FIABE DI Gianni Rodari

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  1. gheagabry
     
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    Le belle fate dove saranno andate?
    Non se ne sente più parlare.
    Io dico che sono scappate:
    si nascondono in fondo al mare,
    oppure sono in viaggio per la luna in cerca di fortuna.
    Ma che cosa potevano fare?
    Erano disoccupate! Nessuno le voleva ascoltare.
    Tutto il giorno se ne stavano imbronciate
    nel castello diroccato ad aspettare che qualcuno le mandasse a chiamare.

    Girava il mondo per loro in cerca di lavoro
    una streghina piccina picciò, col naso a becco, magra come uno stecco,
    che tremava di freddo perché era senza paltò.

    E quando la vedevano arrivare si facevano tutte a domandare:
    “Ebbene com’è andata? Avremo un impiego?”
    “Lasciatemi, vi prego, lasciatemi respirare, sono tutta affannata…”
    “Ma com’è andata?”
    “Male! C’è una crisi generale. Ho salito tutte le scale,
    bussato a tutti i portoni, mendicato sui bastioni,
    e dappertutto mi hanno risposto che per noi non c’è posto.
    Vi dico, una cosa seria, altro che storie!
    Fame, freddo, miseria…
    La gente ha un sacco di guai:
    i debiti, le tasse, la pigione, la bolletta del gas,
    i nonni aspettano la pensione che non arriva mai…



    Chi volete che pensi a noi?
    E poi, e poi, c’è sempre per aria la guerra:
    ho visto certi generaloni, con certi speroni, con certi galloni,
    con certi cannoni dalla bocca spalancata…
    figuratevi come sono scappata.
    Per noi su questa terra non c’è posto.
    Ci vogliono cacciare ad ogni costo.
    Voi se non mi credete, fate come volete.
    Io per me, faccio il bagaglio e me la squaglio”.



    E le povere fate ve le immaginate a fare le valige?
    Per l’emozione le trecce della fata turchina son diventate grige.
    Il mago nella fretta si scorda la bacchetta
    e Cappuccetto perde la berretta.
    Che spavento!
    Biancaneve ha uno svenimento. Il castello si vuota in un momento.
    A bordo di una nuvola la compagnia se ne va…
    Dove, nessuno lo sa.

    Forse in qualche paese dove si sentono sicure,
    dove anche i generali vogliono bene alle fate
    e le circondano di premure perché sono così delicate.
    Allora io mi domando:
    torneranno? Ma quando?
    Nella selva incantata ci crescono le ortiche,
    sul naso della Bella Addormentata ci passeggiano le formiche,
    la porta del Castello è sempre chiusa
    e quando i bimbi chiedono una storia
    i nonni trovano la scusa che hanno perso la memoria…



    Ma allora torneranno?
    Io dico di sì.
    Sapete che si fa?
    Si va dai generali con gli stivali
    incapricciati di fare la guerra
    e si dice così:
    “Signori, per cortesia andatevene via da questa terra,
    andate sulla luna o anche più lontano in un posto fuori mano,
    dove potrete sparare a tutto spiano e non si sentirà il baccano.
    La mattina vi farete svegliare con un bombardamento
    o un cannoneggiamento, a vostro piacimento
    e di sera direte la preghiera con la mitragliatrice.

    La gente sarà più felice.
    Si potrà stare in pace tutti i giorni dell’anno,
    e di certo così le fate torneranno”.



    Gianni Rodari

     
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  2. gheagabry
     
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    Il gatto inverno

    Ai vetri della scuola stamattina
    l'inverno strofina
    la sua schiena nuvolosa
    come un vecchio gatto grigio:
    con la nebbia fa i giochi di prestigio,
    le case fa sparire
    e ricomparire;
    con le zampe di neve imbianca il suolo
    e per coda ha un ghiacciuolo...
    Sì, signora maestra,
    mi sono un po' distratto:
    ma per forza, con quel gatto,
    con l'inverno alla finestra
    che mi ruba i pensieri
    e se li porta in slitta
    per allegri sentieri.
    Invano io li richiamo:
    si saranno impigliati in qualche ramo spoglio;
    o per dolce imbroglio, chiotti, chiotti,
    fingon d'esser merli e passerotti.

