per manifestare che il soffio della vita è superiore a tutto quello che si è già vissuto.
    (prof. Emilia Del Giudice, prof. Donatella Ambrosio)



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  5. gheagabry
     
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    La storia delle FORBICI



    E' probabilmente più antica del forfice. Sono state trovate forbici, tra le rovine delle colonie romane in Italia, Asia Minore ed Egitto, databili al principio del primo secolo a. C.. In Francia ed in Germania ne sono state trovate risalenti alla seconda età del Ferro e, addirittura, in un vaso greco databile al 330 a. C. c'è l'immagine di una forbice del tipo moderno, con il perno.
    Questo significa che forbici e forfici hanno convissuto, per un periodo di tempo, sviluppandosi parallelamente e contrariamente a quanto potrebbe sembrare, la forbice non deriva dal forfice. I due utensili sono nati per risolvere problemi quotidiani simili e diversi.
    In epoca romanica le forbici a perno cominciano ed essere citate negli Statuti delle Corporazioni (le corporazioni dei Sarti, dei Merciaioli, dei Fabbri...) e compaiono negli stemmi delle Corporazioni stesse (Sarti, Drappieri, Artigiani del Cuoio...)
    La storia della forbice, a partire dal Rinascimento, è tutta giocata sull'oscillazione tra utilità e bellezza. Infatti la forbice, contrariamente al forfice, ha una struttura ed una sua identità "materiale" che le hanno consentito, nel tempo, di assumere le forme più diverse per adeguarsi alle necessità pratiche, ma anche per essere... bella! Pur essendo un utensile con una struttura di ridotte dimensioni e ridotta superficie, la forbice riesce ad avere, talvolta, decorazioni ed invenzioni che esaltano l'estetica ed il lusso al di là della praticità dell'oggetto. I vari stili ci hanno consegnato forbici rinascimentali simili a due pugnali incrociati, forbici "barocche" ricamate come i lavori delle donne che le usavano, forbici persiane, forbiciette liberty, forbici déco... Naturalmente i Fabbri si sono impegnati con la loro creatività ed hanno prodotto forbici finalizzate ai vari, molteplici usi quotidiani, sia in casa che nelle botteghe artigiane. Troviamo quindi forbici per lo zucchero, forbici per spegnere candele, forbici a forma di aironi, forbici per il betel, forbici commemorative, forbici con le lamine di argento, forbici per le pelletterie, forbici per lo stalliere, forbici per la modista, forbici per il chirurgo...
    La forbice a perno si carica, nel tempo, di un forte valore emblematico: diviene il simbolo del lavoro femminile ed, in generale, della sartoria e del ricamo. La tipologia era varia...
    Forbici da cerimonia..Riservate alle cerimonie. Impugnate dalle autorità che tagliano il nastro inaugurale. Aprono il passaggio a luoghi, avviano anni accademici, mostre, attività... (Le forbici del cerimoniale del Comune di Firenze).Forbici che raccontano la preghiera...Nel corredo delle novizie, forgiate in modo da disegnare una croce. Forbici che raccontano i fasti..Con immagini dei reali impresse nell'impugnatura. Forbici che raccontano l'utilità..
    Nella storia dell'uomo. Forbici da moccolo..Raccontano la soluzione di un'utilità: spegnere lo stoppino delle candele...
    Forbici che raccontano la Bellezza, l'estro e la stravaganza, l'amore, la poesia...
    (Giorgio Bagnobianchi)

    I primi esempi di cesoie risalgono all'Egitto tolemaico: ne è stato ritrovato un paio in bronzo risalente al 300 a.C., mentre le prime cesoie a perno rinvenute risalgono all'epoca romana e sono datate attorno al 100 d.C. Dobbiamo a Isidoro di Siviglia, nel V secolo d.C., la prima descrizione dettagliata di vere e proprie forbici, utilizzate da sarti e barbieri.
    Non ci furono grandi innovazioni nella produzione fino al 1761, quando Robert Hincliffe (che fondò la prima manifattura di forbici) produsse il primo paio di forbici realizzate con acciaio fuso, temprato e lucidato. Hincliffe dovette risolvere una serie di problemi tecnici, prima fra tutte la realizzazione dei buchi dell'impugnatura.


    Non recidere, forbice, quel volto,
    solo nella memoria che si sfolla,
    non far del grande suo viso in ascolto
    la mia nebbia di sempre.
    ...
    (Eugenio Montale)



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  6. gheagabry
     
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    I FUOCHI D'ARTIFICIO



    La pirotecnia ovvero l’arte di fabbricare i fuochi d’artificio che bruciando producono particolari effetti luminosi, è molto suggestiva e affascinante ma al tempo stesso misteriosa e poco conosciuta.
    Le sue origini sono antichissime e i primi esempi si hanno in Cina già nel I° secolo.
    In Europa fu introdotta da Bertold Schwartz un monaco tedesco verso la metà del XIII° secolo che fu il primo a impiegare la polvere da sparo nella formula ancora oggi utilizzata (75 % nitrato di potassio, 15 % carbone e 10% zolfo) per sparare un proiettile mentre le prime fabbriche pirotecniche sorsero in Germania intorno al 1340 ad Ausburg, Spandau e Liegnits ma la pirotecnia ebbe il suo massimo sviluppo soltanto a partire dal secolo scorso.
    “Nobile, rischiosa e aristocratica l’arte del fuoco, progetto che si distrugge nel momento spettacolare di mostrarsi nella ricchezza oracolare delle sue meravigliose articolazioni di colori, ritmi, disegni, prospettive miracolose, rappresenta il mistero della creazione, il grandioso e l’effimero, l’eterno e il mutevole in tutto il suo spietato lirismo iconoclasta. Resta comunque l’arte più ammirata e la meno conosciuta. Tutte le arti si sono costruite un mondo, teorie, regole, storia. I fuochi marciano nel tempo del silenzio.” (Francesco Nicassio)
    Sì perché non esistono libri che spieghino come si fabbricano o come si sparano i fuochi d’artificio, tutto è racchiuso nelle mura di cinta della fabbrica: le teorie, le formule, i segreti, una tradizione orale, visiva e manuale inaccessibile a tutti e che si trasmette soltanto di padre in figlio.


    L’arte di fabbricare i Fuochi d’Artificio, è molto antica, essa ha origine in Cina, da dove fu importata, nell’area del Mediterraneo, verso il XII° Secolo dagli Arabi. Nel 1535 il trattato “De la Pirotechnia” di V. Biringuccio, descrive sia gli Artifici usati per scopo di guerra, sia quelli impiegati in occasioni di Festeggiamenti, in quanto anticamente gli artificieri militari, dovevano provvedere anche alla fabbricazione di fuochi da accendere durante gli spettacoli per celebrare la Vittoria. In seguito, l’impiego di Fuochi d’Artificio, si estese anche ad altre feste, come quelle Sacre e ad altre occasioni. Nel Secolo XVII° vi furono due scuole di Fuochi d’artificio, quella di Norimberga e quella Italiana, che si specializzò, ben presto, nella fabbricazione di Fuochi artisticamente elaborati, capaci di produrre effetti scenografici molto spettacolari. Agli inizi del XVIII° Secolo, ebbero grande rinomanza i Ruggieri, padre e figlio, di Bologna, i quali eseguirono a Parigi i fuochi pirotecnici più belli e splendenti che si siano mai visti....
    Nel 1619 un tale Filippo Urbano, della Terra di Rignano, mentre facevasi la solita processione della Vergine di Stignano, e ritornava la statua alla sua Chiesa, uscì cogli altri compagni, scaricando l’archibugio in onore di Maria, conforme è l’usanza del paese quindi, anticamente, l’usanza era quella di sparare dei colpi a salve con armi da fuoco.
    Oggi, la fabbricazione di Fuochi d’Artificio, è opera di artigiani specializzati, che spesso si tramandano il mestiere di generazione in generazione. I Fuochi Pirotecnici “che bruciano sopra terra” e che non vengono lanciati in aria, chiamati comunemente con un termine improprio: “BATTERIE”sono entrati a far parte delle tradizioni delle nostre feste Religiose, e in particolar modo, della nostra Festa Patronale, associati allo svolgimento di funzioni religiose, come le Processioni...Fuochi d'artificio a cartoccio, a spruzzo, a fiore, a cascata, fuochi a composizione multipla sono alcune delle "figure" utilizzate da tutti gli esperti di fuochi d'artificio. In realtà dietro ogni tipo di fuoco si cela un lavoro di ricerca paziente e attento, che dura da centinaia di anni e continua ancora oggi. I fuochi d'artificio possono entrare nel cuore delle città, nei centri storici e in mezzo alla gente...e creare la magia


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  7. gheagabry
     
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    La storia della BOTTIGLIA


    Vi sono oggetti a tal punto radicati nel nostro quotidiano da non suscitare più alcun interrogativo riguardo la loro nascita, la loro origine, l'invenzione. La bottiglia è certamente uno di questi, oggetto familiare e onnipresente che a fianco dell'umanità ha attraversato non secoli, ma addirittura millenni.
    Nata fin da principio come oggetto d'uso, la bottiglia interessa in prevalenza l'arte vetraria, in tempi in cui arte e tecnica erano sostanzialmente sinonimi, costituendo un corpo unitario di conoscenze teoriche e pratiche. Già presso i siriani e i romani si riscontra una fabbricazione di bottiglie in una vasta tipologia di forme e modelli, corrispondente a una varietà d'uso; venendo, per amor di brevità a epoche a noi più prossime, nella seconda metà del Quattrocento le manifatture veneziane produssero tipi di bottiglia di forma sferica, leggermente schiacciata ai lati, con il collo alto e poggianti su di una base circolare. E' il primo abbozzo di quello che sarà lo sviluppo formale della bottiglia nella modernità. Nel secolo successivo si assiste ad un'accentuazione verticale del corpo e del collo, mentre nei secoli XVII e XVIII, chiaramente in relazione con le correnti artistiche e gli orientamente in relazione con le correnti artistiche e gli orientamenti stilistici in atto, le bottiglie assumono generalmente forme artificiose o fisiomorfe.
    Ciò che accade in Inghilterra nel 1615 è comunque di fondamentale importanza nella storia e nell'evoluzione di questo oggetto.
    L'ammiraglio Sir Robert Mansell, preoccupato dalla sempre più grande sottrazione di legname alla produzione navale ad opera dei vetrai che lo utilizzano per i loro forni, espresse la propria inquietudine al re Giacomo I, e riuscì a persuaderlo a proibire l'uso del legno per alimentare le fornaci delle vetrerie. Giacomo I emana un editto che vincola le vetrerie all'utilizzo del carbone. L'imposizione porta involontariamente alla nascita di nuovo tipo bottiglia in vetro scuro, capace di resistere alla pressione di una tappatura in sughero. Di pochi anni più tardi il brevetto di una bottiglia a bulbo con il collo corto, che nel giro di qualche decennio diventa abbastanza economica da poter entrare in tutte le famiglie. Si è ancora ben lontani, ovviamente, da una logica di mercato e di consumo: la bottiglia rimane una suppellettile di pregio destinata alla conservazione del vino. Costando il contenitore ben più del contenuto quasi tutti i governi dell'epoca vietavano l'esportazione del vino in bottiglia. In termini generali, si può affermare che a partire da questo momento, il destino della bottiglia si intreccia agli sviluppi e alla storia del settore vinicolo. Nel 1728, infatti, i produttori dello Champagne ottengono un decreto reale che liberalizza la sua commercializzazione in bottiglia. Successivamente, il formarsi e l'organizzarsi della scienza enologica porta alla nascita delle moderne tipologie vinicole e parallelamente si perfezionano le tecniche di produzione industriale. Verso la fine del XIX secolo la soffiatura manuale nello stampo viene sostituita dalla macchina. Le attuali e più diffuse tipologie di bottiglia, sempre riferite al settore vinicolo, sono in buona sostanza quattro, la Borgognotta, la Bordolese, la Renana e la Champagnotta.
    Di forma conica, ma non regolare, la Borgognotta era tradizionalmente utilizzata per imbottigliare i vini della Cote d'Or, (la zona di Digione) e attualmente conosce una diffusione mondiale. Le tipiche "bourguignonnes" sono abitualmente di colore verde, tipo foglia morta, presentano il collo corto e il fondo "picchiettato". La Bordolese tradisce già dal nome la provenienza dalla regione di Bordeaux.
    Elegante e razionale è una bottiglia che si riconosce facilmente per la sua forma cilindrica regolare ed il collo corto. Le Bordolesi vengono impiegate di preferenza per l'imbottigliamento dei vini rossi, tuttavia, considerate generalmente i contenitori più comodi e maneggevoli, ospitano spesso anche i bianchi.
    La Renana è il recipiente tradizionale, elegante e affusolato, che i vignaioli della valle del Reno utilizzano da tempo immemore. Il suo profilo, privo sul fondo della protuberanza tipica di alcuni tipi di Bordolese, si deve al fatto che è essenzialmente destinata a vini bianchi privi di sali e tartrati che tendono a depositarsi sul fondo.
    La Champagnotta, normalmente usata per i vini spumanti, è la tipica bottiglia entrata in uso nelle Champagne. Ricorda in parte la forma della Borgognona, ma è assai più rigonfia nella parte centrale. Dovendo sopportare abitualmente una pressione interna di 7/8 atmosfere è prodotta seguendo altissimi standard di resistenza. La Champagnotta originale è caratterizzata da un anello sporgente che circonda la base terminale del collo e permette il fissaggio della gabbietta metallica. A partire dal secolo scorso, questo tipo di bottiglia si è diffuso in una fittissima, ma non sempre felice, serie di varianti.(darapri)
     
