VENETO ... 2^ Parte

TREVISO ... VERONA ...CORTINA...

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1. tomiva57
     
    .

    User deleted


    Tesori Nascosti di Verona





    Alla scoperta dei gioielli nascosti di Verona.
    Basta girare un angolo, superare un muro, addentrarsi in una piazza o in un cortile di Verona per scoprire gioielli artistici, architettonici, storici, dimenticati dai soliti itinerari e dalle folle di turisti. Alcune proposte per costruire o arricchire itinerari guidati fuori dal comune.

    GIARDINO GIUSTI

    image

    Uno dei giardini più celebrati nei secoli, visitato da personaggi come Cosimo de' Medici, Goethe, Mozart. Realizzato nella seconda metà del '400 sul retro del palazzo cittadino fatto costruire dai Giusti, famiglia proveniente da Firenze e che voleva forse ricreare uno di quegli splendidi giardini rinascimentali che avevano visto nella loro città d'origine. Più volte alterato nei secoli secondo il gusto corrente, è oggi stato riportato a quello che era il progetto iniziale. Nella parte bassa è il tipico giardino all'italiana con siepi di bosso, un labirinto, cipressi, statue mitologiche e cippi ed epigrafi romane. Nella parte alta il giardino si libera dalle costrizioni e diventa un bosco con essenze rare, rocce e grotte artificiali, e per sentieri si inerpica sulla collina dalla quale si gode un segreta vista sulla città di Verona.


    CHIOSTRO DEL MUSEO CANONICALE

    image

    Costruito sui resti di antiche basiliche paleocristiane, i cui pavimenti a mosaico sono ancora visibili in alcuni punti, il chiostro del museo canonicale è un uno dei luoghi più suggestivi di Verona con le sue colonnine binate in marmo rosso di Verona. Chiedete a una guida turistica di portarvi a visitare questo gioiello romanico nascosto negli anfratti del complesso del Duomo. Da inserire in una visita al Duomo, Museo Canonicale, San'Elena e San Giovanni in Fonte.




    SALA MORONE

    image

    Andate a visitare (non è propriamente di facile accesso) la Libreria Sagramoso, la splendida sala ineramente affrescata da Domenico Morone con l'aiuto del figlio Francesco. La cosiddetta Sala Morone è una delle opere rinascimentali più importanti di Verona, lungo le sue pareti si dipana una teoria di Francescani illustri, compresi i papi dell'ordine, dipinti a grandezza naturale su podi in attenta prospettiva. Il loro realismo è tale che all'interno quasi ci si sente in soggezione, come se essi fossero lì con noi. Sulla parete principale si impone un polittico di chiara ispirazione mantegnesca con Madonna, committenti santi e martiri davanti a un luminoso paesaggio.

    image




    SANTE TEUTERIA E TOSCA

    image


    Una delle più antiche e suggestive chiese di Verona. Primi documeti che ne attestino l'esistenza risalgono al 751, ma stando al piano di costruzione, parecchio inferiore all'attuale piano stradale e di pochi centimetri superiore ai mosaici del IV secolo rinvenuti nelle vicinanze, è probabile che l'origine risalga al V secolo, il che probabilmente la renderebbe la chiesa più antica del Veneto. La forma è arcaica, a croce latina con la parte centrale sopraelevata che la rende simile al mausoleo di Galla Placidia a Ravenna. La chiesa sorse probabilmente in una zona cimiteriale, resti di ossa umana sono stati ritrovati durante sondaggi archeologici. L'attribuzione alle sante Teuteria e Tosca è antichissima e si nutre di storie e leggende davvero singolari.


    image

    image




    TARSIE DI SANTA MARIA IN ORGANO

    image


    Nella chiesa di Santa Maria in Organo, nelle pareti del presbiterio, dietro l'altare, è "nascosta" una delle opere d'arte più incredibili di Verona: le tarsie lignee di fra Giovanni da Verona. Si tratta di quarantuno stalli, i cui riquadri dello schienale, incorniciati da pilastrini fittamente intagilati, sono costituiti da incredibili tasie che rappresentano una summa dell'arte prospettica italiana, con scorci di falsi armadi, vedute della città, che si faica a credere possano essere costituiti, non di pittura accurata, ma da accostamenti di legni di colori diversi. Nella medesima chiesa, sempre di fra Giovanni, si possono ammirare il leggio e il candelabro intagliati.




    GARAGE FIAT

    image

    Fu progettato da Ettore Fagiuoli, l'architetto autore del rinnovamento di Verona all'inizio del XX secolo e che segnò la città con opere come il Campanile del Duomo, il Ponte della Vittoria, la Sinagoga, nonché ideò le scenografie per le prime rappresentazioni operistiche all'Arena. Questa sua opera, gioello di architettura decò, con perfino le rugginose porte in ferro elegantemente elaborate, giace da anni in stato di abbandono e degrado, passando quasi inosservato dai passanti distratti. Recentemente sembrano essersi sbloccati i vincoli che ne impedivano il riutilizzo e il restauro.



    SAN GIOVANNI IN VALLE


    image


    La chiesa di San Giovanni in Valle. Costruita nel Vallum (da cui il nome), la zona fortificata sulla collina di Verona, dove nei bui secoli che seguirono la caduta dell'Impero Romano, si arroccarono i dominatori longobardi, anch'essa non uscì indenne dal terremoto del 1117. Nel 1120 si provvide alla sua ricostruzione con il vescovo Ognibene che ne fece un piccolo capolavoro dell'arte romanica veronese. L'interno è buio e suggestivo, con le absidi riccamente decorate con fregi floreali, scene di caccia di veltri assetati di preda che si insinuano tra gli spazi lasciati liberi dal fitto fogliame, capitelli con leoncelli dal corpo contratto nello sforzo di sostetenere gli architravi. Tutti elementi che riflettono accenti islamizzanti che filtravano dalla vicina Venezia. All'interno restano tracce della decorazione pittorica ad affresco.

    image


    CAPPELLA PELLEGRINI

    image

    Da un piccolo pertugio nella buia chiesa di San Bernardino, all'improvviso ci si ritrova nello spazio "virtuale" della Cappella Pellegrini, opera del genio di Michele Sanmicheli, un luogo fuori dallo spazio e dal tempo, la cui bellezza e la cui atmosfera trasportano il visitatore in un singolare raccoglimento mistico. Non vi sono parole per descrivere il monumento funebre che Margherita Pellegrini volle dedicare al figlio, bisogna solo vederla. Chiedete a una guida turistica di accompagnarvici.



    SAN GIOVANNI IN FONTE

    image


    Il battistero, a cui accedevano i neofiti, divenne già dai primi secoli del cristianesimo parte integrante delle cattedrali di ogni grande città. Anche a Verona, presso il duomo, venne costruito un battistero, riedificato agli inizi del XII secolo secondo i canoni dell'arte romanica. Denominato San Giovanni in Fonte, è a tutti gli effetti una piccola chiesa a tre navate, la facciata a capanna decorata da archetti e fregi nel più tipico stile romanico. L'interno è dominato dalla mistica presenza del grande fonte battesimale al centro della navata centrale. Realizzato agli inizi del '200 dal maestro Brioloto, che già aveva realizzato il rosone per San Zeno, è una vasca ottagonale in marmo rosso di Verona. Le superfici, divise da colonne tortili di ispirazione neo-classica sono decorate con le scene dell'infanzia di Gesù, scopite con grande maestria, armonia di pieni e vuoti e gusto per il dettagli e la rifinitura.



    SAN LORENZO




    image image

    Costruita appena fuori dalle antiche mura romane attorno al IV secolo e dedicata a San Lorenzo. Danneggiata dal terremoto del 1117 fu ricostruita nelle forme attuali, un gioiello di arte romanica, le cui torri scalari, i matronei ancora presenti, lo slancio verticale, la complessità delle navate e degli absidi interni, ne fanno un monumento di originalità più unica che rara nel panorama architettonico italiano. Lasciatevi accompagnare da una guida turistica in una delle atmosfere più suggestive della città.




    SAN ZENO IN ORATORIO



    image

    Costruita a ridosso dell'Adige, ben nascosta dalle case e da un piccolo cortile antistante si trova questo piccolo gioiello romanico, quasi una miniatura della chiesa di San Zeno maggiore. In essa, nella sua atmosfera silenziosa e raccolta, il masso fluviale che la leggenda vuole essere stato il preferito dal santo patrono Zeno, dove si sedeva a pescare sull'Adige, suo passatempo preferito quando non era impegnato a "pescare" anime nella Verona pagana del 300 dopo Cristo. Fatevi portare da una guida turistica in questo gioiello nascosto di Verona, magari sulla via per visitare la "sorella maggiore" San Zeno.



    Edited by tomiva57 - 11/5/2011, 13:35
     
    Top
    .
  2. tomiva57
     
    .

    User deleted


    LA LESSINIA



    image

    La Lessinia offre una lettura sempre diversa e mai monotona, dei suoi vari aspetti.
    Percorrendola, analizzandola nel cercare di conoscere la sua storia, le motivazioni dei suoi aspetti, si scopre sempre qualcosa di nuovo.
    Arte e Cultura; come espressione artistica più evidente, legata alla cultura religiosa, abbiamo le steli di pietra con figure sacre a bassorilievo, composizioni di una semplicità e di una intensità elevatissime.
    Erano sparse in tutta l’Alta Lessinia, molte sono scomparse, altre sono state raccolte nei musei, altre ancora sono visibili nella stessa collocazione originaria, in un ambiente naturale che costituisce la migliore cornice e il migliore completamento. Oltre alle steli sacre sono da ricordare le numerose case affrescate anche in questo caso, con soggetti sacri. Sono da ricordare anche le meridiane.
    Ma l’arte e la cultura non si fermano a queste che sono le manifestazioni più emblematiche. La Lessinia accoglie un’architettura civile come le malghe e gli edifici delle contrade che manifestano una capacità costruttiva elevata, da parte degli antichi abitanti.
    Accoglie anche ricordi della guerra 1915/1918, anche se mai combattuta in Lessinia. Una serie di forti che vanno dalla Val d’Adige alla Valle di Illasi.
    Accoglie tracce di trincee, posti di vedetta in galleria, piazzole per cannoni, edifici un tempo destinati ad ospedali da campo.
    Le strade, la maggior parte delle quali è stata costruita dal Genio Militare dopo l’annessione del Veneto all’Italia, si individuano facilmente: sono quelle delimitate da paracarri di pietra e delle quali possiamo ancora oggi ammirare I muri di sostegno sempre in pietra costruiti con una precisione ed una accuratezza mirabile. In Lessinia non esiste una cultura legata a personaggi di spicco; è una cultura diffusa nella popolazione rilevabile ancora oggi, anche se in misura limitata.
    Usanze e tradizioni sono legate ai momenti più importanti della vita, leggende che ricordano le"fade" e gli "orchi" e le "anguane": esseri misteriosi.
    Sempre nell`ambito degli aspetti culturali, il territorio lessinico è caratterizzato dalla presenza di una serie di musei ubicati nei centri abitati più importanti: a S. Anna d’Alfredo, Molina, Boscochiesanuova, Camposilvano, Giazza, Bolca e Roncà.
    Hanno contenuti naturalistici ed etnografici e sono facilmente raggiungibili attraverso comode strade.
    Molina, oltre ad avere un Museo, è importante anche per una serie di cascate, lungo le quali è stato attrezzato un sentiero naturalistico di grande bellezza.


    image

    Aspetti geografici

    Alta Lessinia con il rifugio PrimaneveLa Lessinia rappresenta la montagna 'vicino a casa' principalmente per i veronesi ma può essere anche meta di mantovani, Vicentini e trentini. Dal punto di vista amministrativo il suo territorio si suddivide tra le provincie di Verona, Vicenza e Trento e si distribuisce in 18 comuni Veronesi che appartengono alla comunità montana della Lessinia, 6 vicentini e 2 Trentini.

    E' un rilievo prealpino di forma trapezoidale che scende a Valle disegnando delle dorsali che si estendono come le dita di una mano con una pendenza non troppo marcata verso la Pianura Padana sfociando e dando origine a meravigliose Valli impreziosite di coltivazioni di vigneti ed oliveti.

    Geograficamente la zona piu' estesa della Lessinia è collocata nel settore montano occidentale della Regione del Veneto ovvero nelle Prealpi Venete Occidentali mentre la parte piu' settentrionale e nord-orientale è inclusa nel territorio della Regione del Trentino Alto Adige.

    Comprende un'area di 825 Kmq (la cui parte piu' ampia è distribuita tra le provincie di Verona), i suoi confini sono delimitati dal fiume Adige ad occidente e Chiampo-Agno ad oriente, dalla Val dei Ronchi e il gruppo del Monte Carega a settentrione e l'alta Pianura Padana a meridione.

    Territorialmente si estende nella zona settentrionale in larghezza per circa 40 km, da nord a sud in lunghezza per 30 km e a sud in larghezza per poco meno di 20 km.

    I 18 comuni situati all'interno della Comunità Montana della Lessinia (in territorio, quindi, veronese) sono: Badia Calavena, Bosco Chiesanuova, Cerro, Dolcè, Erbezzo, Fumane, Grezzana, Marano, Negrar, Roverè, San Giovanni Ilarione, san Mauro di Saline, Sant'Ambrogio di Valpolicella, Sant'Anna d'Alfaedo, Selva di Progno, Tregnago, Vestevanova.
    I comuni vicentini sono quelli di Altissimo, Arzignano, Chiampo, Crespadoro, Durlo e Recoaro.
    Quelli Trentini, infine, sono Ala e Avio.


    Rilievi principali della Lessinia

    I rilievi principali dell'Alta Lessinia sono situati nella parte settentrionale e vanno da 1300 a 1800 m di altitudine.

    Partendo da OVEST troviamo il Corno d'Aquilio (1546 m), che si affaccia sulla Val d'Adige, il Corno Mozzo (1534 m) e il Cornetto (1534 m).

    Al CENTRO, sporgente nella Val dei Ronchi, vi è il Monte Castelberto (1765 m) e il Monte Sparavieri (1797 m), separati dalla linea dei Cordoni (1670-1690 m), che divide le Scortigare da Podestaria. Sotto il Monte Sparavieri è situato il Monte Tomba (1766 m), che si abbassa con la sua dorsale verso Bosco Chiesanuova.

    A NORD-EST c'è il rilievo di Castel Gaibana (1807 m), la Cima Trappola (1865 m), punto lessineo veronese piu' alto, e il Castel Malera (1772 m) che scende leggermente fino ai 1659 m del Monte Grolla sul ciglio del vajo del Revolto. Da cima Trappola si nota un pronunciato abbassamento a nord determinato dall'erosione glaciale che separa la Lessinia dal gruppo del Carega e che conduce a Passo Pertica (1573 m).

    In realtà è qui che compare l'elevazione maggiore dell'altipiano ,ad oriente della Valle del Revolto, che si innalza col Monte Terrazzo (1876 m), ma è anche vero che lo stesso appartiene al gruppo delle Piccole Dolomiti-carega, che dà origine al Monte Corno (1423 m) a nord di Giazza.

    Ad EST possiamo scorgere la testata della Val Fraselle e la cima Lobbia (1672 m) tra la provincia di Verona e Vicenza. Da qui scende una dorsale a sud verso il Monte Scalette (1613 m), il Monte Porto (1629 m) e il Monte Telegrafo (1562 m), tutti rilievi affacciati verso la Val di Chiampo, in provincia di Vicenza.


    Le Dorsali Lessinee


    Partendo dai rilievi non si possono non citare le dorsali che si diramano verso la Pianura; lo faremo in maniera approssimativa, sottolineando piuttosto dove sfociano a valle, magari accennando il nome di qualche punto collinare rilevante al fine di orientarsi nella maniera giusta, marcando maggiormente i paesi a cui giungono.

    Le dorsali lessinee da Google MapsLe dorsali si estendono a partire dai 1300 fino ai 900 m sviluppandosi soprattutto nella fascia centrale dando origine a profondi VAJ che concludono la discesa gradatamente verso la pianura. Da OVEST verso EST:

    Ad ovest vi è la Dorsale di Monte Pastello (1211 m), i cui rilievi conducono alle colline di Fumane, proseguendo poi verso est vi è la Dorsale di Sant'Anna d'Alfaedo, dalla quale si diramano le colline a nord-est di Fumame, ad ovest di San Floriano e a Pedemonte.

    Si prosegue poi con la Dorsale di Monte Comun, che sfocia a sud sul versante sinistro di Grezzana, Quinto e termina con i colli di San Mattia, San Leonardo e Castel San Pietro, a nord di Verona a da cui la dorsale di occidente abbassandosi genera i versanti di Quinzano ed Avesa.

    Dal Corno Mozzo scende una breve dorsale, la Dorsale di Ceredo, e poi, spontandosi sempre piu' ad est, troviamo la Dorsale di Erbezzo che discende fino a Bellori.

    Vi è poi la Dorsale di Bosco Chiesanuova-Monte Santa Viola che si abbassa in una diramazione fino a Lugo, il ramo principale prosegue a Corbiolo (837 m), Cerro (729 m), risale fino al Monte di S.Viola. Da qui scende a sud fino a Grezzana e a nord-est fino al Vajo di Squaranto. La dorsale principale prosegue ancora verso Azzago, Romagnano, San Fidenzio, Montorio per concludersi infine a Ponte Florio.

    Poi incontriamo la Dorsale di Roverè-Velo, che incrocia CampoSilvano, si innalza col Monte Purga (1257 m), volge a sud-ovest per Monte Capriolo, San Vitale, per poi procedere verso San Rocco, innalzarsi a Castelletto e ad occidente si dirama verso Pian di Castagnè fino a San MArtino Buon Albergo, ad oriente raggiunge San Briccio, San Giacomo, Vago di Lavagno.

    Da la Bettola si origina la Dorsale di San Mauro di Saline, che, da Via Verde, attraverso la Val d'Illasi e S. Trinità si innalza verso il Monte di San Moro, terminando verso nord-est a Montecurto (100 m).

    A susseguirsi troviamo la Dorsale di Campofontana- S. Bortolo che nasce dal Monte Telegrafo e scende a Campofontana (1315 m) a giunge sin a San Bortolo (918 m). Da qui si dirama verso sud-est sfociando a Vestenavecchia, a ovest verso il Monte Faiardan (838 m) da cui poi si origina la Dorsale d'Illasi-Colognola ai Colli che giunge a Colognola ai Colli (172 m) e termina a San Pietro (88 m).

    Sempre dal Monte Faiardan comincia la Dorsale di Campiano-CastelCerino e si conclude ad est di Campiano, a Soave e a Monteforte d'Alpone.

    Infine, completamente ad est troviamo la Dorsale di Vestevanova-Roncà-Montebello che inizia nel versante meridionale del Monte Purga di Bolca (930 m) e giunge attraverso una ramificazione ad est di Vestevanova, la dorsale principale poi prosegue tra il confine di Verona e Vicenza fino ad Arzignano e nella Val di Chiampo, a Montorso, a Montebello vicentino, a sud-est verso Terrarossa, Gambellara, Roncà a sud e a ovest verso Montecchia di Crosara.

    Questi sono le dorsali principali della Lessinia, successivamente in un approfondimento, tratteremo anche i VAj che serpeggiano tra le dorsali e delle quali in questo articolo abbiamo solo accennato l'esistenza.

    image

    Aspetti morfologici della Lessinia

    L'altipiano Lessineo ha una struttura inclinata che parte dai 50 m di altitudine a meridione nella alta pianura veronese ai 1865 m di Cima Trappola situata nel passo Malera a nord-est di San Giorgio di Bosco Chiesanuova.

    Le dorsali si aprono a ventaglio dalla zona sommitale verso le Vallate distribuendosi piu' corte ad occidente rispetto ad oriente. La dorsale Sant'Ambrogio-Monte Pastello-Corno d'Aquilio è lunga 20 km. La dorsale da Soave al Monte Zevola raggiunge i 33 km.

    Nel settore centrale la pendenza media è dolce, basti considerare la differenza di altitudine e l'aspetto morfologico dei rilievi, si parte dai 50 m ai 1865 su una distanza planimetrica di 30 km distribuiti in questo modo: 1055 m di dislivello da Montorio a Bosco Chiesanuova su 18 km di distanza, 400 m tra Bosco Chiesanuova e San Giorgio percorrendo 8 km, 365 m da San Giorgio a Cima Trappola in 2,5 km di distanza. I versanti occidentali e settentrionali risultano molto piu' ripidi rispetto a quelli meridionali ed orientali che sono indubbiamente meno scoscesi.

    Contrasti di colori tra boschi, pascoli e rocciaLe valli che nascono ai piedi delle dorsali sono (da ovest a est):

    * Val di Fumane
    * Val di Marano e Val di Negrar (Valpolicella)
    * Valpantena
    * Val di Squaranto
    * Valle di Mezzane
    * Val d'Illasi
    * Val Tramigna
    * Val d'Alpone
    * Val del Chiampo

    Il paesaggio Lessineo, soprattutto nella zona piu' alta, ha un'aspetto inconfondibile. I dossi, i rilievi ondulati, i prati sembrano 'nudi', mancanti di chiazze boschive. E' un paesaggio che puo' piacere o meno ma, come è riportato sui libri, questa è la conseguenza di un massiccio disboscamento deciso e attuato in passato per ottenere ampie zone per i pascoli dell'alpeggio bovino che andava sostituendo quello ovino e caprino. Scelta ad oggi discutibile, in quanto le ripercussioni di queste azioni sollevano molteplici discussioni sulla compromissione della bellezza del paesaggio dell' Alta Lessinia. D'altro canto però il contrasto creato dai rilievi nudi dell'alta Lessinia e lo sfondo del massiccio del Gruppo del Carega hanno ispirato molteplici riproduzioni fotografiche di grande effetto cromatico ed artistico.

    Da qui i rilievi piu' erti strapiombano verso la Valle dei Ronchi e la Val d'Adige, mentre nella zona della media Lessinia si aprono i vaj (simili ai canyons) che dimostrano la loro origine torrentizia percorsi da progni ("progno" infatti significa torrente sassoso) in gran parte asciutti o con poca acqua.

    Mentre nella Bassa Lessinia, che si sviluppa alla fine dei rilievi verso la pianura, l'andamento diventa ondulato, dolce, e ricoperto di coltivazioni di vigneti, oliveti e piantagioni o prati.



    Basalti di San Giovanni Ilarione



    image

    Sul versante sinistro della Valle d'Alpone, a S.Giovanni Ilarione, una parete rocciosa appare come un enorme alveare. E' invece l'imponente struttura dei basalti colonnari, formatosi nel vulcanisimo oligocenico.Il raffreddamento e la contrazione delle colate laviche, intorno e dentro i crateri, diedero origine alle forme prismatiche con base esagonale, le nere lucenti colonne strette una all'altra: una straordinaria scenografia della natura.Nell'Eocene medio, 45 milioni di anni fa, si formava la scogliera corallina dell' "orizzonte di S.Giovanni Ilarione".La sua malacofauna comprende decine di nuove specie di molluschi, nella cui clasificazione ricorre il termine "hilarionis", adottato dai paleontologico di tutto il mondo.



    Cascate di Molina



    image

    Molina... Borgo medioevale dalle antiche corti e case di pietra, dove il tempo si fonde con la natura e l’ambiente, dove l’uomo ha vissuto e vive in armonia con il suo paese, nel rispetto della flora, della fauna e delle antiche, ma ancora attuali tradizioni del mugnaio e della malga. Una flora così protetta da creare il Museo della Botanica, dove la presenza di splendide specie di orchidea selvatica diventa una presentazione più unica che rara del Parco delle Cascate di Molina.
    Il Parco è luogo ideale per effettuare escursioni naturalistiche immergendosi nella fitta vegetazione alternata a vertiginose pareti di roccia nuda, ampie caverne e scoscianti, meravigliose cascate d’acqua sorgiva: il suono e la vigoria delle cascate sprigionano energia, vitalità forza della natura, elementi essenziali della nostra vita. Inoltre, uniti a tradizione e natura, sapori arti e costumi di questi luoghi della Valpolicella e della Lessinia ci si presentano in modo semplice e caratteristico.




    Covoli di Camposilvano



    image

    Il Covolo di Camposilvano è la più grande cavità carsica delle prealpi venete. Si trova nel comune di Velo Veronese a circa 100 mt. dal Museo di Campolsilvano.

    Il Covolo rappresenta un suggestivo esempio di carsismo: una voragine profonda circa 70 mt., al suo interno si possono notare un pozzo di crollo ed una caverna residuale. In questa cavità si possono , inoltre, vedere tre delle più importanti formazioni rocciose della Lessinia: dall’Oolite di San Vigilio, al Rosso Ammonitico, al Biancone.
    Altro aspetto, non di minore importanza, riguarda i fenomeni meteorologici. Nel periodo estivo precipitazioni acquose e talvolta nevose, causa inversione termica, per effetto di una nube che si forma sotto la volta della caverna residuale. In inverno inoltrato il ghiaccio ricopre il pavimento sino a tarda estate, e fino ad un secolo fa, gli abitanti del luogo se ne servivano come frigorifero naturale per la conservazione degli alimenti. Tradizione vuole che Dante si sia ispirato al Covolo per creare la morfologia del suo inferno. È stato ritenuto, inoltre, dimora di fade o di orchi, esseri misteriosi e suggestivi delle credenze popolari.


    Covoli di Marano



    image

    image

    Coalo del Diavolo e Buso stretto
    I Covoli di Marano sono grotte con stalattiti e stalagmiti che si aprono nel rosso ammonitico veronese; sono di comodo accesso e facilmente visitabili perché hanno andamento orizzontale e quindi non ci si deve calare dall’alto con corde.
    Nelle pareti del "Coalo del Diavolo" sono contenuti cristalli di calcite spatica che brillano se illuminati direttamente dalla luce.
    Nella grotta più piccola, il "Buso stretto", sono stati rinvenuti reperti archeologici risalenti all’Età del Bronzo.
    Le grotte sono visitabili solo su prenotazione.





    Foresta di Giazza

    image

    Ufficialmente la Foresta Demaniale di Giazza nasce il 10 Agosto 1911, la sua costituzione risale alla fine del 1800 in adempimento alle leggi per la salvaguardia e la valorizzazione forestale dei terreni di montagna.
    Rifugio Revolto prima dell'intervento di forestazione
    Attualmente il bosco è il risultato di un grande intervento di rimboschimento e della sistemazione idrogeologica dell'alta valle d'Illasi iniziata dal Comitato Forestale di Verona agli inizi del 1900 e proseguito fino ad oggi. La degradazione e l'impoverimento del suolo erano dovuti all'eccessivo sfruttamento.
    Si è reso necessario imbrigliare le acque in quanto la particolare geomorfologia del territorio è caratterizzata da ripidi pendii costituiti da materiale alterato dall'erosione e detriti. Inoltre nel terreno calcareo e dolomitico l'acqua si infiltra facilmente nel sottosuolo facilitando la formazione di frane e repentini apporti di grandi quantità d'acqua sul fondo delle valli di Revolto e di Fraselle, ingrossando pericolosamente il torrente Progno d'Illasi.




    <p align="center">Foresta di Giazza



    image

    La foresta di Giazza è situata nella fascia nord-orientale del Parco Regionale della Lessinia e prende il nome dall'agglomerato abitato più vicino, il paese di Giazza.
    Questo paese assai noto per essere l'ultima isola linguistica tauc' dei 13 Comuni Veronesi Cimbri dei Monti Lessini, si trova ai piedi della Giogaia formata dal monte Terrazzo che divide le valli di Revolto e di Fraselle le quali proprio a Giazza si uniscono dando luogo alla valle di Illasi.
    La Foresta di Giazza occupa un territorio di 1904 ettari suddivisi sulle provincie di VR, VI e TN, coinvolgendo il territorio dei comuni di Selva di Progno, Ala e Crespadoro; è delimitato a nord dal Gruppo del Carega, ad ovest dai pascoli dell'alta Lessinia, e ad est dalla Catena delle Tre Croci.




    Giassara Carcereri



    image

    La ghiacciaia dei Carcereri era ormai in grave degrado e rischiava di andare completamente distrutta, come è successo a tante costruzioni storiche e architettoniche del nostro territorio. (alcune ghiacciaie appunto, e baiti; "monumenti" di cui oramai solo i nonni e le vecchie cartoline mantengono un nostalgico ricordo).
    Sparirà fatalmente anche quel ricordo e nessuno avrà testimonianza di come fu la Lessinia quando era abitata da una popolazione omogenea che viveva sul suo territorio con una economia quasi autarchica.
    La nostalgia non ci impedisce di riconoscere che quella economia era condita di tanta povertà e la fame era pietanza quotidiana.
    Le cose cambiano, e non sempre in peggio, tuttavia non siamo autorizzati a dimenticare, perché dimenticare il nostro passato significa perdere una parte di noi.
    Negli anni ‘80, l'Amministrazione comunale di Cerro Veronese ha acquistato la ghiacciaia e con un adeguato restauro ha sottratto all'oblio e alla distruzione questo documento della società paleotecnica e, nel contempo, ha pensato di valorizzare questa espressione specifica della cultura montanara affidandone la conservazione alla tutela pubblica.
    L'Amministrazione ha restaurato il complesso costituito da tre elementi fondamentali: la pozza ovale, il grande deposito del ghiaccio naturale e il suggestivo portico di pietra con tetto in "laste" ad un solo spiovente.
    Il risultato del restauro è un manufatto rispettoso delle forme originarie che garantitisce una corretta lettura del sistema produttivo, ricreando, per quanto possibile l’atmosfera del tempo.
    Alcune piccole parti sono state necessariamente sostituite perché a causa dell'incuria degli uomini erano andate irrimediabilmente perse. Lo scopo non era di recuperare una testimonianza del passato come cosa inanimata da guardare, ma far diventare questo un luogo vivo, che suscita memorie, nostalgie, e perché no, in alcuni casi, anche rimpianti.
    Allora, prima di tutto, una ghiacciaia dalla quale capire una parte dell'economia montanara, poi anche uno spazio museale dove allestire mostre sulla vita quotidiana e le attività della vecchia Lessinia.
    Il visitatore può pertanto ammirare l'architettura razionale e funzionale dell'insieme e, scendendo da una scala appositamente aggiunta all'immobile, può entrare nel deposito e raggiungere il fondo della ghiacciaia: collocandosi nell'identica posizione in cui lavorava l'uomo addetto alla sistemazione o al prelievo delle lastre di ghiaccio, comprende la complessità e la fatica del lavoro che in quel luogo veniva svolto.
    L'edificio restaurato è a disposizione dei visitatori, i quali, curiosi delle nostre radici culturali, che spesso sono anche le loro, sempre più numerosi frequentano le contrade lessiniche per ritrovare quiete, ristoro, aria buona e stimolanti occasioni di riflessione e di conoscenza.
    Per meglio rendere fruibili queste testimonianze a turisti e studenti è stata realizzata una serie di fotografie che illustrano le diverse fasi del taglio, della conservazione fino alla stagione calda, e di trasporto a Verona , del ghiaccio naturale.
    È spiegato il lavoro del giassaròl della Lessinia, dalla preparazione della "giassara" alla commercializzazione del prodotto.
    Oltre alla mostra permanente, verrà annualmente allestita una mostra sulle attività economiche dei nostri nonni e padri. Prima di tutto l'agricoltura con l'allevamento degli animali; poi la silvicoltura e l’artigianato locale.
    Nel suggestivo spazio esterno, nel periodo estivo, verranno organizzate serate o pomeriggi letterari con lettura di prose e poesie di scrittori locali, intervallati da esecuzione di brani musicali.



    Grotta di Fumane



    image

    La Grotta di Fumane si trova lungo la strada che da Fumane porta a Molina , un sito preistorico già notato dagli abitanti e segnalato nel 1964 da Giovanni Solinas al Museo Civico di Storia Naturale, ed esplorato subito dopo da Franco Mezzana.
    Ma nel 1999, la scoperta eclatante: quattro pietre con tracce di pittura in ocra rossa che le secrezioni stratificatesi nei secoli hanno preservato. I reperti risalgono a 32mila anni fa: il più interessante riporta una pittura: lo Sciamano, una figura antropomorfa la cui testa possiede due corna e le braccia sono tese verso l’esterno. Si può collocare la Grotta in un’età che essere definita la più antica d’Europa. Usata come riparo sottoroccia, si trovano testimonianze nella parte più interna che, presenta una paleosuperficie con ossa di mammiferi pleistocenici e manufatti litici.
    L’abbondanza di reperti trovati ha permesso la ricostruzione di un ambiente risalente a 30.000 anni fa: tra gli animali prevalgono cervo e stambecco, capriolo e camoscio; tra i carnivori riconosciuti l’orso e il lupo, lo volpe e la iena; inoltre roditori e almeno 47 specie di resti di uccelli, con caratteristiche di ambienti silvano-rocciosi o di prateria steppica. Sono state ritrovate anche specie di ambiente acquatico e di ambienti freddi alpini ed artici.
    Numerose sono anche le tracce di attività antropica che a seconda dello strato di reperimento confermano la sequenza dell’evoluzione dell’uomo: dagli oggetti più antichi di tipo litico fino al ritrovamento di sostanze coloranti (ocra) e di oggetti ornamentali.




    Grotta di Monte Capriolo



    image

    Esplorata per la prima volta nel 1957 dal gruppo speleologico G.E.S., aperta poi al pubblico nel 1972 dopo la sua sistemazione. Uno degli aspetti più affascinanti della Grotta di Monte Capriolo, situata nei pressi di Roverè Mille, è la grade varietà di colori e di forme: stalattiti, stalagmiti come rappresentazione del processo evolutivo inverso alla dissoluzione carsica.
    Altro aspetto di sicuro interesse e fascino è rappresentato dalla vita sotterranea: insetti e ragni, scorpioni e pipistrelli. Habitat sotterraneo, assenza di luce, assenza di vegetazione, umidità relativa elevata (compresa tra il 95% e il 100%), temperatura media costante attorno ai 10 gradi, permettono la vita ad animali tipicamente acquatici e ad organismi terrestri una vita anfibia, passando da un ambiente aereo ad un ambiente acquatico con estrema indifferenza, esempio: il millepiedi cavernicolo o Serradium semiaquaticum.



    Malga Derocon



    image

    Centro di Educazione Ambientale e di Recupero della Fauna Selvatica
    Il recinto faunistico
    L’area recintata ha un perimetro di 2,8 km e comprende una zona fittamente boschiva che offre habitat ideale a camosci, cervi, caprioli e marmotte. La presenza di percorsi a piedi e altane interne al recinto permette ai gruppi, accompagnati dalla guida del Centro, di avvicinare gli animali senza recare loro disturbo e di osservarli nel loro ambiente naturale.

    image

    Il percorso botanico
    Nei pressi del Centro visitatori è stato realizzato un piccolo Giardino botanico, costituito da 60 nicchie naturali che raccolgono altrettante specie di alberi, arbusti, erbe e felci, diffusi nei boschi e nei pascoli circostanti. La visita al Girdino è guidata da pannelli descrittivi che illustrano le caratteristiche morfologiche ed ecologiche delle specie, nonché alcune delle loro proprietà farmacologiche.
    Le piante presenti sono quelle tipiche della faggeta, del margine del bosco e delle radure pascolive, ossia le piante che il visitatore incontra lungo i sentieri della Lessinia.

    Ubicazione

    Posta a 6 km dal centro abitato di Erbezzo, ubicato nella zona centrale dei Monti Lessini, l’antica Malga Derocon è oggi un’area floro-faunistica grazie ad un progetto finanziato dalla Comunità Europea (Leader II).