    (Filastrocche in cielo e in terra)

     
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  3. gheagabry
     
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    La guerra delle campane



    C'era una volta una guerra, una grande e terribile guerra, che faceva morire molti soldati da una parte e dall'altra. Noi stavamo di qua e i nostri nemici stavano di là, e ci sparavano addosso giorno e notte, ma la guerra era tanto lunga che a un certo punto ci venne a mancare il bronzo per i cannoni, non avevamo più ferro per le baionette, eccetera.
    Il nostro comandante, lo Stragenerale Bombone Sparone Pestafracassone, ordinò di tirar giù tutte le campane dai campanili e di fonderle tutte insieme per fabbricare un grossissimo cannone: uno solo, ma grosso abbastanza da vincere tutta la guerra con un sol colpo.
    A sollevare quel cannone ci vollero centomila gru; per trasportarlo al fronte ci vollero novantasette treni. Lo Stragenerale si fregava le mani per la contentezza e diceva: - Quando il mio cannone sparerà i nemici scapperanno fin sulla luna.
    Ecco il gran momento. Il cannonissimo era puntato sui nemici. Noi ci eravamo riempiti le orecchie di ovatta, perché il frastuono poteva romperci i timpani e la tromba di Eustachio.
    Lo Stragenerale Bombone Sparone Pestafracassone ordinò: - Fuoco!
    Un artigliere premette un pulsante. E d'improvviso, da un capo all'altro del fronte, si udì un gigantesco scampanio: Din! Don ! Dan!
    Noi ci levammo l'ovatta dalle orecchie per sentir meglio.
    - Din! Don! Dan! - tuonava il cannonissimo. E centomila echi ripetevano per monti e per valli: - Din! Don! Dan!
    - Fuoco! - gridò lo Stragenerale per la seconda volta: Fuoco, perbacco!




    L'artigliere premette nuovamente il pulsante e di nuovo un festoso concerto di campane si diffuse di trincea in trincea. Pareva che suonasse insieme tutte le campane della nostra patria. Lo Stragenerale si strappava i capelli per la rabbia e continuò a strapparseli fin che gliene rimase uno solo.
    Poi ci fu un momento di silenzio. Ed ecco che dall'altra parte del fronte, come per un segnale, rispose un allegro, assordante: - Din! Don! Dan!
    Perché dovete sapere che anche il comandante dei nemici, il Mortesciallo Von Bombonen Sparonen Pestafrakasson, aveva avuto l'idea di fabbricare un cannonissimo con le campane del suo paese.
    - Din! Dan! - tuonava adesso il nostro cannone.
    - Don ! - rispondeva quello die nemici. E i soldati dei due esreciti balzavano dalle trincee, si correvano incontro, ballavano e gridavano: - Le campane, le campane! È festa! È scoppiata la pace!
    Lo Stragenerale e il Mortesciallo salirono sulle loro automobili e corsero lontano, e consumarono tutta la benzina, ma il suono delle campane li inseguiva ancora.

    Gianni Rodari





    illustrazioni di Bruno Lubrano
     
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  4. gheagabry
     
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    Giacomo Sabatini



    "Egregio signore, sono un vecchio ragno e sono vissuto finora proprio alle sue spalle, dietro il busto di gesso di questo strano personaggio con due facce che mi sembra che si chiami il dio Giano.
    Però non é del dio Giano che voglio parlarle, ma della mia vecchia e povera persona.
    Ero un bel ragno grasso e nero ai miei tempi, ma sono stato ridotto così dalle tante battaglie che ho dovuto sostenere con la di lei moglie che ogni mattina distruggeva con un solo colpo di scopa le mie pazienti creazioni nel campo della tessitura.
    Se lei fosse un pescatore e un pescecane le distruggesse tutte le mattine la rete, come farebbe a vivere?
    Con questo non voglio paragonare la sua signora a un pescecane. Ma insomma, mi sono dovuto ridurre a dare la caccia ai moscerini in libreria, e mi sono accampato in un piccolo rifugio,dietro la testa del dio Giano, che non se ne lamenta troppo.
    Così sono invecchiato. Le mosche, sono sempre più rare, con tutti gli insetticidi che hanno inventato.
    Vorrei pregare la sua signora di lasciarne vivere almeno due o tre la settimana, di non farle morire proprio tutte.
    Ma so che questo è impossibile; la sua signora odia le mosche, perché le sporcano le tovaglie e i vetri delle finestre.
    Perciò ho deciso di lasciare questa casa e di trasferirmi in campagna. Là forse troverò da vivere.
    Ho ricevuto un messaggio da alcuni miei amici che vivevano in solaio e sono emigrati in giardino; si trovano bene e mi invitano a raggiungerli.
    Sì, signore, ce ne andiamo tutti.
    I ragni lasciano le case degli uomini, perché non vi trovano più cibo.
    Me ne vado senza malinconia, ma mi sarebbe sembrato di farle un dispetto e di mancarle di cortesia andandomene senza salutare...

