LOMBARDIA parte 3°

PO..IL MINCIO..L’OGLIO..IL SECCHIA..MANTOVA E IL LAGO DI GARDA..

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  1. gheagabry
     
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    BUONGIORNO...FELICE RISVEGLIO A TUTTI


    “... Giovedì ... stamattina il vento ci sospinge ancora verso sud-est, corsi d’acqua si intrecciano sotto di noi come capelli sciolti che i librano al vento ... fiumi che come trecce senza fine si intrecciano e poi si liberano correndo verso la foce ... segni colorati sulla tela variopinta di un terreno ricco e rigoglioso ... Mantova e la sua provincia ci abbracciano ... una nenia risuona dalle campagne sotto di noi ... “Am ciami Po e a sun cuntent ad dar'n aieut a tanta gent. Vardè li piopi cum '1 i 'n veul ben e la campagna la s'bagna i pe. I pés a daghi par al magnà e tanta aqua par disetà. I bosch i é ché davsìn a mé i uslin i canta la seu cansun. (Mi chiamo Po e sono contento di dare un aiuto a tanta gente. Guardate i pioppi come mi vogliono bene e la campagna si bagna i piedi. I pesci dò per il mangiare e tanta acqua per dissetare. 1 boschi sono qui vicino a me gli uccelli cantano le loro canzoni.”... Buon risveglio amici miei ... una nuova alba ci risveglia, un’altro giorno sorge sulla nostra mongolfiera e anche oggi resteremo in Lombardia a vivere altre bellissime emozioni e paesaggi che questa meravigliosa regione ci regalerà ....”

    (Claudio)



    IL GRANDE PO..IL MINCIO..L’OGLIO..IL SECCHIA..MANTOVA E POI IL LAGO DI GARDA..



    “Mantova e i suoi fiumi….Ben cinque l’attraversano: dal Po al Mincio, dal Chiese all’Oglio al Secchia e a questi va aggiunto un reticolo di canali ….l’acqua, come si dice, è vita …..La dolcezza verde del paesaggio …..barche che si addentrano nei canneti delle paludi….qui si svela tutto un mondo: una flora e una fauna di insospettabile bellezza…..gli argini, poi, disegnano delle piste ciclabili “naturali” con percorsi di grande suggestione paesaggistica.”

    “Il Grande Fiume, il Po è l’elemento dell’Oltrepò Mantovano e l’espressione con la quale gli ci si rivolge qui, Pado Patri, richiama alla mente la fertilità delle terre che lo circondano….Boschi, acquitrini e paludi vennero regolamentati fin dall’epoca etrusca e romana con opere di bonifica, di erezione di argini a protezione dei campi, di irrigazione e di lottizzazione dei terreni (centuriazione romana), rendendo queste terre tra le più feconde del mondo…Dai Romani quindi, passando per l’opera dei monaci benedettini in epoca medioevale…..La presenza del Po con la sua valle è anche storia della presenza dell’uomo.”

    “A Mantova è possibile percorrere su navi il fiume Mincio e gustare così il panorama incantevole della città virgiliana, nonchè feudo e territorio dei Gonzaga, famosa e nobile famiglia del posto…. si naviga sul Lago Inferiore in vista dello scenario architettonico più classico della città gonzaghesca che si specchia nelle acque dei suoi laghi …. dove fioriscono ninfee bianche, gialle, castagne d’acqua e fior di Loto… scorci suggestivi…di particolare bellezza …. il tratto che collega, tramite il Lago Superiore .. , la città alla chiesa di Santa Maria delle Grazie, l'antico santuario dei mantovani nel vicino comune di Curtatone……. l'edificio presenta opere di arte "alta", come le tele di Bazzani e di Bonsignori….a completare l'atmosfera particolare del luogo, la presenza di un Coccodrillo appeso al soffitto della navata.”