    Pesciera di Bolca



    image

    La "pesciera" è una cava in galleria, situata nei pressi del comune, da cui si estraggono gli strati rocciosi che contengono i fossili.
    Il giacimento viene fatto risalire al periodo fra Eocene inferiore ed Eocene medio in seguito allo studio dei nannofossili calcarei rinvenuti ed è costituito da un pacco di strati calcarei potenti circa 19 metri e di limitata estensione (poche centinaia di metri quadrati).
    I fossili, rappresentati principalmente da pesci e piante, si rinvengono all'interno di cinque livelli sovrapposti, costituiti da calcari a grana finissima fittamente stratificati, intercalati a strati calcarei detritici entro cui si trovano unicamente resti di invertebrati (gusci di lamellibranchi e gasteropodi).
    L'alternarsi di calcari a grana finissima con calcari detritici grossolani testimonia un alternarsi ciclico di diverse situazioni ambientali.
    In condizioni caratterizzate da acque calme simili a quelle interne di una barriera corallina o di un golfo molto riparato, si depositarono i sedimenti a granulometria fine che racchiudono abbondanti resti di pesci e piante, mentre una situazione caratterizzata da un intenso moto ondoso è evidenziata dalla presenza di detriti grossolani, del diametro anche di parecchi decimetri, frammisti a gusci di molluschi.
    Lo studio delle associazioni faunistiche e floristiche parallelamente a quello sedimentologico ha permesso di ricostruire l'ambiente di 48 milioni di anni fa.
    I pesci di Bolca, pur appartenendo a specie marine attualmente scomparse e rappresentati sia da pesci con scheletro cartilagineo (elasmobranchi) come gli squali, sia da pesci con scheletro ossificato (teleostei) come l'orata, presentano molte affinità con forme tutt'oggi viventi nei mari caldi dell'Oceano Indo-Pacifico e dell'Atlantico. Inoltre, sono state rinvenute forme, anche rare, affini a specie viventi nei mari temperati.

    Il monte Purga di Bolca


    image

    La sequenza sedimentaria ha uno spessore compreso tra circa 10 e 20 metri.
    Questo giacimento si è formato tra circa 49 e 52 milioni di anni fa mentre il basalto di colore nero-bluastro, che affiora in corrispondenza della cima del Monte Purga di Bolca, è ascrivibile all'Oligocene inferiore ed ha, pertanto, un'età di circa 36 milioni di anni.
    Il monte Postale
    Gli strati fossiliferi del Monte Postale affiorano nei pressi della Pesciara e a pochi chilometri di distanza dal Paese di Bolca.
    Gli strati fossiliferi sono ricchi di pesci analoghi a quelli rinvenuti nella Pesciara (crostacei, lamellibranchi, gasteropodi, cefalopodi, echinodermi, coralli, foraminiferi, alghe).



    Pietra di Prun



    image

    Cave di marmo in galleria, Prun, situato sulle pendici del Monte Fane, nell’alta valle di Negrar, è noto soprattutto per le sue cave di scaglia rosa, una pietra tenera e di facile estrazione, proprio da questa località prende il suo nome: pietra di Prun.
    La maggior parte delle cave sono a cielo aperto, ma se ne possono vedere alcune, particolarmente suggestive, scavate in galleria, dove grandi gradini di roccia a dominio della valle appaiono qua e là traforati da sttrani cunicoli e grotte, sorretti da tozzi pilastri, somiglianti a primitive architetture rupestri.




    Ponte di Veja



    image

    Uno dei principali fenomeni naturalistici dell’intera Europa: migliaia sono i turisti che ogni anno vengono a visitare questo straordinario fenomeno geologico di titanica possenza.
    Il Ponte è situato a 620mt s.l.m., nel punto di incontro delle due vallette Crèstena e Fenile, sul lato destro del Vajo della Marchiora o Marciosa.
    Il grandioso ponte naturale di Veja si presenta come un architrave di ingresso d’immensa caverna: si tratta, infatti, di un fenomeno carsico formatosi per azione erosiva dell’acqua sulle rocce calcaree che lo costituiscono.
    Le rocce che formano il ponte sono di due tipi: i calcari oolitici che costituiscono i piloni, il rosso ammonitico che forma l’arcata.
    Le dimensioni del Ponte sono eccezionali: l’altezza varia dai 24 metri del lato occidentale ai 29 metri di quello orientale; mentre lo spessore dell’arcata si differenza dai 9 agli 11 metri.
    Dell’immenso cavernose carsico, primigenio che ha originato il Ponte, restano un grande pozzo di crollo ripieno di massi franati ed alcune grotte poste alla base o, sotto il Ponte stesso.
    Il nome "Vea" o "Veja" parrebbe derivare da "vecla, vicla" cioè "acqua", oppure da "wegla" cioè "vecchia".
    Nei primi decenni del secolo il Messedaglia afferma di avere raccolto nei centri abitati nei pressi del Ponte la dicitura "Ponte di Eva" o "de Egia", che starebbe a significare "ponte dell’acqua, rafforzando quindi la sua derivazione da acqua.
    Molti sono gli artisti che lo hanno rappresentato nelle loro opere: basti citare l’affresco del Mantegna del 1474.
    Il Ponte di Veja non è solo fenomeno carsico, bensì proprio in questo sito è stato ritrovato uno dei reperti più famosi del mondo, equiparabile alle celeberrime mummie dell’Antico Egitto, si tratta dell’ "Uomo venuto dal Ghiaccio" ovvero l’UOMO DI OTZI.





    Spluga della Preta: storia di un mito



    image

    La Spluga della Preta è uno dei più famosi abissi del mondo, un vuoto profondissimo all’interno del Corno d’Aquilio, sotto i pascoli dei Monti Lessini Veronesi, nel comune di Sant’Anna d’Alfaedo.
    L’esplorazione dell’abisso è cominciata nel 1925, ottant’anni fa. Le spedizioni pionieristiche di quei tempi hanno dato inizio a una avventura della conoscenza che si è protratta con una serie di incredibili imprese fino ad ora.
    La Spluga della Preta infatti "è la speleologia", o meglio, è sicuramente la grotta che più di ogni altra in Italia è legata alla storia della speleologia esplorativa, nel bene e nel male, e ne può essere considerata, in un certo senso, il simbolo, il campo ove si sono confrontati sogni, ideali, modi diversissimi di interpretare l’esplorazione degli abissi, tecniche diverse, ma soprattutto un libro in cui sono state scritte alcune delle pagine più esaltanti non solo della speleologia mondiale, ma dell’esplorazione in senso lato. Non si possono dimenticare le grandi spedizioni effettuate negli anni Sessanta dal Gruppo Grotte Falchi di Verona nel tentativo di raggiungere la fine di quell’abisso senza fondo, o la spedizione bolognese e torinese che raggiunse la mitica Sala Nera, oltre gli 800 metri di profondità in 9 giorni di permanenza sottoterra. Interessantissimo è anche l’aspetto biologico: in questo abisso sono stati trovati esemplari di insetti troglobi (cioè che vivono solo in grotta) con adattamenti somatici al buio del mondo sotterraneo. Si tratta di veri e propri "fossili viventi" come l’Italaphenops Dimaioi, il più grande carabide cieco del mondo, scoperto nella Spluga della Preta nel 1963.
    La Spluga della Preta inoltre è stata oggetto dal 1988 al 1992 di una impressionante operazione speleologica, l’Operazione Corno d’Aquilio, che rimane a tutt’oggi la più imponente spedizione ecologica in grotta mai realizzata al mondo. Sono state portate all’esterno quasi quattro tonnellate di rifiuti abbandonati nei precedenti decenni di pionierismo speleoleologico.
    Nel 2005, ottant’anni dopo la prima esplorazione, gli speleologi continuano a scendere e ad esplorare in questa mitica grotta con un nuovo obbiettivo: realizzare un film che racconti la storia e le avventure che sono legate alla Spluga della Preta. Un’impresa molto difficile, che ha portato una troupe cinematografica a filmare fino ad ottocento metri di profondità, realizzando così le più profonde immagini mai girate in Italia. Quello che il film vuole raccontare è che il mistero di quest’abisso, che fila giù nel cuore della montagna, non è ancora stato svelato. Generazioni di speleologi hanno provato ad inseguire le correnti d’aria che molto probabilmente fluiscono verso la Val d’Adige, ma per il momento solo i pipistrelli conoscono la via per la luce dell’esterno e le argille verdi delle antichissime gallerie del Canyon Verde custodiscono gelosamente questo segreto. Forse attendono qualcuno a cui rivelare finalmente la via per fare della Spluga della Preta ancora una volta "l’Abisso" o forse hanno deciso che la Preta è bella così: fonda, impressionante, dura, con un solo ingresso; sorprendente, perché si apre minacciosa su un dolce prato e trascina con sé il nero della notte; bella, perché nei suoi pozzi si respira l’atmosfera di mille e mille esplorazioni, affascinante perché le sue gallerie fossili parlano una lingua antichissima fatta di pietre e sabbia; magica come una nera spada infissa nella roccia del Corno d’Aquilio.
    Francesco Sauro (Coordinatore progetto Spluga della Preta 1925/2005: Ottant’anni di esplorazioni)




    Vajo dell'Aguillara e Foresta dei Folignani



    image


    Transitando attraverso le contrade "cimbre" di Bosco Chiesanuova ci si immergerà nella foresta dei Folignani (riserva naturale del Parco della Lessinia) per far ritorno a Bosco Chiesanuova lungo il "gran canyon" del Vajo dell'Anguilla, antica valle originata dallo scorrimento delle acque. La stupenda foresta dei Folignani si trova in prossimità delle piste sciistiche fornendo un panaroma mozzafiato durante la pratica degli sport invernali; sfolgorante nei colori autunnali, emergente come un miraggio da un mare tempestoso di nebbie; adatta a gite indimenticabili d'estate; freschi venti e l'esplosione di fiori e verde indimenticabile in primavera. L'Alto Vajo dell'Anguilla, un mosaico ambientale, dove le tracce geologiche si sommano a quelle glaciali, tra i siti in quota più rari nelle Alpi.




    Valle delle Sfingi



    image

    La Valle delle Sfingi, che si estende a nord dell’abitato di Camposilvano, nei pressi delle contrade Brutto e buse di Sotto, è nota per le particolari formazioni litologiche che caratterizzano l’area. Si tratta di una serie di monoliti formatisi grazie alla diversa erosione di due tipi di calcare che compongono queste strutture; la base, costituita da calcare Oolitico di colore bianco-giallastro, risulta solitamente più assotigliata rispetto alla parte sommatale, composta invece di Rosso Ammonitici. Tali formazioni assumono così le sembianze di "funghi rocciosi" che rammentano le sfingi egiziane, o viste nel loro insieme compongono una immaginaria Città di roccia.

    image






    Prodotti tipici




    Castagne – Marroni di San Mauro
    Reperti fossili dimostrano la presenza del castagno già 23 milioni di anni fa. In altitudine l'area di coltivazione va dai 330mt ai 1200mt, viene denominata Castanetum. I suoi frutti hanno rappresentato per secoli una valida risorsa per la sopravvivenza di intere popolazioni residenti in zone collinari o montane particolarmente depresse. Diminuendo la produzione, la castagna è diventata oggi un prodotto di elìte poiché il mercato richiede sempre più prodotti pregiati. Per effetto di questo fenomeno evolutivo il frutto del castagno viene commercialmente distinto in castagna e marrone (castagna di grosse dimensioni), che ha una duplice destinazione: consumo fresco e industri di trasformazione per la produzione dei marroni al naturale, marrons glacés, marmellate, puree, farine ed altre utilizzazioni in pasticceria.

    Ciliegie delle colline Veronesi
    Numerosi sono i comuni, dal Garda, alla Valpolicella, ai Lessini che coltivano ciliegie nelle seguenti varietà: Mora di Cazzano (Mora di Verona o Durone di Verona), Mora dalla Punta, Durone nostrano (Duron), Giorgia, Ferrovia.
    La varietà simbolo della zona è la ciliegia mora (durone): grossa, sferoidale, di colore rosso brillante, con polpa soda e croccante, possiede un eccellente equilibrio tra succosità, dolcezza e acidità.
    Un'usanza locale è quella di mettere le ciliegie "sotto spirito", cioè nella grappa con aggiunta di zucchero, per mangiarle poi, durante l'inverno.

    Grappa

    La distillazione della grappa è una tradizione veneta a tutti gli effetti: già nel Seicento nasceva a Venezia un' università degli acquaviti.
    Del resto, il Veneto è da sempre una regione fortemente vocata alla viticoltura e quindi esiste ampia disponibilità di vinacce da distillare.
    Particolarmente pregiata è la grappa d'Amarone, prodotta in Valpolicella.

    Miele
    Esistono diverse realtà produttive legate all'apicoltura: le tipologie di miele prodotte nell'area delle colline veronesi e dei Lessini sono: tarassaco, acacia, castagna, millefiori, tiglio e melata. Il miele prodotto in quantità interessante ma ridotta, risulta essere un alimento sicuramente di grande interesse, sia per le sue caratteristiche alimentari che per il suo ciclo produttivo. Interessante è sapere che le api selezionano i fiori per il loro valore nutritivo.

    Monte Veronese

    La pianura veronese viene costeggiata dai Monti Lessini, distretto caseario di antichissime tradizioni, le cui origini risalgono ai primi insediamenti Cimbri del XIII sec.
    Il Monte Veronese è un formaggio a pasta semicotta, prodotto da latte vaccino intero per il tipo fresco, o parzialmente scremato per lo stagionato.
    Il primo, definito dalla DOP "latte intero", è un formaggio da tavola a pasta bianca, di sapore dolce, pronto al consumo dopo tre mesi dalla lavorazione; il secondo, definito "d'allevo", dopo sei mesi di stagionatura ha occhiatura più marcata e consistenza più adatta alla scaglia, di sapore più intenso e tendente al piccante.

    Olio delle colline Venete
    La zona di produzione olearia più celebre del Veneto è certamente la riviera del Garda, ma sono numerose altre le località della regione che vantano antica tradizione e buon olio extra vergine di oliva.
    L'Unione europea ha riconosciuto la DOP veneta, in cui la Valpolicella viene giustamente e a buon titolo inserita tra le sottozone. L'olio si caratterizza per il colore verde oro e per il fruttato di varia intensità.

    Pasta Frolla della Lessinia o Tortafrolla
    Specialità dei Monti Lessini che trova la sua origine nel lontano ottocento, origine legata al forno di Rovere Veronese, tuttora operante. Si tratta di una torta molto friabile a base di farina, burro e zucchero, profumata di vaniglia e limone. Forni di nuova generazione utilizzano questo impasto unendovi ingredienti quali: noci, cioccolato, miele.., per produrre squisite varietà di biscotti.

    Pesche
    Per chi ama le pesche il veronese offre l'imbarazzo della scelta.
    La produzione riguarda numerose varietà di pesca a polpa bianca e gialla, e con la variante delle "nettarine", pesche noci dalla buccia liscia, raggiungendo vertici qualitativi notevolissimi.
    Caratteristica di queste pesche è il calibro notevole, il colore della buccia più intenso del consueto, il sapore concentrato.
    La coltivazione è documentata anche da ritrovamenti archeologici, trova riscontro nelle cronache del '500, quando le pesche erano già annoverate tra le bellezze di Verona, e negli eloquenti dati commerciali dell'800.
    In Valpolicella i pescheti si alternano ai vigneti e in primavera la fioritura è un vero spettacolo.

    Soppressa
    Prodotto simbolo della convivialità veneta è la soppressa: pane e soppressa, polenta e soppressa sono il cardine delle merende fra amici.
    Salame veneto per antonomasia,la soppressa viene ottenuta macinando a grana medio-grossa le carni pregiate del suino, condite con sale, pepe, aglio e quindi insaccate nel budello per poi stagionare parecchi mesi in cantina.

    Tartufo
    La specie più rilevante è il tartufo nero pregiato (Tuber melanosporum Vitt.), caratteristico degli ambienti calcarei. E' un tubercolo a superficie nera, tondeggiante, di forma verrucosa, emena un profumo alquanto forte, il suo sapore corposo risulta di particolare squisitezza.
    Molto apprezzato in cucina, documentato già in epoca napoleonica quando veniva utilizzato nella preparazione di primi piatti (risotto, gnocchi, tagliatelle), pietanze (carni ripiene) e perfino dolci in abbinamento con il Monte Veronese.

    Vini della Terra dei Forti
    Nell'agosto 2002 è stato istituito il Consorzio tutela vini, con sede Trentino-Belluno (Vr) con il nome "Terra dei Forti".
    Il territorio di Dolcè è stato da sempre terra di transito, in quanto da questa valle si accede ai paesi del centro Europa.
    Fin dall'epoca romana questa importante via di comunicazione fu presidiata, sorvegliata e difesa.
    Sorsero lungo il corso dei secoli tutte quelle opere militari e civili adatte allo scopo: castelli medievali, fortilizi veneziani, forti austroungarici e italiani.
    Il territorio è dominato da rigogliosi vigneti che forniscono vino bianco, rosso e rosato, di caratteristiche molto definite e apprezzate dal mercato.

    Vino Amarone
    L'Amarone è una tipologia della DOC Valpolicella.
    I vitigni previsti sono Corvina (40-70%), Rondinella(20-40%), Molinara(5-25%) e un eventuale aggiunta di uve tra rossignola, negrara, barbera, trentina e sangiovese che non deve superare il 15%.
    Le rese massime per ettaro sono di 120 quintali, con una resa in vino che non può oltrepassare, per l'Amarone, il 40%.
    Il periodo minimo di affinamento è di due anni; al momento dell'immissione sul mercato il vino deve avere almeno 14 gradi alcolici.
    Anche l'Amarone si ottiene dalla pigiatura di uve passite. Vino che si sposa con carni rosse, arrosti e cacciagione in genere.

    Vino Durello

    Un vino bianco, leggermente acidulo, leggermente frizzante che resiste ad un invecchiamento di ben 10 anni, vino che oggi viene anche trattato con metodo champenoise, vinificato in rosa o con aggiunte di merlot prodotto in vino rosso. La zona di produzione si estende, nella parte più orientale dei Monti Lessini : dalla Val d'Alpone, alla Val del Chiampo per finire nella Valle del Leogra a Monte Malo, nella provincia di Vicenza. Anche se non particolarmente conosciuto, vanta caratteristiche organolettiche ed olfattive importanti soprattutto se invecchiato e sottoposto a processo di spumantizzazione. L'uva utilizzata è la Durella caratteristica per gli acini giallo citrino. La sua denominazione attuale è Monti Lessini Durello DOC, sottdenominazioni introdotte sono: Monti Lessini Bianco, Monti Lessini Rosso, Lessini Durello Spumanti Classico.

    Vino Enantio

    Oltre ai numerosi vini Doc della Valdadige, da qualche anno è stato ritrovato e riutilizzato un antichissimo vitigno chiamato Enantio, nome che citato da Plinio, storico romano del I°secolo d.C.
    E' stato definito dagli esperti come il più importante vitigno a bacca nera della Vallagarina in quanto è vitigno autoctono, forse l'unico originario di questa terra.
    La prima caratteristica che colpisce è l'aspetto: colore rosso rubino molto intenso, che resta tale anche con l'invecchiamento.
    Vini piacevoli, ben equilibrato e di buona struttura, si distinguono per la particolare ricchezza di "resveratrolo", sostanza antiossidante, importantissima per la prevenzione di cardiopatie, arteriosclerosi, e trombosi.
    L'Enantio è un vino di corpo da abbinare a piatti di selvaggina, carne alla brace, brasati e formaggi stagionati, come il Monte Veronese d'allevo.

    Vino Recioto
    Il Recioto venne chiamato così perché in passato venivano spremute solo le rece, ovvero le parti "alate" dei grappoli, che godevano di una maggiore esposizione al sole. E' ottenuto da uve sottoposte a un periodo di appassimento di almeno 120 giorni in appositi locali aerati. Il grado alcolico è minimo 14°. E' un vino amabile e vellutato, che bene si abbina a dolci e pasta fresca.

    Vino Soave
    Vino bianco che prende il nome dalla zona di produzione: Soave che si trova ad est di Verona ai piedi dei Monti Lessini. Le sue caratteristiche colore 'oro giallo', armonico e nobile, discreto, antico e pregiato conquistano chiunque assaggio un sorso di vino "Soave".
    L'uva utilizzata è la Garganega: vitigno già conosciuto nell'anno 1000.
    Vengono prodotte, secondo lavorazioni diverse, svariate tipologie di Soave:

    * Soave DOC vino bianco, asciutto ed armonico, ottimo per aperitivi, secondi di pesce e carni bianche.
    * Soave Classico DOC vino giallo paglierino, delicato, fruttato, fresco, si abbina ad antipasti, pesce carni bianche.
    * Recioto di Soave Spumante DOCG colore giallo dorato corposo, fruttato, vellutato, adatto a dolci secchi.
    * Soave Spumante DOC da utilizzare come aperitivo o fine pasto.


    Vino Valpolicella
    Stando alla leggenda, Valpolicella deriverebbe da polis cellae, ovvero luogo con molte cantine.
    Basta fare una passeggiata in questa zona di rigogliosi vitigni per averne una immediata conferma.
    Le principali uve autoctone che concorrono alla produzione di questo vino, noto già all'epoca degli antichi Romani, sono: la Corvina veronese, la Molinara e la Rondinella; danno vita a vini rossi DOC quali il Valpolicella Classico e Superiore (almeno un anno di invecchiamento), il Recioto e l'Amarone ( tra i due e tre anni di invecchiamento obbligatorio).



    Edited by tomiva57 - 11/5/2011, 13:39
     
    Top
    .
  3. tomiva57
     
    .

    User deleted


    Val d'Illasi




    Il territorio

    La Val d'Illasi è in gran parte appartenente alla Regione Veneto e alla provincia di Verona, tranne una piccola zona, a nord, comprendente le cime dolomitiche del gruppo del Carega (detto anche "Gruppo delle Piccole Dolomiti"), che fa capo alla Regione Trentino-Alto Adige e alla provincia di Trento. Si estende per una lunghezza di circa 39 km ed è caratterizzata da vari tipi di paesaggi: da quello di pianura a quello di alta montagna con preponderanza di media e bassa collina. La valle ha il suo sbocco in corrispondenza della statale 11 Padana Superiore, ad una ventina di chilometri a est di Verona.

    Il termine "Piccole Dolomiti" è stato attribuito a quella porzione delle prealpi venete Occidentali comprendente il gruppo del Carega e la Catena del Sengio Alto. Il nome è certo indicato non solo per la presenza di rocce dolomitiche, che peraltro costituiscono l'ossatura di queste montagne, ma anche per la loro morfologia complessa e tormentata che ricorda le più conosciute Dolomiti.





    I L L A S I



    image

    Centro famoso sia per il suo castello che per le sue ville.
    Il Castello Scaligero di origine molto antica, edificato agli inizi dell'anno mille, fu raso al suolo da Ezzelino Romano e successivamente ricostruito dagli scaligeri. Conserva un mastio in tufo, una torre e qualche pezzo di mura. La leggenda dice che sia stato luogo di omicidi a sfondo passionale. Molte nobili famiglie del XVII secolo, incantate dal suggestivo paesaggio di Illasi, vi costruirono le loro ville: Villa Pompei Sagramoso bellissimo edificio sorto nella prima metà del 1700, formato da un corpo centrali e due ali, da lunghe barchesse e scuderie. All'interno quasi tutte le sale sono riccamente affrescate. Molto bella la sala da pranzo e il salotto al piano terra con delle decorazioni neoclassiche. Notevole anche il parco, con notevoli esemplari di querce e roveri, che occupa tutto il monte Tenda sino alle rovine dell'antico castello.

    Villa Carlotti Perez Pompei situata proprio al centro di Illasi. Il salone centrale è decorato da affreschi del veronese Antonio Balestra. Molto gradevole il giardino all'italiana arricchito da statue.
    All'inizio del paese, sulla sinistra, si trova Pieve piccolo borgo antico, dove si trova la chiesa di S. Maria edificata sopra un preesistente tempio dedicato a Mercurio.
    Altre edifici di interesse artistico sono: l' Oratorio di San Colombano posto in una splendida posizione panoramica, la Chiesa di San Bartolomeo e la Chiesa di San Zeno a Cellore.

    image

    T R E G N A G O

    image

    CHIESA DELLA DISCIPLINA, romanica, da poco restaurata, dove si può ammirare un affresco del XIV sec. di particolare bellezza, che si trovava nella lunetta del protiro dell'Antica Pieve di S. Maria Assunta. Nella chiesa si trovano anche un bellissimo BASSORILIEVO in marmo bianco, affreschi di Giolfino (importante pittore veronese del 1500), una pala del Brusasorci.
    E' un piccolo centro a economia prevalentemente agricola e artigianale.

    image

    A Tregnago si può visitare il castello di origine altomedievale, rimaneggiato dagli scaligeri. Molto caratteristico è il mastio pentagonale, oggi assai diroccato. Le pareti del castello conservano qualche traccia di antichi affreschi: Lo Stemma degli Scaligeri, un Leone di S. Marco e una Madonna del XVI secolo.



    Badia Calavena



    image

    Il Comune è posto nell'area centrale della Val d'Illasi e dista circa 30 km da Verona. L'interesse artistico della zona è legato in particolare all'arte sacra. Oltre alle chiese sono presenti edifici con interessanti caratteristiche architettoniche, numerosi affreschi e pitture murarie rappresentanti immagini sacre, visibili sui muri esterni delle case in molte contrade. Nella foto: la chiesa dei Santi Vito, Modesto e Crescenzia, attuale parrocchiale, costruita tra il 1824 e il 1828 e affiancata da un alto campanile edificato nella seconda metà dell'Ottocento. Al suo interno è custodita, tra l'altro, una statua lignea di San Pietro risalente all'Alto Medioevo.
    I primi dati sicuri risalgono al 1040 (ma sono stati trovati reperti anche risalenti all'età del Ferro); nel secolo XI fu sotto la giurisdizione dei Vescovi di Verona e l'allora vescovo germanico Walterio fece costruire un castello (1037-52) sul colle S. Pietro distrutto nei periodi successivi.
    Sulle sue rovine venne costruito un Monastero, i cui possedimenti si estesero rapidamente, abitato dai monaci tedeschi dell'Ordine di San Benedetto. Nel 1185 Papa Lucio III visitò la costruzione e nell'occasione consacrò la Chiesa.
    Il nome di Badia Calavena è forma accorciata dell'espressione badia di Calavena (o badia della Calavena). Con essa di indicò la celebre abbazia sul colle di San Pietro; come è noto, badia è sinonimo di abbazia. I cimbri chiamano il paese Kam'Abato, che letteralmente significò "dall'abate"; si tratta di un ibrido cimbro-veronese, composto da Kame "presso il" e dell'antico venabado pronunciato alla tedesca.
    La suddetta abbazia fu detta della "Calavena" perché fondata nel territorio detto Calavena , ampio tratto della vallata che andava da Tregnago fino all'attuale Badia ed oltre.
    In un atto del 10 gennaio 1333 si cita una lite tra il monastero e gli abitanti di Badia per questioni di pascoli e di terreni. Nel 1390 i montanari della zona seppero respingere le truppe di Carraresi.
    Il paese svolse un ruolo importante nella storia dei XIII Comuni e nel 1405 passando dalla Signoria di Verona alla Repubblica Veneta, unendosi agli altri comuni dei monti Lessini, dà vita al "Vicariato della Montagna dei Tedeschi o del Carbon".
    Altre liti con il monastero si ebbero nel '500, quando gli abitanti cercarono di sfruttare la decadenza dell'Abbazia.
    Nel 1797 sotto il dominio francese, Badia Calavena diventa centro del "Distretto della Montagna". Tra gli episodi rimasti nella tradizione popolare del paese, vanno ricordati, in particolare, la peste del 1630, il disastroso terremoto del 1892, che fortunatamente non provocò vittime, e l'inondazione, dovuta allo straripamento del Progno, nel 1882.
    Da visitare la duecentesca chiesa della Disciplina , appartenuta alla Compagnia dei "Disciplinati".

    image


    Giazza Ljetzan, paese cimbro della Lessinia, Lessini Monti Veronesi, Verona - Parco Naturale Regionale della Lessinia
    Il paese cimbro di Giazza (Selva di Progno, Val d'Illasi - Verona), a m.750 nei Lessini, ultima oasi linguistica del 'Tauch' tra i XIII Comuni Cimbri della Lessinia.
    In paese il Museo dei Cimbri, tra le montagne la Foresta Demaniale Regionale di Giazza, frutto di una grande opera di rimboschimento, si protende verso il gruppo del Carega, l'alta Lessinia e la catena delle Tre Croci.


    Per quasi tutta la sua estensione è percorsa da un torrente dal corso accidentato e, in genere, povero o addirittura privo d'acqua: l'Illasi detto comunemente Progno. Nato ai piedi delle pareti rocciose che formano la parte terminale del bacino di Campobrun nel gruppo del Carega, il torrente, dopo aver attraversato in un alveo ben definito e con solidi argini prevalentemente in muratura sette comuni (Selva di Progno, Badia Calavena, Tregnago, Illasi, Colognola ai Colli, Lavagno e Zevio) per una lunghezza di 35 km, si immette nell'Adige presso Zevio con le acque dei fiumi Fibbio e Antanello e del canale Lisca.

    Il clima della valle è temperato e tipica della zona è la scarsità di piogge che sono concentrate per lo più nei periodi autunnali e primaverili: da qui deriva la denominazione antica di Valsecca. In questi periodi si verificano le piene del Progno che nei secoli scorsi hanno procurato non pochi problemi agli abitanti del posto in altri mesi dell'anno colpiti dalla carenza d'acqua. In conseguenza della morfologia della valle, la vegetazione risulta di tre tipi: basale e collinare, montana e subalpina, con conseguenti diversità anche nel tipo di coltivazioni praticabili.
    image

    Nei secoli la valle prese diverse denominazioni: Val di Tregnago, Valle del Progno, Val Longazeria o Logazeria. La denominazione "Valle d'Illasi" appare per la prima volta nella "Carta del territorio veronese" eseguita da Don Gregorio Piccoli nella prima metà del XVIII secolo.

    Il territorio è abbastanza ampio e, pur diversificandosi per fasce d'altitudine, è comunque un ambiente prevalentemente agricolo. Passiamo, infatti, dagli alti pascoli della Lessinia alla fascia pedemontana dove il bestiame da latte lascia il posto alle coltivazioni di castagni, noci, funghi, tartufi, lumache. Scendendo possiamo vedere distese di ciliegi, olivi e viti (tra i quli il Soave classico, il Recioto, il Durello, il Valpolicella classico e l'Amarone).

    image


    Le malghe che ancora oggi troviamo sono vere e proprie aziende agricole. I malgari che conducono l'alpeggio e producono il formaggio rimangono in alta montagna per tutto il periodo estivo. In inverno questa attività prosegue nelle stalle più a valle dove oltre al burro, ricotta e caciotte, viene prodotto il "Monte Veronese Dop", formaggio lavorato con latte crudo.

    La razza bovina più diffusa in questa zona è la Frisona immediatamente distinguibile per il mantello a macchie bianche e nere. Sempre più scarsa invece la presenza della rendena, bruna alpina, asini, capre e pecore. Tipiche e uniche sono le recinzioni che delimitano il confine fra un pascolo e l'altro perché in lastre di pietra (laste).

    In alta Valle (1800-2500 mt.) vivono animali come camosci, caprioli, aquile, galli cedroni, che hanno trovato il loro habitat naturale per vivere e riprodursi. Partendo dalle zone più alte troviamo boschi di aceri, abeti rossi e betulle, carpino nero, tigli, olmi, noci e castagni.

    Anche l' architettura caratterizza questa zona rispetto ad altre del veronese o italiane. In montagna, infatti, la gente vive in piccoli nuclei abitativi o in contrade. Ogni contrada ha un nome diverso, generalmente quello della prima famiglia che vi si è insediata. Queste case hanno tetti spioventi spesso costruiti con lastre di pietra per resistere al peso delle abbondanti nevicate. Abbandonando la montagna troviamo paesi sempre più vasti formati da case a schiera spesso disposte ad U con una corte in comune e un'entrata ad arco.

    Attraversando in lungo e in largo tutto questo territorio è possibile scorgere il passaggio della storia con resti paleolitici, rocche, forti, castelli, trincee ma anche con grotte scavate nei boschi per nascondersi.

    E' ancora possibile vedere la passata presenza di nobili famiglie che abitarono in castelli o Ville. Tipica di quel periodo è la recinzione terriera con alte mura in sasso. All'interno di queste proprietà troviamo gruppi di case (anticamente abitate dai braccianti agricoli) con relativo orto, uno spiazzo comune (aia), le stalle e i fienili oggi trasformati in rimessa per gli attrezzi agricoli.

    Da un punto di vista amministrativo, attualmente, il territorio della valle è diviso nei comuni di: Colognola ai Colli, Illasi, Tregnago, Badia Calavena, Selva di Progno.



    Edited by tomiva57 - 11/5/2011, 13:41
     
    Top
    .
  4. tomiva57
     
    .

    User deleted


    VILLAFRANCA



    Storia di Villafranca


    image


    Le origini della città
    La quasi totale l'assenza di reperti archeologici nel Villafranchese - se si escludono gli sporadici ritrovamenti tombali d'età neolitica e soprattutto i grandi blocchi di pietra appartenuti ad un monumento dedicato all'imperatore Tiberio (I sec. d.C.), impiegati nelle fondazioni della torre centrale del castello ma di provenienza sconosciuta - fa ritenere che l'abitato sia realmente di fondazione recente. Villafranca nasce infatti ufficialmente il 9 marzo del 1185, quando il consiglio maggiore di Verona decide la fondazione di un insediamento abitato all'estremità occidentale della Campagna Veronese, ai confini con Mantova. Fu promosso l'arrivo di nuovi abitanti con la promessa di renderli esenti dalla tassazione altrimenti gravante su tutti gli abitanti del contado (è questo il significato etimologico del nome Borgo Libero, ossia Villafranca). Ad ogni colono furono assegnati 33 campi veronesi, di cui uno per la casa e 32 per la terra da coltivare. In gioco era soprattutto la difesa del territorio contro Mantova lungo la direttrice dell'importante arteria già esistente ai tempi di Roma, l'antica via Postumia, in un punto assai strategico per le comunicazioni. Il comune di Verona diede perciò grande importanza militare a Villafranca e qui volle edificare fin da subito una struttura fortificata, mutatasi poi in castello (1243) e infine, sotto gli Scaligeri (1345-1355), nel perno di un sistema difensivo che, insieme alle rocche di Nogarole e di Valeggio, costituiva il cosiddetto Serraglio, una grande muraglia intervallata da torri e fortilizi di cui oggi rimangono soltanto poche tracce. La funzione originaria di avamposto militare si conservò inalterata per tutto il primo periodo della dominazione veneziana (1405-1518). Poi, con l'avvento delle artiglierie e il rifacimento delle fortificazioni avvenute a Verona nei primi decenni del Cinquecento, la situazione a Villafranca mutò radicalmente. La città si trasforma in stazione di posta e di esazione daziaria per i mercanti e i trasportatori che collegano Mantova a Verona, mentre il castello, che già alla fine del Quattrocento ospitava le abitazioni di una piccola comunità ebraica, è concesso in usufrutto a privati.