    Suo devotissimo

    Gianni Rodari

     
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  5. gheagabry
     
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    Conosco una città
    dove la primavera
    arriva e se ne va
    senza trovare un albero
    da rinverdire,
    un ramo da far fiorire
    di rosa o di lillà:
    Per quelle strade murate
    come prigioni
    la poveretta s'aggira
    con le migliori intenzioni:
    appende un po' di verde
    ai fili dei tram,ai lampioni,
    sparge dei fiori
    davanti ai portoni
    (e dopo un momentino
    se li riprende il netturbuno).
    Altro dafare
    non le rimane,
    per settimane e settimane,
    che dirigere il traffico
    delle rondini,in alto,
    dove la gente
    non le vede e non le sente.
    Di verde in quella città
    (e dirvi il suo nome non posso)
    ci sono soltanto i semafori
    quando non segnano rosso .
    (G.Rodari)

     
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  6. gheagabry
     
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    Favole Dal Web

    Forza d'amore

    Un omettino giallo e brutto. Cammina male. Tutto cappello e pastrano.
    Scende lentamente le scale interminabili e ripide: entra nella via, rumorosa benché sia di mattina. Ma c'è il carretto del lattaio, il carretto del mugnaio, il carretto del panettiere. E c'è le vecchine che vanno a Messa con il velo in capo strascicando le ciabatte Da tutti i campanili della città le campane si chiamano e si rispondono.
    Egli cammina assai lento a ridosso dei muri vecchi dai colori sbiaditi.
    Conosce tutti gli scrostamenti dei vecchi muri. Sa tutti i buchi che i monelli di due tre generazioni vi han fatto. E le parole che vi han scritte. E tutto egli sa dei vecchi muri. Da vent'anni fa questa strada, ogni mattina.
    Ha strisciato contro questi vecchi muri trecento giorni l'anno, quattro volte il giorno. Ed ha cambiato solo una volta il pastrano, proprio perché era tutto mende e sfilaccia. E stamattina ancora, come sempre, guarda il marciapiede consunto e le finestre chiuse. Si dondola su le gambe storte, pensoso. Stamattina e sempre.
    Entra in una chiesa. Vecchine e donnette inginocchiate per le panche e un prete che dice Messa. Egli si fa il segno della Croce, restando in fondo. Sente lo squillo di campanello del Sanctus. S'inginocchia. Perché egli crede e non si sente forte che quando è in ginocchio.
    Venti anni fa, pensava ancora a lottare per farsi un nome, abbacinato da un sogno di gloria. Ha scritto molte cose ed era pieno di sé. È stato abbattuto e non gli è restata che la Croce di Cristo. Quella che sorge consolatrice da tutte le rovine spirituali. Quella che ha sempre le braccia aperte.
    Allora s'è rinchiuso in un ufficio, non ha pensato più che a sua madre, vecchia povera donna ignorante che ha pianto e pregato per lui quando la chimera lo teneva lontano lontano.
    Ha trovato nei meandri del suo cuore turbolento la pace e la fede, come si trova sempre nello squallore autunnale una foglia verde che trema.
    Ora è lì in ginocchio.
    E' squillato il campanello dell'Elevazione. Ora egli deve andare al lavoro perché si fa molto tardi. S'alza. Esce.
    A casa sua madre dormiva quando partì. Egli non ha voluto destarla e s'è fatto il caffè, così, semplicemente, sorridendo. E sua madre sorrideva nel sogno. Non ha voluto destarla. Ed essa dormiva nel grande letto matrimoniale, vecchio di quattro generazioni.
    Esce nella via di nuovo. Striscia contro i muri e trova la porta del suo ufficio. Una porticina verniciata da poco, in un angolo silenzioso: un angolo da archivio. Egli spinge con un sospiro la porta che s'apre taciturnamente. Entra. Richiude. V'è di già un uomo al lavoro. Alza un poco la testa per osservare il nuovo venuto.
    «Buon giorno!».
    «Buon giorno».
    Egli si leva il pastrano e l'appende ad un chiodo del muro: un chiodo vecchio vecchio.
    Siede. Non s'ode per poco che la corsa delle due penne sui fogli bianchi ed il fruscio dei fogli.
    Sta copiando un libro che uscirà fra poco e l'autore non ha tempo di copiare.
    Ma ci sono due copisti ch'han l'ufficio e lo studio in un angolo buio da archivio.
    Egli scrive e scrive distendendo lunghi sogni bizzarri di righe nere sul foglio bianco. Con una furia frenetica. Senza badare allo scipito contenuto del libro. Pensa al suo avvilimento, al suo sogno di gloria vanito nel turbine della vita. Ha un interno moto di ribellione.
    Ma ecco: si ricorda di sua madre. Si calma. Sorride.
    Ora la penna scorre leggera come un volo d'ombra ed egli ha l'impressione di scrivere pagine d'oro sul libro della sua vita. Sa di valere più d'un giorno, quando i suoi articoli filosofici scatenavano polemiche e discussioni: e sua madre piangeva.
    Ora essa dorme contenta nel gran letto degli avi. Dorme ancora, non si desta. E pure è già squillato il segnale della seconda Messa! Ella dorme e sorride ancora.
    Ecco che l'altro impiegato ha deposto la penna. È stanco. Va alla finestra sbuffando.
    Ma egli lavora e non s'alza. Sa che l'altro non ha più una madre che gli stia nei pensieri come una lampada di consolazione. Sa che l'altro è solo e non ha Gesù cui sorridere nel lavoro per averne un poco di forza: solo un poco da arrivare a mezzodì. Egli ha Gesù e sua madre: di più non può desiderare.
    «Non siete stufo di questa vitaccia?».
    Risponde dolcemente: «No».
    «Siete peggio d'una macchina: ecco cosa siete!» E sbuffa.
    Risponde dolcemente «Sì». Ma non alza il capo dal lavoro.
    La penna scorre sul foglio bianco, leggera come il respiro d'un bimbo.
    Come il respiro della madre che dorme nel torpore d'una mattinata invernale. E pure è l'ora che le donne vanno per le compere. Ella dorme ancora.
    Egli pensa: «E se anche a me morisse, come a lui?». Ha un brivido di spavento.
    Pensa: «Oh! Tanto, poco ha da vivere ancora. Dalla mia vita non posso più spremere che amore: il resto tutto l'ho spremuto. Morrei con lei ed anche sotterra le terrei compagnia».
    Pensa: «Le mamme non muoiono mica: anche sotterra si ricordano d'aver dei figliuoli che bisogna sostenere nel turbine con la grande forza d'amore».
    Pensa: «E poi ho Gesù. Gli posso domandare, gli posso chiedere di morire».
    E di nuovo la penna è leggera come una piuma d'angelo.
    Come le palpebre della madre, chiuse nel sonno che non ha fine.