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  8. gheagabry
     
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    La storia degli occhiali


    Gli occhiali sono dispositivi ottici costituiti da due lenti trasparenti e da una montatura di vario materiale che servono a correggere i difetti della vista o a proteggere gli occhi dal riverbero solare, dal vento, dalla polvere. L’uso delle lenti come sistema correttivo viene fatto risalire, con scarso fondamento, a Nerone, che pare si servisse di uno smeraldo come monocolo. Nel corso del XII secolo si conoscevano solo alcuni sistemi di ingrandimento che derivavano da semplici pezzi di vetro concavi o convessi che non davano un’immagine reale delle cose, tanto che non erano apprezzati in quanto distorcevano le immagini reali. Le prime testimonianze documentate sull’uso delle lenti come correzione della vista arrivano dall’Europa del XIII secolo. Pare infatti che venissero usati dai monaci durante il Medioevo per le trascrizioni degli antichi libri. Il primo a descrivere l’uso delle lenti per migliorare la vista fu Ruggero Bacone nel 1262. Egli fece alcuni esperimenti con le lenti e gli specchi e descrisse i principi del riflesso e della refrazione. Iniziò così a scrivere gli effetti dei suoi esperimenti. Era ben visto e protetto dal Papa Clemente IV, ma quando il Papa morì egli dovette continuare in segreto i suoi studi. Venne scoperto, accusato di eresia e imprigionato. Quando uscì di prigione continuò gli esperimenti. Le lenti divennero occhiali circa 20 anni più tardi. La loro invenzione viene attribuita ad Alessandro Spina, nel 1280. Tuttavia l’uso degli occhiali si diffuse, soprattutto in Inghilterra, nel XVII secolo. Infatti in questo periodo vi furono delle pubblicazioni da parte dell’astronomo Johannes Kepler che svolse degli studi e fornì degli scritti in cui spiegava l’uso corretto delle lenti e soprattutto la differenza tra lenti concave e lenti convesse. Nel 1780 Benjamin Franklin inventò le lenti bifocali, mentre alla fine dell’800 furono inventate le prime lenti a contatto per opera del tedesco Adolf Eugen Fick. I primi occhiali erano costituiti da due lenti unite insieme e venivano tenute vicino agli occhi con le mani e non si portavano in modo continuativo. Man mano vennero migliorate, quindi le lenti erano tenute insieme da una molla che dava la possibilità di tenerli sul naso.

    Un grande aiuto ci viene dalle raffigurazioni pittoriche e dai dipinti delle culture antiche, che si sono conservati fino ad oggi. Nei loro quadri a carattere religioso molti pittori del XV secolo raffiguravano i personaggi con occhiali. Infatti nei quadri veniva riprodotto il modo di vivere e gli oggetti di uso comune nell'età loro contemporanea, e ciò oggi fornisce a noi una serie di importanti indicazioni. Così non è del tutto sicuro che il dottore della chiesa Sofronio Eusebio Girolamo, vissuto fra il 340 e il 420 d.C., fu veramente l'inventore degli occhiali. Sono numerosi i quadri nei quali egli viene raffigurato con il leone, un teschio e un paio di occhiali. Da allora è considerato il patrono degli occhialai. Il filosofo greco Aristofane sapeva che il vetro poteva essere utilizzato come lente focale, Tolomeo circa 150 anni dopo Cristo scopriva alcuni fondamentali fenomeni ottici che si ripetevano con regolarità per quanto riguardava la rifrazione della luce e scriveva trattati esaurienti al riguardo, Ruggero Bacone nel 1250 circa forniva la prova che gli ipovedenti potevano tornare a leggere le lettere grazie a lenti molate, ma ci vollero ancora 300 anni perché Snellius, fra il 1600 e il 1620, formulasse le leggi della rifrazione. I monaci del Medioevo inventarono, in base alle teorie del matematico arabo Alhazen (intorno al 1000 d.C.) la cosiddetta "pietra di lettura". Questa consisteva perlopiù di cristallo di rocca, oppure della cosiddetta pietra dura, aveva forma semisferica e ingrandiva la scrittura. Come pietra dura fu utilizzato il trasparente berillio. Allora solo i soffiatori di vetro di Venezia erano capaci di produrre vetro bianco. Dalle officine del vetro della celeberrima isola veneziana di Murano vennero anche le prime lenti molate, inizialmente pensate per un solo occhio. Verso la fine del XIII secolo a qualcuno venne l'idea di inserire due pezzi di vetro molato in un telaio di legno o corno e di creare uno strumento unico. Possedere un occhiale nel Medioevo equivaleva ad acquisire lo status di persona sapiente e dotta. Dovettero poi passare ancora molti secoli prima di arrivare al 1850 circa, quando gli occhiali assunsero la forma che oggi conosciamo.
    (apoa)
     
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  9. gheagabry
     
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    La storia del BILIARDO



    ..."Incerte ed antiche sono le origini del gioco del biliardo.
    Personalmente io lo faccio addirittura risalire all'usanza di certi popoli barbari i quali, prima di dare battaglia, ponevano dei sassi obliqui ritti alla bell'e meglio per terra e poi, da una certa distanza, facevano di tutto per colpirli e farli cadere lanciando pietre più o meno rotondeggianti. Dal numero dei sassi fatti cadere e dalla facilità con la quale venivano colpiti, quei guerrieri traevano indicazioni sull'andamento della battaglia futura e sul numero dei nemici che avrebbero ucciso. E di questo ancestrale presupposto rimarrebbe ancor oggi l'impagabile soddisfazione che si prova udendo lo "struscio" dei birilli che cadono in quanto il "castello" (cioè l'insieme dei birilli ubicati al centro del biliardo) lo si considera formato da "nemici" da abbattere e la soddisfazione che si prova per un tiro d'attacco ben eseguito, si avvale anche di questa componente. All'insaputa dello stesso giocatore, si mette in moto un meccanismo che coinvolge l'inconscio, recependo gli echi di lontane azioni, compiute dai nostri antenati per ragioni di sopravvivenza.
    Sicuramente esso è la trasposizione di un gioco, già praticato all'aperto, in un locale chiuso, e di questa sua matrice resta il colore verde del panno, a simbolo di un prato.
    Stampe d'epoca raffigurano gentiluomini della corte di Francia intorno a un tavolo, di forma rettangolare anche se di proporzioni diverse dalle attuali, sul quale figurano disposti degli archetti. Come attrezzi da gioco vengono impugnate delle spatole con le quali, evidentemente, bisognava sospingere delle palle in maniera che passassero sotto gli archetti, forse in ordine prestabilito.
    Shakespeare fa giocare al biliardo la regina Cleopatra col suo eunuco; la tradizione vuole che, la notte di S. Bartolomeo e durante l'annessa strage degli ugonotti Luigi XI re di Francia stesse giocando al biliardo. Alcuni studiosi sostengono che, inventare il biliardo, sia stato un certo Devigne, artigiano presso la corte, appunto, di Luigi XI; altri lo fanno risalire ad un certo Bill, inglese questa volta, soprannominato "yard" per via che faceva il sarto di mestiere e delle stoffe che doveva misurare.
    L'unica cosa sicura è che - di certo - non si sa nulla di storicamente provato al riguardo: è probabile che il gioco del biliardo sia soltanto il frutto di un'evoluzione, il risultato di trasformazioni successive di un qualcosa che già esisteva.
    Dapprima esclusivo appannaggio delle classi nobili ed agiate, il gioco del biliardo, con il passare del tempo, si diffuse anche tra le altre classi sociali, seguendo l'evolversi del costume e lo sviluppo della stessa società.

    Anche le regole e lo "scopo" del gioco del biliardo andarono poi trasformandosi, adattandosi alle mentalità dei diversi popoli: in Italia comparve il biliardo con le buche ed il gioco consisteva - appunto - nel mandare la biglia dell'avversario in una delle sei buche (quattro agli angoli e due centrali, nel mezzo delle sponde lunghe), servendosi di attrezzi sempre più perfezionati quali lo "spingibiglia" (un'asta sottile di legno lunga circa m 1,20 ad una estremità della quale era fissato un piccolo blocco pure in legno, con un "incavo" che veniva adattato alla biglia da spingere) fino a giungere alla "stecca" vera e propria, come si usa ancora oggi.
    Comparvero successivamente i birilli e lo "scopo" del gioco consistette nell'abbattere il maggior numero possibile con la biglia avversaria. Questa versione del gioco venne denominata "italiana" in quanto proprio in Italia essa finì con l'affermarsi in maniera definitiva. Ma il gioco del biliardo si afferma in tutto il mondo, con modalità diverse, con "scopi" diversi, con impostazioni diverse: dalla carambola francese (specialità per eccellenza) allo "snooker" inglese, al "pool" americano e, per ultime, le "boccette", praticate peraltro soltanto in Italia e, all'estero, da emigranti italiani.
    Gli stessi emigranti portarono all'estero le caratteristiche del nostro gioco "italiano", adattandole ai tavoli da gioco trovati installati nei diversi paesi.
    Dove maggiore fu il flusso della nostra emigrazione (per esempio in America del Sud) più si diffuse la specialità "italiana", sia pure con leggere varianti. Attualmente il gioco del biliardo è l'unico "insieme" (sport, geometria, ricreazione, tecnica, arte e matematica) diffuso in tutto il mondo, al di là, al di fuori e al di sopra di qualsiasi barriera costituita da censo, rango, estrazione sociale, razza e linguaggio.
    Nel suo diffondersi, come logica conseguenza il gioco del biliardo creò le premesse per la formazione di movimenti federativi, naturale esigenza di quanti praticavano questa attività. Ecco quindi sorgere in Inghilterra la Federazione dello "snooker" e successivamente nei diversi stati europei, il crearsi di Federazioni nazionali, molte delle quali riconosciute dai rispettivi Comitati Olimpici o dalle massime istituzioni sportive dello stato nel quale operano. In Italia, il movimento federativo delle forze biliardistiche risale al 1955, e in pratica, si concretò nel 1958 con la fondazione di una Federazione vera e propria denominata (Federazione Italiana Amatori Biliardo), ufficialmente riconosciuta dall'allora esistente ENAL. "...
    (Tratto da "Manuale Del Bigliardo" di Luigi Lamparelli)

     
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  10. gheagabry
     
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    LA STORIA DELLA CARTA



    Le prime iscrizioni di cui si hanno notizie e reperti risalgono a circa 4000 anni prima di Cristo e sono iscrizioni su pietra, su tavolette di argilla e su legno.Tutti questi materiali erano per un modo o per un altro poco adeguati a favorire lo sviluppo della scrittura.
    Fino ad arrivare al 3000 avanti Cristo dove cambiano i supporti per la scrittura, infatti iniziamo a trovare le prime tracce del PAPIRO, considerato la pietra miliare per l'evoluzione storica di supporti per la scrittura, il Papiro era ricavato utilizzando una pianta acquatica (CIPERUS PAPYRUS) allora molto diffusa oltre che lungo le sponde del Nilo anche in Palestina e in Sicilia, ma furono gli egiziani per primi a risolvere il problema in modo abbastanza soddisfacente, infatti il midollo della pianta è composto da una specie di pellicole lunghe e strette di colore chiaro troppo sottili e troppo piccole per scrivere su ognuna di loro, ma queste venivano sovrapposte in due strati perpendicolari in modo da formare uno strato continuo e il piu possibile omogeneo.
    Il reticolo cosi composto veniva poi bagnato e pressato in modo che le sostanze collanti contenute nella pianta facessero aderire i due strati sovrapposti e messo poi ad asciugare, il "foglio" cosi formato era già un valido supporto per la scrittura anche se risultava ben poco maneggevole. Dal Papiro, intorno al II secolo avanti Cristo o poco prima, passiamo alla Pergamena, le prime tracce le troviamo in Asia Minore, pare nella città di Pergamo (da qui il nome Pergamena), la pergamena è ottenuta da pelle di capra, montone e pecora (per questo, cioè per le sue origini essa viene chiamata anche cartapecora), il metodo consiste nel ricavare dagli strati più profondi delle pelli animali (membrane) una specie di foglio chiaro, uniforme e resistente, la pergamena ha costituito il prodotto più usato nel mondo civile fino alla comparsa delle prime carte, la pergamena però risolvendo dei problemi del Papiro, ne portava con sè di nuovi, infatti non si poteva arrotolarea a causa della sua rigidità, avrebbe preso la forma del rotolo e solo a fatica si riusciva a svolgerla, non era a strisce come il Papiro, ma di forma rettangolare, tanto grande quanto poteva esserlo il dorso di un animale, per cui invece di arrotolare come con il Papiro si iniziò a piegarli e al posto del volumen sono nati il codex (codice) e il liber (libro), solo dopo si iniziarono a sovrapporre i fogli di pergamena piegati cucendoli da una parte e tagliando le altre pieghe in modo da poterli sfogliare e successivamente ancora vennero messe delle tavole sopra e sotto ai fogli per proteggerli.