    Villafranca e il Risorgimento
    Villafranca di Verona, una delle pochissime città italiane a vantare un cospicuo primato avuto durante il Risorgimento nazionale sia per la sua posizione geografica che per gli importanti ospiti che si sono avvicendati tra le sue case, le sue strade, i suoi caffè, i suoi alberghi. In questi giorni la prima città della provincia veronese ricorda un importante evento che la vide protagonista nell’ormai lontano 1859: l’incontro degli imperatori Francesco Giuseppe I e Napoleone III, per concludere una delle più sanguinose compagne militari dell’Ottocento culminata con le battaglie di Solferino e San Martino. Incontro passato alla Storia come la pace di Villafranca e preludio all’unità d’Italia. Il convegno dei sovrani di due delle maggiori nazioni europee avvenne nella calda estate di centocinquanta anni fa e fu la naturale conclusione degli eventi politici che si svolsero nella settimana precedente da quando l’imperatore francese propose a quello austriaco una tregua d’armi giustificata dall’intento di far riposare le truppe e riorganizzare l’armata che tante perdite aveva sofferto nell’ultimo mese. Napoleone III mentiva, sapeva che la guerra non era più seguita, in Francia, con l’entusiasmo iniziale e soprattutto temeva la Prussia, la quale non gradiva che l’Austria, la più importante potenza della Confederazione germanica, fosse umiliata dai francesi ed aveva iniziato la mobilitazione del suo apparato militare verso il Reno, cioè verso la Francia sguarnita del suo esercito impegnato sui campi del Lombardo-Veneto insieme agli alleati piemontesi. L’armistizio fu concluso dai rappresentati dei tre eserciti la mattina dell’8 luglio in una stanza della locanda Tre corone, (odierno palazzo dell’Oviesse) situata nella centrale via di Mezzo, l’attuale corso Vittorio Emanuele, e prevedeva una sospensione delle attività belliche fino al 15 agosto. Dall’8 al 10 luglio molte lettere autografe furono scambiate tra i due sovrani alloggiati nei rispettivi quartieri generali di villa Maffei a Valeggio e palazzo Carli a Verona, portate a gran carriera dai più bei nomi dell’aristocrazia europea nelle quali si chiedeva, tra l’altro, un incontro diretto dei due sovrani con la speranza di trasformare l’armistizio militare in una pace duratura. L’incontro fu accettato. La mattina di lunedì, 11 luglio 1859, poco dopo le sette Napoleone III lasciò Valeggio alla volta di Villafranca accompagnato da tutto il suo stato maggiore, dallo squadrone delle Cento guardie e da uno squadrone di Guide. Quasi contemporaneamente da Verona uscì Francesco Giuseppe anch’egli con il suo stato maggiore e scortato da uno squadrone di Gendarmeria a cavallo e uno di Ulani. Verso le nove i francesi arrivarono a Villafranca e nei pressi della chiesetta di San Giovanni della Paglia i sovrani si salutarono, si strinsero affabilmente la mano e si diressero cavalcando fianco a fianco verso il centro dove furono salutati con deferenza dai rappresentanti comunali Spellini e Zugnoni e poi in via Ghetto, nella casa di Carlo Gandini Bugna appositamente preparata e che l’incontro doveva rendere per sempre celebre. Il colloquio fu molto cordiale, durò poco meno di un’ora, ma non venne redatto alcuno scritto: furono solo fissati verbalmente i preliminari per una imminente pace. Terminato il colloquio e usciti sulla via, Francesco Giuseppe accompagnò Napoleone III sulla strada per Valeggio fino alle ultime case dell’abitato. Qui i due sovrani si salutarono nuovamente e ciascuno riprese la strada dei propri alloggiamenti. Quando si sparse la notizia che il Veneto, in virtù dei preliminari di Villafranca, rimaneva sotto il dominio austriaco la costernazione nei patrioti italiani era al culmine. Ma i più disperati erano i veneti che a migliaia erano espatriati clandestinamente per arruolarsi nell’esercito piemontese o con i Cacciatori delle Alpi agli ordini di Garibaldi e che l’interruzione della guerra, con la liberazione della sola Lombardia, li poneva al bando dei loro focolari domestici. I successivi avvenimenti politico militari, dalla spedizione dei Mille alla proclamazione del regno d’Italia, alla campagna del 1866 che concluse un’epoca, avrebbero solo rimandato di qualche anno l’ambizioso disegno del Cavour elaborato a Plombières con l’imperatore dei francesi in un altrettanto afoso luglio del 1858. (Nazario Barone)

    Monumenti

    image

    Castello. La costruzione del primo nucleo fortificato è collocabile tra il 1199 e il 1202, pochi anni dopo la fondazione di Villafranca. Distrutto durante le guerre contro Mantova, fu ricostruito nel 1243 e rinforzato con torri di guardia. Controllato dal comune di Verona, ospitava una guarnigione al comando di un castellano al soldo della città. Nel corso del Trecento, durante la signoria di Cangrande II della Scala (1345-1355), il corpo centrale fu rinserrato da una possente cortina muraria intervallata da torri mediane e angolari e circondato da un vallo, al cui interno fu fatto deviare il corso del fiume Tione. Si provvide inoltre a collegare il castello ad un sistema difensivo ancora più ambizioso, il cosiddetto Serraglio, costituito da un muro fortificato che collegava i dintorni di Nogarole Rocca a Valeggio sul Mincio, del quale rimangono attualmente solo frammenti. Perdette in seguito la sua funzione militare e si ridusse a stazione daziaria. I primi interventi di restauro datano al 1890, anno in cui fu apposto anche l'orologio sulla torre principale. All’interno del corpo centrale, lungo il corridoio di accesso, è la piccola chiesa del Cristo Re, che ospita tre grandi tele settecentesche di G.B. Lanceni. Le decorazioni e gli stucchi della sacrestia annessa, con motivi della Passione, risalgono ai primi anni dell’Ottocento.


    image

    Oratorio di San Giovanni della Paglia. L’edificio, costruito dall’ordine ospitaliero dei Cavalieri di Malta, risale al XV secolo e sorge probabilmente sul sito di un luogo di culto preesistente. Passò quindi a privati, che lo detengono tuttora. Sulla facciata è visibile lo stemma dell’Ordine (croce di Malta), mentre all’interno, di modeste proporzioni, è conservata una pala d'altare opera di A. Balestra (1666-1740).


    image

    Obelisco. Il monumento fu eretto nel 1880 in memoria dell’episodio bellico del 24 giugno del 1866, quando elementi del 49° reggimento di fanteria piemontese al comando del maggiore Ulbrich fecero quadrato intorno al principe ereditario Umberto di Savoia, difendendolo dagli attacchi della cavalleria austroungarica durante la battaglia di Custoza.


    image


    Oratorio di San Rocco. Fu eretto molto probabilmente tra il 1485 e il 1511 come ex-voto a seguito di un’epidemia di peste che aveva colpito le campagne veronesi. Presenta una struttura a navata unica con abside poco sporgente e tetto spiovente. La facciata è interamente ricoperta da affreschi attribuiti alla scuola di D. Morone (1442-1518), e riporta le immagini di una crocifissione con Maria e i Santi (tra cui Rocco) e una Madonna in trono. San Rocco è pure raffigurato nella nicchia che sovrasta il portale. L'interno conserva alcune tele del Seicento e una statua in legno della Madonna databile al XV secolo. L’edificio risulta documentato nella visita effettuata dal vicario del vescovo Matteo Giberti alla parrocchia di Villafranca nel 1525.

    image


    Duomo dei Santi Pietro e Paolo.
    La prima parrocchiale di Villafranca, della quale si hanno notizie a partire dal 1189, sorgeva al centro della cittadina dove ora è Piazza Giovanni XXIII. Nel 1786 si pose mano alla costruzione di una nuova chiesa, contingua alla precedente, ispirandosi piuttosto fedelmente al progetto della basilica del Redentore alla Giudecca di Venezia, capolavoro di Andrea Palladio. Il cantiere procedette con grandi difficoltà durante tutto l’Ottocento, tanto che fu possibile completare l'edificio solo a unità d'Italia avvenuta. Fu infine consacrato nel 1882. All'interno sono conservate preziose opere, tra le quali un coro ligneo intagliato (1736), casule, pianete e reliquari (sec. XVII-XVIII) e alcune importanti tele di Felice Brusasorzi, Brentana (1727), Coppa (1505-1665) e una Natività del Seicento. La vecchia chiesa, trasformata nel frattempo in teatro parrocchiale, fu infine demolita negli anni ’60 del secolo scorso.


    image

    Chiesa della Disciplina. Detta anche della Visitazione, la chiesa fu donata nel 1499 dal conte Giorgio Maffei alla Confraternita dei Disciplinati che, nel corso dei secoli successivi, la arricchirono e la ampliarono. Attualmente presenta un'imponente e slanciata facciata barocca, coronata da statue di Santi e da una croce alla sommità del timpano. Sopra il portale è posto un bassorilievo dedicato alla Visitazione. Ai Disciplinati è legato un gruppo scultoreo ligneo, il cosiddetto Mortuorio, conservato all’interno di una nicchia seminterrata lungo il muro sinistro dell’unica navata e visibile attraverso una grata. Composto da nove statue del XVI secolo, fu successivamente ampliato con l’aggiunta nel Settecento di altre quattro sagome in posizione maggiormente prospettica. Lungo le pareti dell’edificio è visibile una preziosa Via Crucis della seconda metà del '700, mentre sull'altare maggiore si segnala una grande pala del Seicento opera di O. Farinati.


    image


    Palazzo del Trattato e Museo del Risorgimento. Lungo Via Pace si allunga la facciata del Palazzo Morelli-Gandi-Bugna, edificio signorile di austero aspetto risalente alla metà del Settecento ma più volte rimaneggiato e ampliato. E’ dotato di cortile con barchessa e di un grande giardino botanico, di norma aperto al pubblico. Nel prospetto occidentale, lungo Via Pace, è allestita una piccola sala al cui interno s’ncontrarono l’11 luglio del 1859, pochi giorni dopo le battaglie di San Martino e Solferino, Francesco Giuseppe imperatore d’Austria-Ungheria e Napoleone III imperatore di Francia. Qui furono gettate le basi per la stipula dell’armistizio e della successiva pace che posero fine alla seconda guerra d’indipendenza italiana. Gli ambienti, di recente restaurati e riaperti alle visite, hanno restituito le forme e i colori originari. A piano terra si apre il Museo del Risorgimento, che conserva armi, stampe e cimeli appartenenti agli eserciti che combatterono le guerre per l'unità d'Italia.




    image

    Museo Nicolini
    Il Museo Nicolis ha sede a Villafranca di Verona, in un avveniristico palazzo di vetro e acciaio. Creato dall’imprenditore veronese Luciano Nicolis (a capo della holding industriale Lamacart, che opera nel settore della carta) è stato inaugurato nel 2000 e da allora sempre aperto al pubblico. Le collezioni comprendono centinaia di auto, moto, biciclette, macchine fotografiche e per scrivere, strumenti musicali, opere dell’ingegno umano, biblioteca e ricchissimo archivio storico. A fianco dell’area espositiva, priva di barriere architettoniche e facilmente accessibile ai disabili, il Museo Nicolis dispone di un Centro Congressi con aree per meeting e reception, bookshop, percorsi didattici, spazi per mostre tematiche.

    Il Museo è associato a Museimpresa (l’associazione Italiana dei Musei e archivi d’impresa promossa da Confindustria e Assolombarda); Confindustria Verona, AISA (Associazione Italiana Storia dell’Automobile); ASI (Automotoclub Storico Italiano) e a numerose associazioni industriali e territoriali.


    Aeroporto militare e civile

    image

    Non tutti sanno che... l'Aeroporto Militare di Verona-Villafranca... è cosi denominato... perchè gli Uffici Amministrativi, le Caserme, gli Alloggi e il Comando... sono tutti ubicati nel comune di Villafranca. Il sedime aeroportuale che interessa il comune di Villafranca è solo pari a circa un 15-20% del totale dell'area dell'Aeroporto.
    .
    Tutto il resto del sedime aeroportuale, la rimanente 80-85% della superficie dell'Aeroporto Militare, tra cui la pista di decollo, la pista di rullaggio, le zone di prova motori, il parcheggio degli aerei militari (quando c'erano) e gli "shelter" (quasi mai utilizzati)... sono tutti ubicati nel territorio del comume di Sommacampagna.
    .
    image

    Da ricordare poi, che in tutti questi anni, quando gli aerei militari atterravano, prima sorvolavano la pista dell'aeroporto, poi durante il secondo passaggio, sia singolarmente e/o in squadriglia, uno alla volta... viravano a sinistra e... TUTTI... sorvolavano a bassa quota il centro abitato di Caselle.
    .
    In tutti questi anni è sempre accaduto questo... gli "ONORI" a Villafranca e, invece, tutti gli "ONERI"... (e il rumore) a Sommacampagna ed in particolare... quasi tutte queste negatività... se la sono "sorbiti" gli ABITANTI di Caselle. Oggi, a dir la verità, per Caselle... rispetto a prima... quando c'erano anche i voli militari, la situazione ambientale, almeno da inquinamento da rumore... è notevolmente migliorata.


    ..i pro e i contro degli aeroporti...



    Sfogliatine di Villafranca di Verona



    dolce tipico artigianale di Verona


    image

    Le sfogliatine di Villafranca sono biscotti soffici e friabili di forma circolare, dalla fragranza burrosa e dal colore ambrato chiaro, quasi dorato.

    Territorio interessato alla produzione delle Sfogliatine: Il Comune di Villafranca, in provincia di Verona.

    La storia delle Sfogliatine di Villafranca: Nella seconda metà dell’800 a Villafranca la Pasticceria Fantoni (1870) inizia la produzione di un dolce particolarmente friabile e delicato, che fin da subito conquista il gusto degli abitanti dei paesi vicini. Da Verona, le famiglie abbienti ordinavano, per le ricorrenze, i battesimi ed i matrimoni, le sfogliatine di Villafranca. L'inventore della sfogliatina di Villafranca fu Marcello Fantoni, che la fece conoscere a tutto il mondo e prima di tutto agli uomini di cultura che abitualmente riceveva a casa sua. Fantoni e la sua tonda creatura comparvero sui giornali, sulle guide turistiche di Verona e altre città venete. Parteciparono e si distinsero in fiere ed esposizioni vincendo premi e conquistando con la dolcezza e la fragranza mille e mille palati.
    Le sfogliatine di Villafranca furono e tuttora sono citate da molti poeti, giornalisti e scrittori.
    Renato Simoni (critico teatrale) nel 1906 sul "Canal da la Scala", il giornale umoristico di Verona scrisse "La sfoiadina è tonda per amor di contrasto, essendo nata nella città del Quadrato".

    RICETTA ORIGINALE

    Ingredienti delle Sfogliatine di Villafranca: Gli ingredienti principali sono farina, uova e zucchero, oltre a burro e una mano sapiente per tirare la sfoglia.

    Processo di produzione delle Sfogliatine di Villafranca:

    image

    Dopo aver preparato l’impasto, unendo farina, uova e zucchero, eventualmente un po’ d’acqua,

    la sfoglia viene lavorata secondo il seguente procedimento che viene ripetuto più volte:

    spinatura della pasta fino ad ottenere uno strato sottile; stesura sulla superficie di parte del burro; piegatura della sfoglia su se stessa più volte. Tale procedura viene ripetuta sulla pasta per più volte a seconda di quante sfoglie si vogliono ottenere. Si procede con il taglio di strisce di pasta della larghezza di circa 25 mm.

    Le strice di pasta sfoglia vengono pi ripiegate a cerchio sovrapponendo leggermente le due estremità.

    image

    Le ciambelline vengono successivamente rullate per stenderle delicatamente con un matterello in legno.

    Le sfogliatine vengono riposte su una banda in alluminio da forno e penellate con zucchero sciolto in acqua ed albume d'uovo per poi essere infornate.

    A termine cottura le Sfogliatine di Villafranca vengono tolte dal forno e lasciate rafreddare prima di essere confezionate.

    image

    Reperibilità: Si trovano tutto l'anno presso le migliori pasticcerie di Villafranca di Verona.

    Vino da abbinare alle Sfogliatine di Villafranca: Ottime con vino passito " Recioto di Soave " o " Enantio Passito "









    Pandoro di Verona



    dolce tipico artigianale di Verona

    image

    Le origini del Pandoro di Verona non sono certe.

    C’è chi le fa risalire all’Austria dell’Impero Asburgico; sarebbero stati, infatti, i pasticcieri della Casa Reale di Vienna a preparare “l’antenato” del pandoro, rifacendosi al “pane di Vienna”, una variante della pasta brioche francese.

    Altri sostengono, invece, che sia originario della Repubblica Veneta del Rinascimento, quando le ricche famiglie patrizie consumavano un dolce chiamato “pan de oro” interamente ricoperto di sottili foglie di oro zecchino.

    Le ascendenze più certe sembrano, comunque, quelle che lo riconducono al “nadalin”, un dolce a forma di stella, che per tradizione alla fine dell’Ottocento le famiglie veronesi preparavano a Natale.

    È molto probabile che nell’ideazione di questo dolce abbiano messo lo zampino anche i pasticcieri austriaci che, a quei tempi, erano largamente impiegati nelle pasticcerie più rinomate del centro storico di Verona.

    Fin dall’Ottocento il pandoro è stato l’espressione più tipica della produzione dolciaria di Verona; oggi è consumato in tutta Italia ed è diventato, insieme al panettone, uno dei dolci tipici delle festività natalizie.

    Il nome pandoro descrive perfettamente il colore che ne caratterizza la pasta, il giallo oro, conferitogli dalle uova. La consistenza è soffice e leggera, come la pasta brioche, da cui probabilmente deriva; il sapore è delicato e leggermente profumato di vaniglia. Del “nadalin” il pandoro conserva ancora oggi la forma stellare. La sua inconfondibile struttura tronco-conica, a grandi costole disposte secondo il tipico disegno di una stella a otto punte, è ottenuta utilizzando uno stampo alto, a forma di piramide tronca, divisa in spicchi ad angolo acuto.

    Oggi il dolce pandoro di Verona è prodotto anche su scala industriale ed è venduto prevalentemente nei supermercati (circa il 70/80 per cento). Si deve a questa produzione, vasta e qualificata, se da tipico dolce regionale è diventato un prodotto noto in tutto il Paese. Ma accanto a quella industriale continua a esistere, anzi è in crescita costante, una produzione artigianale molto apprezzata dai consumatori, come dimostra il boom delle vendite, attraverso pasticcerie e laboratori artigianali, che negli ultimi anni sono aumentate più del 20 per cento.

    Gli ingredienti del Pandoro artigianale di Verona:

    Fior di farina, zucchero, uova, burro, lievito e burro di cacao. Gli ingredienti del pandoro sono semplici, ma per dare buoni risultati è essenziale che siano di primissima qualità. Insieme allo zucchero, bisogna usare farine ben riposate ed equilibrate, burro di pura panna, uova fresche. Per quanto riguarda i dosaggi, con l’esperienza ogni pasticcere può costruirsi la “propria” ricetta, ma nessuna deroga è ammessa per quanto riguarda la tecnica di lavorazione: orari e temperature devono essere scrupolosamente osservati per ottimizzare il risultato.

    Come per la pasta brioche e il croissant, la tecnica di lavorazione del pandoro è lunga e complicata: consta di tre fasi di impasto alternate a pause di lievitazione, con orari, tempi e temperature rigidamente prefissati. È difficile dare in poche righe un’idea della complessità di questa procedura; basti ricordare che ci vuole un’intera giornata per preparare tutti gli impasti necessari, facendoli lievitare alle temperature prescritte, e il lievito madre va preparato la sera precedente, fatto riposare tutta la notte e reimpastato la mattina del giorno della lavorazione.

    I momenti salienti per la preparazione del Pandoro artigianale di Verona sono:

    • primo impasto con lievito, farina, zucchero, acqua
    • secondo impasto (circa due ore e mezzo dopo il primo) con farina, zucchero, tuorli, acqua e con l’aggiunta (a tre quarti della lavorazione) del lievito di rinforzo che è stato preparato nell’intervallo fra un impasto e l’altro
    • terzo impasto (circa un’ora e mezza dopo il secondo), il più complesso e delicato, perché realizzato in tre fasi successive intervallate a momenti di pausa, durante le quali vengono incorporate al precedente impasto farina, tuorli, zucchero, acqua, poi burro di cacao e, infine, il burro.

    La pasta ottenuta, frazionata nei pesi voluti, viene lasciata riposare a 35°C per almeno mezz’ora, quindi collocata negli stampi per la lievitazione che richiederà non meno di 6 ore. Successivamente si passa alla cottura in forno.

    Prima della confezione, il pandoro deve essere perfettamente freddo e il raffreddamento può durare dalle 12 alle15 ore.

    Variazioni sul tema " Pandoro di Verona ":

    In tema di pandoro, la fantasia dei pasticceri si sbizzarrisce ogni anno per realizzare delle “varianti” che, dobbiamo ammetterlo, appaiono spesso di una golosità irresistibile. Si va dalle versioni più semplici (pandoro ricoperto o arricchito di gocce di cioccolato) a quelle farcite con creme al caffè, gianduia, nocciola, tiramisù, zabaione. L’impasto soffice di questa specialità tradizionale è utilizzato anche per comporre preparazioni divertenti e insolite: omini di neve, Papà Natale, igloo, stelle di Natale. Il tutto con l’apporto di glasse, ripieni, farce composte con impasti di gelatina, marmellata, pasta di mandorle, meringa, creme profumate al liquore.

    Infine, a tanto lavoro, deve seguire anche una degna presentazione. Ed ecco che l’arte del confezionamento aiuta a offrire questa specialità con una veste elegante che richiama i colori e le atmosfere della ricorrenza. Le aziende specializzate ogni anno suggeriscono idee nuove per poter così presentare un prodotto tradizionale dall’immagine però rinnovata.

    A che vino abbinare il Pandoro di Verona?

    Il Pandoro di Verona va abbinato al Recioto della Valpolicella (da servire a 16 gradi) oppure al Recioto di Soave (da servire a 10/12 gradi).




    Torta delle Rose di Valeggio S.M. (Verona)



    image


    La Torta delle Rose, creata per rendere omaggio alla gentilezza ferrarese di Isabella d’Este, è giunta immutata sino ai nostri giorni ed ogni cittadino del gusto ne apprezzerà la sua unicità.

    Assaporandola, scaturisce anche un senso di gratitudine verso tutte quelle persone grazie alle quali possiamo degustare un dolce che ha maturato oltre cinque secoli di vita, con gli ingredienti e la preparazione gelosamente conservati e tramandati per generazioni.

    E' tipica di Valeggio Sul Mincio (VR), una splendida località a cavallo tra le provice di Verona e Mantova, dove è servita nei migliori ristoranti della zona, accompagnata con il Passito di Custoza.

    La Torta delle Rose è un dolce di pasta lievitata, molto ricco di burro, con una forma abbastanza insolita: rotoli di pasta (le rose) farciti di una crema di zucchero e burro e disposti in cerchio a riempire la tortiera. Una variazione molto interessante della classica pasta brioche. Se volete gustare la migliore Torta delle Rose non esitate ad ordinare la nostra.

    image

    Ingredienti: Farina 00, uova, zucchero, burro, sale, lievito.
    Conservazione: In luogo frasco ed asciutto, al riparo dalla luce.

    Che vino abbinare alle Torta delle Rose?

    La Torta delle Rose si può abbinare a:

    • Recioto della Valpolicella
    • Recioto di Soave
    • Recioto di Gambellara
    • Passito di Enantio Olimpo



    Edited by tomiva57 - 11/5/2011, 13:49
     
    Top
    .
  5. tomiva57
     
    .

    User deleted


    Marmo Rosso Verona




    image

    Il marmo rosso Verona è un calcare nodulare e in quanto tale è un marmo lucidabile. La sua struttura all’interno presenta scheletri di ammoniti e rostri ed è uniforme. Il colore di questo marmo è decisamente rosso. Il marmo rosso Verona è impiegato per pavimentazioni esterne ed interne sia lucide che anticate.

    image

    Cenni Storici del marmo

    L’escavazione e la lavorazione della pietra, già praticate nell’antichità dagli Egiziani e dai Greci, presero a svilupparsi in Italia durante l’epoca romana. Il trascorrere dei secoli ha caratterizzato e distinto l’aspetto delle città italiane per l’uso dei materiali lapidei ed il culmine si ebbe durante il Rinascimento, quando crebbe la richiesta di pietre decorative. Verso la fine del 1700 l’invenzione della polvere da sparo e poi l’impiego della segatura meccanica consentirono l’avvio di una primordiale attività economica nel settore della pietra. I centri più importanti dell’industria del marmo sono quelli di Carrara e Massa, però le cave dei marmi di Verona, tengono dietro come importanza a quelle delle Alpi Apuane. E’ noto che Verona costituisce uno dei poli marmiferi più importanti e figura ai primi posti nella graduatoria nazionale dell’esportazione dei prodotti lapidei. Verso la fine del 1800, contrariamente a quanto si verifica oggi, l’attività estrattiva era diffusa nel comprensorio veronese, mentre la mancanza di una tecnologia adeguata non aveva ancora consentito lo sviluppo delle industrie della lavorazione. A quell’epoca le cave di marmi e pietre da costruzione si trovavano maggiormente concentrate a Boscochiesanuova, Caprino, Sant’Ambrogio e Prun di Negrar. Molti degli attuali imprenditori provengono da antiche famiglie di marmisti che si sono tramandate l’uso della punta e della mazzetta fino all’avvento delle moderne tecnologie. Successivamente la aziende, che nel frattempo avevano investito grandi capitali nelle moderne tecnologie, diventano in grado di effettuare la lavorazione anche di molte rocce dure, di tipo granitico, per cui oggi Verona trasforma sia marmi che graniti provenienti da tutto il mondo.

    image


    Caratteristiche tecniche del Marmo

    La definizione commerciale di marmo molto spesso non corrisponde all’analogo termine petrografico. Sotto il nome di marmo vengono commercializzati parecchi tipi di roccia. Accanto ai marmi propriamente detti, costituiti da calcari metamorfici ricristallizzati, tipo Carrara, vi sono altre rocce provenienti da diversi bacini estrattivi italiani. Per ragioni di semplicità si potrebbe raggruppare i molti materiali lapidei commerciati in provincia di Verona nelle categorie principali di marmi, graniti e pietre. A questi vanno aggiunti i marmi agglomerati, prodotti artificialmente, meno costosi e con buone caratteristiche tecniche. Nell’impiego del marmo non bisogna dimenticare che si tratta, prima di tutto, di un prodotto naturale. La scelta del materiale va fatta con cura, confrontando le proprietà specifiche di ciascun tipo, con le sollecitazioni cui si prevede sarà sottoposto. La bellezza del marmo sta anche nella naturale variabilità che, se opportunamente studiata durante la posa, può dare apprezzabili effetti figurativi. Il colore del marmo è dato dalla presenza di minerali impuri come l’argilla, la sabbia, il limo e gli ossidi di ferro che durante il processo di metamorfosi della roccia sedimentaria, vengono ricristallizzate per effetto del calore e della pressione. Il colore bianco di alcuni marmi è dato dalla metamorfosi di rocce calcaree prive di impurità. Il marmo viene estratto dalle cave con seghe diamantate o avvalendosi della tecnica dell’acqua pressurizzata dopodiché viene lavorato in lastre piane, il cui spessore varia da un minimo di 1 cm, fino ad un massimo di 30 cm. Una lastra di marmo che presenta uno spessore superiore a 30 cm. Prende il nome di “massello”. Le lastre di marmo si usano come finitura per rivestire pavimenti e talvolta pareti, per farne ornamenti, scale ed altri accessori in marmo.

    image

    Applicazione del marmo
    Pavimentazioni, manufatti per l’edilizia e l’arredamento, rivestimenti si interni che esterni



    Edited by tomiva57 - 11/5/2011, 13:49
     
    Top
    .
  6. tomiva57
     
    .

    User deleted


    IL/ LA BASSA VERONESE



    LA STRADA DEL RISO

    Vigasio




    image

    Storia

    Situato nella fertile pianura detta Bassa Veronese, Vigasio vede derivare probabilmente il suo nome da “vicus atii”, ovvero città degli Attii. Il paese è attraversato dal Fiume Tartaro, nome che compare anche nelle storie del poeta latino villa - clicca per ingrandireTacito,che parla di “paludes tartari fluminis”, nel cui letto furono raccolte, a cominciare dal 1000, le acque dei fontanili. Fu importante nella storia perché nodo di comunicazione, trovandosi sulla strada consolare romana che congiungeva Mantova a Verona. Numerose armi ed utensili celtici sono state trovate in varie zone, in particolare nei pressi della località Campagna Magra, dove sono venuti alla luce una spada e una serie di tombe, con ricchi corredi di vasi e spade.

    Nei primi secoli dopo Cristo, il terreno su cui ora sorge Vigasio era prevalentemente paludoso. Furono i Frati Benedettini ad iniziare una grandiosa opera di bonifica. Il gambero, presente nello stemma comunale, indica la vasta presenza dal crostaceo nel luogo quando il terreno era ancora ricoperto dalle paludi. Accanto ad esso si può notare una rapa, simbolo che ricorda i primi prodotti frutti della coltivazione delle poche terre allora emergenti dalle paludi.

    Le prime notizie certe su Vigasio risalgono però solo al 1014, quando l’imperatore Enrico II stabilì che il territorio doveva appartenere all’abbazia di San Zeno di Verona. Nel 1164 l’imperatore Federino Barbarossa, venuto in Italia per opporsi alle ribellioni di alcuni comuni, si scontrò sui prati di Vaccaldo, una corte sita lungo la strada che da Vigasio va verso Castel d’Azzano, con le truppe comunali della lega veronese, che lo sconfissero.

    image

    villa Guerrieri, frazione Isolalta - clicca per ingrandireNel 1226 Vigasio si costituì ufficialmente come comune. Esiste infatti uno statuto, risalente a quell’epoca, che è un significativo esempio di ordinamento giuridico di un comune rurale. A quei tempi era sviluppata non solo l’agricoltura, ma anche la pastorizia. A capo del comune c’era il Decano, affiancato dai consiglieri, con il Massaro, ovvero l’amministratore, e il Saltaro, che regolava lo sfruttamento di boschi e pascoli.

    Sotto la Repubblica Veneta, dal 1405 al 1797, Vigasio fu centro di importanti commerci, e fu anche sede di un prestigioso vicariato. Il municipio era ubicato in piazza ove ora esiste l’osteria del Leone, e in facciata riportava un affresco raffigurante il leone di San Marco, simbolo della Repubblica Veneziana. Nei piani superiori dell’edificio che ospitava il municipio si amministrava la giustizia, ed esiste ancora oggi la cella con il soffitto a volta nella quale erano rinchiusi i condannati.


    image

    Nelle zone in precedenza occupate dalle paludi si insediarono successivamente le risaie. In paese esistevano otto pile per la lavorazione del riso, azionate dai corsi d’acqua che irrigavano i campi. I corsi d’acqua stessi erano di proprietà delle aziende che possedevano la terra e coltivavano il riso, tanto che ancora oggi alcuni proprietari di fondi agricoli vantano antichi diritti su corsi d’acqua per l’irrigazione dei propri campi.

    pista ciclabile - clicca per ingrandireSeguirono grandi opere di disboscamento, che lasciarono spazio alle colture di gelsi, utili per l’allevamento dei bachi da seta. Tale attività fu di grande importanza per il paese fino alla seconda guerra mondiale, tanto che era sorta una filanda, fonte di guadagno e occupazione. Nel dopoguerra l’economia di Vigasio si è maggiormente differenziata, e il territorio ha visto sorgere vari insediamenti industriali di piccole e medie dimensioni.





    Zevio



    image

    Zevio, nella pianura veronese, in destra Adige, è oggi un Comune di oltre diecimila abitanti distribuiti, oltre che nel capoluogo (con Baiardina, Filovo, Lendinara e Sabbionara), nelle frazioni di Bosco (con Ca’ dell’Ora Alta, Ca’ dell’Ora Bassa, Santo Spirito e Zinzalle), di Perzacco (con Rocchi e Villabroggia), di Santa Maria (con Corte Rivalunga, Deiolo, Fenil Molino, Maffea, Pontocello, Punta, Roversola, San Procolo e Tre Ponti), e di Volon (con Griffe).

    Luogo abitato fin dalla Preistoria, numerosi furono anche i reperti archeologici che esso restituì per l’Alto Medioevo, in particolare a Santa Maria, in località Giare e in località Pila. Un’ascia piatta e una cuspide di lancia dalla sagoma rozza e frammenti d’umbone e dell’impugnatura di uno scudo vengono fatte risalire al secolo settimo per la forma dell’umbone e dell’impugnatura, mentre una completa guarnizione bronzea di cintura potrebbe essere datata aI secolo ottavo.

    Negli ultimi cent’anni e fino all’ultimo dopoguerra il territorio, abbondantemente irrigato, produceva gran copia di cereali, di vino, di foraggi e di riso. II gelso vi era coltivato su larga scala e la barbabietola da zucchero vi faceva ottima prova. Notevole era pure l’industria casalinga nella fabbricazione di legni per zoccoli e più ancora quella dei canestri in vimini per uso dell’industria e dell’agricoltura dei quali ogni anno, alla fine dell’Ottocento, si confezionavano trecentomila capi.

    Allora, sempre alla fine dell’Ottocento, vi era, in Zevio, anche una filanda a vapore di bozzoli di seta e un molino idraulico a cilindri per la macinazione dei cereali, mentre erano ancora in funzione parecchie pile da riso delle molte che troviamo registrate in documenti anche cartografici precedenti e recentemente resi noti dal Chiappa, come la Pila Rizzardi di Santa Maria, Curti al Volon, Spolverini di Zevio.

    image

    Anche l’Adige era fonte di ricchezza; vi si scavava una prodigiosa quantità di ghiaia che veniva trasportata fin nel lontano Polesine per la manutenzione di quelle strade. E attraverso l’Adige, oltre che per via di terra, si commerciava la frutta, specialmente pesche e mele, e legna da ardere. E all’Adige si pensava, allora, come grande fonte di forza idraulica, la quale, con l’abbondanza di manodopera e l’indole definita “mitissima” della popolazione, indicava Zevio quale luogo assai opportuno all’impianto di qualche industria.

    Poi, si sa, anche qui come altrove, passò il ciclone dell’ultima guerra, ma passò soprattutto il ciclone di una rivoluzione economica e culturale che segnò la fine di un’epoca, quando, anche qui come altrove, gli abitanti vivevano quasi tutti del lavoro nei campi, del resto assai fertili e produttivi, o d’industrie comunque connesse alla terra, in parte irrigata. Nacquero e si svilupparono attività artigiane e commerciali di un certo peso: quelle attività che dopo l’esodo di molta popolazione locale verso centri più industrializzati della città di Verona (e della sua corona) permisero un rilancio economico di tutta la zona.

    Si è detto dell’Adige e della sua importanza nell’economia zeviana. Ma l’Adige è tuttora – anche se un tempo lo fu di più – un elemento assai importante dello stesso paesaggio: qui, infatti – come dal Pestrino, attraverso Pasquara e San Giovanni Lupatoto, oppure sull’altro lato dai Molini di San Michele, attraverso Belfiore, giù fino a Zevio e sull’opposta sponda allo Zerpano – l’Adige è veramente un incanto. Il suo scorazzare per la pianura ha lasciato qui segni vistosi in rive e isolotti ghiaiosi dove sussistono resti di quegli antichi boschi fluviali che i documenti medioevali ci ricordano come ancora estesissimi, accanto a paludi altrettanto estese.

    Percorrere le due opposte rive è per tutti, specie quando si sia provvisti di un minimo di cognizioni storiche e geografiche, la scoperta di un mondo che non si pensa possa ancora esistere: un mondo quasi senza tempo, comunque pressoché non contaminato dall’odierna civiltà. E tale impressione possiamo cogliere in particolare nei paesaggi che il fiume ci offre a monte e a valle di Zevio, con le ampie golene, le due biforcazioni e gli isolotti ricchissimi di vegetazione. E ciò anche a Zevio stesso dove un tempo il fiume, meno infrenato che al giorno d’oggi, scorreva più vicino al borgo e copriva quell’ampia golena che ora lo separa dal paese (ai tempi di Roma, a giudicare dalle iscrizioni latine e dall’abbondante materiale rinvenuto negli scavi, il luogo era addirittura abitato).

    Grandissima importanza dunque per Zevio ebbe comunque, in ogni tempo, l’Adige, che qui raggiunge la sua massima larghezza (metri 260). Qui il fiume si biforca in due rami che si alternano, a vicenda, il predominio; per un certo periodo rimane più abbondante quello dl destra, poi diventa più ricco quello di sinistra. I due rami circondano un isolotto di circa ottocento metri di lunghezza, con una media di cento metri di larghezza: un paesaggio insomma veramente, anche oggi, incantevole, anche se non si possono certo fare confronti con quello che doveva essere nei secoli scorsi, quando il fiume lambiva lo stesso castello costruitogli a ridosso nel sito più largo e naturalmente più facilmente guadabile.


    image

    Il castello di Zevio fu, nel secolo XVII, trasformato in villa dai Sagramoso che vi conservarono però, attorno, il vallo nel quale scorre tuttora l’acqua dell’Adige e lo spazio antistante il palazzo nel 1882 era coltivato a frutteto modello, sperimentale, diretto da appositi maestri, i quali soprintendevano anche all’allevamento dei pesci nella fossa attorno all’edificio. Oggi invece vi si ammira un suggestivo parco e il palazzo ospita la sede del Comune di Zevio. Il castello medioevale fu anche dei Trivulzio, antica famiglia milanese e venne smantellato da Francesco Sforza nel 1438. Circondata da un fossato la parte di rocca rimasta in piedi venne adattata ad abitazione privata su disegno di Adriano Cristofoli(1717-1788). Ma si favella ancora di sotterranei, di prigioni e di ponti levatoi.