    (Gianni Rodari)
     
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  7. gheagabry
     
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    Ayumi


    Questa è la storia di Alice Cascherina, che cascava sempre e dappertutto.
    Il nonno la cercava per portarla ai giardini: - Alice! Dove sei, Alice? -
    - Sono qui, nonno.
    - Dove, qui?
    - Nella sveglia.
    Si', aveva aperto lo sportello della sveglia per curiosare un po', ed era finita tra gli ingranaggi e le molle, ed ora le toccava di saltare continuamente da un punto all'altro per non essere travolta da tutti quei meccanismi che scattavano facendo tic-tac.
    Un'altra volta il nonno la cercava per darle la merenda: - Alice! Dove sei, Alice?
    - Sono qui, nonno.
    - Dove, qui?
    - Ma proprio qui, nella bottiglia. Avevo sete, ci sono cascata dentro.
    Ed eccola la' che nuotava affannosamente per tenersi a galla. Fortuna che l'estate prima, a Sperlonga, aveva imparato a fare la rana.
    - Aspetta che ti ripesco.
    Il nonno calo' una cordicina dentro la bottiglia, Alice vi si aggrappo' e vi si arrampico' con destrezza. Era brava in ginnastica.
    Un'altra volta ancora Alice era scomparsa.
    La cercava il nonno, la cercava la nonna, la cercava una vicina che veniva sempre a leggere il giornale del nonno per risparmiare quaranta lire.
    - Guai a noi se non la troviamo prima che tornino i suoi genitori, - mormorava la nonna, spaventata.
    - Alice! Alice! Dove sei, Alice?
    Stavolta non rispondeva. Non poteva rispondere. Nel curiosare in cucina era caduta nel cassetto delle tovaglie e dei tovaglioli e ci si era addormentata. Qualcuno aveva chiuso il cassetto senza badare a lei. Quando si sveglio', Alice si trovo' al buio, ma non ebbe paura: una volta era caduta in un rubinetto, e la' dentro si' che faceva buio.
    'Dovranno pur preparare la tavola per la cena, - rifletteva Alice - E allora apriranno il cassetto'.
    Invece nessuno pensava alla cena, proprio perche' non si trovava Alice. I suoi genitori erano tornati dal lavoro e sgridavano i nonni: - Ecco come la tenete d'occhio!
    - I nostri figli non cascavano dentro i rubinetti, - protestavano i nonni, - ai nostri tempi cascavano soltanto dal letto e si facevano qualche bernoccolo in testa.
    Finalmente Alice si stanco' di aspettare. Scavo' tra le tovaglie, trovo' il fondo del cassetto e comincio' a betterci sopra con un piede.
    Tum, tum, tum.
    - Zitti tutti, - disse il babbo, - sento battere da qualche parte.
    Tum, tum, tum, chiamava Alice.
    Che abbracci, che baci quando la ritovarono. E Alice ne approfitto' subito per cascare nel taschino della giacca di papa' e quando la tirarono fuori aveva fatto in tempo a impiastricciarsi tutta la faccia giocando con la penna a sfera