    La scoperta del procedimento per la fabbricazione della carta come riferiscono antichi cronisti e commentatori occidentali fu inventata intorno al 105 a.C. dall'eunuco Ts'ai Lun, gran dignitario di corte, che presentò all'imperatore i primi fogli di carta, riferiscono le cronache degli Han, e ne ebbe grandi elogi e ha impiegato quindici secoli a diffondersi in tutto il mondo civilizzato. Il disegno delle varie filigrane ci permette di conoscere le peregrinazioni e le origini di un dato tipo di carta. Tre furono le circostanze che favorirono la nascita delle cartiere nelle regioni cinesi la vicinanza di un centro abitato, l'esistenza delle materie prime e la presenza dell'acqua favorirono l'installazione delle cartiere in determinate località. Queste condizioni si trovarono riunite in Cina fin dal I secolo d.C., mentre in Europa una simile favorevole congiuntura si presenterà soltanto per gradi, dal XII al XVI secolo. Il flusso dell'acqua doveva essere uniforme, e l'acqua doveva essere pura.
    In Europa, le località dove da tempo si esercitava l'industria tessile, i cui cascami fornivano la materia prima per la carta, la vicinanza di un porto, dove si trovavano facili opportunità di smercio, o l'immediata vicinanza di un grande centro commerciale, erano fattori importanti di attrazione per l'installazione di una cartiera. La Chiesa, con i suoi monasteri, che mantennero a lungo il monopolio della cultura nell'Europa medievale, o le grandi università, come Parigi o Bologna, favorirono anch'esse la nascente industria cartaria.
    In Cina, la carta non subiva la concorrenza di altri prodotti. In Europa, invece, ai primi del XIV secolo, la pergamena costituiva un supporto per la scrittura assai più soddisfacente delle prime carte che venivano fabbricate. La pergamena rivaleggiò ed ebbe spesso il sopravvento sulla carta, considerata all'inizio come una materia troppo delicata, e cedette il passo solo progressivamente, via via che si sviluppava l'arte tipografica.
    Inoltre, il livello di cultura nell'Europa medievale, non paragonabile a quello da lungo tempo assai elevato della Cina, e a quello del mondo arabo, che raggiunse il massimo sviluppo nel X secolo, non favorì la diffusione della carta. La nuova industria fu anche avversata dall'Occidente Cristiano, a causa della sua provenienza araba o giudaica.
    Solo l'invenzione della stampa e la crescente attività dei torchi offrirono nuovi sbocchi. In Cina, a partire dal Il secolo d.C., si trovarono iscrizioni arcaiche su carta. La carta moneta fece la sua comparsa nel settimo secolo. In Cina si fabbricavano i più svariati tipi di carta, (con la canapa, con steli teneri di bambù, con la scorza del gelso, con germogli di giunco, con muschio e licheni, con paglia di grano e riso, coi bozzoli del baco da seta ... ) ma predominava quella fatta di stracci. Le varietà erano dunque numerose e venivano via via perfezionate. Dal V secolo in poi la carta si diffuse per tutto l'impero in forme svariate ed elaborate ma rimase un segreto della Cina fino all'VIII secolo, quando, in seguito alle sorti di una battaglia, giunse nell'Islam.
    Divenuto erede di Roma e della Grecia, dopo la conquista della Siria e dell'Egitto, il mondo islamico, contrariamente al cristianesimo medievale, favorì lo studio delle scienze, e in particolare della chimica. Sorsero grandi università e biblioteche. Non c'è quindi da stupirsi se una tale espansione geografica e culturale abbia stimolato il consumo di carta ed esercitato un influsso civilizzatore sull'Occidente. Nel 751, durante una spedizione militare verso le frontiere della Cina, il governatore generale del Califfato di Bagdad catturò a Samarcanda due fabbricanti di carta cinesi; valendosi del loro aiuto, impiantò una cartiera in quella città, località propizia perché v'erano acqua, canali di irrigazione e campi di lino e di canapa. Nacquero così le manifatture di Samarcanda. Si trattava di una carta fatta di stracci, già perfezionata in confronto a quella cinese.
    Per la segretezza di cui era circondata, la produzione restò a lungo concentrata a Samarcanda, che fu per vari secoli un centro cartario importante. Tuttavia, sul suo esempio, anche a Bagdad, nel 793, si cominciò a fabbricare la carta, e da Bagdad l'industria cartaria si diffuse in tutte le province del mondo musulmano. La carta di Damasco, molto nota in Occidente, è già menzionata verso il 985. Altri centri cartari meno celebri eppure molto importanti furono l'Armenia e la Persia.
    Le carte dell'Egitto, dove da millenni si coltivava il lino, acquistarono rinomanza sin dalla fine del X secolo, e venivano utilizzate per gli usi più correnti. Dal Cairo e da Alessandria, la carta raggiunse la Tripolitania e la Tunisia. È interessante notare che una ramificazione della via della carta si spinse da Tunisi fino a Palermo, ed alcuni scrittori hanno voluto attribuire l'origine della carta di Fabriano a questo nucleo palermitano.
    Infine, la via della carta conduce nell'Africa del nord, a Fez, che, al pari di Bagdad e di Damasco diverrà uno dei centri cartari più importanti e che, alla fine del XII secolo, possedeva 400 cartiere installate da tempo. Da Fez, la carta penetrò in Spagna, dove sorse la prima cartiera d'Europa.
    Gli Arabi perfezionarono la fabbricazione della carta non solo riguardo la composizione del materiale, ma soprattutto grazie alla loro conoscenza delle tecniche idrauliche. La ruota dentata permise loro di trasformare il moto circolare continuo in moto alternato, grazie al peso di un utensile o a una molla. In tal modo riuscirono ad applicare la forza idraulica ad un gran numero di industrie e specialmente ai mulini da carta.
    La Spagna, che subì l'invasione degli Arabi fin dal 711, fu la prima grande regione europea dove si utilizzassero le nuove tecniche di cui poco dopo tutta l'Europa doveva beneficiare. Il lino era un elemento molto importante visto che da esso si ricavavano le materie per la produzione di tele e stracci.
    L'Italia settentrionale e centrale ne produceva in notevolissima quantità, specie in Lombardia, Piemonte, Marche, Emilia e Romagna; a Bologna si tesseva la rinomata "tela bolognese", ed è probabilmente a questo fattore, insieme al richiamo esercitato dall'università, che si deve se Bologna divenne un grande centro cartario. Il problema fondamentale del cartaio era quello di procurarsi in grande quantità stracci o cordami usati, perciò le cartiere vennero installate di preferenza nelle vicinanze di un centro urbano o anche di un porto. A lungo andare, tuttavia, la presenza di cartiere provocava una certa penuria nella disponibilità locale di stracci; da ciò l'importanza dei raccoglitori e rivenditori di stracci, o cenciaioli, la cui professione, dal XV al XVIII secolo fu tanto più lucrativa in quanto il cartaio dipendeva da loro per approvvigionarsi della materia prima. Gli stracci costituivano un materiale tanto prezioso per i cartai da indurli spesso a sollecitare dallo Stato monopoli e privilegi.
    Nonostante ciò, nel XIII secolo, la crisi nell'approvvigionamento di stracci divenne talmente cronica da stimolare in tutta Europa la ricerca di materiali sostitutivi, tra i quali il più importante è la pasta di legno, il cui impiego, tuttavia, nonostante numerosi esperimenti, si diffonderà solo nel XIX secolo.
    Fino ad allora gli stracci, tanto preziosi per il cartaio, costituiranno la sola materia prima che, opportunamente trattata, si trasformerà in carta. Molti documenti attestano che, già nel XIII secolo, in Italia si consumavano grandi quantità di carta. La carta, di provenienza sia araba che spagnola, faceva parte dei commerci che i Genovesi e i Veneziani intrattenevano con Barcellona e Valenza. L'Italia ebbe le sue prime cartiere ad Amalfi nel 1220 e a Fabriano nel 1276. Di qui la produzione si diffuse a Bologna, Padova, Genova, poi in Toscana, in Piemonte, nel Veneto e nella Valle del Toscolano (Brescia). Fabriano mantenne tuttavia a lungo la supremazia grazie soprattutto ad alcuni perfezionamenti tecnici. I cartai italiani furono i primi a servirsi di filigrane per contrassegnare la propria carta, usanza assolutamente sconosciuta ai Cinesi e agli Arabi. Questa marca, la cui invenzione è probabilmente dovuta al caso, costituì presto il mezzo di identificazione della cartiera d'origine, del titolare dell'attività, del formato e della qualità del prodotto. Si devono altresì ai mastri cartai fabrianesi delle innovazioni storiche che hanno costituito per secoli elementi determinanti per la fabbricazione della carta... l'invenzione della pila a magli multipli usata per la preparazione della mezza-pasta dagli stracci....- l'impiego della gelatina animale per rendere la carta resistente ai liquidi, quindi scrivibile.... lo sviluppo della filigrana da semplice effetto in chiaro a riproduzioni multitonali tridimensionali.
    Per 200 anni almeno l'Italia dominò il mercato della carta, sostituendosi nell'approvvigionamento dell'Europa alla Spagna ed a Damasco. Nel XIV secolo la carta italiana s'era conquistata una supremazia incontestabile sui mercati di Francia, Svizzera, Belgio, Paesi Bassi, Germania, Moscovia e nell'intero bacino del Mediterraneo. Nel 1300 i mercanti cartari milanesi erano stati tra i primi a partecipare alla fiera a Ginevra, trasportandovi le loro merci, attraverso i passi alpini.
    Durante la prima metà del XVI secolo Anversa, che fino al 1576, fu il maggior centro culturale dei Paesi Bassi, sostituì Genova e Venezia nel commercio della carta. Nell'Europa nord-occidentale, invece, i torchi da stampa precedettero i mulini da carta; questi ultimi furono in attività permanente solo agli inizi del XVI secolo.
    Poiché la domanda cresceva più in fretta dell'offerta, la carta restò a lungo una materia costosa. E tuttavia, due secoli dopo la sua introduzione in Italia, la carta era diventata il supporto fondamentale della scrittura e della stampa per eccellenza. Nel XVII secolo, tuttavia, la floridezza del settore cartario cessò di colpo, a causa dell'epidemia di peste del 1630-31. L'effetto fu un blocco della produzione, perché la paura del contagio e le misure profilattiche, che contemplavano anche l'incendio degli stracci, paralizzarono la raccolta e la circolazione delle materie prime.
    Passata la peste, si risentì a lungo della grande mortalità, che produsse da una parte una forte contrazione della domanda interna di carta, dall'altra, la diminuzione dell'offerta di stracci. Inoltre la moria degli artigiani impedì la reazione e la tenuta delle posizioni sui mercati esteri.
    La ripresa demografica, nella seconda metà del secolo, portò sollievo anche al settore cartario. Altri due fattori, tuttavia, vennero ad intralciare il pieno superamento dell'emergenza peste: l'introduzione dei dazi, e la crescita della concorrenza straniera. I dazi volevano dire intralci e rallentamento in tre direzioni: sui mercati d'oltremare, sul mercato interno, nel rendere difficile e caro il rifornimento di stracci.
    Il XVII secolo vide anche una notevole innovazione apportata in Olanda: un cilindro munito di lame metalliche che tagliavano, strappavano e riducevano gli stracci in poltiglia. La triturazione degli stracci risultò più rapida e completa. Venne quindi abolita l'operazione di macerazione, che nuoceva alla buona qualità della carta e si ottenne così carta più raffinata in tempi più brevi. Il cilindro olandese fu tuttavia introdotto nelle fabbriche di carta italiane solo nel XVIII secolo.
    Agli inizi del 1700, produttori e mercanti di carta subirono i contraccolpi delle occupazioni degli eserciti imperiali e gallo-ispani impegnati nella contesa per il trono spagnolo. I loro movimenti bloccarono la circolazione di stracci e di carta per lunghi periodi, fecero rincarare i prezzi e scoraggiarono gli investimenti; di conseguenza la qualità della carta peggiorò. Ma in seguito favorevoli occasioni per recuperare posizioni negli scali levantini e per ritentare le rotte di ponente furono offerte dalle riduzioni delle tariffe doganali dell'impero ottomano, dalla regolazione delle tariffe interne, dall'entrata in servizio di navi capaci di tenere a bada i corsari barbareschi e, specialmente, dagli eventi bellici che imbrogliarono i traffici delle nazioni concorrenti.
    Nel 1799 Nicolas Louis Robert ideò la prima macchina continua, che fu costruita e brevettata in Francia, e successivamente perfezionata in Gran Bretagna. La prima in Italia, nel 1807, è quella attivata da Paolo Andrea Molina nella sua fabbrica a Borgosesia; solo qualche anno più tardi ne compariranno altre in alcune cartiere piemontesi. La macchina "sans-fin" non si limita, infatti, a rivoluzionare il ciclo produttivo - oltre che meccanizzando la fabbricazione del foglio, inglobando altre fasi, come l'asciugatura - ma richiede anche nuovi spazi. Si tratta infatti di una macchina non solo complessa ma anche di dimensioni notevoli.
    A determinare l'affermazione dell'industria cartaria nella sua forma attuale contribuì anche l'importantissima scoperta di Federico Gottlob Keller che nel 1844 ottenne la pasta di legno meccanica sfibrando per la prima volta il legno con mole di pietra. Alla scoperta della cellulosa sono legati i nomi di Meillier (1852) che pose a cuocere della paglia con soda caustica in un bollitore sferico e di Tilghman, che riuscì a produrre cellulosa partendo dal legno e usando una soluzione di bisolfito di calcio.
    (dal web)