    Zevio – anche se è ormai accertato che non fu la patria del pittore Stefano, detto appunto da Zevio sulla scorta di un’errata indicazione del Vasari, – dette senz’altro i natali ad una Santa: Toscana, forse della nobile famiglia dei Crescenzi, nacque, infatti, in questo borgo al tramontare del secolo decimoterzo e finì sposata e quindi ancor giovane, vedova di Alberto Occhi di Cane. Una santa che, ritiratasi poi dal mondo e conducendo una vita di preghiera, sparse la sua fama subito e ovunque: tre giovani che entrarono nella sua casa con male intenzioni caddero tramortiti a terra ed ivi rimasero fintanto che ella non ottenne loro da Dio il perdono.

    Stabilitasi presso la chiesa del Santo Sepolcro a Verona, Toscana trascorse, poi, in qualità di suora dell’Ordine Gerosolomitano di Malta, il resto della sua esistenza, assistendo gli ammalati del vicino ospedale. Nel luglio del 1343, a cinquant’anni circa, la santa morì e il suo corpo, come ella stessa aveva comandato, fu seppellito a Verona sotto la pubblica strada nei pressi della chiesa e dell’ospedale dove essa aveva operato tanto bene. I continui miracoli e I’accresciuta venerazione dei veronesi che accorrevano in folla a pregare sulla sua tomba, convinsero subito I’autorità ecclesiastica a trasportare all’interno della chiesa del Santo Sepolcro i resti della santa: il solenne trasporto avvenne il 29 settembre dello stesso 1343 con la collocazione del sacro deposito nell’arca di marmo che anche attualmente accoglie le venerate ossa.

    Santa a furor di popolo – cioè senza particolari processi canonici -ebbe poi Messa propria e proprie letture nel Breviario e meritò anche che nel 1474 Gelso Dalle Falci ne scrivesse una biografia che è la fonte principale di notizie cui attingono anche i moderni agio- grati. Dalla sua chiesa – detta appunto di Santa Toscana – il culto si estese in tutta la diocesi di Verona: altari a lei dedicati e sacre immagini che ne raffigurano le sembianze si trovano in molte chiese dell’agro veronese dove, fin dai tempi del vescovo Alberto Valerio (e la testimonianza è anzi sua) “la santa … è venerata con grande pietà e devozione”. Quella che veniva indicata come la casa natale della santa a Zevio fu trasformata nel 1637 in oratorio, restaurato nel 1850 per avere gli zeviani ottenuto dalla patrona la liberazione dal colera.

    Sempre qui, nel 1832, venne eretta in piazza una colonna marmorea con una statua di Santa Toscana, opera dello scultore Grazioso Spazzi. Ma è pure a Zevio che fino agli ultimi anni del secolo scorso sgorgava, sotto l’attuale chiesa del cimitero, una fonte dalle cui acque, per intercessione della santa, si ottenevano effetti miracolosi: in periodi di epidemie venivano ad attingere a questa fonte gli abitanti di tutti i paesi delle Basse.

    A Zevio, nel giorno della festa di S, Toscana, il 14 luglio, si benedicevano anche piccoli panni, nonché l’acqua, nella quale fino al 1926 si immergeva un dente della santa, poi smarrito. E nel 1882, il 20 settembre, santa Toscana salvò Zevio dall’Adige in piena quando il fiume invece di rompere l’argine sul punto già traballante e pericoloso di Zevio, squarciò presso San Giovanni Lupatoto, alle Bocche di Sorio, disperdendo poi le acque limacciose nelle vallate del Vallese e del Palù. Allora gente del porto avrebbe addirittura visto l’immagine di santa Toscana apparire splendente sulle acque.

    A ricordo di questo fatto miracoloso fu dipinta una tela che traduce il momento culminante del pericolo e ogni anno, il 20 settembre, Zevio ricorda ancora la promessa fatta a Santa Toscana in quelle terribili circostanze, e la grazia ottenuta.






    Il riso delle Valli Veronesi





    Le risaie, un tempo onnipresenti nel paesaggio della campagna veronese, rappresentavano fino a pochi decenni fa uno dei pilastri dell’economia locale e di quella del territorio di Oppeano. Il riso vialone nano veronese, recentemente insignito del marchio IGP ( indicazione geografica protetta ), viene coltivato ancora oggi nelle risaie secondo le tecniche tradizionali, nonostante l’utilizzo di attrezzature moderne che aiutano i coltivatori nello svolgimento dei propri lavori. Il ciclo annuale del riso, che prende il via con la semina all’inizio della primavera, prosegue per tutta l’estate. La vita della pianta di riso inizia nell’acqua, quando il seme resta così protetto dalle gelate. Successivamente l’acqua viene fatta uscire dai campi, per permettere alla giovane piantina di ancorare le proprie radici al terreno. Inondazioni e secche si alterneranno poi lungo tutto il ciclo di vita della coltivazione, seguendo i ritmi secolari impressi all’uomo nella coltivazione di questo prezioso alimento. Grazie al marchio IGP la qualità del riso vialone nano è oggi ancor più controllata, per offrire ai consumatori un prodotto di qualità, frutto del lavoro e dell’esperienza dei coltivatori che per secoli hanno lavorato nelle terre del basso veronese, attorno a Oppeano e nei territori dei comuni limitrofi.




    Oppeano



    l fiume aveva forse favorito l’insediamento dei primi uomini: in questa zona sono stati infatti trovati nel 1918 alcuni resti di palafitte. La palafitte, unite alla terraferma da due passerelle, risalgono probabilmente all’età del bronzo ( 1400-1300 a.C. ). Il ritrovamento di vasi chiusi da coperchio contenenti cenere e oggetti metallici fanno pensare alla presenza di varie necropoli, individuate nelle zone della Mortara, di Ca’del Ferro e del Franchino.image

    Le origini e i ritrovamenti

    Rappresentazione dell'elmo di OppeanoFino all’insediamento degli uomini, avvenuto nel neolitico, la pianura padana era coperta da immense foreste. Ciò è testimoniato dai nomi delle località, come Cadeglioppi, che deriva da Domus Oppiorum, ovvero dall’oppio, un albero della famiglia degli aceri usato sin dal medioevo come sostegno per le viti. Le zona infatti in cui sorge Cadeglioppi era caratterizzata da una vegetazione abbondante di oppi, querce, nocciole ed olmi, ed era attraversata dall’Adige, che scorreva in località Feniletto.

    La presenza del bosco vicino a

    La zona bagnata dall’Adige era attraversata dalla cosiddetta “via dell’Ambra”, proveniente dal Mare del Nord e diretta all’Adriatico, seguendo i percorsi dei fiumi. Operano era allora insieme ad Este e Padova, uno dei centri più importanti della civiltà dei Veneti antichi. Gli oggetti trovati nelle necropoli attorno ad Oppeano sono oggi conservati in vari musei: a Roma, ad Este, a Verona, a Legnago, dove è riposto un cinturone, e a Firenze, dove si trova il famoso elmo di bronzo di Oppeano ( vedi foto ) del secondo periodo della civiltà atestina. Si tratta di un elmo particolarmente raro, caratterizzato dalla forma conica e dalle curiose decorazioni, dove è rappresentata una serie di cavalli ed uno strano quadrupede alato con la testa e le gambe anteriori di un uomo.

    image

    Anche nel paese di Oppeano sono conservati alcuni reperti, presso un deposito museale che può essere visitato. Ancora oggi sono in corso ricerche di superficie sul territorio del comune a cura dell’Università degli Studi di Verona.
    Il “castrum euppedanum”

    Dopo la rotta della Cucca ( 589 d.C. ) e la deviazione del corso del fiume Adige, gli abitanti si trasferirono sulla fascia di terra prosciugata, e così nell’alto medioevo nasce il Castrum Euppedanum, un campo trincerato che in età feudale e comunale verrà rinforzato e completato con un modesto castello. Di questo rimane ad ovest della piazza odierna la torre mutilata e quasi irriconoscibile.

    image

    Dopo aver vinto il Barbarossa, Verona diventa libero comune e include nel proprio distretto Oppeano e Mazzantica e nel 1100 decide di bonificare la palude che da Vallese, lungo il Bussè, giungeva fino a Ronco. Nel 1230 Ezzelino da Romano, condottiero di Federico II°, occupò Verona e tre anni dopo vinse ad Oppeano i mantovani. Nel maggio del ’34 i mantovani diedero però alle fiamme il paese, assieme a molti altri del circondario. Scomparso poi Ezzelino da Romano, Verona passò sotto gli Scaligeri. Il distretto Veronese era suddiviso in comuni rurali, amministrati da un massaro e gli abitanti erano considerati non cittadini ma rustici. Resti della torre di Ezzelino, in via RomaNel 1384 Oppeano con le sue frazioni Cadeglioppi, Mazzantica, Vallese fu incluso nel capitanato di Zevio. La signoria Scaligera quando aveva bisogno di prestiti si rivolgeva ai cittadini più ricchi e, non potendo poi ripagarli, concedeva ad essi parte dei propri territori. E così avvenne per Mazzantica, Cadeglioppi e Vallese, dove le famiglie Maffei, Pompei, Fracastorio, Bongiovanni e Mocenigo divennero di buona parte del territorio. Dal 1405 al 1796 il territorio fu dominato dalla Repubblica Veneziana e uno dei principali aspetti di questa epoca fa bonifica dei terreni ancora incolti, paludosi o boscosi, da destinare alla coltivazione. Dopo la bonifica, ultimata nel ‘600, si sviluppò un organizzazione agraria legata alle grandi corti rurali, che dal ‘500 fino ai giorni nostri assunsero un’importanza fondamentale per l’economia locale. Furono incrementate la coltura del riso e l’allevamento del baco da seta. Nel 1628 il Comune di Oppeano rivolge una petizione al Doge, in cui viene chiesto che parte dei terreni ridotti a pascolo possano essere destinati alla semina della segnale per permettere di sfamare i propri cittadini. Nel 1630 la peste colpì duramente Verona e il suo territorio, e fece ad Oppeano 741 vittime su 1863 abitanti. Oltre che le proprietà terriere, venivano date ai privati che facevano cospicue offerte, i titoli nobiliari. E con i nuovi nobili sorsero in tutto il Veneto sfarzose dimore, tuttora visibili anche ad Oppeano. Dopo la caduta della Serenissima, le truppe di Napoleone Bonaparte si accamparono a Vallese, Cadeglioppi e Feniletto. Nel 1809 Oppeano partecipò all’insurrezione del Veneto. Dopo il congresso di Vienna, passato sotto il regno Austriaco, il Basso Veronese subì gravi sacrifici e molti danni. Ancora una volta ad Oppeano prese vita una ribellione, per quale furono fucilati alcuni uomini. Terminato il dominio absburgico e dopo l’unificazione del Veneto al Regno d’Italia, si verificarono grossi problemi politici, sociali ed economici: il colera, la depressione economica, la disoccupazione spinsero la popolazione ad emigrare. Fu modificato il tipo di coltivazione: al posto del gelso e della vite presero piede il riso e i cereali. Gli abitanti in quell’anno erano 2871. Si moriva di malattie come la malaria e la pellagra, e la mortalità infantile era ancora molto alta. Durante il fascismo fu continuata la bonifica della zona valliva e nacquero cinque aziende di tabacco. Bisogna però arrivare all’ultimo dopoguerra per vedere la nascita di alcune fabbriche artigianali di lavorazione del legno, di confezioni, di laterizi e calzifici.

    La Corte rurale

    image

    Chiesetta di Corte Domenicale Turco in Piazza, oggi proprietà Anti Per difendersi dai briganti che assalivano le campagne e per costituire un unità abitativa autosufficiente, nacquero nel ‘400-‘500 le corti, caratterizzate essenzialmente dalla torre colombara, l’elemento abitativo-difensivo per eccellenza, circondata da massicce mura di cinta.

    Tra la seconda metà del ‘500 e il ‘600 tali costruzioni si andarono sviluppando anche per la diffusione della risicoltura e l’aumento del prezzo dei cereali. Esse erano costituite dalla casa del padrone e dalle case dei lavoranti e inoltre vi si trovavano le strutture che contenevano la stalla, il fienile e il portico. La caneva era una struttura minore dedita alla conservazione del vino; vi erano inoltre una ghiacciaia, i pollai, il forno, il brolo ( giardino ) e l’orto, e a volte anche una cappella privata, il tutto disposto attorno alla grande aia. Talora in queste corti a cavalli di un corso d’acqua si trovava anche una pila per la lavorazione del riso. La torre colombara solitamente era a base quadrangolare, con muri spessi e sviluppata su tre piani. Il piano terra serviva come deposito per gli attrezzi o come stalla, il primo piano era occupato dall’abitazione, mentre l’ultimo era dedicato alla nidificazione dei colombi. Se fino alla fine del ‘600 le case rurali erano caratterizzate da una certa sobrietà, verso la fine del secolo divennero per molti proprietari case di villeggiatura e i giardini assunsero le sembianze di bellissimi parchi in stile inglese. Corte ruraleDi solito la parte anteriore del fabbricato, esposta a mezzogiorno, era costituita da porticati che servivano per essiccare i cereali. Sorsero dunque tra il ‘500 e il ‘600 le prime barchesse che, per la volontà dei proprietari di migliorare la qualità estetica delle proprie residenze, divennero sempre più curate ed arricchite da decorazioni.



    Nogarole Rocca

    image

    La storia

    I primi insediamenti umani sul territorio di Nogarole Rocca sono stati rilevati lungo le sponde del fiume Tione in localita “Corte Vivaro”, in frazione bagnolo. Dagli scavi effettuati sono emersi resti di un insediamento preistorico caratterizzato da focolai, da una discreta varieta di forme ceramiche, ossa lavorate, bronzi e da una tavoletta enigmatica fittile. E’ stata ritrovata anche una struttura circolare costituita da grossi ciottoli disposti in cerchi sovrapposti (esplorata fino alla profondita di mt. 200 di cui si ignorano le funzioni. Su questo sito e stato istituito un vincolo archeologico da parte della Soprintendenza dei Beni Ambientali e culturali con decreto in data 27.10.1977. Dell’epoca romana e stata ritrovata in loc. Varano, un’epigrafe riguardante un centurione della legione Flavia Firma, la XVI° costituita da Vitelllio. Nel 933, durante il regno di Lotario II°, sono giunti dalla Francia i “Nogarola” che, in seguito, hanno costruito il castello che da loro prese il nome ed a cui sono state legate per tanti secoli le vicende di questo territorio. Su pergamene dei secoli successivi, che parlano del basso Veronese, vengono citati in varie occasioni i nomi dei nobili “De Nogarolis”.

    Bisogna tuttavia giungere alla meta del XIII° per poter interpretare con una certa sicurezza come i signori di Nogarole, possedevano questo “costrum” (Rocca) e altre proprieta nelle vicinanze e come tali proprieta venissero ripartite fra un BONAVENTURA ed un PIETRO e ZANFREDINO suo figlio intorno all’anno 1248 I conti di Nogarole avevano possedimenti in Verona e furono abili diplomatici durante la stipulazione della pace fra Ezzelino ed il conte di Sanbonifacio. Sul finire del XIII° secolo, in Verona, esistono due famiglie “De Nogarolis” dello stesso ceppo: una a capo a Zanfredo, l’altra ad Antonio. Di Zanfredo ci e noto che l’11 settembre 1277 testo, nominando eredi i figli BARTOLOMEO, BAILARDINO ed ANTONIO. Alla morte di Ezzelino dei Romano e nominato “capitano del popolo”, da MASTINO DELLA SCALA che puo essere considerato l’iniziatore della Signoria Scaligera e che fu ucciso da un gruppo di congiurati, sotto il volto dei CINTURARI nelle vicinanze di Piazza Erbe in centro a Verona. Antonio si lancio in sua difesa contro gli assalitori, colpendoli a morte con la propria spada, ma cadendo egli stesso trafitto. Questo gesto supremo di fedelta del casato dei Nogarola favori l’imparentamento con gli Scaligeri.

    Bailardino infatti, divenne cognato di Cangrande Della Scala sposandone la sorella Caterina. Strettamente legato da vincoli politici, e di sangue, con gli scaligeri e certamente con il loro tacito consenso, Bailardino permise a Matteo Visconti, in fuga da Milano, di rifugiarsi in Nogarole, dove visse per cinque anni, fino cioe alle discesa in Italia di Enrico VII di Lussemburgo. Nel 1311, Bailardino si reco a Milano per rendere omaggio al nuovo imperatore. E’ significativo inoltre il fatto che proprio nel castello di Nogarole fu steso l’atto di procura con il quale Mastino II incaricava il suo medico FRANCESCO RUGOLINO a trattare la pace con Venezia. Al termine del conflitto VENETO-FIORENTINO-SCALIGERO che fiacco la potenza dei signori di Verona, quasi settantenne, BAILARDINO NOGAROLA, detto il suo testamento il 6 Maggio 1339 al notaio ENVERARDO CHIAVICA. Due anni dopo (1341) i BAGLIONI, amici degli scaligeri mossero guerra ai GONZAGA; SIMONE GUIDO ed AZZO da CORREGGIO, alleati dei signori di Mantova ne approfittarono per scacciare gli Scaligeri da Parma. Mastino II temendo che fossero stati i Gonzaga a spingerlo a cio, riunito un forte esercito, si porto nel mantovano arrecandovi gravi danni. Filippo Gonzaga, non volle essere da meno e col suo esercito saccheggio il territorio Veronese ed a Nogarole vi fu uno scontro a seguito del quale gli Scaligeri dovettero ritirarsi. Il rinnovarsi di tali scorrerie indusse Mastino II (1345) alla costruzione di una muraglia, rinforzata da torri, che partiva dal castello di Villafranca e a nord si spingeva fino a Valeggio, ed a sud giungeva a Nogarole Rocca. Finita la signoria Scaligera, con l’avvento (1405) della dominazione Veneziana, Nogarole segui i destini della Serenissima, diventando sede del vicariato e badando alle proprie fortune. L’urto dei Gonzaga contro lo stato Veneto si fece piu aspro intorno all’anno 1441: “Carlo Gonzaga”, figlio del Marchese di Mantova, fece demolire un lungo tratto della muraglia di confine tra Villafranca e Nogarole, mise a soqquadro Isola della Scala ed attacco i castelli di Sanguinetto e Valeggio. Nel 1446 muore a soli 38 anni la poetessa ISOTTA NOGAROLA, appartenente alla stessa famiglia (le sue spoglie sono in una tomba nella chiesa di Santa Maria Antica a Verona). Nogarole Rocca fu al centro di numerose azioni di disturbo conseguenti ed altre guerre disastrose, come quella che ebbe il nome all’inizio del 1550 di “Coalizione di Cambray). Fu appunto in quel periodo che l e milizie veneziane, in pieno inverno, ripartirono da Legnago e vennero a Vigasio e di qui a Villafranca ed a Nogarole, spingendosi alla fine della terra bresciana, Ma ben piu grave dei danni subiti dalle invasioni fu la peste, che scoppiata nel 1630, in occasione dell’assedio del ducato di Mantova, causo gravi perdite umane. A seguito di queste vicende, la situazione economica del paese era miserevole e la ripresa fu assai lenta anche se non ci furono altri gravi fatti fino all’Unita d’Italia. Nel 1690 inizio l’opera di bonifica condotta nelle risorgive di Nogarole Rocca e nell’alveo del fiume Tione. questi lavori apportarono notevoli vantaggi alla salute degli abitanti, prima compromessa da quei terreni paludosi. L’opera di bonifica continuo nei secoli seguenti, favorevole lo sviluppo delle prime coltivazioni di riso e della gelsicoltura per l’allevamento del baco da seta

    image



    Nogara



    image

    Secondo lo Stanghellini il nome del paese deriva da “Nucaria”, “Nux” (noce). Il nome, infatti, appare nel vecchio stemma comunale e in qualche stampa antica. Era il Castrum Nogariae, chiamato anche Duae Robores Il territorio di Nogara ebbe importanza fin dalla più remota antichità. Nei tempi preistorici fu una terramara, i cui terramaricoli vivevano su palafitte, lontani dalle acque su tereno paludoso; praticavano l’agricoltura, plasmavano oggetti di ceramica, usavano la cremazione dei cadaveri. Nell’epoca preromana fu abitato da popolazioni venete-euganee che ebbero per centro della loro civiltà Este; ma ci dovevano essere anche Reti, Etruschi del Nord. Molto probabilmente intorno a Nogara fu più numeroso l’elemento Veneto-Etrusco. L’importanza del territorio di Nogara nei tempi romani ci è rivelata da iscrizioni, rovine, medaglie, amuleti, monete, cippi venuti alla luce in epoche e luoghi diversi. Campalano, il più ricco di reliquie romane, ha la chiesa sulla cui facciata sono infisse quattro stele funerarie appartenenti tre alla gens Trutedia e la quarta ad un certo Cecilio Olimpio. È facile congetturare che Campalano nei tempi romani fosse il centro demografico più importante. Nogara, nel luogo ove è oggi, sorse nel Medioevo e la sua esistenza si ricollega al castello e alla chiesa. Le prime notizie documentate su Nogara risalgono ai primi anni del 900 ai tempi di Berengario, quando il re, ad istanza del conte Anselmo, dona (nel 905) al diacono Audiberto una cappella in onore di San Pietro (attuale Chiesa Parrocchiale di Caselle) posta nella corte delle due Roveri e un Manso di terra in località Roncoboniaco; e l’anno dopo gli permette di costruire un castello per difesa degli Ungari, sul Tartaro, tra la corte delle due Roveri e la villa Tilliano con “piena e assoluta giurisdizione”. Il conte Anselmo l’anno 908 riceve in dono dal diacono Audiberto metà del castello di Nogara e due anni più tardi, nel 910, dal re Berengario, la corte delle due Roveri ed alcune terre a Rovescello. Il conte Anselmo dona a sua volta ai monaci di Nonantola (famoso monastero benedettino in provincia di Modena), l’anno stesso (910) tutti i beni e i diritti che aveva ricevuto dal re Berengario nella corte delle due Roveri e a Rovescello e l’anno dopo (911) la sua metà del castello di Nogara. L’altra metà del castello apparteneva alla contessa Richilda, figlia di Gisilberto, conte di Bergamo, sposa di Bonifacio, duca e marchese della Toscana. In uno strumento del 1017 Richilda e Bonifacio promettono di cedere dopo la loro morte ai monaci di Nonantola la chiesa di S. Silvestro che essi possedevano in Nogara. Richilda morì senza prole e forse fu sepolta nella chiesa medesima. In quegli anni la Badia di Nonantola ebbe in dono da Bonifacio l’intero castello di Nogara, di cui prima possedeva soltanto la metà, e la Chiesa di S. Silvestro. La contessa Matilde, che successe al padre Bonifacio, nel 1088 confermò ai monaci il possesso del Castello. La residenza di Nogara fu celebrata dal poeta Donizone, monaco e confidente di Matilde di Canossa (“Civibus accitis secum veronesium, ivit vallavit castrum Nogariae, forte vel amplum”). Nel maggio del 1404 Antonio e Brunoro della Scala, nell’estremo tentativo di non perdere la Signoria di Verona, occuparono la rocca di Nogara cacciandone il presidio messo dai visconti. Ma il danno maggiore al castello venne apportato nel 1509 nella guerra della lega di Cambrai, quando spagnoli e borgognoni in ritirata lo bruciarono. Il contagio del 1630 fece numerose vittime. L’anno successivo, al controllo dei magistrati addetti alla sanità risultarono vivi 539, morti 276 su 815 abitanti. Nel Seicento i bravi di manzoniana memoria c’erano un po’dappertutto; Nogara aveva i suoi bravi, in dialetto “buli”. Però questi buli, più che bravi al servizio di Signori prepotenti, erano alle volte piccoli proprietari che si circondavano di brutti elementi sfuggiti alla giustizia, per esercitare la loro tirannia sugli inermi braccianti. A tale proposito si ricorda che il 19 luglio 1682, nel giorno di sagra in Nogara fu ucciso il conte Verità-Poeta e la domenica del 3 settembre dello stesso anno, il conte Guarienti. Entrambi da “buli”. Nei primi anni del Settecento, dirante la guerra di successione, combattendo Galli-Ispani da una parte e Austriaci dall’altra, Nogara sofferse dello stato di guerra e del passaggio di truppe facili al saccheggio. Nogara, coi Francesi repubblicani, fece parte del Governo Centrale Legnaghese. Dopo il 1815 l’Austria, venuta in definitivo possesso del Veneto, divise la provincia di Verona in 13 distretti: Nogara era compresa nel distretto di Sanguinetto, insieme con Cerea, San Pietro di Morubio, Casaleone, Gazzo, Correzzo, Concamarise, ed aveva nel suo comune le seguenti frazioni: Calcinaro e Campalano. Dopo il 1870, con il ritorno del Regno d’Italia, inizia un nuovo periodo di progetti e trasformazioni. Particolarmente interessante è l’allargamento della piazza principale del paese, avvenuto nel 1884 con l’abbatimento sul lato nord di alcuni vecchi edifici, e il nuovo allineamento con gli edifici posti a est. Con l’amministrazione del sindaco Gaetano Terzo Franceschetti, iniziata nel 1906 si impostò il nuovo volto di Nogara, con una serie di modifiche alla piazza principale del paese, anche se la guerra bloccò la funzionalità di parte di questi progetti. La fine della prima Guerra Mondiale rappresenta per Nogara un importante punto di passaggio, sia perché la voglia di ricostruzione accelera la realizzazione di opere progettate precedentemente, sia perché con la vittoria del Partito Fascista emerge un gruppo di amministratori che è motivato ideologicamente a modificare l’economia e l’assetto preesistente. Il secondo conflitto mondiale viene però a interrompere progetti e svilupo, provocando guasti non solo umani e sociali, ma modificando naturalmente anche l’assetto del paese, soprattutto a causa dei bombardamenti aerei. Il dopoguerra fu caratterizzato da una pesante crisi dell’agricoltura e da un conseguente spopolamento delle campagne, accompagnato da forti tensioni sociali anche se a Nogara, la presenza del Canapificio attenuò in parte l’emigrazione. Verso gli anni Sessanta ci fu la nascita di due nuove zone industriali a nord e a sud che, anche se lentamente, portarono benessere e favorirono una nuova espansione urbanistica del paese. Sorge Nogara su una strada che per Ostiglia congiunge Bologna con Verona, su una via di comunicazione assai importante e battuta fin dai tempi più remoti: la strada Claudio Augusta. Vi sono poi altre strade importanti che la mettono in comunicazione con Mantova e Legnago. Il Tartaro scorre in direzione Nord-Sud: è un fiume che ha avuto importanza storica, specialmente nel Medioevo e nell’età moderna, quando scorreva in una zona di confine tra due Stati, il Mantovano e il Veronese.

    image



    Edited by tomiva57 - 11/5/2011, 13:59
     
    Top
    .
  7. tomiva57
     
    .

    User deleted


    Isola Rizza



    image

    Isola Rizza, chiamata un tempo Isola Porcarizza, è Comune della Bassa Veronese attraversato dal Piganzo. Fino all’800 il suo territorio era definito com’essenzialmente rurale anche se si dava atto che il capoluogo si presentava già allora come “un grosso borgo con notevoli edifici, tra cui la chiesa parrocchiale, con dipinti del secolo barocco”.

    Sempre nell’800 il suo territorio era definito “basso e acquitrinoso” e “per la vicinanza dell’Adige molte volte danneggiato per le violente inondazioni del fiume” ma fiorente per le coltivazioni di frumento, del granoturco, della canapa e soprattutto del riso “cui si prestano i molti colatori e fosse d’irrigazione che solcano tutto il Comune”. Unica industria del luogo, “a sussidio della produzione agraria”, era il copioso allevamento dei suini e del pollame.

    Alcune altre notizie sempre della fine dell’800 precisano che “il capoluogo comunale… consiste in una larga strada maestra detta la piazza, fiancheggiata da casamenti privati di civile appariscenza, in mezzo ai quali è la sede del Comune in conveniente edificio con grande sala per balli e ricevimenti e con aderenti opportuni locali per le scuole rurali”, mentre, appena fuori del centro abitato, sulla strada che mette dopo due chilometri ad Oppeano “incontrasi, non lungi da una villa dei Bonanome, un vasto edificio, recentemente eretto dal cavaliere Giacinto Bonanome, ad uso da un lato d’asili infantili e dall’altro lato di ricovero per vecchi e mendici, novelle istituzioni che quel benemerito fondò e generosamente dotò”.

    Sempre dalla stessa fonte, che è la grande monografia della Provincia di Verona edita a cura del prefetto Sormani-Moretti, sappiamo che “poco più avanti, in contrada parrocchia… v’ha isolata, la chiesa parrocchiale con atrio a colonne di pietra tufacea, disegno di Giuseppe Tramontini, dove conservasi una Madonna coi santi Pietro e Paolo, pala di Pasquale Ottimo ed altro buon quadro, raffigurante la Vergine, colà portato dall’Eremo di Garda”; e che piccole e sparse frazioni, contrade, corti e fattorie compongono questo Comune “dove al di sotto ed a fianco di risaje confinanti con quelle di Ronco all’Adige, furono scavate qua e là delle pietre scritte romane, diconsi: San Fermo e Bezze, entrambe pure coperte da molte estese risaje; poi Casolati, Casotti, Casalino, Casari, Ca’ Perinelli, Broletti, Corte Merle, Conche, Corte Muselle, Corte Capra, Ghetto, Prevesine e Ca’ Nuova”.

    Non si sa con quale autorità don Benassuti potesse scrivere, anche lui ormai un secolo fa, di comunicazioni navigabili fra i fiumi della Bassa Veronese e Padana e persino fra Adige e Po. Egli afferma anzi dell’esistenza di un porto a Roverchiara il quale sarebbe servito di scalo alle merci e d’imbarco ai passeggeri provenienti da Isola Rizza, che sarebbe stata a quella località congiunta appunto da due canali, uno del VI secolo e l’altro del XII, quest’ultimo in parte peraltro ancora esistente, come ricorda Bruno Bresciani, per notevole tratto, di assai maggiore importanza del primo, e denominato canale Ridenza poiché un’imperatrice di tale nome avrebbe contribuito – ma siamo nel regno della pura fantasia – alle spese per la sua costruzione, almeno in buona parte.

    Soggiunge comunque Bruno Bresciani, che “i vecchi narravano di aver veduto le barche venire dall’Adige, per quel canale in seno ad Isola Rizza, a scaricarvi i sali ed altre mercanzie, nei fondali della dogana, il cui edificio ancor oggi esiste, e più recente è il ricordo che le sponde del canale, alla sua testata, dov’era uno spazioso approdo, portavano grossi anelli di ferro per fermarvi le barche”.

    Abitata fin da epoche preistoriche, questa terra, nonostante i vari sconvolgimenti che dovette subire per le inondazioni dei fiumi che la solcano, ha restituito testimonianze di quelle lontane civiltà: qualche decennio fa, ad esempio, a Pieve, nel corso dei lavori d’affossamento per l’impianto di un pioppeto, a circa sessanta centimetri di profondità, apparve un’urna fittile eccezionalmente integra risalente al periodo di transizione tra l’età del Bronzo e l’età del Ferro, oggi conservata presso il Museo di Storia Naturale di Verona. Presso ilMuseo Archeologico di Verona è invece conservato l’attacco di un’ansa, che è riferibile ad un vaso di bronzo: è configurato a testa di bovide con anello soprastante e risulta essere stato rinvenuto ad Isola Rizza nel 1889; non è noto il contesto del rinvenimento, ma comunque questo reperto è di tipo etrusco ed è databile al VI secolo a.C.

    Luciano Salzani segnala ancora come a Casalandri nel gennaio del 1982 si sia avuto il rinvenimento d’alcune tombe, venute alla luce a seguito di lavori edilizi. La necropoli è stata poi oggetto di tre campagne di scavo, dal 1982 al 1984, per opera della Soprintendenza alle Antichità delle Venezie. Complessivamente sono state portate alla luce centoundici sepolture. La massima parte è in semplice fossa, alcune però sono di tipo a cassetta di tegoloni. L’area centrale della necropoli è tuttavia occupata da un edificio moderno.

    Annota Salzani: “II rito funebre è misto, con una prevalenza del numero degli incinerati rispetto a quello degli inumati. Le ossa bruciate delle tombe a cremazione non sono deposte all’interno di un’urna, ma sono ammucchiate in un angolo della tomba. E’ anche possibile che fossero contenute all’interno di un recipiente di legno o di cuoio che non ha lasciato tracce. Assieme alle ossa si trovano una o più monete e le fibule. Il resto del corredo è costituito da piccoli vasetti, ollette e da ciotole contenenti ossa d’animali. Le armi sono rappresentate da spade, coltellacci, punte di lancia e umboni di scudo. Le tombe ad inumazione non presentano un’orientazione ben definita. In queste tombe il corredo si trova di regola presso la testa del defunto”.

    Questa necropoli può essere datata tra il II ed il I secolo a.C. Ma anche per l’Alto Medioevo il territorio è stato prodigo di ritrovamenti. Di qui viene, infatti, il cosiddetto “Tesoretto di Isola Rizza”, custodito ora al Museo di Castelvecchio . Fu appunto nell’inverno del 1873 che un contadino, mentre scavava in un campo, rinvenne, sotto una pietra, un tesoro: tredici oggetti d’oro e di argento che furono subito acquistati dal Museo di Verona dove adesso se ne conservano undici, essendo due di essi andati nel frattempo smarriti.

    Fra gli oggetti merita una speciale attenzione un piatto d’argento con un grande medaglione centrale a sbalzo sul quale è rappresentato un cavaliere che infilza con la sua lancia un guerriero. Tutti questi pezzi ritrovati ad Isola Rizza possono essere datati fra la fine del VI secolo e i primi decenni del VII e devono essere stati nascosti durante i tempi di pericolo, probabilmente determinato da guerre o incursioni. Evidentemente i proprietari del tesoro, senza dubbio longobardi, non poterono più riprendersi, passato il pericolo, i loro oggetti preziosi: forse perché trucidati o forse perché allontanati dalle loro dimore.

    La località doveva essere d’una certa importanza anche nel secolo XII se allora la chiesa aveva già il titolo di pieve, così come la ricorda papa Eugenio III in una sua bolla: “plebem insule porcaricie cum cappellis et decimis”. La chiesa era già allora dedicata agli apostoli Pietro e Paolo, mentre da altri documenti sappiamo che nel 1212 vi risiedeva un arciprete col titolo di magister. Vi si faceva vita comune da parte del numeroso clero che la officiava con le cappelle soggette e che godeva di una massa di beni poi spartita in vari chiericati, uno dei quali andò, nel secolo XVI, a formare la cosiddetta Mensa Cornelia. Aveva comunque nove porzioni e la curtis era del vescovo di Verona.

    La chiesa era stata rifabbricata nel 1535 dall’arciprete Leonardo Auricalco e un bel pezzo di relativa incisione si vede ancora nella parte inferiore del campanile. Ebbe la forma attuale nel 1789 e nel 1868 le fu aggiunto il pronao.

    Dalle varie visite che fecero a Isola Rizza il vescovo Giberti ed i suoi vicari, fra il 1529 ed il 1541, sappiamo che I’arciprete don Leonardo Auricalco non vi risiedeva, ma stipendiava in loco un suo cappellano. La cura d’anime e I’officiatura non erano svolte molto diligentemente, e presso la pieve “opulenta fructibus et numerosa populo” e presso altra chiesa periferica detta Santa Maria di Mezzavilla o Cesiola. In questa ultima località era ricordato dagli anziani di quel tempo anche un ospedale il cui edificio ormai in rovina si era forse ripreso a ricostruire. Nella pieve sopra menzionata, vi erano, oltre al maggiore, altri due altari: uno dedicato a Sant’Agapito e l’altro a San Michele. C’è menzione anche di una chiesa dedicata ai Santi Fermo e Rustico (con tutta probabilità all’interno dei possedimenti del convento veronese di San Fermo) e di altra chiesa dedicata a San Marco, quest’ultima dei no bili Maffei.