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  8. gheagabry
     
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    IL MAGO DELLE COMETE



    Chiara Lastria

    Una volta un mago inventò una macchina per fare le comete. Somigliava un tantino alla macchina per tagliare il brodo, ma non era la stessa e serviva per fabbricare comete a volontà, grandi o piccole, con la coda semplice o doppia, con la luce gialla o rossa.
    Il mago girava paesi e città, non mancava mai ad un mercato, si presentava anche alla Fiera di Milano e alla fiera dei cavalli a Verona, e dappertutto mostrava la sua macchina e spiegava com'era facile farla funzionare.
    Le comete uscivano piccole, con un filo per tenerle, poi man mano che salivano in alto diventavano della grandezza voluta, ed anche le più grandi non erano più difficili da governare di un aquilone.
    La gente si affollava intorno al mago, come si affolla sempre intorno a quelli che mostrano una macchina al mercato, per fare gli spaghetti più fini o per pelare le patate, ma non comprava mai neanche una cometina piccola così.
    "Se era un palloncino, magari" diceva una buona donna. "Ma se gli compro una cometa il mio bambino chissà che guai combina."
    E il mago: " Ma fatevi coraggio! I vostri bambini andranno sulle stelle, cominciate ad abituarli da piccoli."
    "No, no grazie. Sulle stelle ci andrà qualcun'altro, mio figlio no di sicuro."
    "Comete! Comete vere! Chi ne vuole?"
    Ma non le voleva nessuno.
    Il povero mago, a furia di saltar pasti, perché non rimediava una lira, era ridotto pelle ed ossa.
    Una sera che aveva più fame del solito, trasformò la sua macchina per fare le comete in una caciottella toscana e se la mangiò.