    Edited by gheagabry - 14/8/2014, 21:07
     
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    La storia della PIPA



    Da sempre il fumo ha esercitato sull'uomo un fascino particolare, a partire dai riti preistorici quando si bruciavano erbe aromatiche o inebrianti sulle braci per propiziarsi gli spiriti e per ottenerne i favori. La pianta del tabacco era considerata sacra; semi e foglie di tabacco sono state trovate recentemente durante i restauri di una mummia egizia. Semi di tabacco erano usati dai cinesi oltre 3 mila anni fa quali antifecondativi. Tribù pellerossa fumavano in occasioni eccezionali: per accogliere degnamente l'ospite importante e per onorare il Grande Spirito, la loro pipa era il Calumet, e il rito era il seguente: ciascuno tirava quattro sbuffate verso i 4 punti cardinali.
    Una strana pipa a forma di cilindro è stata scoperta a Mossul (odierna Siria); si stima che risalga a migliaia di anni fa. Pipe d'epoca preistorica furono trovate in tutta l'America del Nord, nel Mississippi Superiore nel Missouri, nell'Ohio, sui fianchi dei Monti Alleghanis, sulle rive del Lago Ontario e nella regione del Saint-Laurent.
    Nell'America Centrale e nel Sud America la coltivazione e l'uso del tabacco risalgono a millenni.
    Pipe Gallo-Romane in ferro sono state trovate nel sud della Francia e in Valle d'Aosta.
    La pipa compare in Europa, con il tabacco nei primi anni dei '500. Sono pipe in terracotta; piccole, semplici, ma già funzionali. Il loro basso costo, la facilità di fabbricazione, l'estetica sempre accattivante, invogliavano a farne uso, anche se la durata era piuttosto limitata a causa della fragilità del materiale. Questo inconveniente ha fatto sì che siano ormai rarissime quelle sicuramente antiche. Tutte pipe piccole, agli inizi, perché il tabacco è raro e costoso. Le si vedono nella bocca di marinai spagnoli e portoghesi, successivamente in quella degli inglesi ed è proprio in Inghilterra che la pipa ha la sua prima affermazione (Sir Walter Raleigh la introduce persino alla corte britannica). Il suo uso è osteggiato in vari paesi, ma la guerra dei Trent'anni diffonde la pipe in tutta Europa. Artigiani inglesi esportano nei Paesi Bassi la produzione delle pipe di terracotta e gli olandesi diventeranno presto i più grandi produttori di "pipe di gesso" (in realtà di argilla bianca) che ancora oggi si usano e che hanno la loro capitale, con relativo museo, a Gouda.
    Altri centri attrezzati per questa produzione erano in Francia, Belgio, Nord e Sud Italia e Spagna.
    Addirittura imponente la produzione della Gambier di Parigi che dal 1850 al 1926 ha sfornato qualcosa come 1.940.400.000 pipe. Ma questo fu un caso unico di "industrializzazione" applicata a questa tipologia di pipa.
    Dopo la nascita di questo prodotto "terra-terra", a seguito della richiesta di fumatori più pretenziosi ed esigenti, si studiarono pipe fabbricate nei più svariati materiali, sempre più nuovi, resistenti, pregiati. Metalli come bronzo, ottone, argento, avorio; legni come bosso, palissandro, ulivo, betulla, olmo, quercia, ciliegio. Anche le forme del fornello e del bocchino subirono parecchie trasformazioni alla ricerca continua della migliore funzionalità prima di arrivare alle forme attuali.
    Accanto alle pipe di argilla (che, secondo la terra usata e i sistemi di cottura, possono essere bianche, rosse o anche nere) hanno un loro spazio le pipe di legno, genere in cui diventeranno famose quelle tedesche di Ulm. Tedesche e austriache sono le pipe di porcellana che compaiono verso la fine del '600. Sono grosse, vistosamente dipinte, con un coperchio di metallo, spesso legate a un'appartenenza militare; hanno ancora oggi una certa diffusione nei due paesi, soprattutto a fini decorativi. In varie città europee si aprono locali per fumare in pace e in compagnia; Federico I di Prussia fonda addirittura un'Accademia di pipatori.

    Nel '700 la pipa deve fare i conti con il propagarsi, specie nelle classi più elevate, della voga del fiuto che dà origine alla produzione di oggetti spesso di pregio artistico (si pensi alle tabacchiere) e a un vero e proprio rito sociale. La pipa, a sua volta, si impreziosisce e si differenzia nelle forme e nella materia prima: metalli più o meno nobili e persino vetro (ricercata specialità, questa, di Bristol e di Venezia).
    Ma è l'uso di una nuova materia, la schiuma; a segnare un'ulteriore epoca di trionfi. Si deve arrivare verso il 1700 per vedere prodotte le prime pipe in "schiuma di mare", ancor oggi considerate assai pregiate e ricercate nella loro pur sempre limitata produzione, sia nelle forme classiche che in quelle scolpite nelle forme più fantasiose, a volte di dimensioni eccezionali. Questo minerale è chimicamente denominato "silicato di magnesio" e, almeno nella specie più pregiata, si trova solo in Anatolia (Turchia) nel sottosuolo argilloso. La schiuma ebbe il suo periodo di maggior splendore dal 1800 al 1900; le migliori erano fabbricate a Vienna. Di pipe in questo materiale ne vengono tuttora prodotte soprattutto in Turchia.
    Verso il 1850-60, con l'impiego di un nuovo legno durissimo e dalla venatura particolare, la Radica (Erica Arborea un arbusto che cresce solo sulle sponde del Mediterraneo) la pipa venne prodotta industrialmente con torni e macchine all'uopo fabbricate. I primi furono i francesi a Saint-Claude nel Jura; poi subito gli italiani. Val la pena di ricordare la Fabbrica Rossi di Molina di Barasso (Varese) che arrivò, nel periodo del suo massimo splendore, a produrre oltre 50.000 pezzi al giorno impiegando circa 800 operai. Si era attorno al 1900. Un primato mai superato nel mondo.

    Collezionisti di pipe esistono in tutte le parti del mondo: già nel 1910 un membro della famiglia Imperiale russa dei Romanoff collezionava pipe rare, e si dice ne possedesse addirittura 27.000. Attualmente questa passione si è diffusa e in certi casi è diventata addirittura maniacale; solo in America si contano collezionisti a migliaia. In Italia collezionare vecchie pipe è di attualità.
    Le più importanti case d'aste hanno già battuto pipe pregevoli, e non sono pochi gli antiquari che hanno riservato nelle loro botteghe un angolo per i collezionisti di oggetti da fumo, con in bella mostra tabacchiere in argento, oro, avorio, smalti, armadietti o mobiletti per la custodia delle pipe, bocchini fumasigari e naturalmente pipe di tutte le epoche e provenienze.
    Esistono anche Musei ben frequentati, in Inghilterra, Francia, Germania, Danimarca, Olanda, Stati Uniti. L'Italia vanta l'unico Museo al mondo che può mostrare, oltre ad una collezione di oltre 30.000 pezzi di pipe, gli utensili originali e tutta le serie dei vecchi torni a pedale e altre macchine per la fabbricazione artigianale delle pipe: è il Museo della pipa di Gavirate anche sede della "Académie Internationale de la pipe".
    (gustotabacco)


    Edited by gheagabry - 11/6/2014, 10:37
     
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  12. gheagabry
     
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    Non è la luna, non è una gemma misteriosa e affascinante non è una fabbrica di sogni. Non è neppure un pezzo di legno, né una macchina a vapore. E' una pipa. Cioè il miglior modo di fumare. Il più bello, sano, naturale, intelligente, genuino, semplice modo di fumare.



    Da sempre il fumo ha esercitato sull'uomo un fascino particolare, a partire dai riti preistorici quando si bruciavano erbe aromatiche o inebrianti sulle braci per propiziarsi gli spiriti e per ottenerne i favori. La pianta del tabacco era considerata sacra; semi e foglie di tabacco sono state trovate recentemente durante i restauri di una mummia egizia. Semi di tabacco erano usati dai cinesi oltre 3 mila anni fa quali antifecondativi. Tribù pellerossa fumavano in occasioni eccezionali: per accogliere degnamente l'ospite importante e per onorare il Grande Spirito, la loro pipa era il Calumet, e il rito era il seguente: ciascuno tirava quattro sbuffate verso i 4 punti cardinali.
    Una strana pipa a forma di cilindro è stata scoperta a Mossul (odierna Siria); si stima che risalga a migliaia di anni fa.
    Pipe d'epoca preistorica furono trovate in tutta l'America del Nord, nel Mississippi Superiore nel Missouri, nell'Ohio, sui fianchi dei Monti Alleghanis, sulle rive del Lago Ontario e nella regione del Saint-Laurent.
    Nell'America Centrale e nel Sud America la coltivazione e l'uso del tabacco risalgono a millenni.
    Pipe Gallo-Romane in ferro sono state trovate nel sud della Francia e in Valle d'Aosta.




    Una pipa è composta da un certo numero di parti, ciascuna con un nome ed una funzione specifica ben definita. Per quanto diverse possano essere le forme della pipa, vi ritroverete sempre i seguenti elementi:

    1 Nella testa è ricavato il fornello, in cui viene caricato il tabacco.

    2 Il cannello, ricavato dal ciocco tutt'uno con la testa, serve a trasmettere il fumo al bocchino.

    3 Il bocchino è la parte amovibile della pipa e deve combaciare ermeticamente con il cannello.

    4 L'innesto è la parte del bocchino che connette lo stesso con il cannello; è una delle parti più vulnerabili della pipa
    perché è relativamente fragile.