    Risale ai primi anni della dominazione veneziana la “conquista” di queste fertili campagne da parte della nobiltà veronese e veneta, e dunque si possono far risalire a quell’epoca le prime bonifiche, I’escavo di numerosi canali atti a drenare i molti terreni allora rimessi via via a coltura come risaie, e le prime corti rurali con le abitazioni dei coloni e, ma solo stagionalmente, dei proprietari dei vari fondi. Del resto qui, proprio da quest’epoca – mentre in età scaligera vi dominarono i rettori del Capitaniato di Zevio – cominciò a risiedere un vicario eletto dalla città e che aveva giurisdizione su Ronco, Palù, Tomba e Malavicina.

    Così, nell’ordine, ci elenca queste corti venete Remo Scola Gagliardi in un suo recente lavoro: la corte dei Maffei al Minello, passata poi ai Pindemonte Rezzonico; la corte dei Bonanome alla Pieve, passata poi ai Bellinato; la corte dei Maffei, poi dei De Medici, poi dei Grigoli e quindi dei Ferrari alla via Nova; la corte dei Sagramoso, poi dei Bruni e quindi dei Ferrari ancora alla via Nova; la corte dei Recalco, poi dei Ridolfi, poi dei Canossi ed ora del Comune, sempre alla via Nova; la corte dei Martelli, poi dei Colpani, poi dei Cartolari ed ora dei Coeli nel centro abitato; la corte dei San Bonifacio, poi dei Bruni ed ora dei Ferrari sempre nel centro abitato; la corte dei Morando, poi dei Malaspina, quindi dei Cengiarotto e dei Colleoni ai Morgatoni; la corte dei Da Corno, poi Tedeschi e dei Grigoli ora sede del Comune di Isola Rizza in piazza; la corte dei Maffei, poi dei De Medici, quindi dei Grigoli ed ora dei Rossignoli in contrada Capra; la corte dei Mandelli, poi dei Maffei ed ora dei Seren alla Campagnola; la corte del monastero di San Fermo, poi dei Merlo ed ora degli eredi Ziviani sempre alla Campagnola; la corte dei Mini- scalchi, poi dei Faccini ed ora dei Malacchini al Casalino; tutte un tempo sedi di altrettante aziende agricole nelle quali coltura privilegiata era, come si è già annotato, quella del riso, “estraendo” alla bisogna, attraverso opportune serioledugali.(prese), l’acqua dei vari

    image

    Una di queste presenze nobiliari è già attestata agli inizi del secolo XV quando, precisamente il 9 settembre 1413, Daniele Maffei acquistò per 1663 ducati d’oro dalla Fattoria di Verona tota possessio de Insula Porcharetia, con le sue decime, i suoi fitti, le sue pezze arative prative, vignate e paludate, e le case con tutte le giurisdizioni spettanti a detta possessione, e con parte dei molini pure spettanti a detta terra. E molti, come si è veduto, seguirono poi, via via, il suo esempio, qui attratti dalla possibilità di buoni investimenti e particolarmente in quel settore della coltivazione del riso divenuta poi, almeno per tre secoli, il nerbo dell’economia della zona, quando progressivamente terre sterili, paludose e incolte trovarono in questa coltura nuovo e conveniente sfruttamento. Di questa coltura è forse una menzione in uno degli stemmi cinquecenteschi della comunità, murati alla base del campanile della parrocchiale, dove appare una scrofa che stringerebbe nella sua bocca un manipolo di riso, e che fu riproposto a quel Comune nel 1932, qualche decennio dopo che si volle peraltro la modificazione del nome del Comune già di Isola Porcarizza in quello – ritenuto meno offensivo – di Isola Rizza. Parve comunque in quella circostanza opportuno che il Comune di Isola Rizza riprendesse almeno il suo antico stemma: “d’azzurro alla scrofa passante su un prato erboso, e tenente in bocca un manipolo di spighe di riso al naturale”, e questo perché non avrebbero dovuto vergognarsi gli isolarizzani se il loro stemma aveva per figura un animale immondo, come non si vergognarono di averlo nel loro blasone famiglie illustri, quali gli Scrofa, antichi nobili di Vicenza, gli Scrovegni di Padova ed altri ancora.



    Povegliano Veronese



    image

    Povegliano Veronese si adagia sulla linea delle risorgive, al limitare estremo dell’alta pianura, che gradatamente trapassa nella media. Sin dalla preistoria visse sulle paludi. La complessa opera di bonifica fu iniziata non prima del 1400: se si eccettua un primo intervento operato dai padri benedettini nel 1200, l’escavazione su larga scala delle risorgive e la bonifica del suolo, anche con l’incanalamento delle acque stagnanti, furono iniziati nel XV° secolo, quando i patrizi veronesi e veneziani intrapresero la coltivazione del riso nella media e bassa pianura e nel 1500 quando ci fu un notevole sviluppo della praticoltura: cominciò allora quella che a partire dai primi decenni del 1500 sarebbe diventata “la corsa all’acqua”, che indusse i proprietari a scavare quanti più fossi possibile. Dalle famiglie nobili prendono nome alcune fosse: ad esempio, la Liona dai conti Lion, la Draga dai Draghi, la Giona (950 litri al secondo di portata massima, dei quali 700 dalla risorgiva vicina alla Pioppa) prese il nome dai conti Giona che la escavarono per irrigare la loro campagna di S.Bemardino di 1800 campi veronesi tra Vigasio e Trevenzuolo. Le rive dei gorghi e dei condotti di alcune fosse sono più alte rispetto aquelle di altri corsi di risorgiva: il motivo è da ricercarsi, oltre che nella conformazio ne idrogeologica del terreno, anche nel calo di oltre due metri della falda freatica che si verificò verso la metà dell’800: questo fatto costrinse i proprietari di alcuni fossi ad abbassare il fondo delle risorgive e il letto dei condotti. In quello stesso periodo per ottenere più acqua furono aperti alcuni pozzi artesiani nei gorghi con tubi di 10 cm di diametro infissi fino ad intercettare la seconda falda. L’acqua, da sempre presente nel territorio, suggerì l’adozione della libellula (volgarmente chiamata cavaoci o sbusaoci) quale simbolo sullo stemma comunale attualmente in uso. I corsi d’acqua di risorgiva che nascono a Povegliano Veronese sono:

    image

    il fiume TARTARO con la sorgente principale al Dosso Poli e secondarie al Soco (volgarmente detta “el gorgo del segretario”), nel fossetto Cavazzocca e nei tre gorghi delle Riare;

    * la fossa CALFURA con le due sorgenti in località di Madonna della Via Secca;
    * la GIONA con il gorgo alla Pioppa;
    * la BORA con tre gorghi presso la corte Livello (”el Liél”), uno a fianco del GreSanìn e due alla Muraiola;
    * la DRAGA con la sorgente principale, “el gorgo de salveregin”. Vicino a Tartaro sulla via per Vigasio ed una secondaria (oggi asciutta) dietro la corte Pignolà;
    * la LIONA con nove sorgenti nelle vicinanze di quella principale della Draga;
    * la MORETTA con due gorghi nei pressi di S. Andrea e del Crdon;
    * la IADISA che nasce vicino al confine con Mozzecane;
    * l’ACQUA BASSA sul confine con Mozzecane;
    * la GAMBISA con il gorgo ed il gorghetto al Cas’on;
    * la FOSSONA con quattro sorgenti ed un gorghetto a sinistra e sotto i Boschi di Sopra;
    * l’ACQUA BASSA con due gorghi ed un gorghetto a sud ( Boschi di Sopra;
    * la FOSSONA, l’ACQUA BASSA ed un ramo della BORA

    e al ponte dei Mulinei formano un’unica fossa chiamata GAMBARELLA, che,nella zona più a sud del paese, riceve l’acqua di un’ultima risorgiva. Nota: I nomi dei corsi d’acqua minori non rientrano nella toponomastica ufficiale, ma si sono tramandati oralmente. Sono riportati solo i corsi di risorgiva e non i canali e condotti che, negli ultimi decenni conl’introduzione dei mezzi meccanici, sono stati a volte deviati o intubati. Povegliano Veronese è ritenuto dagli studiosi un importante luogo di ritrovamenti preistorici ed i numerosi reperti archeologici, databili dall’eneolitico (2500 a.C.-1800 a.C.), indicano con certezza una continuità di vita a partire dall’età del bronzo (1800 a.C.-900 a.C.). L’ascia di Gambarella fu ritrovata nel 1967 in località Gambarella. Il manufatto, in rame e lungo cm. 27, è ben conservato. A causa della mancanza di un preciso contesto difficile è la sua attribuzione cronologica e problematica l’interpretazione archeologica. Una necropoli preromana della media età del bronzo venne scoperta nel 1876/77in località Gambaloni presso il condotto della fossa Gambisa durante l’escavazione della ghiaia. Nel 1880 furono riportate alla luce sepolture della tarda era del ferro nei campi magri della Bora e dell’Ortaia. Scavi più recenti hanno fatto emergere importanti ritrovamenti della media età del Bronzo in località Muraiola e un grande numero di tombe celtiche, romane e longobarde presso l’Ortaia. Il cavallo con i due levrieri è stato ritrovato nell’agosto del 1986 in una necropoli longobarda del VII° secolo dopo Cristo. E’ una sepoltura rituale: il cavallo, ritrovato acefalo, è stato tumulato su un fianco con idue cani accucciati vicino. L ossa dei tre animali sono state restaurate e consolidate in un istituto universitario e rimontate su appositi supporti nella posizione originaria.Questo e molti altri reperti archeologici sono esposti al pubblico in una mostra permanente presso villa Balladoro.

    La presenza nei secoli passati di nobili proprietari terrieri è testimoniata dai palazzi edificati nell’abitato e dalle numerose corti rurali, alcune con oratorio, disseminate un po’ per tutta la campagna. Alcune ville, tra le quali il centrale palazzo Cavazzocca, sono state abbattute, altre cadono in rovina, altre ancora sono state restaurate e rimesse a nuova vita. Tra queste ultime da ricordare la villa Balladoro con parco, il palazzotto Balladoro, appartenuto alla signoria degli Scaligeri e sede del comune nel XVI° secolo, il palazzo dei Venturi, già dei conti Olivieri. Recentemente è stato completato il restauro del Santuario della Madonna dell’Uva Secca, nel quale si trova l’affresco della Dormizione della Beata Vergine Maria, opera attribuita alla scuola veronese del Trecento. Nella nuova parrocchiale, edificata dopo l’abbattimento dell’artistica chiesa del Cristofali, fanno bella vista i quadri che, dopo un paziente lavoro di recupero sono stati restaurati con il contributo di privati e di enti pubblici. Nuovi o rammodernati sono gli edifici pubblici: il municipio, la scuola materna,le scuole elementari e medie, le due palestre e gli impianti sportivi comunali.La parrocchia ha allestito il centro giovanile nell’ex oratorio restaurato ed ha ristrutturato il teatro. L’economia, fino agli anni ‘40, è stata quasi esclusivamente agricola.Si coltivavano soprattutto frumento, granoturco e foraggi.A partire dal ‘700 la vite ed il gelso divennero un caratteristico delle nostre campagne: le foglie dei morari alimentavano i caaléri (bachi da seta) che venivano allevati in grande quantità distesi sulle aréle sostenute dalle peagné nelle case, nei fienili o sotto le barchesse.Per l’economia familiare il baco ha rappresentato una voce fondamentale ed insostituibile ed il disegno due farfalle del baco (volgarmente dette poéie) venne usato come simbolo sullo stemma del Comune dalla seconda metà dell’Ottocento fino ai nostri anni ‘70. Dagli inizi del secolo fino agli anni ‘50 due filande hanno impiegato manodopera femminile nell’ordine di circa 200 unità annue. Si allevavano animali da stalla e da cortile. Dopo la seconda guerra mondiale l’attività produttiva ha iniziato un sensibile processo evolutivo.Progressivamente sono diminuiti gli addetti all’agricoltura e ,nel contempo,sono sorte parecchie imprese artigianali (in particolare legate all’edilizia)e qualche piccola industria. Il paese da vent’anni è interessato da un rilevante sviluppo urbanistico. È scomparso il gelso, non si allevano più i bachi da seta, modesto è il numero degli animali da cortile.I processi produttivi agricoli si avvalgonodi mezzi meccanici, a quelle preesistenti si sono aggiunte e alternate negli anni le coltivazioni delle pesche, delle fragole, delle mele, del tabacco,della soia e si sono insediati allevamenti intensivi di suini e avicoli. La popolazione partecipa attivamente alle varie manifestazioni e feste popolari. Alcune sono tradizionali, anche se adattate ai tempi: sagra paesana, Festa dell’Assunta, carnevale e festa parrocchiale della gioventù, in origine legata alla ricorrenza di S. Luigi. Il giorno di Santa Lucia è atteso con impazienza dai bambini e c’è una ripresa di S. Martino. Più recenti sono le feste di alcuni quartieri ed il mercatino dell’antiquariato. Nel campo della cultura sempre maggiore attenzione viene riservata agli spettacoli musicali e teatrali nel parco di villa Balladoro, alle mostre, alle pubblicazioni di libri ed ai convegni. Nel recente passato ha conosciuto un momento particolarmente favorevole la ricerca archeologica. La sensibilità nei confronti dell’ambiente si è’concretizzata in varie iniziative fra le quali la creazione dell’oasi naturalistica della Bora. Gli abitanti sono passati dai 4089 del 1951 ai 5919 del 31/12/1995 ed il paese finora è riuscito ad assorbire gli effetti dell’immigrazione e a conservare il senso della comunità grazie anche all’attività continua delle associazioni che in gran numero operano in campo sociale, sportivo e culturale e che si avvalgono prevalentemente del volontariato. Alcune sono di tradizione altre di nuovo conio:la gente non ha dimenticato il passato, ma anche ha colto il presente e vi si è adattata. E’ questo uno dei tanti segni di graduale ed equilibrato trapasso dal vecchio al nuovo. Il comune di Povegliano Veronese è gemellato con il paese tedesco di Ockenheim.



    Mozzecane




    Mozzecane dista 20 chilometri da Verona. Rispetto al capoluogo è in posizione sud ovest. È sul confine con la provincia di Mantova.
    Curiosità

    image

    Il toponimo Mozzecane deriva da un proprietario della zona, Mucius Canis, che riesce ad ottenere dal Comune di Verona molte terre. I suoi discendenti sono definiti in seguito de Moçecanis.

    Storia

    La zona di Mozzecane è stata abitata fin dall’età del bronzo. In età romana diventò un’area residenziale e di passaggio (via Postumia). Dopo la caduta dell’Impero romano passò sotto Longobardi e Franchi, e numerose sono le testimonianze medioevali. Nel 1405 Mozzecane cadde sotto il dominio della Serenissima.

    Assurdamente e totalmente dimenticata dal Comune di Mozzecane è la storia del Campo di Prigionia per alleati che fu ospitato dietro la Chiesa di Mozzecane dove ora ci sono gli impianti sportivi, nel periodo aprile/settembre 1943 e che faceva parte di un sistema di campi di prigionia presenti su tutto il terirtorio veronese.. Al suo interno erano reclusi decine di prigionieri di guerra britannici che dopo l’8 settembre 1943 furono deportati in Germania. Qualcuno riuscì a fuggire e fu aiutato nella fuga dalla popolazione locale. Una pagina di storia della resistenza non armata di Mozzecane assurdamente dimenticata, visto il rischio (c’era la pena di morte) che le persone del paese corsero per aiutare nella fuga questi prigionieri. Molti furono ospitati nelle case del posto e divisero quel poco che c’era con i prigionieri. Di queste storie esiste un documentario di Mauro Vittorio Quattrina “Quei giorni di coraggio e di paura” che narra proprio la storia sconosciuta dei campi di lavoro e prigionia per alleati nel veronese. Mozzecane così, rozzamente, dimentica i suoi Schindler e Perlasca del suo stesso territorio.

    image

    Economia


    Fa parte dell’area di produzione del Riso Vialone nano Veronese che viene coltivato su terreni della pianura veronese irrigati con acqua di risorgiva.



    Edited by tomiva57 - 11/5/2011, 14:01
     
    Top
    .
  8. tomiva57
     
    .

    User deleted


    Sorgà



    image



    Il Comune di Sorgà, oltre al capoluogo, comprende frazioni di Pontepossero, Bonferraro e Pampuro. Tale assetto territoriale venne definito nel 1813 dalla catasticazione napoleonica. Durante il dominio della Repubblica della Serenissima di Venezia, invece ciascuna di queste località aveva una propria configurazione politico-amministrativa ed erano separate l’una dall’altra; inoltre alle quattro località attuali si aggiungeva il distretto di Moratica, posto sul confine occidentale di Bonferraro.


    image

    Il territorio dell’attuale Comune di Sorgà comprendeva allora: il vicariato di Sorgà, feudo del monastero di Santa Maria in Organo (Verona) fino al 1571 e poi della famiglia Murari Dalla Corte; il vicariato di Pontepossero, feudo dei patrizi veneti Grimani; Bonferraro, soggetto al vicariato di Nogara; il vicariato di Moratica, feudo dell’abbazia di San Zeno (Verona) che nel Settecento venne incluso nel vicariato di Erbè; e, infine, Pampuro, incluso nel vicariato di Bigarel, territorio mantovano. Il vicariato di Pontepossero Il 7 maggio 1411 il N. H. Nicolò Grimani acquistò per la cifra di 12.500 ducati d’oro dal cavaliere Taddeo dal Verme il Castello di Pontepossero con giurisdizione, dazi, saltaria, decima e altri diritti con relative possessioni.

    I beni e i diritti, che Taddeo dal Verme aveva da poco acquistato all’asta dalla Fattoria Scaligera sono descritti, in un atto di compravendita, molto complesso ed erano condotti da famiglie di coloni che pagavano il terzo dei prodotti. Inoltre, il Grimani aveva il diritto di riscuotere le decime del territorio di Pontepossero ad eccezione di quelle spettanti al Vescovo di Verona.

    Il primo giorno del mese di luglio 1422 Nicolò Grimani redasse un testamento con il quale istituì un fideicommisso a favore della discendenza mascolina. Il testo di tale testamento contiene una interessante e minuziosa descrizione delle caratteristiche giuridiche del feudo di Pontepossero.

    Nel documento sono definiti anche i confini delle due possessioni che formavano il feudo di Pontepossero, i quali confinavano con il Comune di Erbè, con lo Stato Mantovano, con Curtalta e con il Comune di Gamandone. Tutti questi beni gravitavano sul ‘castello con una bastia’ di Pontepossero
    Alla direzione di questo ramo Grimani, detto di S. Stae, successero a Nicolò, Francesco (1452), Nicolò(1473), Francesco (1499). Con i due figli di Francesco il fuoco si divise in due rami: quello intestato a Giacomo e quello intestato a Giovanni.

    I due rami Grimani di S. Fosca e di S. Girolamo si divisero i beni e la giurisdizione di Pontepossero fino alla fine del Seicento, quando i beni patrimoniali del feudo si concentrarono nel ramo di S. Girolamo.

    L’8 giugno 1734 tutti i beni passarono a Leonardo figlio di Bortolo. Diverso fu il destino della giurisdizione e del vicariato di Pontepossero che rimasero sempre divisi tra i due rami.

    La tendenza dei Grimani ad espandere i possedimenti terrieri nelle aree prossime a Pontepossero continuò anche nel secolo successivo e con un altro Leonardo nel 1816 acquistò da Luigi e Gaetano Curtoni la tenuta di Curtalta. Tali acquisti e, probabilmente , una conduzione aziendale poco assennata in un periodo storico sfavorevole all’antica nobiltà terriera, portarono i Grimani a una forte esposizione debitoria che, di li a qualche anno, divenne insostenibile. Si arrivò così al 1831 quando Leonardo Grimani fu costretto a vendere al veneziano Giuseppe Cornello la tenuta di Curtalta, e alla fatidica data del 16 settembre 1846 quando, dopo 435 anni di potere della sua famiglia, egli fu costretto a vendere le amate proprietà di Pontepossero a Valentino Cornello. Il vicariato di Sorgà Il monastero di Santa Maria in Organo entrò in possesso dei beni di Sorgà principalmente attraverso tre donazioni che ottenne nel corso del IX secolo.

    La prima è inclusa nel testamento che Eugalberto, figlio di Grimoaldo da Erbè, redasse il 28 maggio 840 e la seconda nel testamento del Suddiacono Tendiberto. Infine nel 892 un certo Venerabio donò alla parrocchia di S. Maria in Organo tutto quello che possedeva di sua ragione a Sorgà.

    Durante il periodo della Signoria scaligera i beni e la giurisdizione di S. Maria in Organo su Sorgà vennero ripetutamente usurpati, e per questo nel 1387 l’abate del monastero supplicava i Visconti, nuovi signori di Verona, di poter rientrare in possesso dei beni arbitrariamente occupati dagli scaligeri.

    Proprio in quegli anni, il territorio di Sorgà venne eretto a vicariato soggetto alla giurisdizione dell’abbazia di s. Maria in Organo. I confini del vicariato erano delimitati a est dal Tartaro, a sud dal vicariato di Nogara che includeva Bonferraro, a ovest la Demorta e a nord il vicariato di Pontepossero.

    Il 2 agosto 1571 Federico, abate del monastero di S. Maria in Organo, vendette ai nobili Gottardo e Giacomo Murari dalla Corte il vicariato di Sorgà per il prezzo di 33.000 ducati. La famiglia Murari si era già insediata in questo territorio, con varie acquisizioni, dall’inizio del secolo.

    I beni e i diritti acquistati ufficialmente riconosciuti dalla Repubblica Veneta il 17 maggio 1634 con la ‘Prima Feudal Investitura’ concessa a Gottardo e Alberto, figli di Giovanni, e a Giacomo, figlio di Raffaele, titolari dei due rami Murari della Corte, rispettivamente quello dell’Isolo di Sopra e quello di S. Pietro Incarnario. Con la morte di Giacomo nel 1656 la dinastia di S. Pietro Incarnario si estinse e i beni passarono al ramo di S. Nazaro e Celso.

    L’investitura rinnovativa del vicariato, nel 1768 venne concessa sia ai fratelli Francesco e Gottardo, figli di Sebastiano e residenti a S. Nazaro e Celso, che a Girolamo, figli odi Ottavio e residente all’Isolo di Sopra.

    Il 26 settembre 1773 Giovanni Battista, figlio di Francesco si unì in matrimonio con Vittoria Brà, figlia di Luigi e unica erede del patrimonio dei Brà di S. Fermo. I beni delle due famiglie confluirono in un unico patrimonio e i discendenti di questa stirpe, da allora, assunsero il doppio cognome di Murari dalla Corte Brà. Bonferraro L’antica ‘VADUM FERRARII’ è la più vicina ‘MORODEGA’ convissero per secoli al castello che si ergeva nell’attuale cumulo di terra tra la Strada Statale n° 10 e il fiume Tione, ora all’inizio del paese.mappe del 1764 ci mostrano ancora come doveva essere la struttura della Rocca mentre uno scritta dice: ‘Comune di Morodega’.

    Questa parte del Comune di Sorgà, in epoca veneziana, era soggetta a tre giurisdizioni separate. Bonferraro apparteneva al vicariato di Nogara, Moratica fu prima un vicariato autonomo e poi venne inclusa in quello di Erbè, Pampuro faceva parte del vicariato mantovano di Bigarel. Il vicariato di Moradega All’estremità occidentale di Bonferraro sulla strada per Mantova è situato l’abitato di Moratica, dove sorgeva l’antico castello, di cui oggi non rimangono tracce. L’origine dei possedimenti del monastero di S. Zeno a Moratica va individuata nella concessione rilasciata da Lodovico il Pio nell’85.

    La dipendenza di Moratica dal monastero di S. Zeno di Verona venne confermata da vari diplomi regi e imperiali.

    Il castello di Moratica rimase in possesso dell’abbazia per poco più di cento anni e poi venne ceduto in feudo dall’abate Gerardo a Fatino degli Avvocati (1169). Il 23 giugno 1267, con il testamento di Bonifacio da Moratica il castello, con tutti i diritti ad esso spettanti passò a Bartolomeo da Palazzo. Anche se non possediamo notizie dettagliate sul feudo di Moratica per il tardo medioevo, sappiamo che il castello cadde sotto la giurisdizione del comune di Verona prima e poi dei Signori della Scala.

    Fu soprattutto nell’ultimo quarto del Duecento che, per assecondare la politica filo mantovana di Alberto della Scala, l’abate di S. Zeno, Pietro della Scala, concesse una sserie di investiture ai Bonacolsi e ad altri mantovani depauperando enormemente il patrimonio fondiario dell’abbazia a Moratica. Alla fine della Signoria scaligera la mensa di S. Zeno poteva contare, in questa località, solo sui diritti giurisdizionali e su quelli di decima. La decadenza politica ed economica di Moratica continuò anche nel Settecento, quando il suo vicariato fu soppresso ed essa venne assoggettata al vicariato di Erbè.

    image

    Pampuro Ha una storia insolita, edificato su terreni emersi, circondato dalle valli del Tione, seguì sempre dal 1077 le sorti di Castel d’Ario, come feudo del Vescovo di Trento. Bonificati i terreni dai Bonferraresi, si trovò ancora isolato dal comune di origine e solo nel 1846 fu accorpato al comune di Sorgà.


    Erbè



    image

    Nome degli abitanti Erbetani

    Il Comune di Erbè ha una superficie di 15,94 Kmq e alla data del 31.12.2002 conta n. 1.611 abitanti. Il territorio si trova a metri 22 s.l.m.

    Erbè si trova a pochi chilometri dall’uscita dell’autostrada A22 (uscita Nogarole Rocca), a 20 Km da Verona e a 20 Km da Mantova. Si può raggiungere dall’aeroporto Valerio Catullo di Villafranca di Verona.

    Un pò di storia Erbè è un Comune di piccole dimensioni, sul confine con il Mantovano e attraversato dal fiume Tione. Il toponimo di Erbè deriva dal latino herba – erba; abitato fin dall’epoca paleoveneta e occupato dagli eserciti longobardi in seguito alla caduta dell’Impero, questo borgo compare già dalle antiche carte del 846 d.C. quale vicus, ovvero centro abitato stabile. Ceduto nell’823 da Re Berengario I ai monaci Benedettini di San Zeno di Verona, venne munito attorno al 1000 di un castello, per difendersi dalle invasioni e dalle lunghe e violente contese che scoppiarono tra Mantova e Verona per le definizioni dei confini. Il feudo Zenoniano, che raggiunge il massimo della grandezza nel 1668, arrivando ad includere, oltre a Trevenzuolo, Moratica, Roncolevà e Granarolo, anche i territori di San Pietro in Valle, mantenne la struttura feudale fino alla fine del ‘700. Diventa libero Comune, diviso da quello di Castelletto, nel 1797, quando per decreto napoleonico viene abolito l’ordine di San Zeno.

    Area di antichissimi insediamenti Di rilevanza sono alcuni rinvenimenti archeologici in epoche diverse. Già sul finire del XIX secolo erano state effettuate alcune scoperte occasionali in una zona, Tremolina. Un fatto nuovo si verificò nel 1976, quando nel corso di alcuni lavori di spianamento fu notata la presenza di numerosi frammenti di ceramica, ossa di animali e focolai. Uno studio più approfondito della zona rilevò la presenza di un insediamento dell’età del bronzo con resti di manufatti simili alle stazioni palafitticole dell’anfiteatro morenico del Lago di Garda. Successivamente, in località Castion, venne alla luce un abitato appartenente alla civiltà paleoveneta; i reperti venuti alla luce sono strettamente collegabili all’ambiente di Este.

    Cosa vedere: Chiesa di S. Maria Novella di Erbedello:

    situata nel centro del paese, all’interno del verde Parco “Due Tioni”. E’ di antichissima origine (risalente probabilemente al IX secolo), con all’interno affreschi che hanno come motivo dominante la Vergine, dipinta come immagine ex – voto in segno di devozione. La Chiesa è aperta tutte le domeniche e i festivi.

    L’Oratorio della Madonna del Carmine: Sorse nel 1721 in località Madonna accanto vi era anche una fattoria per l’Amministrazione dei beni . Oltre alla casa padronale, vi è un elegante porticato a quattro luci divise, in alto, da mascheroni, in ampio “selese”per essiccare il grano ed altre strutture rurali. Oggi il fabbricato è di proprietà della famiglia Previdi/Bulgarelli. Villa Gallici: Un altro edificio prestigioso in Via S. Giuseppe, 4. Casa padronale di proprietà della famiglia Gallici dal XVI al XIX secolo, originariamente abitazione dei lavoranti, fu poi trasformata, nel corso dell’’800, in elegante casa di villeggiatura, per volere del proprietario Gaspare Gallici. Oggi il fabbricato è di proprietà della Sig.ra Nuvolari Milada.

    La Chiesa parrocchiale di San Giovanni Battista: situata in Piazza Cavour, 8 ha un impianto barocco seicentesco. Accanto sorge il campanile cinquecentesco. L’interno è composto da una navata unica con quattro cappelle laterali in marmo policromo. Dietro l’altare maggiore, è visibile una tela di Andrea Voltolini, che rappresenta il Santo nell’atto di battezzare il Signore tra angeli e cherubini.


    Gazzo Veronese



    Nome degli abitanti Gazzesi

    image

    Il centro abitato di Gazzo nasce quasi certamente nel primo trentennio dell’ VIII° secolo D.C. come feudo dell’abbazia di S. Maria in Organo di Verona. La prima attestazione del nome é dell’864 quando nel Codica Diplomatico Veronese (CDV I, 334-5), viene menzionato “In loco qui dicitur Gaio “. In seguito, il toponimo risulta documentato come segue: – de Gaio, a. 880 – S. Maria de Gazo, a. 889 – in loco ubi dicitur Gaio, a. 890 – Gaio, a. 905 – Sanctae Marie in Gaio, a. 918/terre GadII, a. 1267. La voce Gazzo deriva dal longobardo gahagi “luogo, bosco recintato”, ven. antico “gazo”. Il determinante fu aggiunto nell’800 per distinguerlo da altre località omonime: in prov. di Padova, Vicenza, Mantova, Reggio Emilia, Cremona, ecc.

    image

    Un pò di storia: La terra di Gazzo rivela di essere stata abitata fin dal periodo Neolitico (circa 4500-4000 a.C.) e trova conferma in alcuni materiali ritrovati nella zona, presso il corso del Tartaro e di altri fiumi minori. Le attività venatorie sono documentate dalla presenza di resti di animali. La caccia al cinghiale era probabilmente un’attività praticata con successo. Ritrovamenti archeologici e di denari d’argento si sono verificati numerosi in questo territorio e depositati nel Museo Archeologico di Gazzo Veronese.I primi abitatori del luogo furono i Veneti, probabilmente gli Euganei. I fiumi si presentavano come facile via di difesa e di comunicazione e offriva buone possibilità di alimentarsi. Sotto il dominio romanico (I° secolo a.C. – II°secolo d.C.), la Claudia Augusta Padana divenne una delle più importanti vie di comunicazione per lo scalo sul Po per la maggior parte dei traffici da e per il Nord Italia e il Centro Europa. Il Comune di Gazzo Veronese è composto dalle seguenti frazioni: S. Pietro in Valle -Pradelle – Gazzo – Roncanova (sede municipale) -Correzzo – Maccacari.

    Sono diminuite progressivamente le coltivazioni e le attività artigiane tradizionali, con larga diffusione di fabbriche artigianali e industriali, in special modo per la lavorazione del vetro, della maglieria e del legno. Una tipica produzione locale rimane quella della “carezza”, una specie di canna sottilissima legata alla presenza della palude del Busatello, utilizzata nei numerosi laboratori artigianali delle zone vicine, dove viene impiegata in particolare per impagliare le sedie.

    Da vedere: Museo Archeologico: Ha sede nella villa Parolin Poggiani. La villa è stata acquistata dal Comune di Gazzo nel 1987 e i restauri sono cominciati l’anno seguente. Un primo nucleo museale è stato voluto negli anni 50 per raccogliere il ricco materiale che proviene dalle campagne. Successivamente, nel 1980, il Gruppo Archeologico di Gazzo Veronese, con il benestare della Sovrintendenza e del Comune di Gazzo, ha dato vita al museo. Il Museo racchiude reperti che vanno dal Neolitico all’Età Romana, materiale raccolto durante vari scavi archeologici. Tra i reperti più antichi si può ammirare un pugnale in selce ritrovato in località Ronchetrin del Neolitico (3500 a.C). L’età del Bronzo è presente con i reperti recuperati nelle località di Copi Romani, Maccacari e Mulino; le necropoli paleovenete sono rappresentate da ritrovamenti provenienti dalle località di Colombara, Dosso del Pol e Coazze. L’età romana è rappresentata da anfore, lucerne, monete ed elementi da pavimento. Prossimamente il Museo sarà restaurato per permettere una migliore fruizione di tutto il materiale archeologico mettendo in risalto la Preistoria e la Protostoria tra il Tartaro e il Tione.

    image

    Oasi del Busatello: Complessivamente essa si estende su un territorio di circa 96 ettari a cavallo delle provincie di Verona (comune di Gazzo Veronese: 46 ha) a Mantova (comune di Ostiglia: 35 ha). L’aspetto della palude, così come appare dall’argine esterno, è quello di una grande distesa di carice (Carex elata e, in misura assai minore Carex riparia), interrotta da fasce piuttosto strette di Phragnites australis e Typha angustifolia, con infiltrazioni di specie ruderali soprattutto lungo gli argini perimetrali e interni. Solo nel cuore della palude, lungo le rive del fiume Busatello, si è conservata una ricca vegetazione che non ha subito il massiccio intervento dell’uomo e che presenta specie paludicole rare come: Leuconjum aestivum, Salvinia natans, Euphorbia palustris, Pedicularis palustris, Senecio Paludosus, Cirsium Palustre e Cicuta virosa. I protagonisti della vita animale della Palude del Busatello sono senz’altro i vertebrati e in modo particolare gli uccelli che nidificano numerosi durante l’estate; comuni sono comunque anche i mammiferi, i rettili, gli anfibi e i pesci.



    Isola della Scala



    image

    In passato Isola fu centro agricolo di notevole importanza per la bontà dei terreni irrigui e perché, essendo collocata lungo un’arteria stradale e ferroviaria di gran traffico, fu sempre luogo privilegiato per transazioni economiche e commerciali.

    La proprietà fondiaria risultava divisa fra pochi latifondi, d’antica origine e ognuno con al centro la corte, microcosmo contadino. Il fondo più esteso era quello dei marchesi Pindemonte, le cui origini vanno ricercate addirittura nel 1391 quando questa famiglia acquistava il possesso di Ciringhelli da Guardino Colleoni di Bergamo . Cinquant’anni dopo i Pindemonte entravano in possesso anche delle terre di Settimo, nei pressi di Buttapietra. Da qui la proprietà si allargò con acquisti dai conti Campagna, dai Giuliari, dai Rivanelli e dallo stesso comune di Isola, inglobando le terre di Vo’, Oseggiolo e arrivando alla contrada Doltra, ossia all’immediata periferia del capoluogo per un complesso di oltre tre mila campi. A giusto emblema della Potenza economica e della dignità nobiliare nel frattempo ottenuta, la casa dominicale di campagna fu trasferita al centro della possidenza, a Vo’, ove, nel 1742, fu edificata su progetto del celebre architetto Alessandro Pompei, la bella villa che ancora si ammira e di recente restaurata. Era la residenza di campagna sostitutiva, in determinati momenti dell’anno, di quella urbana della contrada di S. Egidio e centro amministrativo dell’azienda.

    Nobili illustri i Pindemonte; fra i quali emerge la figura del letterato Ippolito la cui malinconica musa trovò di certo motivi di ispirazione durante i soggiorni in questa campagna – ma non in grado di competere con i patrizi veneti Zenobio, proprietari del fondo di S. Gabriele, a sud-est del capoluogo di Isola, dove fecero costruire un’interessante dimora della quale, però, poco si conosce. Sappiamo che i primi acquisti degli Zenobio in S. Gabriele furono fatti nel 1654 e che nella prima metà del Settecento essi disponevano già di 1085 campi. Il loro stemma – il leone e l’aquila alternativamente disposti nelle quattro campiture – campeggia sul fastigio dell’edificio. I cospicui beni subirono, agli inizi dell’Ottocento, i contraccolpi delle sfortune politiche della casata, avversa ai Francesi.