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    Favole Dal Web

    Fine di Maggio di un pazzo

    Ladislao Robustiniani, pazzo tranquillo. La sua vita è stata un continuo prendere posizione di fronte a se stesso, un tormento di squadrare il suo spirito, scinderlo nei suoi elementi, analizzarlo, disegnarlo a linee rette e linee curve, trovarne il principio, il mezzo, la fine.
    L'hanno ritirato in questa piccola casa di salute provinciale da cui si può ammirare il lago Maggiore, il grande Verbano dalle acque azzurre, come uno specchio ove il tempo abbia scavato rughe e solchi mutabili.
    Pazzo tranquillo. Alto, magro, lo sguardo assente e la smorfia cinica. Attraverso i suoi calcoli è venuto alla convinzione d'essere Dio, l'Alfa e l'Omega di cui parla Giovanni nell'Apocalisse.
    Questa è l'ultima sera di maggio: le nubi distendono fantasie bizzarre sui monti bruni ed illimitati.
    Ladislao Robustiniani sta seduto sulla terrazza belvedere. Guarda malinconicamente il lago tranquillo e le policromie del tramonto.
    Gli sembra che il sole stia per precipitare in un mare di sangue, rosso dell'orgia d'un popolo oltreumano che beva l'oblio della notte.
    Guarda le bizzarre nubi che si raccolgono meste attorno al sole.
    Fin da ragazzo Ladislao Robustiniani ha avuto una mania geometrica delle posizioni chiare, delineate, sicure, che si potessero abbracciare d'un colpo solo.
    Avvertiva nella sua anima un tumulto di aspirazioni e di passioni che lo trascinava e gli dava quasi un senso di sgomento. Sentiva in sé qualche cosa di cui aveva paura, che gli sfuggiva, che non rientrava nel suo sguardo di osservazione. Si ripiegava su se stesso, si studiava, si diceva:
    «lo sono così, così e così!».
    Con frenesia. Con ira. Voleva scoprire tutto se stesso ai propri occhi: poter esprimere la propria essenza, con una frase sola. Gli pareva, a volte, di conoscersi molto bene e di avere ciononostante una opinione errata di se stesso.
    Sentiva in sé un secondo essere, un paradossale doppio-io su cui con curiosità e con avidità sperimentava la sua psicologia geometrica.
    Professore di matematica in una scuola milanese, stimato assai dai colleghi per la chiarezza delle sue sintesi e delle sue risposte a teoremi complicati; e l'immenso desiderio di conoscersi, crebbe in lui spaventosamente.
    La follia incominciò sui venticinque anni.
    Vegliava le notti intere, la testa fra le mani, cercando la proposizione che gli desse in modo esatto ed elementare il suo tormento d'uomo.
    S'era innamorato d'una giovane donna di dubbia moralità e studiava il suo amore come un anatomico studia il suo pezzo.
    Tormento delle piccole cose; rimorso di desideri soddisfatti e di piaceri ottenuti; rabbioso lavoro pel pane quotidiano; continuo contatto con l'umanità che gli pareva stupida ed equivoca.
    Ma sotto tutto questo egli sentiva qualche cosa di diverso, d'indefinito, d'indefinibile, d'infinito. Si sorprendeva talvolta a meditare su linee rette tracciate a caso o su un calamaio rovesciato.
    Ebbe paura dell'incipiente follia. Divenne strano e cupo. L'anormalità del suo contegno lo fece oggetto di sospetti e di leggende. Si diceva che avesse ucciso, che il suo passato fosse una tragedia continuata: lo si guardava come si guardano i geni o i pazzi.
    Tuttavia a trent'anni si sposò. A trentuno ebbe dalla donna sua un figlio che chiamò Giovanni, dal nome del profeta di Patmos di cui conosceva il libro a memoria, di cui leggeva le pagine fremendo ed esaltandosi.
    Avrebbe potuto rinascere alla semplicità in quel piccolo fardello di carne che gli veniva di lontano. Avrebbe potuto annientarsi in quella vita nuova: invece con la nascita di Giovanni si fece più cupo e selvatico. Considerò per un anno se avesse fatto bene o male a mettere al mondo il ragazzo. Ora due elementi nuovi d'ignoto erano entrati nella sua anima: la donna ed il bimbo. Egli si sentiva ora triplice: uomo, marito, padre.
    Ebbe fretta di tirare delle conclusioni. Per semplificare le cose, le confuse, le ingrandì, le spinse ai limiti. Ora non sapeva più nemmeno a che cosa pensasse.
    Ben presto la sua passione per la moglie si spense. Si separarono tranquillamente, la donna tenne con sé Giovanni.
    Cos'era ormai, del resto, Giovanni per lui? Carne. Non anima. Come poteva aver dato vita ad un'anima egli che non sapeva definire la propria?
    Si sentì più libero quando fu solo.
    Pensò che se indefinibile era la sua anima, essa non esisteva. Od era qualche cosa di più di un'anima umana: Dio?
    La lenta evoluzione della sua follia lo portava ormai a considerarsi diverso, sostanzialmente dal resto dell'umanità.
    Matematicamente doveva concludere d'essere Dio.
    Lo scoperse una notte che dopo lunghe ore di meditazione aveva tracciato inconsciamente una retta.
    La fissò, stupefatto come se non avesse fatto altro che tracciar rette e curve nella sua vita.
    La fissò impaurito come davanti a qualche cosa di misterioso, d'inconcepibile, d'assoluto. Questo egli era dunque! Una linea retta, senza principio né fine, di cui né le sue meditazioni avevano potuto fissare le dimensioni, né l'amor famigliare era riuscito a fare un cerchio chiuso senza espansioni: Dio! «L'Alfa e l'Omega» dell'Apocalisse, «il principio e la fine Colui che è, che era e che ha da venire, l'Onnipotente».
    Nel delirio si alzò, si guardò le mani, sfissò nello specchio gli occhi sbarrati come l'ultima luce nel l'abisso della morte, mormorando: «Dio!... Dio!». Poi cadde pazzo per sempre.
    Il pazzo contempla il crepuscolo. Vaghe ombre si sono abbassate sul lago, sui villaggi, sui monti bruni ed illimitati.
    Nel suo cuore vaga stasera un desiderio, indefinibile, perché ormai il suo destino è di non potersi più definire. Uno sconfinato desiderio nuovo. Egli sta seduto, osservando con lo sguardo melanconico.
    Ha quarant'anni e ne dimostra sessanta.
    La sua melanconia è tragica. Lo divora senza ch'egli se ne possa rendere conto.
    Ora sale dalla vallata vicina un lento rintoccare di campane. I villaggi cantano in quelle pure voci di bronzo la loro pace feconda.
    Giungono quassù profumi d'incenso ed echi di canti.
    L'ultima sera di maggio il popolo si raduna nelle chiese a cantare le glorie di Maria. Dicono le litanie e suonano le campane. Un patriarcale inno d'amore sale da tutte le valli a questo pazzo tranquillo che ascolta le voci della sera.
    Egli si scuote. Aveva forse bisogno della dolcezza inesprimibile di questo suono? …Don…don…don.
    Egli che non ha amato mai nessuno all'infuori di se stesso. È forse questa la sua colpa? Non avere amato e sentire il bisogno dell'amore nel fondo dell'anima.
    Si scuote. Si lascia cullare a lungo da questa musica che gli potrebbe richiamare la prima - Ave Maria! - e non gli può richiamare più nulla, ma lo culla e lo accarezza come una mano stanca.
    Quando le campane tacciono e l'infermiere, venuto tacitamente a farlo rientrare, gli posa una mano sulla spalla e si china piano piano su di lui, nei suoi occhi è una lacrima.
    La prima.
    L'ultima.
    Domani Ladislao Robustiniani tornerà a credere d'avere creato Adamo, Napoleone e Dante.