    5 L'imboccatura è l'estremità del bocchino che viene stretta Ira i denti.

    6 Nel fornello o camera di combustione viene caricata la pipa e vi brucia il tabacco.

    7 Le pareti del fornello sono ricoperte da uno strato di carbone disposto con regolarità, questo strato si forma
    fumando; oggi lo si applica anche artificialmente.

    8 Il condotto lascia passare il fumo dalla testa, attraverso il cannello, sino all'imboccatura.

    9 Nel condotto vi può essere inserito o meno un sistema o dispositivo, sia esso una spirale metallica, un tubetto o
    altro, che consente di regolare il flusso del fumo, filtrandolo.




    I modelli fondamentali

    Billiard
    Il modello più famoso e popolare del mondo. E' una pipa dritta fornita di una ben equilibrata testa cilindrica con pareti verticali.

    Apple
    Ha una testa sferica-ovale. Quando la si prende nel palmo della mano dà l'impressione di stringere una mela; da cui il nome.

    Pot
    Può essere considerata una lontana parente della Billiard. la sua testa, dritta, è più bassa e le pareti più spesse. Un modello più pesante e meno slanciato.

    Canadian
    Della stessa famiglia della Billiard, ma con cannello lungo e bocchino curvo.

    Bulldog
    Una pipa robusta. Sulla parte più larga della testa vi è una scannellatura al di sopra della quale la testa si restringe.

    Bent
    E' una pipa curva (halfbent) o ricurva (fullbent); la testa può variare o può essere uno degli altri modelli, per esempio una "bent billiard".

    Forme varie o a fantasia
    Non hanno una dizione ufficiale; sono riconducibili a combinazioni varie dei modelli principali.

    Freehands
    Sono pipe fatte a mano; pezzi unici artigianali, prodotti fuori serie.




    Pipe di pannocchia

    Le sue qualità sono molto discusse. Viene ricavata dalla pannocchia di una specie di granturco americano dalla fibra dura che cresce nel Missouri (USA). C'è chi la trova mediocre e chi la considera ottima; ma c'è unanimità nel non considerarla la pipa migliore del mondo. E' innegabile che tali pipe non siano costose e che producano, grazie alla loro porosità un fumo molto fresco. Svantaggio notevole è che "la pannocchia" si satura molto presto per cui alla lunga il tabacco acquista un retrogusto. Inoltre, a causa del calore, le pareti si forano facilmente.




    Le Calabash ( pipe di zucca )

    Sono pipe molto speciali. Il fornello esterno, in pratica un contenitore o camera di condensazione, è dato dal frutto di una zucca esotica di origine africana. Nell'interno viene alloggiato il vero e proprio fornello di schiuma, tenuto in sito da una guarnizione di sughero. Fra i due materiali rimane un piccolo spazio che serve per il raffreddamento del fumo. Di linea molto elegante si trovano soltanto da qualche specialista. Danno luogo ad una fumata asciutta e gradevole procurando al fumatore un inatteso senso di piacere.
    Le pipe possono essere fatte in un gran numero di materiali; ma parlando di pipe pensiamo anzitutto alle pipe realizzate in legno, terracotta o in schiuma.




    Le pipe in radica

    La radica e il materiale classico per le pipe in legno. Si usano le parti bulbose o le radici del l'erica arborea. Tale arbusto, che può raggiungere un'altezza sino a quattro metri, cresce soltanto nelle regioni mediterranee, quali Sardegna, Corsica, Calabria, Sicilia, Grecia, Tunisia, Algeria e Marocco.
    Nonostante i molti tentativi in materia non si è mai riusciti a coltivarla domesticamente; la pianta è "testarda" e non cresce altro che selvatica.
    Le più belle e le più pregiate pipe in radica hanno una nervatura parallela e regolare partendo dal fondo verso l'orlo. Tali pipe, dette "fiammate", sono molto esclusive.
    Sono rare anche l' "occhio di pernice" caratterizzate da nervature ovali disposte trasversalmente. Comunque il disegno della nervatura determina solo in parte la qualità di una pipa.
    La radica è un Legno durissimo ed estremamente resistente cd calore, grazie ad un'alta percentuale di acido silicico. E' leggera, respira, e per la pipa è un materiale meravigliosamente "vivo". Uno svantaggio è che il legno non è di sapore neutro; nella maggior parte dei casi però, ciò dà al tabacco un aroma tutto particolare, per niente sgradevole.



    Le pipe di schiuma (di mare).

    Perle pipe di schiuma viene utilizzato il silicato idrato di magnesio, che si trova in giacimenti in Asia Minore (Turchia) e in Tanzania. I blocchi di schiuma originari della Turchia sono di color bianco candido e molto leggeri, quella proveniente dalla Tanzania è un po' più pesante, di struttura più grossa e di minor purezza.
    Accanto alle predette due qualità si trovano in commercio prodotti ottenuti con cascami di schiuma ridotti in polvere e poi impastati. Di qualità nettamente inferiore, per il non conoscitore e difficile distinguerli dalla schiuma pura. Risultano più pesanti e meno lucidi.
    Le pipe di schiuma non richiedono rodaggio. Sono leggere e, per la porosità del materiale con cui sono fatte, assicurano una fumata fresca e leggera. Vi sono dei fumatori che le prediligono per la caratteristica di colorarsi man mano con un imbrunimento progressivo, considerato affascinante e da ottenere con cura particolare. Sono molto fragili e costose. L apipa calda può spaccarsi per il gelo o se viene appoggiata su una superficie fredda.



    Le pipe di terracotta,

    Fumare la tradizionale pipa di terracotta è diventato raro. Benché siano gradevoli a vedersi e brucino molto bene, non vengono quasi più prodotte. Sono estremamente fragili e non durano molto in quanto la terracotta tende a saturarsi di condensati.
    Attualmente, anche se non molto diffuse, si usano pipe di terracotta fusa. Ve ne sono due tipi: a parete semplice e a parete doppia. La seconda è la più popolare e brucia ottimamente. Loro caratteristica è il vuoto tra le pareti del fornello e quello esterno. Quando la si fuma, il fumo e la condensa del tabacco si raccolgono nello spazio esistente fra le due pareti, dove l'umidità viene assorbita ed il fumo si rapprende. Le pipe di terracotta assicurano una fumata asciutta e leggera, assorbendo l'umidità, sono fragilissime e si riscaldano durante il fumo.




    La pipa in legno che conosciamo oggi è in radica, "briar" in inglese, "bruyère" in francese. La materia prima, affascinante ed un poco misteriosa, con cui sono fatte è il ciocco, un'escrescenza che deriva dall'arbusto che i botanici chiamano "Erica Arborea", quest'arbusto appartiene alla famiglia delle Ericacee; se ne contano 1350 specie diffuse in tutto il mondo. Quella usata per le pipe viene dal bacino del Mediterraneo: Italia, Francia, Spagna, ma anche Albania, Grecia, Turchia europea, Algeria. Per gli italiani, la migliore italiana; per i francesi, quella della Corsica. Noi siamo liberi di scegliere a nostro giudizio. E' risaputo che le piante crescono prontamente sotto abbondanti piogge. Ma l'Erica più adatta alla pipa è quella che deve lottare per la sua sopravvivenza dove il terreno è arido e roccioso, la pioggia scarsa e le condizioni di vita fra le peggiori... lì vento impetuoso e il terreno roccioso non impediscono all' Erica di svilupparsi, con un sistema di radici che s'insinuano nelle più piccole fessure, forzando il terreno e la roccia.
    Nello sforzo di trovar poco a poco posto nell'arido terreno sul quale cresce, sviluppa un duro nodo di legno granuloso appena sopra le radici, nel cosiddetto colletto, giusto appena sotto terra. Questa grossa protuberanza è il ciocco, la materia prima con la quale si fa la pipa. Il ciocco non ha nulla d'attraente: è un ingrossamento della radice, spesso pieno di nodi e di bernoccoli, non di rado con qualche sasso incorporato. Ma dov'è il lato misterioso della faccenda, di cui si diceva all'inizio. Il mistero è dato dal fatto che nessuno sa ancora perché l'Erica sviluppa siffatta escrescenza che chiamiamo ciocco. Il ciocco giunge al massimo al mezzo metro di diametro; ha scorza sottile, scabra, rugosa e friabile, di color rosso bruno o nerastro, con un legno pesante, di colore che varia dal giallastro al grigiastro, di fenditura difficile, compatto, bizzarramente macchiato, fiammato, o venato; fiamme e venature che poi ritroveremo nelle pipe finite, dando loro prestigio particolare.
    Il maggior pregio del legno del ciocco è la sua relativa incombustibilità il che spiega il successo della radica quale materiale per la costruzione della pipa, rispetto ad altri materiali usati in passato.
    La scoperta della radica d'Erica è merito dei francesi. Un tale che si trovava in viaggio in Corsica aveva perduto la sua preziosa pipa in schiuma: s'era alla metà dell'8OO. Chiese perciò a un contadino di trovargli un legno molto duro nel quale scavarvi una pipa e costui, a conoscenza che il ciocco dell'Erica è sempre stato ricercato come legna da fuoco perché brucia lentissimamente, con un elevato potere calorico, gliene fece una con siffatto materiale. Quel tale (purtroppo non è passato alla storia!) la trovò davvero ottima e la raccomandò ad amici e conoscenti.
    Una volta dissotterrato il ciocco, pulendolo dalle radici, dai sassi, dal marcio, dal tarlo, lo si porta in segheria dove viene tagliato, ricavandone 3 tipi d'abbozzo: il "rilevato" (che servirà per le pipe curve) e due "marsigliesi", grande e piccolo (che serviranno per le pipe dritte). Dopo la prova del ferro, quella del fuoco: l'abbozzo viene bollito per 12 ore di seguito in grandi caldaie di rame. L'acqua bollente scioglie succhi, resine e tannino contenuti nel legno che cambia colore, assumendo dapprima un rosso bruno che poi, asciugando, diventerà marrone chiaro e più tardi, stagionando, marrone scuro. La stagionatura dura almeno un anno, massimo 2-3 anni. Dieci e più anni, come pubblicizzano taluni, sono soltanto frottole.



    curiosità



    Chi fuma la pipa compie tutta una serie di gesti che non sono richiesti ai semplici fumatori di sigarette. Si tratta per i primi di un vero e proprio rituale che permette loro di offrire all'interlocutore un'immagine di sé quali persone calme, pazienti, meticolose, riflessive, perfino sagge. In realtà colui che fuma la pipa approfitta del lungo rituale dell'accensione per guadagnare tempo! Tempo che gli è necessario per riflettere e quindi preparare le sue risposte. Sono sempre più numerose le persone che utilizzano la pipa quale strumento, come se si trattasse di un prolungamento della mano. Si può brandire la pipa dirigendola verso l'interlocutore nel momento in cui si intende dare più forza a un ragionamento; si può utilizzare la pipa per indicare un oggetto lontano; se poi il fumatore si strofina la guancia con la mano che regge la pipe accentuerà in tal modo la propria espressione dubitativa. Quando si tiene la pipa fra i denti risulta ovviamente difficile parlare, si tratta quindi di un ulteriore trucco per prendere tempo e riflettere meglio. Certi fumatori di pipa sanno giocare bene con questo accessorio tanto che esso diventa uno strumento di comunicazione, una vera e propria appendice del corpo.
    In base alle osservazioni cui sono stati sottoposti gli adepti della pipa e quelli delle sigarette, sembrerebbe persino che queste due categorie di persone siano caratterizzate da due tipi diversi di intelligenza. I primi sarebbero dunque dotati di un intelligenza astratta, vale a dire di una capacità di vedere il proprio pensiero proiettato nel tempo e nello spazio, mentre i secondi avrebbero un'intelligenza concreta, sentirebbero cioè il desiderio costante di ricollegare il proprio pensiero a situazioni reali per attribuirgli concretezza. Questa particolarità non può che contraddistinguere personalità diverse. I fumatori di pipa sono abili nel coinvolgere e affascinare l'interlocutore ancor prima di avere esposto per esteso le loro idee mentre i secondi si soffermano a lungo su minuziose spiegazioni prima di passare al punto seguente della loro esposizione.