    Altre due famiglie gentilizie possedevano la parte nord-orientale del territorio comunale: i Fumanelli a Caselle e i Brà ai Boschi. In quest’ultima località resta la bella villa settecentesca, anch’essa di recente restaurata. Con i campi dei Fumanelli e dei Brà confinavano quelli dei Peccana che raggiungevano le 1500 unità. La loro corte in Casalbergo era fra le più complete per la presenza, oltre che della casa padronale, di quelle dei contadini, delle varie stalle, delle officine degli artigiani di corte e di altri rustici.

    La serie delle corti si completa con quella dei conti Guarienti a Tarmassia, dei Nogarole al Baldon, dei Pellegrini nella frazione un tempo loro feudo e che da essi prese il nome. Il palazzo di questi ultimi, pur avendo subito i danni del tempo, si segnala per l’originalità di alcune soluzioni architettoniche. La facciata rivolta a sud, con la parte centrale sopraelevata rispetto al resto, termina con un timpano ornato di guglie. Ad essa si arrivava, un tempo, attraverso un viale affiancato da statue di cui non è rimasta traccia alcuna.

    In questi latifondi la coltura principe era quella del riso, costosa, per i lavori che richiedeva, ma assai remunerativa. Isola era, con Zevio e Gazzo Veronese, la zona di maggiore produzione del così detto “frumento delle paludi”. Anche se in misura assai minore, la risicoltura è praticata ancor oggi, soprattutto nella varietà del vialone nano, assai apprezzato per i risotti. AI riso è legata la tradizionale “fiera” che si tiene ogni anno la prima domenica di ottobre, con la distribuzione in piazza del cosiddetto “risotto all’Isolana” che altro non è che una riproposta del piatto che i nostri avi confezionavano con la carne del maiale appena ucciso.

    Se la fiera del riso è di recente istituzione, assai più antica è la “sagra della Bastia”, che si festeggia attorno al santuario romanico che sorge ai margini della valle del Tartaro, e che una tradizione riaffermata nelle visite pastorali vuole sia stata la prima chiesa parrocchiale. La facciata a capanna, in cui si intervallano corsi di blocchi di tufo e filari di mattoni, porta la data 1121. Il portale, forse uscito dall’officina dei Pantei, fu installato nel XVI secolo eliminando il protiro pensile di cui si scorgono le tracce. L’interno si adorna di alcuni affreschi parietali da ritenersi ex-voto dei secoli XIV-XV. Le tre statue lignee raffiguranti la Madonna e i santi Simone e Giuda sono state rubate pochi anni or sono, mentre è scampata fortunatamente al furto la Madonna in terracotta, tuttora oggetto di speciale affezione da parte degli Isolani.

    image

    L’attuale chiesa parrocchiale fu edificata fra il 1558 e il 1619 su progetto di Bernardino Brugnoli, nipote di Michele Sanmicheli. Il tempio pur essendo di notevoli dimensioni è a navata unica. Non esiste più I’altare maggiore del ‘600 costruito in seguito ad un cospicuo lascito dell’abate Giovanni Bongiovanni, ma vanno segnalati per la complessa struttura i due del transetto. Quello di sinistra fu disegnato dall’architetto illuminista Luigi Trezza ed eseguito dallo scultore Pietro Puttini. Nel tornacoro trovano posto le tre pale del Ridolfi che illustrano il martirio di Santo Stefano, titolare, con San Giacomo, del tempio. Agli altri altari ci sono dipinti di Pietro Ronca, Saverio della Rosa, Francesco Perazzoli e della scuola del Giolfino. Opera di gran pregio è la vasca battesimale in marmo rosso di Verona, voluta dal Comune nel 1412. Nelle otto facciate vi sono altrettanti rilievi con i busti della Madonna, di Cristo e di alcuni Santi.

    Nel patrimonio pittorico del comune vanno ricordate anche due pale, di notevoli dimensioni, conservate nella parrocchiale di Tarmassia, firmate l’una da Felice Brusasorzi e l’altra dal Farinati.

    Fino alla soppressione, voluta da Napoleone nel 1806, operava in Isola anche un convento di frati Francescani. Poche tracce sono rimaste di esso ma è sopravvissuta, seppur ridotta da tre ad una sola navata, la chiesa di Santa Maria Maddalena ad esso legata. L’Amministrazione Comunale si è impegnata, in questi ultimi anni, nel recupero dell’edificio per ricavarvi un ambiente polifunzionale da utilizzare per iniziative culturali. I lavoro hanno portato alla luce resti di affreschi seicenteschi ed altri appariranno quando sarà possibile eliminare lo scialbo delle pareti dell’abside che li copre.

    La storia di Isola, che tante tracce ha lasciato nei secoli fin qui considerati, ha radici remote che vanno ricercate soprattutto nell’ambiente geografico caratterizzato dalla presenza di due grossi corsi d’acqua, il Tartaro e il Piganzo, che nascono dalle sorgive dell’alto agro Veronese e si uniscono immediatamente a sud del capoluogo. Proprio alla loro confluenza sorge il mulino chiamato della Giarella, forse il più antico dei tre che un tempo servivano la comunità.

    Il corso del Tartaro è stato qui spostato rispetto a quando dilagava in una vasta depressione provocandone I’impaludamento. Proprio questa situazione dovette apparire ottimale alle popolazioni dell’età del Bronzo che qui si stanziarono. Resti di un esteso insediamento di quell’epoca sono venuti alla luce presso il suddetto mulino e molto di più affiorerebbe se fosse condotta una campagna di scavi. I reperti che è stato possibile raccogliere in occasione di lavori agricoli sono esposti ad Isola della Scala in un piccolo museo, annesso alla Biblioteca Civica, inaugurato nel 1980.

    La zona ad est del capoluogo, occupata dalla depressione valliva del Tartaro, risulta attualmente coltivata a pioppeti e costituisce un patrimonio ecologico da conservare.

    All’abbondanza di acque Isola deve la propria denominazione come terra affiorante in mezzo al bosco e alle paludi. La specificazione “della Scala” le fu data dai Signori di Verona nel ‘300. Prima ancora si chiamò Isola Cenense, cioè “fangosa”, con specifico riferimento alle condizioni dell’ambiente. I veneziani vollero chiamarla Isola di San Marco; inutilmente perché gli isolani tennero fede alla denominazione che meglio evidenziava la loro veronesità. Ancor oggi essi riconoscono nella cosiddetta Torre Scaligera, fatta erigere da Mastino Il della Scala a guardia del Tartaro contro le incursioni mantovane, il proprio emblema civico, così come riconoscono nel santuario della Bastia il simbolo più evidente del loro sentimento religioso.


    BOVOLONE



    image

    Un pò di storia: La storia è comune a tutti i paesi che geograficamente e geologicamente si trovano nel territorio della Bassa Veronese ad avere le stesse caratteristiche. Questo non toglie certo a Bovolone il fascino paesaggistico delle sue origini e della sua terra. I segni del primo insediamento risalgono a 2500 anni a.C. cioè al quaternario, tra la fine dell’età della pietra e l’inizio dell’età del bronzo. Ne è testimonianza una vasta necropoli scoperta più di un secolo fa in località Prato castello e costituita da urne, sepolcri… Successivamente, anche di recente, venero effettuati scavi ad opera della Soprintendenza ai beni archeologici del Veneto che misero in luce oltre al rito dell’inumazione; punte di freccia, e coltelli in selce lavorata e vasi di corredo. La presenza di terramaricoli, inoltre, nella terra valliva è testimoniata dalle palizzate infisse nel sottosuolo dove oggi, convogliato nei suoi argini, scorre lento il fiume Menago. Le condizioni climatiche, evidentemente buone, questi immensi acquitrini e la fertilità del terreno fecero sì che vi approdassero numerosi abitanti i quali fondarono qui il loro lavoro villaggio.Terra delle rane. Una tradizione orale antica vuole che il nome “Bovolone” corrisponda a “Terra delle rane”. Vero o no, il nome è certamente di origine longobarda e deriva dal termine “boto” il cui significato resta tuttavia assai incerto. Il nome latino di “Bodolonus” confermerebbe però l’antica tradizione suffragata del resto anche dal termine di “rana bodoli” ancor oggi dato ai girini prima di diventare rane.Un feudo vescovileIl primo documento storico risale alla data del 24 giugno 813 quando il monaco benedettino Ratoldo, vescovo di Verona (803 – 840) emanò un “privilegio” noto come “pagina firmitatis” che distribuiva in quattro parti uguali (vescovo, clero, poveri e fabbriche della chiesa) le rendite del feudo di Bovolone “sua terra”. Il feudo venne confermato dai vescovi, papi e imperatori successivi. Anche gli Scaligeri e la Repubblica veneta riconfermarono al vescovo di Verona gli antichi privilegi di “Conte di Bovolone”, i diritti e le prerogative sul feudo. Il feudo vescovile cessò di essere tale, dopo circa un millennio e precisamente nel 1796 con la conquista del territorio da parte di Napoleone Bonaparte che fece scomparire la struttura giuridica esistente sopprimendo ogni privilegio. Così Bovolone entrò nel 1866 a far parte del Regno d’Italia.

    Buttapietra Le origini del nome



    image

    Ci sono varie ipotesi sull’origine del nome, c’è chi l’attribuisce alla natura del suolo, ghiaioso con poco humus, chi alla presenza delle pietre in grande quantità (terreno di origine alluvionale), chi al nome del fondatore del villaggio o a quello del più importante dei primi coloni che vi si insediarono.

    Cenni Storici

    Sono stati rinvenuti nella prima metà del II millennio a.C. stazioni preistoriche che circondano il comune di Buttapietra. nel territorio del Comune sono state rinvenute stazioni risalenti all’età del Bronzo (1800-1100 a.C.). Del tempo dei Romani a Buttapietra sono stati rinvenuti reperti, quali monete e utensili di bronzo, utensili di ferro, terracotta e vetri, pietre miliari della strada Claudia Augusta che attraversava il territorio del comune all’altezza della località di Settimo e della località Zera. La località di Settimo di Gallese deriva il proprio nome dal numero del miliare che indicava la distanza dalla città di Verona (septimo ab urbe lapide). Il territorio, durante il periodo del Medio Evo, faceva parte del grande patrimonio fondiario chiamato “Campagna”, che passa di proprietà dal Municipio Romano al Comune. Con l’incremento della popolazione i piccoli insediamenti si trasformano in Comuni per concessione degli Scaligeri. Nel sec. XI il territorio del comune era una vasta distesa di terreni incolti, parte a boschi e parte a pascoli. Buttapietra fu possedimento del Monastero di S. Zeno e durante la dominazione degli Scaligeri (sec. XIII-XIV) si sviluppò per poi diventare parte del vicariato di Ca’ di Campagna. Nel 1416 i Comuni del Vicariato di Ca’ di Campagna si liberarono della schiavitù feudale ed acquistarono la giurisdizione civile sul territorio dello stesso che conservarono fino alla caduta del dominio della Repubblica di Venezia. In un documento del 1876 conservato nell’Archivio Comunale di Buttapietra (carta intestata: Regno d’Italia, Provincia di Verona, Comune di S.




    CONCAMARISE



    image

    Storia e Turismo Concamarise

    1.078 abitanti su una superficie di 7,89 Kmq, dista da Verona 32 chilometri. Ha come frazione Capitello. La prima menzione del paese è ”Conchamaris” cioè conchiglia del mare, inoltre viene citato in un documento del 1114, secondo cui l’Imperatore Corrado III assicura protezione alla chiesa di Nonantola riconoscendo alla corte di Nogara il privilegio di ospitare la pieve e di esercitare diritti ‘’secolaris cum Comarisis”. Nel 1225 il paese si proclama libero comune, ma perde l’autonomia diventando feudo dei De Palatio e dei Sanbonifacio. Nel 1405 diviene possedimento dei Verità, poi dei Malaspina e in seguito dei Montanari. Il paese è conosciuto per la coltivazione del tabacco oltre che per le botteghe artigianali del mobile d’arte ed antiquariato.
    casaleone



    Il veronese: Casaleone



    image

    di origine romana


    Ha come frazione Sustinenza. Il ritrovamento di antiche monete indica la sua origine romana. Il documento più vecchio risale al 1180 riportando il nome “Casalauruns”, mentre in atti notarili di epoca successiva viene scritto “Casaluponis” e “Casavoni cum ravagnana” (Villa del territorio di Verona). Nei secoli XII-XIII fu feudo dei conti Sanbonifacio, poi dei Rangoni e, nel 1400, di Giacomo Dal Verme, il cui territorio risentì spesso dei danni causati dalle innondazioni provocate dalla rottura degli argini del Menago. Da vedere la parrocchiale costruita nel 1885 inglobando parte dell’antica chiesa di stile barocco; la parrocchiale di Sustinenza che conserva una tela del Brusazorzi e la tenuta della Borghesana con una corte rurale.


    Cerea



    image

    Le prime notizie su Cerea si hanno verso il 923, anche se nel territorio comunale sono molti i ritrovamenti appartenenti all’età del bronzo. Dell’età pre-romana è da ricordare il Castello del Tartaro, mentre alcuni studiosi affermano anche l’esistenza di un insediamento etrusco. Il Castello del Tartaro era un abitato situato nella parte più meridionale del territorio di Cerea: esso occupava ben 14 ettari ed era sicuramente uno dei più estesi di tutta la pianura padana, al punto da accendere la fantasia popolare che lo identificava con la mitica città di Carpanea. Come già detto, grazie ai materiali recuperati, si può datare la durata dell’abitato di Castello del Tartaro dalla media età del Bronzo a tutta l’età del Bronzo recente. Le prime notizie su Cerea si hanno comunque intorno al 923 quando Eriprando, arcidiacono della Chiesa veronese, concesse ai liberi abitanti (una sessantina di capifamiglia) il Castrum di Cerea e ai loro discendenti di condurre a termine la costruzione dello stesso castello, circondandolo di mura e di pietre e di abitare in esso. Fino al 1223 Cerea fu dipendente dai monaci di Verona per poi divenire, a partire da quell’anno, un libero comune, che venne però saccheggiato un anno dopo, a causa della guerra tra mantovani e veronesi e in quest’occasione fu distrutto anche il castello che sorgeva nelle vicinanze del fiume Menago. Nel 1304, retta da un Podestà, Cerea si darà anche i suoi statuti, che sono rimasti quasi un unicum del Trecento veronese; e sempre durante il medioevo centrale si realizzò anche la chiesa romanica dedicata a San Zeno, tuttora conservata. Durante tutto il medioevo e anche nelle epoche successive s’impegnarono ingenti capitali nel prosciugare, disboscare, canalizzare acque e mettere terre a coltura. Inizialmente tali bonifiche furono realizzate dagli enti ecclesiastici, padroni della zona, mentre successivamente, soprattutto ai tempi della dominazione veneta, furono gli illustri casati veronesi ad occuparsi delle loro tenute, divenute via via aziende agricole modello e sulle quali i signori costruirono case dominicali e ville prestigiose. Fra queste famiglie sono quelle dei Pellegrini, dei Carminati, dei Dal Ben, dei Brenzoni, dei Parma-Lavezzola, dei De Medici, dei Dionisi e tante altre. La prima ingente opera di bonifica della valle del Menago risale al 1218, mentre la seconda grande opera, che comportò la creazione di argini e il raddrizzamento del corso del fiume è datata 1401. Con la rettificazione dell’alveo del Menago, compaiono i primi mulini e con essi tutta una serie di sbarramenti che creavano dei salti d’acqua con lo scopo di aumentare la forza motrice del fiume e con essa la capacità di macina. Nel 1500 comparve, importata dall’Oriente, una nuova coltura che si insediò profondamente nel territorio determinandone ulteriori modificazioni: il riso. Seguì un periodo di decadenza a causa anche delle frequenti epidemie, che proseguì fino al 1700 quando, sotto il dominio veneziano, il centro di Cerea iniziò ad allargarsi e i nobili iniziarono a costruire le loro ville in tutta la campagna (Villa Medici, Verità, Sommariva, Villa Dionisi a Cà del Lago, Villa Franco al Piatton e Villa Guastaverza a Ramedello). Il legame di Cerea con i suoi boschi e con il fiume Menago è sempre stato molto sentito tanto da influenzare la scelta del simbolo dello stemma araldico del comune, nonché da determinare la nascita di leggende riguardanti l’origine della città. Già nel 1300 il bosco di proprietà del comune di Cerea era di 3491 campi e nel 1714 passava a 8506 campi. Il legno è sempre stato visto come la risorsa principale del paese ed è logico ritenere che il simbolo dell’albero di cerro nello stemma sia simbolo della vastità di selve esistenti nel territorio. La più antica riproduzione dello stemma, rimasto inalterato nel tempo, si trova in una lastra tombale datata 1575 situata nella chiesa di S. Procolo, annessa all’omonimo ospedale sorto del 1510. L’antico stemma è così definito: “Campo bianco ed, in rilievo, una pianta di cerro, cresciuta sopra un rialzo di terreno. Ai lati del tronco due “C“, iniziali delle parole “Comunitas Ceretae”” La leggenda sull’origine di Cerea invece parla di “una grande città, circondata da sette ordini di mura merlate e difesa da cento torri altissime, tutta premuta dalle acque disordinate che i fiumi non ancora arginati riversavano intorno, sorgeva sopra una bassa ed appiattita collina. […] Il dio Appo rappresentava l’onda incatenata a ricordo della titanica opera degli uomini i quali, costruito un grande bacino, erano riusciti a raccogliere le acque sovrabbondanti dei fiumi che, senza argini e impetuose, minacciavano di sgretolare la collina sulla quale sorgeva la città…”. È evidente pertanto come la città sia da sempre strettamente vincolata al fiume e abbia dovuto contendersi con esso le terre su cui sorge.


    Edited by tomiva57 - 24/11/2010, 17:48
     
    Top
    .
  9. tomiva57
     
    .

    User deleted


    Ronco all’Adige





    image


    Etimologia Il nome del paese deriverebbe dai conti di Ronco, soprannominati Sambonifacio e feudatari nella zona a partire dal 909, quando si insediò al potere il conte Milone.

    Storia Abitato in epoca romana, come testimoniano i reperti rinvenuti nella zona, il paese sarebbe stato distrutto dalla presunta alluvione del 589 d.C. e dalla successiva pestilenza. Dopo il Mille vennero realizzate opere idrauliche, ma nel 1224 il centro è dato alle fiamme. Si registrò un periodo di sviluppo delle attività economiche durante la dominazione degli Scaligeri e dei Veneziani, che decretarono l’annesione di Ronco al vicariato di Isola Rizza. Nacque nel 1593 il consorzio di bonifica.

    Secondo la tradizione, dal campanile di Ronco venne diretta da Napoleone la battaglia di Arcole contro gli austriaci, che restarono i dominatori fino al 1866, quando il Veneto divenne italiano.



    Chiese

    - Chiese di Scardevara – XII secolo Conserva strutture romaniche medioevali con intatta l’abside dell’antica Pieve del 1100.

    - Parrocchiale di Ronco – XV secolo Più volte ricostruita, interessante l’abside del 1400.

    - Chiesa di Tombazosana – XIX secolo Costudisce una deposizione di Felice Riccio, detto il Brusasorci

    Ville – Corte Polfranceschi – XVII secolo – Corte Corso – XVIII secolo – Villa Camozzini – XIX secolo

    Cultura

    - Sagra di San Lorenzo In agosto nella frazione Albaro

    - Mostra della Mela e della Pera Ultima domenica di settembre, frazione di Tombazosana

    - Sagra di Canton dedicata a S.Francesco di Paola Prima domenica di agosto, contrada di Ronco all’Adige

    Economia Fa parte dell’area di produzione del Riso Nano Vialone Veronese che viene coltivato su terreni della pianura veronese irrigati con acqua di risorgiva. Famoso da sempre per la coltivazione di mele e pere. Economia emergente nella produzione di asparagi bianchi.

    Roverchiara


    image


    Cenni Storici

    Roverchiara è situata nella parte sud-orientale del territorio veronese, fra la riva destra dell’Adige e il Bussè. L’origine del toponimo è controversa: secondo alcuni esso deriverebbe dal popolare “roeciàra” (che rimanda al rovere); secondo altri, invece, sarebbe da ricondurre alla deformazione volgare del latino “Rubecularia” o “Rubeclara” (cioè “campagna piena di rovi”). Quest’ultima è l’ipotesi più accreditata, tuttavia esiste un’altra opienione secondo cui il nome originario sarebbe “Ripaclara”, poichè la sponda dell’Adige sarebbe stata illuminata da un faro durante la notte. I primi documenti che attestano l’esistenza del paese risalgono al IX secolo: in questo periodo esisteva una comunità cristiana organizzata dipendente dalla diocesi di Verona. Il potere episcopale fu gradualmente soppianato dal crescente Comune di Verona nel XII secolo. Dopo la breve parentesi di Ezzelino da Romano, Roverchiara passo prima sotto gli Scaligeri, poi sotto i Visconti, ed infine sotto la Repubblica di Venezia, che ne mantenne il possesso fino alla fine del Settecento. Oggi l’Adige ha perso la sua valenza commerciale, ma ha mantenuto una notevole imoprtanza per l’irrigazione dei campi.

    Itinerari

    Villa Pindemonte-Fiumi (secc. XV-XVIII)

    Recuperata a Sede Municipale dopo vari decenni d’abbandono, la “casa degli Avi”, che per la storiografia artistica è nota come “Villa Pindemonte-Fiumi”, ha una storia antica, densa e significativa da raccontare.

    Concresciuta alla vita del suo illustre abitatore intrecciandovisi in modo inestricabile, è un museo vivo che, catturando la vita segreta di immagini riflesse nella memoria delle mura, ci restituisce ciò che è rimasto di lui, poiché “l’uomo passa e la casa rimane: rimane a ricordare, a testimoniare, ad evocare colui che non è più”.

    Attraverso questa lunga storia (che ha percorso le vicende di illustri famiglie sulle quali torneremo più avanti) ancor oggi perfettamente leggibile grazie a un attento e ‘discreto’ intervento conservativo, andremo a iniziare ora un ‘viaggio’ nel quale, stanza dopo stanza, il poeta potrà ancora raccontare se stesso.

    Villa Pindemonte-Fiumi è una struttura architettonica pluristratificata le cui prime attestazioni documentarie risalgono al 1745, quando il marchese Carlo Pindemonte, l’allora proprietario, esponente di uno dei più potenti casati di Verona che possedeva latifondi in varie altre zone della “bassa veronese”, ne denunciò l’esistenza e la proprietà nella polizza d’estimo di quell’anno, nella quale così è riportato:”Una pezza di terra a Roverchiara, parte prativa con vigne e morari, e parte prativa, con casa dominicale e rusticale, di campi 20 che rende ducati 80″.

    Estintosi poi questo ramo dei Pindemonte, la villa passò nel patrimonio dei Brenzoni, altro illustre casato veronese e, successivamente, per via matrimoniale, al trentino Domenico Fiumi, nonno del nostro poeta.

    Un’interessante testimonianza cartografica della fabbrica ci è restituita da un disegno di Lodovico Perini del 16 luglio 1718 (che diviene dunque termine ante quem per l’edificazione del complesso), conservato presso l’Archivio Parrocchiale di Roverchiara, e dalla quale risulta che l’impianto attuale corrisponde perfettamente a quello settecentesco.

    Tuttavia, in seguito ad analisi e a saggi stratigrafici effettuati durante l’intervento di restauro, si è potuto verificare che la fabbrica derivi da una struttura architettonica di un certo rilievo, dotata peraltro di torre colombara e databile quantomeno al XV secolo (di questo periodo infatti risulta essere una parte delle apparecchiature murarie rinvenute nel sottotetto).

    È emerso, inoltre, che l’artefice della trasformazione settecentesca sia stato proprio il marchese Carlo Pindemonte.

    Quando, nei primi anni del Novecento, la famiglia del poeta da Verona cominciò a soggiornare durante i mesi estivi nella campagna di Roverchiara, l’assetto tipologico della villa si presentava all’esterno così come oggi lo vediamo, con gli originari elementi decorativi caratteristici del Settecento, non privi di un certo fascino e interesse: le modanature in tufo delle mostre del portale e delle finestre, la cornice di gronda a modiglioni, le aperture ovali del sottotetto, che conferiscono alla facciata un maggior accento chiaroscurale e una leggiadria di gusto barocchetto, e le sagome ricercate delle torricelle dei camini.

    All’interno, invece, aveva già subito proprio ad opera della famiglia Fiumi un consistente intervento di riammodernamento, quando alcune sale del primo piano furono decorate con eleganti fasce pittoriche in stile liberty, e vennero sostituite varie finiture settecentesche, quali pavimentazioni (che da pianelle in cotto passarono a marmette di graniglia), serramenti e intonaci.

    I soffitti lignei a travature, alcune delle quali decorate a tempera con motivi policromi, vennero coperti da una controsoffittatura in canniccio e, inoltre, furono realizzate le due tramezze che dividono i saloni centrali (esistenti al piano terra e al piano primo), elemento tipico, quest’ultimo, della tipologia della villa veronese e veneta.

    Quando l’Amministrazione Comunale promosse l’intervento conservativo della fabbrica, per adibirla nel 1998 a Sede Municipale, accettò anche la sfida posta dai principi canonici della conservazione; infatti, a differenza di quello che accade in molti altri interventi di trasformazione di private residenze storiche in edifici pubblici, dove tutto è sacrificato o addirittura stravolto in nome della funzionalità, nel caso di Villa Pindemonte-Fiumi si è invece tentato il contrario, ossia di adattare la funzione al soggetto, nel pieno rispetto dei caratteri tipologico-architettonici e della conservazione dei valori materici delle permanenze. E tutto questo in linea con le più aggiornate teorie della conservazione che considerano queste fabbriche (che solo riduttivamente chiamiamo ‘beni culturali’) come fonti dirette e documenti storici a tutti gli effetti, in quanto, sapendoli leggere, vi si ritrova scritta tutta la loro storia.

    Il restauro compiuto, tentando così di valorizzare sia i valori artistici che materici della fabbrica, ha fatto in modo che nessun passaggio storico andasse perduto e, nello stesso tempo, ha restituito quella suggestiva cornice di godimento estetico che era indispensabile complemento di una dimora gentilizia.

    Bellezza e piacere estetico vennero invece un po’ sacrificati quando la villa, durante gli anni burrascosi della guerra, perdendo la peculiarità di luogo spensierato di vacanza, divenne per il poeta rifugio obbligato e stabile dimora.

    Fu così che, per esigenze urgenti di funzionalità, al possente camino in tufo con zampe leonine del XVI secolo si affiancarono la prima cucina economica smaltata e le antiquate stufette di ghisa, mentre nelle camere da letto, arredate in stile impero, alle tradizionali comode si aggiunse un primo servizio igienico rialzato, ponendo sul prospetto posteriore un gabinetto pensile su mensola in pietra con strutture lignee.

    Rimase comunque una dimora gentilizia, con il giardino ottocentesco di alberi ad alto fusto, con un parterre all’italiana variegato di fiori e dalle lunghe aiuole di salvia splendida ai lati della porta d’ingresso che, tingendo il verde dell’estate di un rosso vivido, ne prolungavano il colore fino alle prime nebbie autunnali.

    Era una dimora ricca impreziosita dai lunghi divani, dalle cassapanche, dalla cristalliera, e poi il trumoncino, gli specchi, lo scrittoio, i vecchi quadri, i tavolini, le poltrone di velluto, le librerie straripanti… al punto che, come riporta Gian Paolo Marchi, “i tedeschi che si stanno ritirando verso il Nord occupano la casa di Roverchiara ma non danneggiano nulla; la grande quantità di libri pare li metta in soggezione”.

    Nella seppur provvisoria, ma raccolta e pensosa, quiete di questa casa Fiumi lavorò assiduamente a saggi letterari e a moltissima poesia.

    Interrogando la disposizione delle stanze, spesso ci siamo chiesti se il poeta privilegiasse uno spazio dove poter in silenzio confrontarsi con la propria ispirazione, dove magari restare immobile a fissare il soffitto per andare poi a riempire il foglio vuoto.

    Nacque qui una tra le sue liriche più belle: Ecco la casa. Qui tra questi muri Fummo felici, a giorni. I muri ancora Esistono, li tocco. Ma dove sono andati, essi, quei giorni? Tuffati, in essi, noi ci sentivamo Pari a gonfi di succhi Frutti in meriggio d’oro. Questa pietra sfioravano, essi, i giorni, Come in punta di piedi, a non turbarci; Come, al passare, adesso, le mie dita La toccano furtive. Scantonarono. E fu senza ritorno. Svaniti con i fumi del crepuscolo! Dove, adesso, quei giorni? Adesso, sulla strada, ecco un crepuscolo Nuovo calare. Ah sempre questo giungere Il crepuscolo! ah sempre questo subdolo Rubarci giorni! Fra ombre, ancora io sono qui. Superstite Ai giorni; provvisorio Relitto che resiste alla fiumana. Ma un crepuscolo attendo che alla foce Sconfinata dei giorni ormai perduti Anche me, e per sempre, Anche me, anche me travolgerà.

    Cercando di lui tra queste mura, salendo le antiche e consumate scale, oggi possiamo ritrovarlo in quello che è divenuto lo spazio più intimo e suggestivo della sua casa: il sottotetto, valorizzato per accogliervi un piccolo ma prezioso museo dove manoscritti, foto d’epoca, lettere inedite, rubriche, quadri, giornali, riviste letterarie e moltissimi libri sembrano essere stati lasciati lì, quasi con familiare noncuranza, dal poeta prima di andarsene, abbandonando, con i giorni ormai perduti, anche indelebili tracce di sé.

    image

    Il Museo “Lionello Fiumi”

    Inserito nell’ambito di un ampio programma di valorizzazione della figura e dell’opera del poeta promosso dall’ Amministrazione Comunale in quest’ultimo decennio, il Museo “Lionello Fiumi”, inaugurato nel novembre 2000, è situato al secondo piano della prestigiosa Sede Municipale.

    Si tratta di poche, ma suggestive stanze ricche di materiale rinvenuto, in gran parte, durante i lavori di restauro, raccolto e conservato dalla Biblioteca Civica “Lionello Fiumi” (istituita nel 1996 ed eredità vincolante del poeta, che donò al Comune due stanze della villa perché ne realizzasse il progetto in sua memoria).

    Su tavolini, librerie e bacheche illuminate sono disposti in notevole numero testi editi, manoscritti, giornali e riviste letterarie soprattutto straniere, rubrichette domestiche, lettere autografe, appartenuti al poeta e appendice della sua ricca biblioteca e del suo vastissimo patrimonio epistolare, ora conservati presso il “Centro Studi Internazionale Lionello Fiumi” del Comune di Verona.

    Interessanti fotoriproduzioni, inoltre, ripercorrono e completano le tappe fondamentali dell’itinerario culturale internazionale di Fiumi e offrono uno spaccato significativo del suo vissuto personale.

    È inedito, invece, il carteggio Fiumi-Bagnara, costituito da un centinaio di lettere, scritte dal poeta all’amico sacerdote nell’arco di un trentennio, che delineano gli aspetti più intimi della sua vita e costituiscono la testimonianza di una fraterna amicizia, nata proprio a Roverchiara nel 1938.

    Per la localizzazione facilmente accessibile, il Museo sta divenendo tappa di rilievo all’interno di un vasto percorso museale che abbraccia tutto il territorio veronese e di un grande progetto turistico – un vero e proprio itinerario lungo il fiume Adige – volto alla riscoperta, alla promozione e alla salvaguardia del nostro ricchissimo patrimonio artistico-culturale.

    Anche il restauro del giardino circostante la villa si coniuga con queste esigenze di funzione culturale e funge da complemento del Museo, offrendo al visitatore, turista o studioso che sia, la possibilità di fruire di un suggestivo spazio aperto con giardino all’italiana, caratterizzato da un raffinato parterre in bosso e da una porzione di giardino informale, composta da alberatura ad alto fusto.

    A sottolineare lo stretto legame tra Museo e spazio verde é stato collocato, su una mezza colonna marmorea, un busto in bronzo del poeta, opera che sancisce, una volta ancora, il legame di Fiumi alla “sua” Roverchiara.

    IL MUSEO E’ ACCESSIBILE AL PUBBLICO PREVIO APPUNTAMENTO. CONTATTARE BIBLIOTECA CIVICA

    Chiesa Parrocchiale San Zeno

    La chiesa attuale fu realizzata nel XIX secolo nel luogo dove si trovava l’antica parrocchiale risalente all’XI secolo, di cui però non rimane nulla. L’interno è abbellito da pregevoli dipinti, fra cui ricordiamo: la Madonna con SS. Sebastiano e Rocco, di Francesco Montemezzano e il Cristo Crocifisso con il SS. Zeno e Lorenzo di Paolo Farinati.

    Oratorio della Beata Vergine delle Grazie

    L’Oratorio fu fondato nelle prima metà del XVII secolo per volere del parroco Giovanni Groberio. Il campanile fu eretto nel XVIII secolo, con quattro monofore e una cuspide a cupola su bese ottagonale.

    Altri edifici di interesse storico-artistico:

    - Corte domenicale Guarienti di Brenzoni;

    - Oratorio di S. Teresa di Avila (XVIII sec.)


    Salizzole



    Una delle ipotesi più accreditate, attribuisce il nome di Salizzole alla presenza nella vegetazione locale di numerosi salici (in latino=salix) e ci porta ad immaginare quale doveva essere il paesaggio agli occhi dei primi cacciatori di qualche millennio fa; paludi e alberi, tra i quali appunto salice. Le vicende storiche che hanno interessato il nostro territorio, sono testimoniate da numerosi reperti archeologici che confermano una continuità di insediamento che è documentata a partire dall’età del bronzo fino ai giorni nostri. Importanti costruzioni sono tuttora visibili, tra cui tutte citiamo il possente castello scaligero del XIII sec., dalle due torri di non comune altezza, a testimonianza di un passato ricco di storia e di avvenimenti. Nel maniero visse fino al momento di passare alle nozze con Alberto I° della Scala, Donna Verde, della famiglia dei conti di Salizzole, che doveva divenire la
    Corte Dominicale Spolverini All’Olmo in Via Roma – Salizzole
    Corte Dominicale Spolverini Alla Pozza in Via Mezzascala – Salizzole

    madre di Cangrande I° della Scala. All’interno della Chiesa Parocchiale, una colonna votiva in marmo rosso, con capitello gotico, recante una iscrizione che attesta l’epoca scaligera (sec. XIV). Inoltre, un bel battistero ottagonale con archetti trilobati in marmo rosso veronese datato 1430. Durante la dominazione veneziana (1404 – 1796) con l’introduzione della coltura del riso sono sorte, nelle vicinanze del paese, tra il XVI – XVII sec. le cosidette ville – corti dominicali, di cui tuttora si possono apprezzare le strutture originali di buon livelo artistico come: Villa Guarienti, Villa Sagramoso, Villa Spolverini con elegante bifora gotica

    image

    (unicum nel nostro territorio). Altre residenze sono sparse nella campanga circostante, degne di nota sono: Villa Spolverini alla Pozza, Villa Schiavoni all’Albaro, e Villa Rolandi-Monga alla Gabbia, con annesso bellissimo parco giardino secolare.
    Villa Rolandi – Monga alla Gabbia
    “GENIUS LOCI” DEL COMUNE DI SALIZZOLE ovvero lo “SPIRITO DEL LUOGO” di Beltrami dott.ssa Morena
    “Fin dall’antichità il genius loci, lo spirito del luogo, è stato considerato come quella realtà concreta che l’uomo affronta nella vita quotidiana…Il luogo rappresenta quella parte di verità che appartiene all’architettura: esso è la manifestazione concreta dell’abitare dell’uomo, la cui identità dipende dall’appartenenza ai luoghi”.
    L’IMMAGINE La “nascita” di Salizzole si attesta dopo il Mille, in particolare nell’anno 1144 come testimonia un diploma emanato dall’imperatore Corrado III. Un’ ipotesi tra le più accreditate per il toponimo del paese, si rifà alla presenza locale della vegetazione di salici (in latino: salix) usati per bonificare. Il comune di Salizzole si estende sul territorio della Pianura Padana nella zona Sud della Provincia di Verona denominata Basso Veronese. Il territorio pianeggiante e molto fertile è stato da sempre sfruttato in agricoltura. Il carattere e il fascino di questa zona sono dati dall’enorme espansione orizzontale degli spazi che fanno andare lo sguardo lontano senza incontrare confini e che a volte, per occhi abituati a luoghi con un elevato numero di insediamenti, può far perdere l’orientamento e dare un senso di smarrimento, ma può anche liberare dando la sensazione di far parte del cosmo. Il paesaggio invernale è romantico perché la nebbia in questa zona diventa una presenza assidua che modifica il paesaggio che non è più “infinito” ma viene nascosto. Tutto diventa indistinto e la vista si abitua a non avere contorni netti ma si ovatta come gli altri sensi. Ecco così che la presenza del Sole talvolta si può solo percepire appena, dietro al velo grigio che copre tutto e che fece dire allo stesso Hermann Hesse: “Che strano camminare nella nebbia! Ogni cespuglio ed ogni pietra è sola. Un albero non vede l’altro, tutto è solitario …” .La luce quindi, in autunno e in inverno è sempre una presenza timida perché coperta dalla nebbia che invece caratterizza pienamente e fortemente questi luoghi, ma in estate ritorna e fa vedere il suo splendore e tutti i suoi colori grazie a delle albe e a dei tramonti senza limiti tra cielo e terra. L’ architettura del paesaggio sembra non voler negare la natura orizzontale del luogo, infatti, le costruzioni, le case per la maggior parte non superano il primo piano e i nuclei abitativi si trovano lungo le direttrici principali che lo collegano agli altri comuni. In questa zona le numerose corti testimoniano il carattere e la tradizione che rimane chiusa nella sua attività un po’ restia ai contatti esterni e chissà se anche i vari castelli, non siano lì a proteggere e a custodire questo territorio, dalla storia antica, testimoniata dai numerosi reperti che risalgono al Neolitico. Le torri e i campanili si levano lungo l’orizzonte come custodi protettori e il castello scaligero di Salizzole, con la sua imponenza, sembra nello stesso tempo non voler erigersi troppo in verticale ma mostra con il suo perimetro la robustezza e il desiderio di voler essere ancorato al suo territorio e alla terra.