    (Gianni Rodari)
     
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  10. gheagabry
     
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    Voglio fare un castello in aria
    più su delle nubi, più su del vento
    un castello d’oro e d’argento.
    Con una scala ci voglio salire
    per sognare senza dormire
    e su un cartello farò stampare:
    “le cose brutte non possono entrare..”

    o filastrocca solitaria
    si starà bene lassù nell’aria:
    ma se un cartello scritto così
    lo mettessimo anche qui?

    (Gianni Rodari)

     
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  11. gheagabry
     
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    L'UOMO CHE RUBAVA IL COLOSSEO



    Gianni Rodari

    Una volta un uomo si mise in testa di rubare il Colosseo di Roma, voleva averlo tutto per sé perché non gli piaceva doverlo dividere con gli altri.
    Prese una borsa, andò al Colosseo, aspettò che il custode guardasse da un’altra parte, riempì affannosamente la borsa di vecchie pietre e se le portò a casa.
    Il giorno dopo fece lo stesso, e tutte le mattine tranne la domenica faceva almeno un paio di viaggi o anche tre, stando sempre bene attento che le guardie non lo scoprissero. La domenica riposava e contava le pietre rubare, che si ammucchiavano in cantina.
    Quando la cantina fu piena cominciò a riempire il solaio, e quando il solaio fu pieno nascondeva le pietre sotto i divani.
    Ogni volta che tornava al Colosseo lo osservava ben bene da tutte le parti e concludeva fra sé: ”pare lo stesso, ma una certa differenza si nota. In quel punto là è già un po’ piccolo”.
    E asciugandosi il sudore grattava un pezzo di mattone da una gradinata, staccava una pietruzza dagli archi e riempiva la borsa.
    Passavano e ripassavano accanto a lui turisti in estasi, con la bocca aperta per la meraviglia, e lui ridacchiava di gusto, anche se di nascosto: "Ah, come spalancherete gli occhi il giorno che non vedrete più il Colosseo".
    Passarono i mesi e gli anni. Le pietre rubate si ammassavano. Ma il Colosseo era sempre al suo posto, non gli mancava un arco.



    Il povero ladro, invecchiando, fu preso dalla disperazione. Pensava :”che io abbia sbagliato i miei calcoli? Forse avrei fatto meglio a rubare la cupola di San Pietro? Su, su, coraggio: quando si prende una decisione bisogna saper andare fino in fondo”.
    Ogni viaggio, ormai, gli costava sempre più fatica e dolore. Quando sentì che stava per morire si trascinò un’ultima volta fino al Colosseo e si arrampicò penosamente di gradinata in gradinata fin su al più alto terrazzo.
    Il sole al tramonto coloravo d’oro, di porpora e di vuole le antiche rovine, ma il povero vecchio non poteva veder nulla, perché le lacrime e la stanchezza gli velavano gli occhi. Aveva sperato di rimanere solo ma dei turisti si affollavano sul terrazzino, gridando in lingue diverse la loro meraviglia. Ed ecco, tra le tante voci, il vecchio ladro distinse quella argentina di un bimbo che gridava: – Mio! Mio!
    Come stonava, com'era brutta quella parola lassù, davanti a tanta bellezza. Il vecchio, adesso, lo capiva, e avrebbe voluto dirlo al bambino, avrebbe voluto insegnargli a dire “nostro”, invece che “mio”, ma gli mancarono le forze.