    “Fondata…dice la leggenda…. dall'indovina Manto nella sua fuga da Tebe, Mantova fa parte della storia con gli etruschi…dalla dominazione romana, alle invasioni dei barbari, fino a quando, verso il 1000 entra a far parte dei domini feudali dei Canossa…Diventa libero comune nei secoli XII e XIII, si ingrandisce e viene bonificata la palude che la circonda. Nel 1328 il potere passa a Luigi Gonzaga, capostipite della famiglia alla quale Mantova deve la maggior parte delle sue bellezze….La dimora della famiglia diventa ben presto una delle più sontuose e vaste regge d'Europa. Mantegna affresca la camera degli sposi, L.B.Alberti progetta le chiese di S.Andrea e S.Sebastiano, Giulio Romano erige, fra l’altro, il Palazzo del Te.”

    “Publio Virgilio Marone nacque ad Andes, alle porte di Mantova, il 15 Ottobre del 70 a. C. da una semplice famiglia di coltivatori….scrisse l'Eneide, un poema epico sulle origini di Roma…..< Narro le imprese dell’uomo che giunse per primo da Troia all’Italia e alle sponde della Lavinia per volere del destino. Oppresso per molto tempo dagli dei sia in terra che in mare per la memore ira della crudele Giunone.>”

    “Mi hanno sempre un po’ incuriosita le linee tratteggiate sulle carte geografiche che, in virtù di qualche trattato post-bellico, stabiliscono i confini di uno stato o di una regione. Ricordo che quando ero alle elementari guardavo la mappa del Sahara, e non riuscivo a spiegarmi come fosse possibile che qualcuno avesse messo un cancello in mezzo al deserto. Forse poteva essere una staccionata, ma in ogni caso sarebbe stata una staccionata lunghissima. Supponiamo che fosse solo un filo, ma il vento l’avrebbe spostato, e dritto così com’era disegnato sarebbe durato poco.…. l’altro giorno ho aperto di nuovo l’atlante, giusto per capire quante regioni bagna il lago di Garda. Ecco di nuovo comparire la linea tratteggiata giusto in acqua! Anche se le elementari sono lontante, sono perplessa: proprio lì me lo dovevano dividere? E allora, ricominciamo da capo…Il lago di Garda sta giusto in mezzo a tre regioni italiane: a ovest la Lombardia, a nord il Trentino Alto Adige e a est il Veneto. Ora, come questi confini vengano gestiti burocraticamente non ve lo so spiegare, ma non è male che tanta ricchezza, in senso stretto e metaforico, sia stata distribuita..” Bettina Boop

    “Circa 6 milioni di anni fa, quando i lenti spostamenti dell’Europa e dell’Africa chiusero lo stretto di Gibilterra, il mar Mediterraneo si prosciugò. Nella valle del Garda scorreva un fiume che, per raggiungere il mare, posto dopo il prosciugamento ad un livello molto più basso di prima, scavò un solco stretto e profondo. Da 700mila anni fa ad oggi, il clima del globo, per ragioni probabilmente legate a modificazioni dei movimenti del pianeta, subì molte oscillazioni. Durante i periodi freddi, i ghiacciai invasero più volte la valle del Garda, erosero e levigarono le rocce e, sciogliendosi, depositarono il materiale trasportato, formando le morene. Al termine dell’ultima fase fredda (circa 12 mila anni fa), una morena laterale sbarrò il corso del fiume Chiese che, prima defluente nella valle del Garda, deviò verso ovest. I più imponenti archi morenici frontali, a sud, chiusero la valle: nacque così il lago di Garda.”

    “Una terra che regala emozioni. Un lago che fa sognare per quello che rappresenta e per quello che ha testimoniato nel tempo e che testimonia tutt’oggi. Dai paesi medievali ai castelli scaligeri, dai musei del Risorgimento alle aree verdi fino ad arrivare alla bellezza delle ville storiche, il territorio del Garda è tra i più belli e affascinanti della penisola perché caratterizzato dai colori intensi della natura e da una ricca tradizione artistico-culturale. Si può parlare senza ombra di dubbio del “mito del Lago di Garda”, un mito culturale ben rappresentato dalle Grotte di Catullo a Sirmione, da Palazzo Bettoni a Gargnano e dal Vittoriale degli Italiani, che ci riporta alle gesta di Gabriele D’Annunzio…. “