    IL CARATTERE

    Nonostante l’espansione dell’artigianato Salizzole ha risentito relativamente poco il fascino del settore e i laboratori che sono sorti e le persone che sono passate dal settore agricolo a quello artigianale non hanno sconvolto gli insediamenti e la cultura contadina fortemente radicata da generazioni. In alcuni comuni limitrofi invece, in molti hanno convertito le loro attività produttive sull’artigianato, tanto da cambiare la stessa fisionomia del paese, con abitazioni con annesso laboratorio, mobilifici e mostre di dimensioni anche notevoli.

    Lo stesso aumento demografico con relativa espansione residenziale interessa Salizzole solo negli ultimi anni.

    Il carattere di Salizzole è determinato dalla Pianura Padana, dai campi coltivati che sono indubbiamente l’elemento che predomina e che lega gli abitanti alla terra.

    Le corti, gli insediamenti incentrati attorno alle chiese e lungo le strade di comunicazione non sono cambiati molto negli anni. Le case sono basse e hanno una struttura massiccia e a scheletro e poggiano nel terreno, non hanno cioè una base percettibile, ed esprimono così il rapporto intimo che lega chi le abita al luogo. Le stesse corti, con i loro recinti e le loro aperture verso la campagna indicano il voler essere autosufficienti e dipendenti dalla terra.

    Le corti testimoniano e ricordano costantemente che questo luogo è basato sull’agricoltura e che di questo legame alla terra bisogna andare fieri perché le corti e il castello con la loro architettura e la loro storia ricordano che se tutto è semplice è anche bello e legato al “bello”.

    Le piazze che si trovano in ogni centro fungono da luogo di ritrovo per tutti, dai più giovani ai più vecchi, dagli uomini alle donne.

    I piccoli negozi, le mercerie ancora presenti conservano ancora un’atmosfera antica in cui la socializzazione e “la vita di paese” ne trovano giovamento perché tutto sommato il detto “nel paese piccolo la gente mormora” non ha connotazioni così negative ma acquista anche il significato di appartenenza alla comunità formata da generazioni che da sempre si conoscono.

    Nel paese, infatti, si intrecciano stretti legami, esistono fili rossi che legano tutte le famiglie e la storia di ognuno è intrecciata con la storia dell’altro.

    E’ ad esempio, nelle associazioni, nei “bar sport”, nei momenti religiosi e nelle sagre del paese che poi ci si incontra e si continua ad intrecciare e a costruire la storia di tutti.

    image

    Salizzole è stato un territorio poco “battuto” dalle correnti di immigrazione e di emigrazione, lo sviluppo demografico è stato abbastanza contenuto, anche le costruzioni di nuove abitazioni non hanno influito molto sul carattere del luogo.

    Ogni edificio ha la sua identità e dà modo a chi lo abita di riconoscersi in lui e gli spazi ampi permettono di sentirsi liberi.

    L’immutabilità di Salizzole, la sua chiusura è stata anche la forza che ha permesso di conservare e di rendere ancora vivibile il paese, ha permesso alle persone di identificarsi con esso e di esperire il significato del luogo.
    IL GENIUS LOCI

    Tutti gli abitanti di Salizzole si riconoscono anche senza rendersene conto nel castello simbolo del paese, tutti sono affezionati a questi due torrioni che si innalzano tra la pianura piatta e si possono vedere anche da lontano.

    image

    Le due torri sembrano due vecchi soldati che non hanno più voglia di combattere ma che si godono la vista delle grandi valli.

    Questo castello lega gli abitanti anche al personaggio che ha maggior fama nella storia salizzolese, ovvero la contessa Verde “da Salizzole” moglie di Alberto della Scala, iniziatore, nel 1277, della Signoria scaligera e madre del famoso Cangrande della Scala. A questo personaggio tutti si sentono legati anche chi, tutto sommato, della Signoria scaligera non ne conosce un gran che, ma la presenza del maniero e della sua storia rende orgogliosi gli abitanti che si identificano in esso.

    L’affetto sentito lo si può capire anche quando i lavori di ristrutturazione che si susseguono negli anni, scatenano sempre preoccupazioni o ansie per il timore che questi possano far subire al castello dei cambiamenti che lo renderebbero meno riconoscibile alla memoria collettiva. Anche i recenti lavori di riqualificazione del centro storico, della piazza del comune hanno fatto parlare gli abitanti.

    La paura è quella di perdere l’orientamento e di conseguenza lo spazio esistenziale.

    La dimensione esistenziale, che si manifesta attraverso la storia tramandata ed esperita, è stata fino ad oggi salvaguardata.

    Negli ultimi anni, però, la costruzione di nuove case poco attente alla tradizione, l’espansione della zona artigianale con capannoni tutti uguali a loro stessi, corre il rischio di rovinare il genius loci e l’immagine ambientale degli abitanti, intaccando la profonda sicurezza emotiva che il luogo ha dato fino ad oggi.

    La Piazza di Salizzole

    Tutti gli insiders dovrebbero essere coscienti e fieri della “vocazione” del luogo che è sempre stato legato alla terra, ma anche al cielo e che la mancanza di confini visivi che abbiamo la fortuna di possedere non è altro che un modo di orientarsi e di metterci in relazione con il tutto.

    Gli stessi colori che si sperimentano durante tutto il corso dell’anno e che variano da stagione a stagione, da grigio della nebbia, al marrone dei campi arati, al verde splendente delle piante fino all’oro accecante del grano maturo, sono tesori che ci appartengono e che non possono essere barattati in cambio di una omologazione e di una urbanizzazione che tutto ingloba e che tutto rende sterile.

    La storia delle corti non può essere scambiata con la comodità e l’attualità di un condominio che innalzandosi nell’aria ferisce il cielo e l’orgoglio delle torri.

    C’è bisogno di poggiare saldamente i fondamenti nella terra, solo così si potrà ancora conservare e trasmettere il significato di “ABITARE” Salizzole.



    San Pietro di Morubio



    image

    STORIA: Due le ipotesi sul nome del paese, derivato dal latino “rubus”, rovo o pruno, oppure da Rubbiani, nobile famiglia della zona. Nei documenti medievali sono citati Moruiolo, Morugio, Marrubio, Moruggiolo. Del Quattrocento le prime dettagliate notizie, dell’intreccio fra la storia di S. Pietro di Morubio e della frazione di “Malavicina”. La vita delle due comunità è strettamente legata alla presenza dei canali d’acqua, fra cui canale Nichesola, Canossa, Bracca, Fossa del Vescovo, Dugal, fatti scavare dai nobili Caprini, Guarienti, Algenago- Troiani e Della Verità, abitanti a S. Pietro di Morubio, e Rubbiani Loredan, Emilei, Della Pigna, Menini, Bertelè e Pasti di Bonavicina. Conseguente lo sviluppo dell’attività agricola, favorita anche dalla concessione di terreni in affitto ai contadini. Fra il ‘400 e il ‘500 le colture prevalenti sono grano, ortaggi, frutta e canapa, mentre il bestiame viene impegnato quasi esclusivamente per il lavoro nei campi. I marchesi Dionisi, i Guastaverza e i Rubbiani diffondono fra il ‘600 e il ‘700 la cultura del riso, facendo livellare il terreno e razionalizzando i corsi d’acqua, lungo i quali spuntano le “pile” e i mulini. I terreni sabbiosi di Bonavicina risultano più adatti alle tradizionali coltivazioni. Una lapide datata 10 settembre 1796, posta all’interno del palazzo Alcenago- Troiani, V. IV Novembre a S. Pietro di Morubio, testimonia il passaggio delle armate napoleoniche. Ai primi dell’ottocento decollano l’allevamento dei bacchi da seta, con la corrispondente diffusione della coltura del gelso, e la coltivazione del ricino a scopo terapeutico e come lubrificante. La variazione del nome della frazione “Malavicina” in Bonavicina avviene nel 1874, su pressione degli stessi abitanti che, fin dai primi anni del ‘900, si dedicano alle piantagioni di tabacco. S. Pietro di Morubio ha dato i natali al filosofo Alberto Caracciolo (1918-1990).

    ARTE: Sui resti delle fondamenta di antiche piccole chiese, parte delle quali risale al Trecento, sorgono nel corso del ‘700 le parrocchiali di S. Pietro di Morubio, di Bonavicina, che conservano altari barocchi, immagini e statue di epoche precedenti, provenienti da antichi templi, e la parrocchiale di Borgo, dove è custodita una pala da taluni attribuita a Felice o Domenico Riccio, detto Brusasorzi (integra la Colombara in Via Motta del 1493). Del seicento e settecento sono la vecchia sede municipale, tipica struttura lombardo- veneta, corte Rubbiani,vasto complesso rurale, e vari palazzi di S. Pietro di Morubio e Bonavicina, dove si possono ammirare strutture architettoniche anche del secolo successivo.

    image

    ECONOMIA: Numerosi i laboratori artigianali del mobile in stile sorti negli ultimi decenni, mentre vengono mantenute le tradizionali attività agricole, concentrate nella produzione di tabacco e vari tipi di frutta, e l’allevamento di animali da ingrasso, bovini e polli. Importante la lavorazione industriale di letame spento a S. Pietro di Morubio e dei concimi chimici in località Farfusola, dove sorge una fabbrica cooperativa. Nella zona artigianale Martella sono in attività u mangimificio e un oleificio, quest’ultimo specializzato nella lavorazione della soia per l’estrazione dell’olio,essi danno forte impulso all’economia locale. La superstrada Transpolesana accelera i collegamenti con Verona e il Polesine. Lungo tale arteria l’Amministrazione Comunale ha in programma l’insediamento di una zona Agroindustriale.

    FOLCLORE: A Bonavicina, la prima domenica di maggio, festa dei santi patroni Filippo e Giacomo. Nel capoluogo, l’ultima domenica di agosto, sagra di S. Gaetano, un tempo fiera del bestiame, attualmente animata da spettacoli e mostre di vario genere.

    ENOGASTRONOMIA: ‘Risoto col tastasàl’, ‘tajadele in brodo con figadini’ (tagliatelle in brodo con fegato di pollo), bollito con la pearà (salsa a base di pane grattugiato, pepe,midollo e brodo di carne). Fra i dolci, ‘il bigoloto’ e ‘la potona’, (chicchi d’uva schiacciati e bolliti assieme a un po’ di farina). Zucca, castagne e vino ‘crinto’ sono gli antichi sapori che allietano le nebbiose giornate invernali.

    Sanguinetto




    È incerta la derivazione del nome: forse dalle sanguinose battaglie per la conquista del territorio, strategicamente importante, che si sono succedute nei secoli, molto più probabilmente da una varietà della pianta Cornus sanguinea, detta volgarmente Sanguinello (arbusto caducifoglio che produce bacche rosse). Il toponimo risulta documentato già in un documento del 930, come testimonia lo studiosoGiovanni Rapelli di Verona.

    Storia
    image

    Nel XIV secolo per volere degli Scaligeri, viene costruito il Castello: verrà negli anni più volte saccheggiato. Sanguinetto venne devastata dai Mantovani intorno all’anno 1232, divenne feudo della Serenissima, fu conquistata dai Ferraresi nel 1483, nel 1509 dagli Imperialisti, nel 1511 saccheggiata dai Francesi. Nel XVI secolo divenne feudo delle famiglie Lion e Martinengo.
    Chiese

    * Chiesa Convento di S. Maria delle Grazie -XVII secolo

    image

    Risalgono al ‘600 la Chiesa e il Convento di S.Maria delle Grazie soppresso nel 1769 in seguito ad una legge del Senato Veneto che cercava di ridurre il potere degli Ordini Ecclesiastici sul territorio. Il Convento è stato completamente restaurato negli anni 2007-2008 con l’allestimento di sale museali e civiche.

    * Chiesa della Rotonda – XVIII secolo

    Nel 1747 fu edificato l’Oratorio delle Tre Vie o chiesa della Rotonda costruito su disegno dell’architetto Alessandro Pompei, su committenza del Conte Lion. Al Pompei si devono, nella zona della bassa veronese, alcune opere come Villa Giuliari a Settimo di Gallese (vicino a Buttapietra in provincia di Verona), Villa Pindemonte a Vo’ (Isola della Scala in provincia di Verona). È dedicata al ‘Santo nome di Maria’ e l’11 luglio di ogni anno, in onore a una tradizione che vede nella protettrice della chiesa una fautrice di un miracoloso evento -la fine di una terribile peste-, si celebrano le tradizionali 11 messe, tutte in un solo giorno.

    * Chiesa Parrocchiale di San Giorgio Martire – XIX secolo

    image


    Sui resti di una cappella venne costruita la chiesa parrocchiale che fu terminata nel 1835, su progetto del veronese Giovanni Canella (Palazzo Massarani di Mantova e Villa Nievo di Rodigo in provincia di Mantova). Venne benedetta nel 1826 e consacrata il3 Maggio 1835. Il pittore Miolato, 1925-29, (suo anche l’affresco dell’Assunzione al Cielo della Vergine nella chiesa di Villa d’Adige in provincia di Verona)ha affrescato l’interno con 14 quadri della Via Crucis, l’ultima cena e la moltiplicazione dei pani ai lati dell’altare maggiore ed il martirio di S. Giorgio (patrono del paese) nel catino dell’abside e la stessa volta dell’abside. La risurrezione del Cristo è del pittore Agostino Pegrassi come pure i disegni delle vetrate delle finestre.

    Trevenzuolo



    Trevenzuolo contava all’ultimo censimento una popolazione di 2357 abitanti, senza considerevoli mutamenti rispetto al decennio precedente. Tale popolazione si raggruppa, oltre che nel capoluogo, nelle due consistenti frazioni di Roncolevà e Fagnano, costituenti parrocchie autonome.

    image

    L’elemento geomorfologico più significativo del territorio comunale, che si estende su una superficie di 27 Kmq (9000 campi veronesi), è costituito dal fiume Tione che lo attraversa in senso nord-ovest sud-est, raccogliendo nel suo procedere altri corsi minori quali la Demorta, la Gambisa e il Gamandone. Al Tione sono strettamente legati l’origine e lo sviluppo del paese, ad iniziare dalle prime testimonianze di presenza umana che ci riportano ad un orizzonte cronologico compreso fra la media Età del bronzo ed il bronzo finale. Dopo gli occasionali rinvenimenti segnalati da Carlo Cipolla e dal De Stefani nella seconda metà del secolo scorso, apposite ricerche di superficie, effettuate a partire dagli anni Settanta di questo secolo, ed un saggio di scavo operato dal Museo Civico di Scienze Naturali di Verona fra il 1978 ed il 1979 hanno portato all’individuazione di due estesi insediamenti: uno in prossimità del capoluogo, in località “Castello”, e l’altro presso corte Vivaro, ai confini con il comune di Nogarole Rocca. Tra i numerosi materiali, quasi sempre frammentari, raccolti e in parte depositati nel Museo archeologico di Isola della Scala, si segnalano ciotole carenate, olle, dolii decorati da solcature, anse cornute, nonché una statuetta di bovide in argilla ed una tavoletta enigmatica decorata da figure riproducenti un pendaglio ad occhiali. Nelle stesse località degli insediamenti preistorici non mancano evidenti tracce di continuità con il periodo romano, per altro riscontrabili in numerosi altri luoghi. Pasquale Ferrarini, che con Bruno Chiappa ha curato una recente monografia sul paese, n’elenca una decina. A volte la presenza romana è evidenziata semplicemente da frammenti di tegole o da altri materiali di poco conto, ma in alcuni casi essa è risultata dal rinvenimento di epigrafi, una delle quali, trovata dall’Orti Manara nel 1830, è dedicata a Tiberio Claudio Agustano, un personaggio insigne per appartenenza gentilizia e cariche ricoperte, vissuto nel I secolo dopo Cristo. A noi il personaggio interessa più da vicino perché – stando ad una suggestiva ipotesi di Ezio Buchi – sarebbe stato il proprietario di una villa rustica e di un impianto per la produzione di laterizi i cui resti vennero alla luce sul finire dell’Ottocento nella frazione di Fagnano, in località Serraglio. Sulle tegole raccolte furono identificati ben nove bolli (marchi di produzione) diversi che hanno indotto il Buchi a pensare che più persone, addette all’impasto dell’argilla, alla confezione e quindi all’essiccazione delle tegole, si siano avvalse, al Serraglio, di un unico forno che poteva lavorare a ciclo continuo, cocendo prodotti di diversa origine e diversa proprietà. La presenza di fornaci in Trevenzuolo, legata probabilmente alla disponibilità della materia prima, cioè di terreno argilloso, è del resto testimoniata anche in età medievale e fa parte di ricordi recenti. Dal 1927 fino all’ultimo dopoguerra ha qui funzionato la fornace “Gaburro”, offrendo possibilità di impiego ad un buon numero di lavoratori. L’epoca medievale vide Trevenzuolo compreso nelle estese proprietà che da vari imperatori furono assegnate e confermate, lungo l’intero corso del Tione, al potente monastero veronese di San Zeno. Non così avvenne invece per Fagnano che entrò a far parte dei beni dei Canonici della Cattedrale di Verona. Quanto a Roncolevà, va detto che esso non esisteva come centro abitato fino a quando, fra XII e XIII secolo, non furono bonificate le terre paludose e boschive sulle quali s’insediarono i primi abitanti. Il toponimo stesso, allusivo ai lavori di disboscamento, rivela quest’origine medievale. Trevenzuolo sviluppò le sue prime forme associative attorno al castello che presidiava il passaggio sul Tione e che fu teatro di violenti scontri fra Mantovani e Veronesi. Le cronache ricordano in particolare che, nel 1230, fu distrutto dalle truppe condotte dal podestà di Mantova, Lorenzo Strazza, assieme al castello di Colà ed al paese di Isola della Scala. All’interno di esso o davanti alla vicina chiesa di Santa Maria si svolgevano gli atti più significativi della comunità: le assemblee dei capifamiglia riuniti in vicinia, l’elezione ed il giuramento dei reggenti, l’amministrazione della giustizia minore. Con l’avvento di Venezia il castello assunse un ruolo di secondaria importanza e, totalmente trascurato, cadde in rovina e divenne fonte di approvvigionamento di materiali da costruzione. Sorte non diversa toccò alla bastia di Fagnano, atterrata nel 1442 assieme a quella di Vigasio “per far cosa grata al marchese di Mantova” come annotava con disappunto il provveditore veronese alle fortezze Giorgio Sommariva. Il luogo su cui sorgeva il castello di Trevenzuolo, era ben riconoscibile fino a qualche decennio fa, quando uno spianamento ne disperse le vestigia. L’epoca veneta coincise con il passaggio di buona parte della proprietà terriera degli enti religiosi nelle mani di intraprendenti borghesi o di famiglie affermatesi sotto gli Scaligeri che diedero vita, sulle produttive terre della Bassa, ad aziende ispirate a più moderni sistemi di conduzione. Su di esse eressero quelle che fra il Sei e il Settecento erano chiamate “case da patron” e che noi denominiamo, con termine ottocentesco, ville. Si tratta di un patrimonio artistico di grande rilevanza che, trascurato per decenni, ora viene progressivamente riscoperto e, in alcuni casi, fatto oggetto di impegnativi restauri. Sorte di solito come massicce torri colombare nel Quattrocento o come palazzi dalla struttura compatta nel Cinquecento, sono state spesso inglobate o sostituite nel Settecento da strutture architettonicamente più elaborate ed eleganti. Nell’ambito del territorio comunale di Trevenzuolo avevano la loro casa dominicale i Pellegrini, i Fontanelli, gli Allegri, gli Spolverini, i Giona, i Nichesola, i Giusti, i Da Campo, gli Schioppo, i Curtoni ed altri. Accenniamo, per brevità, solo ad alcune. Chi viene da Verona incontra poco prima di arrivare in paese, in corrispondenza con il ponte sulla Demorta, la quattrocentesca corte Azzini, meglio nota come “il Palazzone” per la sua struttura massiccia che suggerisce l’idea di uno strumento da difesa. E’ costituito da due corpi simmetrici che fanno ala al torrione centrale. Quello di sinistra, il più antico, è impostato su grossi volti di sostegno delle cantine e presenta un ingresso al quale si accede tramite una scala a due rampe contrapposte. Le finestre ad arco proseguono simmetriche sulla facciata del torrione che con ogni probabilità fu il primo ad essere costruito e che nel tempo ha subito rimaneggiamenti. Appartenne ai Nichesola, poi agli Azzini ed ora è di proprietà dei signori Preato. Villa Allegri sorge all’interno di una corte detta “grande” perché fino agli anni Sessanta si estendeva per circa 6 campi in pieno centro del capoluogo. Si tratta di un complesso di edifici eretti in diversi tempi e che comprende, oltre alla villa, le barchesse, le case per i dipendenti, un oratorio dedicato a Sant’Antonio ed ampie aie che servivano all’essiccazione dei cereali, e del riso in particolare. Il recente restauro, non solo ci ha restituito I’immagine di una residenza per ogni aspetto ragguardevole, ma ha anche portato alla scoperta di alcuni affreschi interni, fra cui quelli di una stanza interamente dedicata a celebrare la coltivazione del riso, ampiamente praticata in loco sia dai conti Allegri che dai loro vicini di proprietà, i marchesi Pellegrini. Non è da escludere che l’ignoto artista sia stato influenzato nella scelta degli episodi dal poema dedicato al “candido riso” dallo Spolverini, pubblicato per la prima volta nel 1758. AI limite estremo del territorio comunale, sul confine con la provincia di Mantova – anzi, l’oratorio ad essa legato si trova al di là del confine stesso – è possibile ammirare villa Curtoni. La famiglia Curtoni, dopo averla ereditata dai Pantini nella seconda metà del Cinquecento, la tenne per oltre due secoli; poi il complesso passò ai nobili veneti Grimani, ai Comello di Milano e ad altri. L’aspetto della facciata principale della casa dominicale – così come si presenta attualmente – è con ogni probabilità il risultato di un intervento operato nel XVIIl-XIX secolo sull’edificio cinquecentesco, intervento che ha invece lasciato inalterato il prospetto nord. Essa presenta la frazione centrale inquadrata da lesene impostate sulla cornice che divide il piano terra, a finto bugnato, dal primo piano e sorreggenti un timpano triangolare. Sempre il primo piano si apre in una trifora con balaustre. All’interno la distribuzione dei vani ripete nei due piani lo schema abituale con un salone centrale e quattro stanze laterali. E’ probabile che le pareti coprano residui di affreschi, messi in luce in una sola stanza. Fungono da ali alla casa dominicale due eleganti barchesse a cinque luci, ciascuna con colonne in tufo che reggono arcate sulla cui chiave di volta sono scolpiti visi di divinità. Vennero edificate – come informa un’epigrafe – nel 1832, per I’essiccazione e lo stivaggio dei grani. La storia religiosa di Trevenzuolo fa perno sulla chiesa intitolata a Santa Maria – dalla prima metà del Cinquecento Santa Maria Maddalena – che una ricca documentazione, a far capo dall’XI secolo, ci presenta come pieve con collegio sacerdotale, soggetta all’abbazia di San Zeno fino alla soppressione della stessa. Da essa dipesero inizialmente le chiese di Fagnano e Roncolevà, assurte poi a sede di parrocchia. Sulle modificazioni che il sacro edificio di certo subì nel tempo ci sono note solo le fasi ultime relative al secolo scorso e ad anni recenti. Nel 1832, su progetto di un non meglio noto capomastro Guglielmo di Verona, poi che la chiesa abbisognava di restauri ed era divenuta insufficiente ad accogliere l’aumentata popolazione, venne innalzato il pavimento del presbiterio e del coro, rifatto quello del tratto plebano e costruita una nuova volta per una spesa complessiva di 9470 lire austriache. Su questa costruzione, la cui facciata faceva linea con quella della casa del parroco, intervenne, agli inizi degli anni Quaranta, l’architetto Banterle, per prolungare la navata e costruire ex novo la facciata in stile neoclassico con soluzioni di notevole monumentalità. All’interno è conservato il quadro con Cristo risorto che appare alla Maddalena, tradizionalmente attribuito al Ridolfi, ma che un documento d’archivio recentemente recuperato comprova essere opera del veronese G. Battista Amigazzi (1589 c.-1651). AI pittore di origine legnaghese Francesco Barbieri (1623-1698), detto lo Sfrisato, appartiene invece un’altra pala, che rappresenta Sant’Antonio da Padova, il Battista e la Madonna col Bambino. Enrico Maria Guzzo, che di recente ha soffermato la sua attenzione su questo dipinto, lo attribuisce alla tarda maturità dell’autore. Per una sufficiente documentazione del patrimonio pittorico locale bisogna tuttavia considerare anche altre opere, come la pala riproducente La Visitazione della Vergine tra i Santi Michele e Zeno, d’autore ignoto, che adorna l’altare maggiore della chiesa di Roncolevà, o quella della Madonna del Rosario, di Ruggero Loredano (1534 c.-1609), nella parrocchiale di Fagnano; ed ancora, sempre a Fagnano, la quattrocentesca statua lignea della Madonna in trono con il Bambino, o il coevo affresco, con analogo soggetto, dell’oratorio annesso alla corte di San Bernardino. Si tratta d’opere che rendono gratificante una visita a questo paese della Bassa. Esso si segnala anche per vivacità d’iniziative culturali e per un’economia che, accanto alle tradizionali colture cerealicole, ne ha saputo sviluppare altre parimenti specializzate e redditizie, come quelle del radicchio, della fragola e del melone, adatte ad essere praticate da aziende agricole a struttura familiare.


    Edited by tomiva57 - 24/11/2010, 17:51
     
    Top
    .
  10.  
    .
    Avatar


    Group
    moderatori
    Posts
    19,944
    Location
    Zagreb(Cro) Altamura(It)

    Status
    Offline
    grazie ivana..pusaaa
     
    Top
    .
  11. tomiva57
     
    .

    User deleted


    LA PROVINCIA DI VERONA E IL LEGNO



    image

    L'ARTE DEL MOBILE IN STILE CLASSICO

    La “Patria del mobile in stile classico” della pianura veneta si espande nella parte meridionale della regione, interessando principalmente l’area della bassa veronese. Ci troviamo nell’area a sud della provincia scaligera, al confine con le province di Mantova e Rovigo,unica zona che può vantare da parte del Ministero dell’Industria Italiano,il Marchio del Mobile d’arte.
    I comuni coinvolti sono 29 nella Provincia di Verona, con circa 2000 imprese. Nel distretto del mobile d’arte si trovano a convivere in perfetta sinergia specialisti come intarsiatori, lucidatori, intagliatori ma anche veri e propri artigiani produttori di mobili in stile, piccole imprese industriali in fase di crescita, falegnamerie, imprese leader e ditte commerciali. I prodotti di riferimento sono invece mobili classici in cui il settore è specializzato: cucine, sedie, divani, poltrone, portoncini, semilavorati.

    image


    Le origini - Come nasce il distretto del mobile?

    Il precursore del distretto fu un falegname di Asparetto, frazione di Cerea, Giuseppe Merlin, detto “Marangon”, che nel primo dopoguerra ebbe la geniale idea di iniziare a riprodurre mobili antichi in stile veneziano, utilizzando, dove possibile, le stesse tecniche e gli stessi materiali di un tempo. Ed ecco nascere le antiche botteghe artigiane. Centri storici che hanno visto nascere la tradizione del mobile d’arte sono Cerea, Bovolone e Casaleone. Tra i vecchi casolari della zona era infatti facile recuperare mobili abbandonati che l’innato ingegno e le potenzialità dei falegnami riuscirono a portare a nuova vita.
    E’ da questa nuova, geniale intuizione che prima nasce e poi parte la rapida espansione del distretto. Il segreto del successo? Riproporre gli stili che sembrano essere più richiesti (fratino, secentesco, maggiolini, vittoriano, liberty, etc.), facendo leva su prezzi competitivi.
    Oltre a contribuire alla diffusione del restauro e della produzione del mobile in stile, Merlin creò un’apposita scuola per insegnare il mestiere ai giovani. Ed ecco che, in antiche botteghe artigiane, in breve tempo, cominciarono a prender forma pezzi unici, ancor oggi apprezzati in tutto il mondo, che non fanno fatica ad evolversi rispettando le esigenze abitative più moderne, mirabilmente associati a ferro battuto, a vetrate artistiche e marmo, sino ai mobili e cucine “in arte povera”, in voga negli ultimi anni.
    A Bovolone ha sede oggi la Scuola di Ebanisteria “Centro di formazione professionale regionale per l’artigianato”, le cui materie di studio sono falegnameria, ebanisteria, intaglio, lucidatura, laccatura, doratura e restauro. A conti fatti, il fatturato raggiunge oggi il 3,4% della produzione italiana ed è pari al 15/20% dei mobili in stile nazionale. Il modello predominante della piccolissima impresa col tempo ha determinato il bisogno di “fare sistema”, per fare risaltare le professionalità locali, determinando il trionfo del distretto in Italia e all’Estero.
    Molti sono infatti gli appassionati e semplici curiosi che vengono a trovarci proprio per visitare il distretto del mobile della Bassa Veronese, approfittando poi per un giro in traghetto sul Lago di Garda, una passeggiata a Verona, o che magari si ritagliano occasioni e spazi di divertimento serali, percorrendo pochi chilometri per la Provincia, alla scoperta delle numerose sagre di prodotti tipici della Provincia espressione più vera del folklore della nostra gente, ad esempio nei villaggi della Valpolicella, Lessinia ed Est Veronese.


    image
     
    Top
    .
  12. tomiva57
     
    .

    User deleted


    Legnago




    image

    Legnago dista 43 chilometri da Verona. È la città riferimento del sud della provincia assieme alla vicina Cerea. È l'ultima delle città attraversate dal fiume Adige. Fino a pochi anni fa era, dopo il capoluogo, il secondo comune per abitanti nella provincia. È molto vicina anche a Mantova, Rovigo, Vicenza, Padova e a Ferrara, in una comoda posizione di interscambio strategico della bassa veronese.

    Storia

    Sono presenti insediamenti preistorici nella zona, soprattutto dell'Età del Bronzo. Durante l'età romana fu probabilmente un punto di riferimento per la bassa veronese.

    Legnago è sempre stata sacrificata per necessità difensive, a partire dall'Epoca Barbarica al Dominio Vescovile, dai domini del Comune veronese e degli Scaligeri, dei Visconti, dei Carraresi, dei Veneziani, dei Francesi e degli Austriaci, che la renderanno un'inespugnabile fortezza.

    Soltanto con l'annessione del Veneto al Regno d'Italia le cose parvero cambiare, nonostante le molte servitù militari che ancora continuarono a sussistere. Nei decenni successivi, per permettere al paese di espandersi al di fuori dai confini della fortezza, vennero abbattute interamente le mura, i bastioni e le porte, di cui rimangono oggi solo pochi resti.


    Duomo di Legnago
    Edificio religioso appartenente al XVIII secolo.
    Santuario della Madonna della Salute edificio religioso appartenente al XIX secolo


    image


    Chiesa di San Salvaro
    Dell'origine non si conosce che un accenno probabile, una tradizione leggendaria, mentre la tradizione più attendibile, basata sull'iscrizione posta nell'angolo nord-est della chiesa, è quella che l'aggiudica al XII secolo : «Contesa Matelda hoc opus fecit fieri 1117 D.I.C.».
    L'edificio è formato di tre navate, con l'altare ad oriente: le laterali strette, sono divise dalla centrale per cinque pilastri quadrangolari, che sostengono sei archi alternati di tufo e laterizi. Una bella gradinata di marmo rosso, congiunge la parte piana col presbitero, in fondo al quale, nell'abside, si trova l'unico altare su cui si eleva la statua del Salvatore risorto; due scale congiungono poi le navate laterali con la cripta a tre absidi.

    Bello è il compendio dell'epopea della Redenzione, rappresentata dagli affreschi e dalle statue. I dipinti nel catino dell'abside sono del veronese Daniele dal Pozzo.
    Ma l'immagine più venerata e più antica, forse, benché ritoccata, è la Vergine detta la Madonna di San Salvaro, dipinta su una volta della cripta. Nella stessa furono impiegati dei frammenti romani e, prova di tale induzione, sono tutte le pietre lavorate che sostengono i pilastri, i due bellissimi capitelli corinzi di travertino e il fregio che poggia sul nome di Giulio e Emilio figlio di Paolo che aveva alzato il tempietto o al quale era dedicato l'arco sepolcrale, e più di tutto il leone e il cavallo che si rincorrono sulla facciata.


    Torrione

    image


    A pochi metri dal ponte per attraversare l'Adige, vicino al Duomo, in centro a Legnago è situato il Torrione, importante monumento appartenente al XIV secolo, apice delle mura medievali che circondavano la cittadina. Gli altri torrioni sono andati distrutti.

    Teatro Salie
    r


    image

    Edited by tomiva57 - 21/8/2010, 15:03
     
    Top
    .
  13. tomiva57
     
    .

    User deleted


    COLOGNA VENETA



    image


    CENNI STORICI

    Le origini di Cologna si possono far risalire alla presenza in zona di gruppi stanziali di Euganei (circa 1000 a. C.), di Paleoveneti (VIII-VII sec. a. C.) e infine di Veneti, testimoniata dai rinvenimenti in scavi di sepolture sul territorio.

    Dopo la conquista romana e l'organizzazione cesariana dei Municipia (49-45 a. C.), nella località fu fondata una Colonia agricola ad opera di Ottaviano Augusto (29 a.C.) per ricompensare i propri veterani. La nostra Città, sorta lungo le rive del fiume Guà (Flumen Novum), era attraversata dalla Via Porciliana che collegava Padova a Verona.