     
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  12. gheagabry
     
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    Pascal Campion

    "IL TERRIBILE CAPPUCCETTO ROSSO"

    di Gianni Rodari

    C’era una volta
    un povero lupacchiotto,
    che portava alla nonna
    la cena in un fagotto.
    E in mezzo al bosco
    dov’è più fosco
    incappò nel terribile
    Cappuccetto Rosso,
    armato di trombone
    come il brigante Gasparone…
    Quel che successe poi,
    indovinatelo voi.
    Qualche volta le favole
    succedono all’incontrario
    e allora è un disastro:
    Biancaneve bastona sulla testa
    i nani della foresta,
    la Bella Addormentata non si addormenta,
    il Principe sposa
    una brutta sorellastra,
    la matrigna tutta contenta,
    e la povera Cenerentola
    resta zitella e fa
    la guardia alla pentola.

     
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  13. gheagabry
     
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    A sbagliare le storie

    di Gianni Rodari

    - C'era una volta una bambina che si chiamava Cappuccetto Giallo.
    - No, Rosso!
    - Ah, sì, Cappuccetto Rosso. La sua mamma la chiamò e le disse: Senti, Cappuccetto Verde...
    - Ma no, Rosso!
    - Ah, sì , Rosso. Vai dalla Zia Diomira a portarle questa buccia di patata.
    - No: vai dalla nonna a portarle questa focaccia.
    - Va bene. La bambina andò nel bosco e incontrò una giraffa.
    - Che confusione! Incontrò un lupo, non una giraffa.
    - E il lupo le domandò: Quanto fa sei per otto?
    - Nente affatto. Il lupo le chiese: Dove vai?
    - Hai ragione. E Cappuccetto Nero rispose...
    - Era Cappuccetto Rosso, Rosso, Rosso!
    - Sì, e rispose: Vado al mercato a comperare la salsa di pomodoro.
    - Neanche per sogno: Vado dalla nonna che è malata, ma non so più la strada.
    - Giusto. E il cavallo disse...
    - Quale cavallo? Era un lupo.
    - Sicuro. E disse così: Prendi il tram numero settantacinque, scendi in Piazza del Duomo, gira a destra, troverai tre scalini e un soldo per terra, lascia stare i tre scalini, raccatta il soldo e comprati una gomma da masticare.
    - Nonno, tu non sai proprio raccontare le storie, le sbagli tutte. Però la gomma da masticare me la comperi lo stesso.
    - Va bene: eccoti il soldo.
    E il nonno tornò a leggere il suo giornale.


    (Tratto da "Favole al telefono", Einaudi, Torino 1962)

     
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  14. gheagabry
     
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    Il giornale dei gatti

    I gatti hanno un giornale
    con tutte le novità
    e sull'ultima pagina
    la "Piccola Pubblicità".

    "Cercasi casa comoda
    con poltrone fuori moda:
    non si accettano bambini
    perché tirano la coda".

    "Cerco vecchia signora
    a scopo compagnia.
    Precisare referenze
    e conto in macelleria".

    "Premiato cacciatore
    cerca impiego in granaio."
    "Vegetariano, scapolo,
    cerca ricco lattaio".

    I gatti senza casa
    la domenica dopo pranzo
    leggono questi avvisi
    più belli di un romanzo:

    per un'oretta o due
    sognano ad occhi aperti,
    poi vanno a prepararsi
    per i loro concerti.

    Gianni Rodari

     
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  15. gheagabry
     
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    Ricardo Chavez Mendez



    Pelle Bianca come la cera
    Pelle Nera come la sera
    Pelle Arancione come il sole
    Pelle Gialla come il limone
    tanti colori come i fiori.
    Di nessuno puoi farne a meno
    per disegnare l’arcobaleno.
    Chi un sol colore amerà
    un cuore grigio sempre avrà


    Gianni Rodari

     
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101 replies since 22/8/2010, 17:49   49549 views
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