    Nel gennaio del 1904 l'ambasciata russa di Parigi si metteva in contatto con una manifattura di Saint Claude (Giura Francese), località celebre per la lavorazione e scultura del legno (ebano in particolare), nonché per la produzione di pipe e per l'intaglio di pietre dure ed avorio. A questa ditta veniva passata una ordinazione di 3.000 pipe che dovevano essere fabbricate in ebano secondo un modello unico che è caratteristica principale delta pipa tradizionale russa ed in particolare di quella in uso nella marina imperiale. Il modello prevedeva la fabbricazione monoblocco tipicamente russa in quanto sembra che il punto di congiunzione che trovasi fra il bocchino realizzato in materiale diverso ed il corpo pipa in legno costituisse una zona di fragilità troppo elevata per poter sopportare senza spezzarsi le bassissime temperature della steppa.
    Poco più tardi, il 6 febbraio 1904, a causa della continua penetrazione russa in Manciuria, scoppiava fra la stessa Russia ed il Giappone un conflitto che ben presto assumeva l'aspetto di una vera e propria guerra guerreggiata.
    Uno dei punti focali del conflitto divenne subito la città fortificata di Port Arthur, oggi Lushun posta sulla punta estrema della penisola di LiaoTung che, nèl Mar Giallo, delimita il golfo omonimo. La città era difesa da 35.000 soldati russi e dalla flotta russa del Pacifico costituita da 18 navi da battaglia e 40 navi ausiliarie di diverso tipo. Nella notte fra l'8 ed il 9 febbraio l'ammiraglio giapponese Heihakiro Togo (1847-1934), capo dello stato maggiore del Sol Levante, con una audacissima azione della sua squadra navale riuscì a distruggere molte navi nemiche ed a porre il blocco alla città. Le poche navi russe superstiti ripararono a Vladivostok.
    La guerra proseguì in Manciuria con Port Arthur sempre assediata. Nell'ottobre 1904 lo Zar Nicola II Romanov, visto che la guarnigione di Port Arthur non riusciva ad infrangere il blocco decise di inviare in soccorso della città assediata la flotta del Baltico. E qui inizia anche l'avventura delle nuove pipe. Il governo di Sua Maestà Imperiale aveva fornito al fabbricante francese le barre d'ebano necessarie e questi, alla fine di giugno consegnò le pipe ordinate, che più tardi furono tutte distribuite ai marinai ed ufficiali della flotta di stanza a Leningrado. La flotta, forte di oltre cinquanta navi fra cui 5 navi di linea moderne, una quindicina di vecchio modello ed il resto composto da torpediniere e naviglio ausiliario, salpò alla fine di ottobre al comando dell'Ammiraglio Z. P. Rozestvenskij diretta in estremo oriente. Il viaggio fu disastroso, costellato di incidenti, ritardi ed ostacoli di ogni genere tanto che la flotta raggiunse il Mar della Cina soltanto il 20 maggio 1905. Poiché nel frattempo Port Arthur era caduta, Rozestvenskij decise di forzare il passaggio fra la Corea ed il Giappone per poter raggiungere Vladivostok e ricongiungersi con i resti della flotta scampati alle navi di Togo. L'Ammiraglio Togo, che era al corrente della rotta delle navi russe, e che aveva nel frattempo riunito la sua flotta controllando assiduamente lo stretto di Corea fra l'isola di Tsushima e la penisola di Corea, attaccò di sorpresa la flotta russa. La squadra giapponese che constava di 4 corazzate e sei incrociatori pesanti più un rilevante numero di siluranti, era inferiore numericamente a quella russa ma molto più moderna e con equipaggi addestratissimi e fanaticamente fedeli al Tenno. Inoltre la qualità dei suoi proiettili e la caratteristica elevata rapidità di fuoco le conferivano una rimarchevole superiorità Il 27 maggio i Giapponesi, avvistate le navi russe, attaccarono di sorpresa e, sfruttando la loro maggior velocità, ebbero ben presto ragione dei russi. Le migliori corazzate russe fra cui l'ammiraglia Suvorov furono messe fuori combattimento dal terribile fuoco delle navi di linea giapponesi e finite dalle siluranti, mentre il naviglio leggero e ausiliario veniva affondato. Il mattino seguente la retroguardia russa, al comando dell'Ammiraglio Nebogatov, con le vecchie corazzate e poche torpediniere, fra cui quella su cui era imbarcato l'ammiraglio Rosetsvenskij gravemente ferito, riuscì a riprendere la navigazione verso Vladivostok ma poco dopo, all'altezza dell'isola di Matsushima, incappò nuovamente nelle navi di Togo. Fu la fine. Il resto della flotta Russa fu distrutto o si arrese. Soltanto tre piccole unità riuscirono a fuggire ed a raggiungere Vladivostok. Le nuove pipe, appena distribuite finirono tutte in fondo al Mar della Cina. La battaglia di Tsushima segnò praticamente la totale sconfitta della Russia, ufficializzata il 5 settembre 1905 con la pace di Portsmouth.



    "L'ultima sigaretta". L'estremo desiderio del condannato a morte; un gesto che abbiamo visto ripetere centinaia di volte al cinema e in televisione. Un gesto che nella sua semplicità raccoglieva di volta in volta il godimento della raccolta in pochi istanti di tutta una vita, il piacere di assaporare un ricordo avvolto nel fumo, la sensazione di pace interiore prima della morte del corpo.
    Il fumo ha accomunato in vita personaggi noti in tutti i settori della cultura, dell'arte della storia.
    Tra i condottieri, Pietro il Grande e Federico il Grande, primo collezionista di scatole da tabacco. E poi Napoleone, la cui tabacchiera era la fida compagna sui campi di battaglia.
    Napoleone III e Guglielmo II non disdegnavano la sigaretta. Stalin invece preferiva la pipa, Churchill non si mostrava mai in pubblico senza l'adorato sigaro. Mao era così dipendente dalla sigaretta che dopo la Lunga Marcia, coltivò personalmente il tabacco. "Fumare tutto il giorno e non fare moto" era la ricetta di Joseph Chamberlain per aver successo in politica.
    Il concetto che la riflessione sarebbe impossibile senza l'aiuto di uno stimolante artificiale quale il tabacco, ha preso talmente l'umanità che non ci sogneremmo di leggere un'avventura di Sherlock Holmes dove egli non fumasse in modo talmente assiduo da far uscire dalle pagine del libro l'odore stesso del tabacco.
    E cosa dire del mondo dello spettacolo? Oscar Wilde, Hemingway, Charlie Chaplin (solo in tarda età diventò un convinto non fumatore a causa dei danni che il tabacco poteva arrecare).
    Chi non ricorda nel film "Casablanca", Humphrey Bogart con l'eterna sigaretta tra le labbra noncuranti? Ed il commissario Maigret, sempre occupato a pulire ed a ricaricare la pipa?
    L'eccesso nell'uso del tabacco fu la causa del cancro alla bocca che condusse alla tomba Freud. Darwin imparò a fumare dai gauchos quando cavalcava con loro nelle pampas; dopo un mese di astinenza confessò di sentirsi "estremamente letargico, ottuso e malinconico".
    E tra i musicisti famosa era la pipa di Händel mentre Bach ha dedicato al fumo persino un poema. Mozart non abbandonava mai la scatola del tabacco da fiuto ma detestava gli ambienti impregnati di fumo. Beethoven prediligeva la pipa, mentre Wagner, impegnato a suonare il piano per alcuni amici, avendo terminato il tabacco da fiuto, esclamò: "Niente più tabacco, niente più musica".




    Il miracolo di S. Andrea

    Come risaputo, dal giorno della sua morte nel I Secolo d. C., l'Apostolo Andrea ha avuto dal Cristo la facoltà di tornare una volta all'anno sulla terra esattamente il giorno 30 di Novembre, per compiere un miracolo.
    Questo si è verificato puntualmente nei secoli passati, e si ripeterà nei secoli a venire.
    Ciò che sorprende nei miracoli di Andrea é la semplicità e l'umanità delle sue scelte, come d'altronde aveva imparato dal suo Maestro.
    Il giorno 30 Novembre 1974, riprese Andrea le sue sembianze umane, discese su questa terra alle 11 del mattino, precisamente a Parigi
    Vestiva dimessamente come un povero comune mortale, un po' infreddolito data la stagione avanzata e s'incamminò verso Nôtre-Dame.
    Era dai tempi di Luigi XV che non rivedeva Parigi e trovò la città alquanto cambiata. Girovagò per le vie senza una meta precisa, aveva a disposizione la giornata intera!
    Si soffermò a un'edicola, lesse i titoli dei giornali esposti: Guerra in Palestina, il suo paese, e in altre contrade, l'uomo sulla luna, elezione del Presidente, Inflazione, la Bomba Atomica ecc. Tutto normale dunque, pensò con un velo di malinconia.
    Prosegui il suo cammino, e si trovò in Place du Parvis Notre~Datne.
    Fece la Rue d'Arcole, girò a destra, osservò il mercato dei fiori sul lungosenna che costeggiò confuso tra la folla. Suonarono le campane del mezzogiorno, si appoggiò alta spalletta del Ponte St. Louis e osservò il lento scorrere della Senna; l'acqua gli ricordava qualcosa di particolare della sua vita, di suo fratello Pietro, del Battista, ora ricordava chiaramente: era stato pescatore.
    Sotto l'arcata del ponte il suo sguardo si fissò su un uomo seduto, miseramente vestito, intento a levare dal suo sacco un involto di giornale che allungò al suolo erano avanzi di cibo, l'uomo si apprestava a mangiare.
    Andrea si accorse allora che lui pure avéva appetito, era anche un po' stanco, e decise di fare compagnia al mendicante. Attraversò il ponte, discese sul bordo della Senna e gli si avvicinò.
    L'uomo sollevò la testa dal misero pasto, fissò il nuovo venuto pure lui dimessamente vestito, sicuramente pensò che apparteneva alla categoria dei poveri
    - Buon appetito a te - disse Andrea.
    - Grazie amico mio, se posso offrirti..."
    - Grazie.
    Andrea accettò l'invito, gli si sedette vicino, il cartoccio degli avanzi in mezzo e con un "Buon appetito" iniziò a rosicchiare quel che restava di una coscia di pollo.
    - Da dove vieni?
    - Da un paese senza frontiere.
    - Come ti chiami?
    - Andrea è il mio nome, e tu?
    - Mi chiamo Simone, vivo qui da anni, solo, sono contento
    Andrea si ricordò che Simone era pure il nome di suo fratello Pietro, apostolo come lui, e il pensiero lo commosse.
    Un assortimento di avanzi di cibo, pezzi di pane raffermo, carni, verdure, croste di formaggio e una mezza bottiglia di vino coronò quella singolare unione di due diseredati.
    Eppure Andrea si sentiva contento.
    Terminato il pasto Simone cavò da una tasca dell'unto pastrano una pipa, consumata dall'uso e in condizioni pietose, la mostrò all'ospite che a malapena riuscì a decifrare le parole "Bruyère Garantie", e disse:
    - Mi spiace non poterti offrire una boccata con la mia pipa, ma non ho tabacco, il tabacco è l'unica cosa che mi manca sempre eppure lo desidero tanto
    - Dimmi Simone cosa desidereresti dalla vita?
    - Andrea, è una cosa impossibile il mio desiderio, vorrei che la mia pipa fosse sempre carica, e che non si vuotasse mai, essa è la compagna della mia solitudine. Andrea si commosse ancora, era una creatura molto sensibile.
    Rivolse il pensiero al suo Dio, e lentamente con l'indice della mano destra tracciò la sua croce, la croce di St. Andrea, sulla fronte del compagno.
    - Simone, quello che tu desideri l'avrai, la tua pipa sarà sempre carica.
    Simone si chinò, con meraviglia e stupore vide che il fornello della pipa era pieno fino all'orlo di un buon tabacco bruno, forte e profumato, proprio quello che piaceva a lui. Accese a pipa, tirò due o tre lunghe buffate, e beato soffiò il fumo verso il cielo. Si voltò per ringraziare Andrea ma il suo compagno non c'era più.
    Il miracolo aveva avuto inizio, ma la storia non finisce qui.
    Il mendicante Simone era felice; nulla gli mancava dalla vita, per le sue necessità di nutrimento la società gli dava la possibilità di trovare sempre nei bidoni dei rifiuti un assortimento di quanto veniva sciupato dalla civiltà dei consumi.
    Per il suo desiderio maggiore: la pipa con un buon tabacco, Andrea era stato di parola, la sua pipa, nonostante che oramai la fumasse quasi in continuità, era sempre carica.
    Passarono così i mesi, gli anni, si giunse all'inverno 1982, Simone sempre rifugiato sotto l'arcata del suo ponte … una sera sentì un brivido di freddo, vide avvicinarsi una triste figura in nero che si confondeva con la nebbia che saliva dalla Senna.
    - Chi sei tu? - chiese Simone.
    - E' giunto il tuo momento, preparati Simone, sono la morte.
    - Lascia che termini questa pipata e sarò pronto.
    - Sta bene - disse la morte. - Fa presto!
    La morte attese cinque, dieci minuti, mezz'ora, un'ora, due ore, ma Simone calmo continuava a emettere volute di fumo.
    - Fa presto Simone, ho gia perso più di due ore, la mia lista di visite si allunga sempre di più.
    Si stancò alfine la morte, e delusa dalla inutile attesa s'allontanò.
    Simone continuando beato a fumare sentì allora voci lontane che in una lingua a lui sconosciuta dicevano:
    - Sancte Andreae intercede pro eo.
    Simone è ancora là, sotto il ponte di Saint Louis, con la sua inseparabile pipa sempre accesa.
    (tabaccheria21)