    Nel III secolo d. C. sì diffuse il cristianesimo (S. Prosdocimo, S. Giustina, SS. Felice e Fortunato). Devastata nel V-VI secolo dalle incursioni barbariche, Cologna divenne una Statio durante la dominazione longobarda (568-774 d. C.): una leggenda popolare vuole che Rosmunda, moglie uxoricida del re Alboino (572), avesse un castrum o castello in Sabbion. Dopo la dominazione dei Franchi (VIII-IX sec.) e le devastazioni degli Ungari alla fine del IX secolo, Cologna passò in dominio ai Vescovi di Vicenza e, dopo il 1000, fu feudo dei conti Maltraversi, nel ramo dei Malacapella.

    Nel 1204 il castello di Cologna divenne possesso degli Este: durante il loro dominio vi soggiornò brevemente S. Francesco d'Assisi (1220). Nel 1239 - durante il conflitto tra Federico II di Svevia e i Pontefici di Roma - Ezzelino III da Romano, capo della fazione imperiale in alta Italia s'impossessò del castello di Cologna e lo tenne per circa vent'anni.

    Nel 1256 Cologna si ribellò al tiranno e i rivoltosi occuparono il castello: ma presto dovettero arrendersi ed il loro capo Jacopo Bonfado, insieme al giovane figlio Aprile e a pochi altri ribelli, pagò con la vita il generoso tentativo.

    Nel 1260 Cologna passò in dominio agli Scaligeri di Verona al quali, nel 1387, succedettero i Visconti di Milano che stavano tentando di unificare sotto il loro potere tutta l'Italia settentrionale e parte di quella centrale. Ma, con la morte di Gian Galeazzo Visconti (1401), il loro sogno svanì e Cologna fu incorporata nel feudo del Carraresi di Padova (1402) che, però, erano entrati in conflitto con Venezia. Quest'ultima, nel 1405, li eliminò e incorporò Cologna ed il suo territorio nel Dominio della Serenissima. Il 16 aprile 1406, sotto il doge Michele Steno e per deliberazione del Gran Consiglio, Cologna ed il suo territorio furono aggregati al 'Dogado' e associati al Sestier di Dorsoduro, dichiarando "veneziani" i suoi abitanti. Sotto Venezia Cologna godette una meritata pace e divenne fiorente centro agricolo. Nel 1797, con l'occupazione francese e la pace di Campoformio, Cologna - come gran parte del territorio veneto - passò sotto il dominio austriaco.

    Un evento di rilievo fu, nel 1837, la concessione dello stemma e del titolo di Città da parte dell'Imperatore Ferdinando I d'Austria. Nel 1848 Cologna insorse contro gli austriaci ma fu rioccupata dal Maresciallo Radetzky: solamente dopo la terza guerra d'indipendenza e la successiva pace di Vienna del 3 ottobre 1866 Cologna, come tutto il Veneto, entrò a far parte del Regno d'Italia.

    Per un lungo periodo Cologna ebbe molta importanza nella produzione della canapa, per la lavorazione delle gomene per l'arsenale di Venezia; nel secolo scorso fu la bachisericoltura e, oggi, per la sua ottima posizione geografica è ancora un fortunato centro agricolo per la produzione di cereali e ortaggi. E' altresì rivolta anche al settore industriale alimentare, tessile, calzaturiero, chimico e cartario.

    TOPONIMO: da Colonia (riferito alla sua origine romana di colonia agricola) a Cologna - fin dal Xlll secolo dopo Cristo - con Sua Maestà il Re Vittorio Emanuele II, in data 11 agosto 1867, a Cologna venne concesso di aggiungere il predicato "Veneta" per distinguerla da altre località omonime.



    I monumenti ed il turismo



    LA ROCCA

    image

    Ultima superstite torre angolare della cinta di mura scaligere, con una rompitratta e resti di mura, posta a fianco del Duomo, sul lato Nord-Ovest

    IL TEATRO SOCIALE

    image

    Voluto dai cittadini colognesi nel 1857 in stile moresco-alhambra fu inaugurato nel 1875. Rimesso a nuovo nel 1993, ha il suo ingresso principale lungo la via principale, dove un tempo scorreva il Flumen Novum.

    Ospita una stagione autunno-invemale di prosa, concerti, spettacoli di intrattenimento e spazi per ragazzi.


    PALAZZO PRETORIO, o DEL PODESTA, o PALAZZO CAPITANIATO

    image

    Non si conosce ancora la data certa dell'uso di questo stemma, ma sembra riferirsi a quando Cologna divenne veneziana (1406).

    Il Capitaniato, così come appare oggi è una ricostruzione neo-gotica di inizio 900 che ingloba due delle torri dell'antica cinta muraria; una delle quali, di fianco alla cosiddetta porta Rocca, fu completata nel 1909.

    IL SALONE INTERNO
    Il grande salone - sede del Consiglio Comunale conserva ancora il bellissimo soffitto ligneo del 1587 (forse restaurato), sono scomparsi gli stemmi gentilizi dei vari Podestà sostituiti con gli stemmi delle Provincie Italiane. Lo stemma sul pavimento è stato fatto nel 1994 sulla traccia di quello riportato negli Statuti di Cologna del 1593



    DUOMO o Chiesa Cattedrale

    image

    Non si conosce la data della prima Chiesa: è certo che nel 1007 fu riedificata e ampliata dai Colognesi, come testimoniava la scritta posta sotto lo stemma dei Maltraversi, i quali furono signori di Cologna.

    Quello che oggi si vede è opera di Giannantonio Selva (che ha costruito anche il Teatro La Fenice di Venezia - ora distrutto da un incendio) e Antonio Diedo; quest'ultimo è autore anche del campanile attiguo, fatto a somiglianza di quello di San Marco a Venezia.



    PORTA DELLE CAPPUCCINE

    image

    Aperta nel 1602 per favorire l'accesso al Duomo delle stesse Suore, della Regola di Santa Chiara, che avevano il loro convento fuori delle mura della Città..


    PIETRA DELLE MISURE COLOGNESI

    image

    Sempre sullo stesso edificio troviamo incisi, su una lastra di marmo rosa di Verona, il "Braccio" e la "Pertica" (1470), con lo stemma di Cologna, e una buca per le denunce segrete, detta "Bocca del Leon".



    LA TORRE CIVICA o DELL'OROLOGIO

    image


    Si trova sull'antica porta Cremonese, o Romana, o di Piazza, è del Xll secolo e, nella sua esistenza, ha subito vari interventi: nel 1555 fu rialzata, fu poi restaurata una prima volta nel 1604 e quindi ampliata nel 1842.

    Gli ultimi lavori di recupero sono stati eseguiti nel 1987, per un importo di 198 milioni di lire.



    IL MONTE DI PIETÁ

    image

    L'edificio è del 1853, ma il Monte di Pietà fu fondato nel 1552, su richiesta del nobile Marino Marcello.

    Ora è sede del MUSEO CIVICO ARCHEOLOGICO, che è stato riaperto nel 1991, e della BIBLIOTECA CIVICA.


    EDICOLA DI SAN SEBASTIANO

    image

    Su un edificio del '400, in una bella edicola marmorea di gusto sanmicheliano (metà '500), è collocata una statua di San Sebastiano: un ex voto per la liberazione di Cologna dalla peste nel 1528



    Dal 1996 è stato aperto anche il MUSEO LAPIDARIO

    image

    Ospitato nei sotterranei della Rocca Scaligera (XIV secolo) con entrata dal campanile del Duomo, qui sono raccolti elementi di acquedotto, mattoni, macine ed un cippo funerario di epoca romana; quattro capitelli gotici dell'antico Duomo (XVI secolo); una lapide del 1528 e due mascheroni in pietra di epoca rinascimentale.



    PALAZZO DI CITTÁ

    image

    Ricostruito dopo l'incendio del 1870, dall'ing. Antonio Tortima, è stato per lungo tempo sede del Museo Civico Archeologico, ora è sede del Centro Culturale "Giulio Cardo", voluto dalla Comunità Adige-Guà.





    Mandorlato di Cologna Veneta



    dolce tipico artigianale di Verona


    image


    Dolce tipico veronese, raffinato e squisito, da gustare accompagnato da un buon caffè o da una grappa bianca veneta e se sminuzzato, usato come ingrediente per la preparazione di gelati o creme, il mandorlato di Cologna Veneta è un dolce candido, duro ma friabile. Le tecniche ed i tempi di lavorazione mantengano ancora oggi le caratteristiche del procedimento artigianale e l'assoluta fedeltà all'antica ricetta.

    Il Mandorlato richiede una preparazione particolare, soprattutto per quanto riguarda il dosaggio degli ingredienti e in particolare la loro cottura, che ne determina la qualità e la differenza tra mandorlato e mandorlato. Miele di Sicilia, zucchero, albume d'uovo e mandorle di Puglia tostate, il tutto fuso in caldaie di rame dove viene continuamente mescolato a temperatura costante, per essere poi versato in stampi dalla tradizionale forma rotonda.

    Mandorlato che passione. Chi lo vuole nato a fine ottocento, chi lo annovera fra i dolci preferiti dai Dogi di Venezia già nel '500, ma come spesso accade per ogni ricetta pregiata, realtà storica e leggenda si confondono sovrapponendosi, rendendo difficile stabilire la data esatta della sua "invenzione", tant'è che il mandorlato non fa eccezione e nessuno è riuscito ancora a risalire con certezza al suo scopritore. Lo storico Samuele Romanin, nella sua "Storia documentata di Venezia" nel periodo 1853-1961 annotava: "Questa leccornia, allora, era già conosciuta ed apprezzata nei lontani tempi, quando la Serenissima Republica regnava incontrastata su gran parte del territorio veneto."

    E che in quel periodo Cologna fosse molto legata a Venezia lo dimostra il fatto che per molto tempo fece parte aggregata del 'Sestier del Dorsoduro', nel cuore della città lagunare e questo privilegio nei rapporti può ben giustificare il fatto che questa specialità fosse già conosciuta presso la cucina dei Dogi.

    Ingredienti: mandorle tostate, miele, albume d'uovo.
    Conservazione: in luogo fresco, al riparo dalla luce.
    Durata di conservazione: 6 mesi

    A cosa abbinare il Mandorlato di Cologna Veneta?


    Il Mandorlato di Cologna Veneta va abbinato ad un buon Distillato di Uva Fragolina oppure ad una Grappa bianca di Clinto.




    Valpolicella



    image

    La Valpolicella è la regione collinare a nord ovest di Verona compresa tra la città e il Lago di Garda. Durante un soggiorno a Verona può diventare la meta per una gita in giornata o, viceversa, coi suoi agriturismo, hotel caratteristici e lussuosi relais, diventare la base da cui visitare Verona, il Lago di Garda, i monti Lessini.
    Il nome Valpolicella ha probabilmente origine romana nelle parole Valle poli cellae, valle delle molte cantine, a riprova dell'antichissima tradizione vitivinicola della zona. Qui infatti veniva prodotto un vino rosso, dolce e molto concentrato, probabilmente simile all'odierno Recioto, chiamato Acinatico o anche Retico, e di cui parla, cantandone le lodi, Cassiodoro.
    Anche se la Valpolicella è conosciuta in tutto il mondo per il celebre vino, l'Amarone in particolare, in realtà il territorio è fatto di piacevoli paesaggi, colci colline che man mano che si prosegue verso nord diventano montagne, valli punteggiate di caratteristici paesini, splendide ville, pievi medioevali e suggestive contrade che lo rendono una meta turistica dotata di un'identità propria.

    image

    La pieve di San Floriano, capolavoro di architettura romanica, quasi una copia in miniatura della più celebre San Zeno a Verona.
    San Floriano è una delle numerose possibili tappe di un itinerario guidato per visitare la Valpolicella, terra non solo di grandi vini come l'Amarone, ma anche di un'antica storia che risale a prima dei romani, di splendide pievi e sontuose ville, molte delle quali oggi ospitano importanti aziende vitivinicole.
    Molte delle aziende vinicole della Valpolicella sono aperte al pubblico e offrono visite ai propri vigneti e cantine seguite da degustazioni dei prodotti locali: Valpolicella Classico, il Valpolicella Superiore, il Recioto, vino passito dolce, e l'Amarone, uno dei vini più prestigiosi d'Italia.
    A un itinerario con degustazione è possibile abbinare una visita a una delle splendide pievi romaniche come San Floriano o San Giorgio, quest'ultimo risalente all'epoca longobarda e caratterizzato da una forte e mistica austerità.
    La Valpolicella è inoltre caratterizzata da splendide ville, da secoli legate alla viticoltura e alla vinificazione. A Pedemonte vi è l'unica opera del Palladio del veronese e forse il suo progetto più originale: villa Santa Sofia. E poi ancora la cinquecentesca Villa Giona, la quattrocentesca villa Serego e la settecentesca Villa Novare, oggi sedi di prestigiose cantine.



    Nei ristoranti e nei numerosi agriturismo della Valpolicella è inoltre possibile assaporare i semplici e gustosi piatti della tradizione culinaria veronese. Naturalmente accompagnati da un buon bicchiere di vino.




    Soave



    image

    Soave rappresenta il terzo polo turistico del territorio veronese dopo Verona e il Lago di Garda. Parte della fama del borgo di Soave è legata all'omonimo vino. Molti ancora ritengono che il paese prenda il nome dal vino, chiamato Soave per la sua bontà. In realtà il nome deriva dal termine Suebi, dicitura classica di Svevi, tribù barbarica che, proveniente dall'est Europa, qui si stanziò all'indomani del crollo dell'Impero Romano. Il luogo era ideale, uno sperone roccioso al confine della pianura, a picco sulla via Postumia che sicuramente passava nelle vicinanze.
    Il borgo è oggi dominato da un castello di epoca scaligera, da cui si dipanano in cerchi concentrici le mura che avvolgono tutto il paese.
    Dall'alto del castello si può ammirare un panorama mozzafiato sulla campagna circostante e sulle infinite distese di vigneti.
    L'itinerario guidato nei territori di Soave non può che partire dal castello. Anche se le sue origini risalgono all'alto medioevo o forse più indietro all'epoca romana, le forme attuali sono quelle che gli diede Cansignorio attorno al 1369. E' uno splendido esempio di costruzione militare medioevale, con le sue porte, le mura merlate, i ponti levatoi e le saracinesche, le collezioni d'armi e l'imponente mastio. Per chi non soffre di vertigini è possibile percorrere i camminamenti di ronda da cui si gode il panorama circostante.
    Scesi lungo il suggestivo sentiero si giunge a piazza Antenna, con il palo da cui sventolava il gonfalone di Venezia e che fu donato a Soave per ricambiare la fedeltà del borgo durante la guerra contro la Lega di Cambrai. Attorno alla piazza il Palazzo del Capitanio costruito dagli scaligeri e Palazzo Cavalli, raffinatissimo esempio di gotico veneziano.
    Alle visite storico artistiche si possono poi accoppiare gustosissimi itinerari enogastronomici. Molte delle numerose cantine dove si produce il Soave, sia dentro e affianco al borgo, sia nella vicina Monteforte d'Alpone sono infatti aperte al pubblico e offrono visite con degustazione. Il Soave può essere nella versione classica, in quella superiore o recioto, quest'ultimo prodotto da un leggero appassimento delle uve che lo rendono dolce e profumato.
    Nella zona viene poi prodotto un delicato olio di oliva, il formaggio Monte Veronese, dal 1993 insignito della d.o.p., le celebri ciliege e più a valle il vialone nano, il re dei risi da risotto.

    image




    Guida alla gastronomia Veronese: Pearà



    image

    Pearà, in dialetto veronese significa "pepata". E' forse il piatto che meglio rappresenta l'anima della cucina tradizionale e popolare veronese. Si tratta di una salsa, fatta con quelli che una volta erano gli scarti di cucina, pane raffermo e midollo di bue. E' oggi, insieme alla salsa verde, il cren, la mostarda, accompagnamento indispensabile del carrello dei bolliti nei ristoranti veronesi.
    Ingredienti per 4 persone
    • 500 gr di pane raffermo, grattugiato e passato al setaccio.
    • 100 gr. Midollo di bue
    • 1lt Brodo di manzo e gallina
    • due cucchiaini da caffè di Pepe nero macinato.
    • 100 gr di Parmigiano Reggiano grattugiato
    • 100 gr di olio extravergine d’oliva
    • Sale
    Preparazione:
    Per preparare la pearà è indispensabile avere un capiente tegame di terracotta. Metterlo su di un fornello piccolo protetto da un retino rompifiamma. Far sciogliere il midollo con l’olio mescolando con un cucchiaio di legno. Aggiungere il pane grattugiato e il pepe e aggiungere il brodo bollente. Mescolare così da creare una crema uniforme e senza grumi. Far sobbollire ed abbassare quindi il fuoco al minimo. Aggiungere il restante olio in modo che formi una sorta di "coperchio". A fine cottura aggiungere il parmigiano e mescolare delicatamente. Regolare di sale e pepe. Dipende dai gusti, ma la salsa perà dovrebbe risultare ben pepata. Da servire molto calda. Ottima anche con il cotechino.

    ...a me piace tantissimo ..assaggiatela..

    il Risotto all'Amarone

    image

    Il Risotto all'Amarone è uno dei piatti più amati della tradizione culinaria veronese, punta di diamante di molti rinomati ristoranti della città. In esso si sposano due dei prodotti d'eccellenza del territorio: l'Amarone della Valpolicella e il riso Vialone Nano.
    Ingredienti per 4 persone:
    • 320 gr di Vialone Nano
    • 60 gr di formaggio Monte Veronese stagionato gratugiato
    • 60 gr cipolla tritata finemente
    • 40 gr di burro
    • 35 gr di midollo di bue o, in alternativa, 50 gr di olio extravergine d'oliva.
    • 1 lt di brodo di carne
    • 1/2 bottiglia di Amarone della Valpolicella.
    Preparazione del Risotto all'Amarone :
    Riscaldare l'Amarone.
    In una casseruola con metà burro, il midollo, o l'olio, far rosolare la cipolla. Quando la cipolla prende un bel colore dorato, aggiungere il riso e farlo tostare a fiamma media per alcuni minuti continuando a mescolando energicamente. Salare e pepare leggermente.
    Aggiungere lentamente l'Amarone.
    Portare a termine la cottura a fiamma viva, aggiungendo il brodo caldo poco alla volta man mano che si consuma e continuando a mescolare con un cucchiaio di legno.
    Regolare di sale se necessario.
    La cottura dipende dai gusti, ma il chicco dovrebbe mantenere una certa consistenza. Spegnere il fuoco e mantecare mescolando con vigore e aggiungendo il burro restante e il Monte Veronese grattugiato.
    A molti potrebbe piangere il cuore nell'utilizzare il "prezioso" Amarone come vino da cucina. Al primo assaggio tuttavia capirete che ne è valsa la pena.

    Pastisada de' Caval

    image

    La tradizione fa risalire questo piatto, tra i più tipici della tradizione gastronomica veronese, al lontano 30 settembre 489 d.C, quando gli eserciti di Odoacre principe degli Eruli e di Teodorico alla testa degli ostrogoti, si affrontarono in una terrificante battaglia per il controllo della penisola italiana, svoltasi proprio nei pressi di Verona. Odoacre fu sconfitto e in seguito ucciso da Teodorico. L'episodio è scolpita sulla facciata della chiesa di San Zeno. Nella battaglia cruentissima trovarono la morte anche numerosi cavalli. Per non sprecare tanta abbondanza in tempi di guerre e carestie, la popolazione, tagliata la carne a pezzi, la mise a macerare in vino e spezie per poterne prolungare la conservazione. La successiva cottura diede vita alla gustosissima Pastisada de' Caval, in dialetto brasato di cavallo.
    Ingredienti per 4 persone:
    • 600 gr polpa di cavallo (girello o scamone)
    • 2 carote, 1 sedano bianco, 2 cipolle
    • Una foglia di alloro
    • noce moscata
    • chiodi di garofano
    • sale
    • 3-4 grani di pepe
    • 30 gr di farina
    • 40 gr d'olio extravergine d'oliva
    • 1 dl di brodo di manzo o estratto di carne
    • 1 lt di vino Valpolicella
    Preparazione:
    In una terrina capace mettere la carne tagliata grossolanamente e ricoperta con il vino e lasciare macerare per 24 ore, o meglio un paio di giorni.
    In una casseruola si mettono l'olio e il burro e si fanno rosolare le verdure tagliate a pezzi. Sgocciolare la carne, inserirvi i chiodi di garofano, infarinarla e metterla nella casseruola cuocendo per circa un'ora, aggiungere metà del vino della marinata, l'alloro, i grani di pepe e un pò di noce moscata grattugiata. Lasciar cuocere a fuoco moderato per circa tre ore. Regolare con il brodo qualora ve ne fosse la necessità durante la cottura. Regolare sale e pepe verso fine cottura.
    La carne così preparata dovrà risultare morbida, e sfaldabile. La pastisada si accompagna perfettamente con la polenta, sia morbida, sia compatta tagliata in fette e abbrustolita, ricoperta di abbondante sugo di cottura.


    Gli Gnocchi

    image

    Francesco Giuseppe, in viaggio con la consorte nei territori italiani dell'Impero d'Austria, ebbe a soffrire vari tipi di inconvenienti. A Venezia, per avere l'albero di Natale, dovettero farselo mandare dal giardino botanico. Da Venezia decisero quindi di visitare Verona, l'allora quartier generale dell'esercito di stanza in Italia e centro del Quadrilatero.
    Giunsero a Verona proprio durante il periodo di carnevale e per il Venerdì Gnocolar', il culmine del carnevale veronese, ebbero a cibarsi di quel piatto a base di patate assai poco adatto alla sua dignità di sovrano.
    Gli gnocchi della tradizione veronese infatti, avevano subito una radicale trasformazione. La dignità dei sovrani sarebbe stata forse meglio tutelata se lo gnocco fosse stato quello delle origini descritto da Teofilo Folengo nel primo Cinquecento come quel qualcosa che rotolava giù da una montagna di formaggio grattugiato, facendosi grosso come una panciuta botte. Si trattava infatti di uno gnocco di farina che però nel corso dei secoli aveva subito i "danni" dell'introduzione della patata in europa. Così come gli antichi sovrani mantenevano forma e colore argenteo delle monete, riempiendole però di rame, sotto una sottile patina di metallo nobile, allo stesso modo la patata si era scoperta un più economico sostituto della farina. Esternamente il prodotto si presentava allo stesso modo, affidato alla soffice leggerezza delle dita incaricate di scivolarle sulla grattugia. Dentro però il suo valore era più basso, pur giustificato da una crescita demografica cui faceva fatica a tener dietro la produzione di risorse alimentari.
    Mutato nella sostanza, lo gnocco era quindi diventato per il popolo una sorta di immagine, nella sua forma modellata dalla grattugia. Questo è daltronde il destino di molti prodotti tipici, she sono tali proprio perché storici, e quindi capaci di evolversi.
    Ingredienti per 4 persone
    • Patate: 900g
    • Farina: 300g
    • Un uovo
    • Sale
    Per il condimento:
    • Burro: 40g
    • Salvia: 3 foglie
    • Parmigiano o Grana Padano grattugiati
    Iniziamo:
    In una pentola capiente bolliamo le patate con tutta la buccia in abbondante acqua salata fino a quando non sono ben cotte ma non da sfaldarsi (uno stuzzicadenti dovrebbe riuscire ad attraversarle con un po' di resistenza). 20 minuti dovrebbero essere sufficienti ma dipende dal tipo di patate. L'importante è non stracuocerle. Il tipo di patata è determinante nella riuscita degli gnocchi. Con un po' di esperienza saprete riconoscerle ma per le prime volte affidatevi a un fruttivendolo esperto dicendogli che dovete preparare degli gnocchi.
    Finché sono ancora calde, spelliamo le patate e le schiacciamo con lo speciale schiacciapatate.

    image


    Molto importante è questo attrezzo. Attenzione a non usare un frullatore altrimenti le vostre patate si trasformeranno in colla.
    Aggiungiamo la farina e l'uovo e impastiamo il tutto con grande delicatezza usando una spatola di legno. E' importante non lavorare eccessivamente l'impasto che deve mantenersi soffice. Se impastiamo troppo, gli gnocchi risulteranno appiccicosi e troppo compatti. Le dosi di farina sono indicative in quanto potrebbe essere necessario ridurne o aumentarne la dose a seconda dell'umidità delle patate.
    Dividiamo l'impasto in 5-8 pezzi di uguali dimensioni e lavoriamoli in salsicciotti di 2-3 centimetri di diametro e 20-30 centimetri di lunghezza.
    Tagliamo ogni salsicciotto in pezzetti regolari di 2-3 centimetri di lunghezza ciascuno. Spolveriamo con della farina per non farli attaccare gli uni agli altri e al piano di lavoro.
    Facciamo adesso rotolare ciascuno dei pezzetti ottenuti su di una grattugia dai buchi grossi o sulle rebbie di una forchetta per dare ai nostri gnocchi la particolare superficie zigrinata.
    Man mano che andiamo avanti, ammassiamo i nostri gnocchi terminati in un vassoio cosparso di farina.
    Nel frattempo mettiamo dell'abbondante acqua a bollire in una pentola capiente.
    Come l'acqua bolle possiamo buttare gli gnocchi. Inizialmente sprofondano nella pentola, e dopo non molto salgono di nuovo in superficie. Questo significa che sono pronti. Li togliamo con una schiumarola e li mettiamo in un recipiente di portata.
    Avremo preparato il condimento precedentemente facendo rosolare il burro con le foglie di salvia che verranno tolte quando hanno assunto un bel colore dorato. Aggiungiamo il condimento agli gnocchi e finiamo con abbondante formaggio grattugiato.
    Questa in realtà è solo una dei possibili condimenti. Gli gnocchi si possono mangiare con un sugo di pomodoro, al gorgonzola, con gli sfilacci di cavallo, ecc.
    Buon appetito!!


    Il Vialone Nano

    image


    Il riso Vialone Nano è uno dei più pregiati risi italiani. Estremamente versatile ma ideale per raffinati risotti.
    A differenza delle altre varietà italiane di riso che nel corso del medioevo giunsero in Italia principalmente dal medioriente, il Vialone Nano veronese ha un'origine giapponese e probabilmente giunse in Veneto grazie ai mercanti che, come Marco Polo, lungo la via della seta arrivavano fino alle estremità del continente asiatico.
    La coltivazione del Vialone Nano avviene infatti in immersione, proprio come per le coltivazioni dell'Asia orientale. La zona di produzione è quella della Bassa veronese tra Mozzecane, Nogarole Rocca, Vigasio, Buttapietra ed Isola della Scala. Zona caratterizzate dalle risorgive, o fontanilli, conche dove l'acqua delle falde si accumula incontrando strati argillosi e affiorando in formazioni paludose, molto ricche di flora e fauna e spesso protette da oasi naturalistiche.
    Il Riso Vialone Nano Veronese è stato insignito della certificazione I.G.P.: Il chicco è di grossezza media, con forma tonda e semilunga, e un sezione tondeggiante. Il colore è bianco, privo di striscia.
    Le caratteristiche principali del Vialone Nano sono tuttavia la capacità di assorbire condimenti e la tenuta in cottura, che ne fanno il vero e proprio re dei risi da risotto. La tipica ricetta della Bassa veronese è li risotto all'isolana.

    Il Monte Veronese

    image

    Il Monte Veronese è il formaggio più tipico e conosciuto della provincia di Verona. Viene prodotto in Lessinia, la zona montuosa a nord di Verona, ricca di pascoli e di allevamenti bovini.
    Il Monte Veronese ha origini antichissime, si hanno infatti notizie della sua produzione fin dall'anno mille, quando in Lessinia si insediarono i Cimbri che perfezionarono le tecniche di lavorazione del latte.
    E' un formaggio semplice e genuino, il cui sempre maggiore apprezzamento l'ha insignito in anni recenti della D.O.P.
    La stagionatura non è eccessiva, di circa tre mesi per il consumo da tavola, sei per l'utilizzo da grattugia.
    Il Monte Veronese è l'accompagnamento perfetto durante le degustazioni dei vini veronesi e parte integrante della cucina locale, ottimo l'abbinamento con la polenta.


    ...verona e provincia ..fine..



    Edited by tomiva57 - 11/5/2011, 14:03
     
    Top
    .
  14.  
    .
    Avatar


    Group
    moderatori
    Posts
    19,944
    Location
    Zagreb(Cro) Altamura(It)

    Status
    Offline
    grazie ivana..grande lavoro..
     
    Top
    .
  15. gheagabry
     
    .

    User deleted


    LA ROTTA della CUCCA





    La rotta della Cucca del 17 ottobre 589 è stata una disastrosa alluvione causata dallo straripamento dell'Adige che, secondo la tradizione storiografica veneta, sarebbe stata la causa dello sconvolgimento idrografico che tra il VI e l'VIII secolo modificò sostanzialmente il panorama fluviale del basso Veneto.
    La Cucca che dà il nome alla rotta è l'attuale Veronella, presso la quale anticamente passava un meandro dell'Adige oggi abbandonato.
    Oggi si tende a ridimensionare l'importanza di questo singolo evento e si pensa che gli sconquassi avvenuti nel basso Veneto siano da attribuire a un generale peggioramento delle condizioni climatiche avvenuto tra il VI e l'VIII secolo e alla scarsa manutenzione dei fiumi conseguente alla caduta dell'Impero romano d'Occidente.

    Il 17 ottobre 589 vi fu una piena eccezionale dell'Adige che ne causò lo straripamento e provocò, secondo la cronaca tramandata da Paolo Diacono:

    (LA)
    « aquae diluvium [...] quale post Noe tempore creditur non fuisse. Factae sunt lavinae possessionum seu villarum, hominumque pariter et animantium magnus interitus. Destructa sunt itinera, dissipatae viae, tantumtuncque Atesis fluvius excrevit, ut circa basilicam Beati Zenonis martyris, quae extra Veronensis urbis muros sita est, usque ad superiores fenestras aqua pertingeret [...] Urbis quoque eiusdem Veronensis muri ex parte aliqua eadem sunt inundatione subruti. »



    (IT)
    « un diluvio d'acqua [...] che si ritiene non ci fosse stato dal tempo di Noè. Furono ridotti in rovina campagne e borghi, ci furono grosse perdite di vite umane e animali. Furono spazzati via i sentieri e distrutte le strade; il livello dell'Adige salì fino a raggiungere le finestre superiori della basilica di San Zeno martire, che si trova fuori le mura della città di Verona [...] Anche una parte delle mura della stessa città di Verona fu distrutta dall'inondazione. »
    (Historia Langobardorum Liber III, 23)



    Per la sua cronaca Paolo Diacono prese spunto anche dal resoconto di papa Gregorio I riguardante uno dei miracoli attribuiti a San Zeno: nonostante l'incredibile portata della piena, poca acqua entrò nella basilica a lui intitolata.


    Oggi si ritiene poco plausibile che, per quanto disastroso, un singolo evento come quello narrato da papa Gregorio I e Paolo Diacono possa aver causato lo sconvolgimento improvviso del corso di tutti i fiumi che sfociavano nella laguna di Venezia; piuttosto, un tale sconvolgimento sarebbe il risultato di una serie di eventi, avvenuti nell'arco di più secoli, collegabili sia alla scarsa manutenzione dei fiumi, dovuto al progressivo abbandono delle terre che erano state bonificate in epoca classica, iniziato durante gli ultimi secoli dell'Impero romano d'Occidente, sia a un generale peggioramento delle condizioni climatiche avvenuto a livello mondiale tra il VI e l'VIII secolo, che portò al parziale scioglimento dei ghiacciai e un aumento delle precipitazioni con conseguente progressivo e drammatico incremento della portata dei fiumi.

    La laguna di Venezia è il frutto dell'opera di una complessa rete fluviale, comprendente i bacini dei fiumi Piave, Sile, Zero, Dese, Marzenego, Brenta, Bacchiglione, Agno, Adige, Tartaro e Po, che creavano un ampio e continuo sistema di foci e lagune lungo tutto l'arco compreso tra Comacchio e Grado: l'antica conformazione fluviale mutò però radicalmente a seguito di questi sconvolgimenti.
    A partire da nord, così, il Piave, che anticamente sfociava assieme al Sile nei pressi dell'antica Eraclea, spostò il proprio corso a sud, sfociando in mare in corrispondenza del porto di Cavallino: il fenomeno sconvolse la posizione difensiva della città, allora capitale del Ducato di Venezia, che venne a trovarsi ricongiunta alla terraferma ed esposta alle minacce esterne, iniziando così la propria decadenza.

    Dal canto suo il Sile, invece, separandosi dal corso del Piave, andò a sfociare nella località ora detta Portegrandi, nei pressi dell'allora esistente porto di Treporti.
    I fiumi Dese e Zero presero invece a confluire nella laguna nei pressi della città di Torcello, raggiungendo poi il mare attraverso l'allora esistente porto di Sant'Erasmo: il forte afflusso di acque dolci mutò la salubrità della zona, favorendo il progressivo sviluppo di aree malariche, che determinarono il declino dei vicini centri urbani.
    Il Marzenego, dal canto suo, entrando nella laguna presso la località detta Campalto, raggiungeva il mare attraverso il porto del Lido, congiungendosi con le acque del Brenta tramite il canale di Cannaregio.

    Più a sud, infatti, il Brenta, abbandonando il proprio precedente delta, che fluiva poi in mare attraverso il porto di Metamauco, si separò in due rami, che si diressero uno, il Medoacus Minor, più a nord, andando a sfociare in corrispondenza dell'odierna Fusina e raggiungendo il mare, parte presso l'abitato di Olivolo, e parte attraverso il vecchio porto della città di Metamauco e il vicino porto di Albiola, l'altro, il principale, detto Medoacus Maior, più a sud, presso il porto di Chioggia.
    In questo contesto di modificazione fluviale venivano a trovarsi esposti alla forza del mare gli spartiacque interni alla laguna, che probabilmente in precedenza la dividevano negli attuali quattro bacini idrografici. Gli spartiacque (ove in terra emersa) vennero quindi spazzati e sommersi dalle acque, separando i lidi definitivamente dalla terraferma venendo a creare la laguna unita come oggi la conosciamo.
    Sempre nei pressi della città di Chioggia presero a confluire le acque del Bacchiglione, che in precedenza giungevano invece attraverso lo stesso delta del Brenta.

    Poco più a sud, nell'oggi scomparso porto di Brondolo, presero invece a sfociare le acque dell'Agno.
    Sempre a seguito di questi sconvolgimenti, si estinse un ramo dell'Adige che passava per Bonavigo, Minerbe, Montagnana, Este, Sant'Elena, Solesino e sfociava nell'antico porto di Brondolo, mentre il letto del corso principale divenne inadeguato a gestire la nuova portata; i Longobardi, in guerra con l'Esarcato di Ravenna, lasciarono il fiume disalveato come difesa naturale contro potenziali attacchi e la campagna inondata si tramutò in palude per secoli.

    Il corso del Tartaro rimase pressoché inalterato: anticamente sfociava presso Pellestrina col nome di "canale Filistina", ma perse il tratto finale e confluì in queste paludi; presumibilmente in questo periodo, le sue acque riattivarono anche un antico ramo abbandonato del delta del Po, corrispondente al Po di Adria ossia all'attuale Canalbianco.

    Il corso principale del Po, che nell'alto Medioevo era il Po di Primaro che sfociava presso Ravenna, divenne il Po di Volano che sfocia presso Volano.
    Nei secoli successivi ..Sul corso del sistema Tartaro-Filistina, a partire dal IX secolo sorsero i primi nuclei di Badia, Lendinara, Villanova, Rovigo e Villadose.
    Nel X secolo, su iniziativa del marchese Almerico di Mantova e di sua moglie Franca, il corso dell'Adige venne finalmente assestato nell'alveo dell'antico canale Chirola; da allora l'Adige attraversa Legnago, lambisce Villa Bartolomea e Castagnaro e, dopo aver attraversato Cavarzere, sfocia nel mare Adriatico presso l'odierna Cavanella d'Adige. Il termine Polesine nacque in quel periodo e venne ad indicare l'attuale provincia di Rovigo e parte dell'attuale provincia di Ferrara, in quanto comprendeva anche il territorio a nord del Po di Volano.
    Questa, in sintesi, rimase l'idrografia del Veneto fino a un'altra disastrosa alluvione, la rotta del Pinzone, che nel X secolo modificò nuovamente l'idrografia del "neonato" Polesine.
     
    Top
    .
87 replies since 6/8/2010, 09:29   51408 views
  Share  
.