     
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  13. gheagabry
     
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    La PIPA in SCHIUMA




    La sepiolite è un minerale scoperto nel 1847, un fillosilicato idrato di magnesio, noto anche come "schiuma di mare", il minerale ha una struttura leggera e porosa.
    Fu Ernst Friedrich Glocker (1793 - 1858), mineralogista e geologo stratigrafico tedesco che le diede il nome, alludendo al fatto che il suo aspetto ricorda l'osso di seppia. In ragione del fatto che è possibile trovarla galleggiante sulle acque del Mar Nero, viene comunemente chiamata schiuma di mare. Appena estratto è molle, ma indurisce quando esposto al calore solare o quando essiccato in un apposito ambiente. Ha la caratteristica di assorbire velocemente acqua e anche sostanze grasse, senza deformarsi. Ha una luminescenza a volte bianco-giallastra, a volte bianco-bluastra. Fonde con difficoltà, è inattaccabile dagli acidi, fatta eccezione dell'acido cloridrico. A seconda della profondità da cui è estratto il minerale assume colorazioni diverse: leggermente grigio-giallognolo se estratto verso la superficie; bianco intenso se estratto più verso il fondo della cava.



    La schiuma di mare è generalmente nota come la "dea bianca" . La sua origine è incerta, ma si presume che l'acqua calcarea dei fiumi abbia eroso i sassi magnesiaci e depositato il fango formatosi.Inoltre si deve considerare che la maggior concentrazione di magnesio è nei gusci dei
    molluschi ,quindi l'asciugarsi di un mare interno e i suoi sedimenti ricoperti e pressati in seguito dalle masse tettoniche sovrastanti.



    Se da un lato esistono innumerevoli leggende sulla data di nascita della prima pipa ricavata da questo materiale particolarmente leggero, dall'altro lato è certo che le prime pipe di schiuma di mare europee sono state fabbricate in Ungheria e importate da alcuni aristocratici a Vienna, dove si sviluppò un centro di lavorazione di schiuma di mare. Intorno al 1870 oltre duecento aziende situate nella capitale austriaca producevano pipe di silicato idrato di magnesio e il termine "schiuma di Vienna" venne introdotto nella letteratura sulle pipe.
    In genere le pipe di schiuma pregiate avevano tutte bocchino d'ambra (a quei tempi proveniente in maniera pressoché esclusiva dalle rive del Mar Baltico). Non esistono riferimenti precisi per stabilire quando furono fabbricate pipe di schiuma la prima volta. Sembra che l'Ungheria sia il paese natale. Molti ritengono che la schiuma di mare fosse estratta in Turchia già verso la metà del XVII secolo, ma sembra che soltanto un secolo dopo abbia incominciato ad assumere una certa importanza commerciale. Il centro più famoso per il commercio e la fabbricazione di pipe di schiuma è stata Vienna che produceva, in genere, soltanto pipe con fornello liscio, con guarnizioni in argento sul cannello e con bocchino d'ambra o di corno. La migliore schiuma di mare impiegata nella lavorazione delle pipe è quella a blocchi proveniente dalla Turchia.



    Il termine francese "culot" corrisponde al termine italiano "gruma" che quando si parla, in generale, di pipe definisce l'incrostazione che si forma dopo la combustione del tabacco dentro il fornello. Il verbo "culotter" sta, quindi, per " ingrommare o ingrumare". Riferito alle pipe di schiuma il "culottage" identifica invece i colori incantevoli che la parte esterna della pipa assume dopo tantissime e sagge fumate che possono durare anche molti anni. È certo che un perfetto "culottage" costituisce per un fumatore di pipe di schiuma la soddisfazione più ambita. La colorazione, dall'inizio alla fine, di una pipa fumata con attenzione passa attraverso diverse sfumature che normalmente sono: rosa Cina pallido, giallo oro, arancio pallido, bruno rosa chiaro, marrone cuoio scuro ed infine nero bruno.




    La pipa "Morta"



    Possiamo considerare la pipa di morta come la prima pipa della tradizione contadina,è fortemente probabile che sia anche la prima pipa di legno costruita in assoluto. Dall'arrivo del tabacco in Irlanda il bogoak,"la morta", è sempre stata usata nelle zone rurali per fare la pipa, quando le pipe esistenti erano soltanto quelle di argilla cotta.
    La "Morta" è un legno fossile ,reperito in maggior misura nelle torbiere irlandesi. In vaste zone del paese intere foreste di pini, querce, olmi, tassi, si trovano conservati sotto una coltre di torba. La condizione acida e la mancanza di ossigeno hanno garantito la conservazione di questi alberi in eterno. Questi alberi sono più antichi delle piramidi d'Egitto e dei monumenti preistorici di Newgrange.
    Il Celtic Roots Studio ha inviato campioni di quercia "morta" e di tasso alla Queens University di Belfast per ottenerne una datazione al carbonio14. La Queen's University, Belfast conferma: per i campioni di tasso testati , che la data della crescita del legno è tra il 2000 e il 2200 a.C. e per la quercia, la data di crescita del legno è tra 3300 e 3600 a.C.
    (Enzo Foresti)



    Edited by gheagabry - 14/8/2014, 21:08
     
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  14. gheagabry
     
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    La storia del TABACCO


    Nativa del continente americano, la pianta del tabacco era già conosciuta dai Maya, e Cristoforo Colombo aveva osservato la pratica del fumo di tabacco tra i popoli caraibici, che aspiravano attraverso un tubo detto tobago.
    Le prime informazioni sul fumo di tabacco si trovano nella "Storia Generale delle Indie" di Bartolomeo de la Casas, il quale scriveva «…gli Indiani mischiano il fiato con il fumo di un’erba chiamata "petum" e soffiano come dannati». Il "petum", detto anche "tabago", veniva annusato, masticato o fumato in pipe di pietra rossastra. In realtà, far ardere il tabacco aveva un valore religioso per i Maya e i Pellirosse, significava rendere omaggio al Dio Balan, il dio dei quattro venti che accendeva il cielo con lampi e nuvole. Tutte le testimonianze pervenute sono concordi nell’affermare che per gli indiani «…inghiottire fumo prende più tempo che lavorare».

    La storia del tabacco è una storia di conquista del mondo in meno di due secoli. Partendo da un centro originario identificabile con l'altipiano centroamericano e col Messico meridionale, la pianta del tabacco si diffuse rapidamente: già verso il 1580 era coltivata a scopo commerciale dagli spagnoli e agli inizi del 1600 veniva coltivata dalle Americhe all'Estremo Oriente. Delle specie originarie, la Nicotiana tabacum diventava predominante e si diffondeva rapidamente, mentre la Nicotiana rustica passava in una posizione marginale. Diffondendosi nel mondo, il tabacco si è differenziato in moltissime varietà, merito della sua alta adattabilità a differenti ambienti.
    In Europa, pare accertato che il tabacco sia stato coltivato per la prima volta nel giardino reale di Lisbona nel 1558 e che dal Portogallo l'ambasciatore francese Jean Nicot (da lui il termine "Nicotiana") ne abbia spedito i semi in Francia verso il 1560. Qui il tabacco incontrò un tale favore per le sue virtù medicinali che venne posto sotto il patrocinio della Regina Caterina dei Medici, donde il nome di Erba della Regina. In Italia il tabacco fece la sua comparsa, più o meno nella stessa epoca, ad opera del Cardinale Prospero di Santa Croce (da cui il nome di Erba santa), Nunzio Pontificio a Lisbona. Il Sommo Pontefice che ne ricevette i semi, li affidò ai monaci dei vari ordini religiosi, i quali li misero in coltura negli orti dei conventi ed ecco perché iniziò la sua diffusione in Italia dal Lazio. L'uso che si fece all'inizio del tabacco (allo stato verde, essiccato, polverizzato) fu a scopo di medicamento per numerosissimi mali, ragion per cui divenne dominio dei farmacisti. Il suo impiego come prodotto voluttuario è successivo: dapprima venne adoperato per fiuto, sotto forma di polvere anche aromatizzata da aspirare nelle cavità nasali, ed a tale tipo di consumo dettero un contributo notevole le dame della buona società.

    Dopo papi, re, cardinali, ambasciatori, medici e perfino parroci, la moda conquistò anche le donne.
    Alcune Dame fondarono l’Ordine della Tabaccheria, il cui motto recitava:
    "Noi Cavalieresse dell’Ordine della Tabacchiera, dichiariamo di non aver trovato fino ad oggi nulla all’infuori del tabacco degno di farsi amare costantemente da noi. Il tempo ci fa trovare dei difetti nei nostri amanti, dell’ingratitudine nelle nostre amiche, del ridicolo nella moda che noi cambiamo quattro volte all’anno. Solo il tabacco noi troviamo degno di essere amato".


    Il costume di fumarlo provenne dall'Inghilterra nel 1590 e fece proseliti, specie nel popolino e tra i soldati, in una diffusione sociale diversa da quanto si sarebbe indotti a ritenere. L'uso del tabacco ben presto degenerò in abuso e determinò la reazione dei medici che denunciarono i danni che arrecava all'organismo. Ciò indusse Papa Urbano VIII a condannare coloro che aspiravano il tabacco in chiesa. Ma i governanti dell'epoca compresero che il tabacco poteva costituire una fonte di entrate per le pubbliche finanze per cui, con il pretesto della tutela della salute, istituirono i primi vincoli fiscali esercitati a mezzo di appalti a privati o di monopoli gestiti direttamente. La coltivazione del tabacco in Italia si mantenne limitata fino al secolo scorso. A Roma la prima fabbrica pontificia di tabacco venne costruita da Benedetto XIV a metà del diciottesimo secolo in Via Garibaldi perché potesse sfruttare, come forza motrice, il copioso getto d'acqua proveniente dalla sovrastante fontana dell'Acqua Paola, al Gianicolo. Fu sempre Papa Benedetto XIV, fanatico sostenitore del fumo, ad abolire il 21 dicembre 1757 la tassazione sul tabacco eliminando di fatto la privativa stessa. Da quel momento a Roma fu resa libera la semina, la raccolta e la commercializzazione del tabacco sia greggio che lavorato e fu permesso a chiunque di importare tabacchi esterni nel territorio dello Stato Pontificio senza pagare alcun tipo di dazio o gabella. Con l’unificazione del Regno d’Italia e una legislazione unica della produzione, il nostro Stato divenne il primo produttore continentale di tabacco.

    Per molto tempo la sigaretta non riguardò i fumatori di pipa e sigaro che la ritenevano troppo dolciastra e insipida. La sua origine viene fatta risalire alla guerra di Crimea, quando un carico di pipe colò a picco e i soldati decisero di utilizzare il tabacco arrotolandolo nei contenitori di carta della polvere da sparo. Ma fu tra le due guerre mondiali che quello che era solo un vizio divenne una vera a propria piaga. Questa si accrebbe ancora durante la seconda guerra mondiale con lo sviluppo della pubblicità, che influenzò ulteriormente i costumi della massa.
    (dal web)

    ....una leggenda.....


    Horonami girava per la selva piagnucolando: Beshiye! Piango di desiderio. Gli spiriti pappagallo lo sentirono e cercarono di aiutarlo: Ledonne sono appena passate. Erano dirette verso la collina. Se corri riuscirai a raggiungerle. Ma Horonami pianse ancora più forte, urlando che il suo non era desiderio di donne. Allora gli spiriti pappagallo gli lanciarono qualche frutto perchè si sffamasse. Ma dal basso continuava il lamento. Horonami camminò a lungo, sempre invocando l’aiuto dei pappagalli che non riuscivano a capire. Finalmente si fermò sotto un albero: Beshiye! Beshiye! Beshiye! ripetè sconsolato. Sull’albero se ne stava un opossum che gli indicò dove trovare le donne, e poi gli offrì alcuni frutti. Ma Horonami non voleva donne, e quei frutti gli sembrarono insipidi. Ho capito di cosa hai bisogno, disse l’opossum, guarda sulla mia ascia. In bilico sull’ascia c’era una presa di tabacco molto odoroso. Opossum gliela regalò con la raccomandazione di tenerla a lungo sotto il labbro inferiore. Horonami ubbidì e, invaso da una piacevole vertigine, smise di lamentarsi e piagnucolare. Si allontanò saltando dalla gioia. Ogni tanto sputava per terra, e in quel punto cresceva immediatamente una pianta di tabacco.
    (Racconto tratto dal libro Gli yanomami)
     
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  15. gheagabry
     
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    LA BUSSOLA


    La bussola è uno strumento per l'individuazione dei punti cardinali. È provvista di un ago calamitato che, libero di girare su di un perno, ha la proprietà di allinearsi lungo le linee magnetiche del campo magnetico terrestre indicando così la direzione nord-sud (entro i limiti d'errore dovuti alla declinazione magnetica). L'uso della bussola è fondamentale in mare aperto, in vasti spazi, dove non ci siano punti di riferimento, così come in presenza di riferimenti per localizzarsi goniometricamente rispetto ad essi. Utilizzata con un orologio ed un sestante è possibile avere a disposizione un accuratissimo sistema di navigazione. Questo strumento ha migliorato la navigazione facilitando i commerci marittimi e i viaggi per mare rendendoli più sicuri ed efficienti.
    Alla bussola può essere associata una meridiana che permette di conoscere l'ora solare durante il giorno, semplicemente osservando l'ombra prodotta dalla barra, perpendicolare all'ago, dopo che quest'ultimo si è posizionato verso Nord.La bussola deve il suo nome alla scatola in legno di bosso che originariamente conteneva tale strumento


    L'invenzione della bussola si attribuisce ai cinesi. La documentazione più antica sull'uso del campo magnetico terrestre risale all'antica Cina dove veniva usato come forma di spettacolo: venivano lanciate casualmente delle frecce magnetizzate, come si fa con i dadi, e "magicamente" queste si allineavano verso il nord, impressionando gli spettatori. Curiosamente questo sistema impiegò moltissimo tempo prima di essere impiegato nella navigazione e diventò comune soltanto tra l'undicesimo ed il dodicesimo secolo.
    La bussola venne adottata prima in Europa, dove il primo uso di tale strumento nel Mar Mediterraneo è stato attribuito all'italiano Flavio Gioia di Positano presso Amalfi (1303), anche se da studi recenti risulta che tale attribuzione fu un'erronea interpretazione di un manoscritto dell'umanista Flavio Biondo da Forlì, che mette in dubbio persino la sua esistenza. Sembra che i marinai arabi abbiano iniziato ad usarla soltanto nella seconda metà del tredicesimo secolo, imparandone l'uso dagli europei; infatti c'è una leggenda che narra di un inglese di nome Nicholas of Lynne che fu al servizio della marina araba per le sue conoscenze sull'uso di tale strumento.
    Prima di conoscere e usare la bussola, la navigazione marina si realizzava principalmente basandosi sulla posizione delle stelle ed in alcuni casi con l'uso dello scandaglio. La prima tecnica non è utilizzabile quando il cielo è coperto, o quando c'è nebbia, mentre la seconda quando il mare è troppo profondo. L'uso della bussola non ha la stessa utilità ovunque. Per esempio gli arabi, a causa della loro posizione geografica favorevole, possono contare generalmente su un cielo limpido nella navigazione nel golfo Persico e nell'Oceano Indiano (infatti la stagione dei monsoni è prevedibile); questo può spiegare questo forte ritardo nell'adozione di tale strumento.
    Nel Mar Mediterraneo, invece, anticamente, nel periodo di navigazione venivano esclusi i mesi tra ottobre ed aprile a causa di mancanza di cielo sereno durante il periodo invernale. Nel tredicesimo secolo, con l'adozione di metodi di navigazione migliori, tra cui l'utilizzo della bussola, la stagione di navigazione iniziò tra la fine di gennaio e febbraio fino a dicembre. L'aumento della frequenza di navigazione diede una importante impulso all'economia permettendo alle navi mercantili veneziane di raddoppiare il numero dei viaggi verso l'est del Mediterraneo.
    Nello stesso periodo aumentò anche il traffico tra il Mar Mediterraneo e il nord d'Europa; uno dei fattori, potrebbe essere stato l'uso della bussola, che rese l'attraversamento del golfo di Biscaglia più sicuro e facile.


    A partire dall’VIII sec. a.C. la navigazione nel Mediterraneo era senza dubbio il modo più rapido e dinamico di spostamento e di contatto per le grandi distanze. Attraverso le vie d’acqua viaggiavano non solo le merci e gli uomini, ma anche le informazioni e le idee, in altre parole la cultura di un popolo.
    Diversi sono i popoli che ci hanno lasciato testimonianza del loro alto grado di conoscenza nautica: i Greci e i Fenici a partire dall’VIII sec a.C., i Romani dal VI sec. a.C., gli Arabi dal V sec. a.C. e i popoli del nord, più noti come Vichinghi nel VII sec. d.C. L’invenzione della bussola ha segnato una tappa importante nella navigazione, poiché , ha permesso di poter stabilire l’orientamento in modo scientifico. Ma come era possibile navigare e spingersi anche in terre lontane senza l’ausilio della bussola? Innanzi tutto con una conoscenza della natura a 360°: la direzione e l’azione delle correnti, i flussi di marea, i venti favorevoli e contrari, le nuvole e le nebbie, i fondali, i porti e i fari costieri, i pericoli sottocosta, le condizioni meteorologiche locali, gli uccelli marini, le balene e i pesci. La navigazione si basava su tre elementi principali: stabilire la rotta con l’osservazione dei corpi celesti (il sole di giorno e la stella Polare di notte), un attento calcolo del punto nave, e i mezzi occasionali d’assistenza alla navigazione, come uccelli marini e pesci. La pianificazione della navigazione avveniva con una sorta d’itinerario marittimo, ossia un antenato dei nostri portolani, dove erano riportate le rotte costiere, i porti, gli ancoraggi consigliati e le possibilità di ridosso lungo il percorso in caso di tempesta.
    La navigazione costiera era sicuramente più semplice rispetto a quella in mare aperto. Di giorno la rotta era stabilita basandosi sulla posizione del sole di mezzogiorno e dei punti visibili dalla costa; di notte i riferimenti diventavano l’altezza della stella Polare e i fari a terra. La visibilità era quindi lo strumento fondamentale per orientarsi.
    Nel Mediterraneo la navigazione si svolgeva soprattutto in primavera e in estate, quando il vento era favorevole e sufficiente da permettere una velocità minima, che garantiva anche buone condizioni di visibilità.
    Le lunghe navigazioni dimostrano quanto, anche anticamente, l’uomo avesse una conoscenza, seppur rudimentale, degli elementi d’astronomia. La rotta era determinata con un’abile combinazione del calcolo del punto nave stimato e della navigazione secondo la latitudine. Le latitudini nord e sud si individuavano misurando l’altezza della stella Polare o quella del sole a mezzogiorno, e la lunghezza dell’ombra del sole all’alba e al tramonto, o l’altezza della stella Polare sull’orizzonte al crepuscolo.
    (dal web)

    .....tra storia e leggenda......


    Sull’origine della bussola non si hanno notizie certe: le prime informazioni scritte dell’impiego di un ago magnetico per l’orientamento si ritrovano in Cina, nel mondo arabo, in Scandinavia e in Europa tra il 1100 e il 1250 d.C.
    In realtà la scoperta della magnetite, materiale capace di attirare il ferro, risale a circa 3500 anni fa a Magnesia, città dell’Asia Minore; ma la cultura popolare, ignara di fenomeni puramente fisici, interpretò le sue proprietà come magie prodotte da una divinità diabolica. Da qui l’alone leggendario e mitico dell’invenzione della bussola.
    A proposito di leggende: un’antica tradizione cinese racconta che, intorno al 2600 a.C., l’imperatore Hoang-Ti combatté e vinse una battaglia contro il principe Tchi-Yeou, servendosi di un carro magico, il See-nan (carro indicante il sud). Sul carro era fissata una che, con il braccio teso, puntava costantemente e misteriosamente verso sud. L’imperatore, grazie a quest’ingegnoso dispositivo, riuscì a individuare la direzione di fuga del nemico, nonostante in precedenza fosse stata coperta da una gran quantità di fumo. Non ci sono prove che tale meccanismo fosse precursore di una moderna bussola o, più probabilmente, un congegno puramente meccanico. La prima testimonianza scritta di origine araba di una rudimentale bussola compare nel manoscritto “Tesoro dei mercanti”: un ago magnetico fissato su un supporto di legno galleggiante in un vaso d’acqua riparato dal vento. Facendo girare intorno all’ago, verso dritta, una pietra magnetica e togliendola improvvisamente, l’ago volgeva una sua estremità verso nord e l’altra al sud.
    In Europa, due sono le testimonianze scritte per opera di Alexander Neckam, il “De Utensilibus” e il “De Naturis Rerum”. Nel primo è riportato l’uso dell’ago magnetico per indicare il nord nell’orientamento in assenza del sole o delle stelle a cielo coperto. Nel secondo si descrive una delle prime bussole rudimentali costituita da un ago ruotante su perno.
    Spostiamoci alla fine del XIII secolo. In Europa, gli Amalfitani furono i primi a usare la bussola. Nei loro numerosi viaggi commerciali in Siria e in Egitto misero in pratica le proprietà direttive del magnete; si trattava, però, ancora di uno strumento rozzo e imperfetto. Per vedere l’impiego della bussola nella sua versione definitiva bisogna attendere la metà del XIV secolo. Furono gli stessi Amalfitani ad affinare lo strumento per scopi nautici. La tradizione vuole che la moderna bussola sia opera di Flavio Gioia, marinaio di Amalfi; in realtà, l’invenzione della bussola, tappa molto importante nella storia della navigazione, è imprescindibile dalle conoscenze scientifiche e dalle esperienze dei popoli che vivono di mare. Infatti, come possiamo dimenticare l’importanza delle Repubbliche Marinare, che in quell’epoca erano dei fiorenti centri non solo economici, ma soprattutto luoghi di studi e di nuove realizzazioni in campo marinaro.
    Finalmente la bussola: l’ago magnetico fu posto su una punta o perno, libero di ruotare su un piano orizzontale con un cerchio graduato da 0 a 360°. In seguito l’ago si sovrappose su una rosa dei venti, fu posto in una piccola scatola di legno di bosso dal quale derivò il termine bossolo, trasformatosi ai giorni nostri in bussola.
    Le prime rose dei venti erano divise in quarte, in seguito in ottave e poi in dodicesime, assumendo un vero e proprio carattereartistico. Il simbolo del giglio stilizzato, con cui è tradizione marinara indicare la direzione del nord, altro non è che l’evoluzione grafica della lettera “T” iniziale di Tramontana, ovvero come gli Amalfitani chiamavano il vento proveniente dai monti alle spalle della città. La bussola a secco così realizzata ha segnato la differenza sostanziale tra le bussole a sospensione d’uso terrestre e la bussola nautica che, mostrando a colpo d’occhio la direzione di tutti i punti dell’orizzonte, serve a indicare una rotta e può essere utilizzata in mare. La bussola rimase sostanzialmente invariata fino agli inizi del XX secolo, quando si passò alla bussola a liquido. Altri nuovi miglioramenti furono apportati in seguito: la rosa dei venti fu divisa in trentaduesime, fu introdotta la linea di fede (ossia la tacca che indica la direzione della prora), lo strumento fu racchiuso in un contenitore fisso detto “chiesuola”( termine che si riferisce alla cabina del pilota dove custodiva i suoi strumenti); e infine la tecnica della sospensione cardanica, che permetteva una buona orizzontalità dello strumento anche in condizioni di mare agitato e imbarcazione inclinata. Verso la fine del XVI secolo compare la bussola azimutale, utile per misurare il rilevamento di un punto noto, di un astro o di un’altra nave. Arriviamo ai primi anni del nostro secolo con la girobussola, la fluxgate, e l’ancora attuale bussola a liquido. Ma questa è storia dei nostri giorni.
    (Articolo pubblicato sulla rivista SoloVela)
     
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