    “Un Eden tra lago e cielo!....Diciotto frazioni: una in riviera, le altre sparse su un movimentato altopiano, incastonate su poggi di incomparabile bellezza panoramica che dominano l’intero Garda. Tremosine si trova nel cuore del Parco Alto Garda Bresciano e ne incarna l’essenza più vera …Qui le montagne più elevate del Parco si confondono con l’azzurro del Garda….tra monti e lago, tra alpino e mediterraneo….un’oasi naturale ancora incontaminata…. Di fronte, al di là del lago, l’imponenza del Monte Baldo…..Strabiliante la strada che corre lungo la profonda forra del torrente Brasa, talvolta scavata nella roccia e talvolta a sbalzo su strapiombi che lasciano meravigliati…Frankfurter Zeitung la definì «la strada più bella del mondo».”

    “Parco alto Garda …. Un paesaggio di contrasti…I fortemente caratterizzato dalle variazioni ambientali: l’azzurro delle acque e il verde dei colli fino a Gargnano… poi il piano orizzontale dello specchio lacustre e la verticalità delle falesie nell’alto lago, la mobile fluidità dell’elemento acqueo e la durezza scabra delle rocce. Lago e monti, atmosfere alpine e sapori mediterranei…”

    “Goethe non mancò di andare sul Lago di Garda … il viaggio compiuto nell’Italia a cavallo tra Sette e Ottocento. Fu lui a scrivere, incantato, nel suo diario di viaggio da Torbole nel settembre del 1787: «Quanto vorrei che i miei amici fossero per un attimo accanto a me e potessero godere della vista che mi sta dinnanzi! Stasera avrei potuto raggiungere Verona ma mi sarei lasciato sfuggire una meraviglia della natura, uno spettacolo incantevole, il lago di Garda: non ho voluto perderlo, e sono stato magnificamente ricompensato di tale diversione»."









    da rino



    Mantova vista dal ponte




    Mantova, Castello San Giorgio







    da augusto

    MANTOVA

    I Gonzaga

    Di origini contadine, i Corradi di Gonzaga vivevano all'ombra del Monastero di San Benedetto in Polirone che fu fondato dai Canossa.
    I vasti appezzamenti venivano dati in affitto e spesso donati a coloro che si impegnavano a coltivarli o che erano tenuti in amichevole considerazione dai monaci.
    Fu così che i Gonzaga poterono crearsi una ricchissima proprietà rurale ; in seguito si trasferirono in città dove fecero delle sporadiche apparizioni nella vita politica Mantovana.
    Nel 1328 Luigi Gonzaga, in un'afosa notte di agosto, mediante un "golpe" spettacolare nelle piazze del centro cittadino (vedi dipinto la Cacciata dei Bonacolsi), prese il potere.
    Inizialmente i nuovi signori impegnati a consolidare il loro dominio, non si curarono dell'edilizia cittadina se non marginalmente.
    Furono apportate modifiche alla Magna Domus ed al Palazzo del Capitano.
    La città fu dotata di nuove mura difensive con cinque porte di accesso: San Giorgio, Cerese, Pusterla, Pradella, Mulina.
    Nel frattempo venne creata l'attuale Piazza Sordello demolendo i fatiscenti edifici bonacolsiani e venne rinnovata la romanica Cattedrale in stile gotico dotandola di una nuova facciata.


    Mantova Piazza Sordello

    Nel 1433 Gianfrancesco Gonzaga ottenne, mediante un tributo di 12000 fiorini d'oro, il titolo marchionale e in sposa Barbara di Brandeburgo nipote dell'Imperatore germanico Sigismondo.
    In questo periodo venne eretto il campanile di S. Andrea e la Ca' Zoiosa divenne dimora della scuola umanistica di Vittorino da Feltre (educatore dei figli del marchese).
    Pisanello affrescò alcune stanze del palazzo Ducale e realizzò le celebri medaglie che ritraevano Vittorino da Feltre, Cecilia, Gianfrancesco e Ludovico Gonzaga.
    Ludovico II succeduto a Gianfrancesco amò circondarsi di umanisti, letterati e artisti quali Donatello Leon Battista Alberti, Andrea Mantegna e Luca Fancelli.
    Trasferì la sua abitazione dalla Corte Vecchia al Castello di San Giorgio che Luca Fancelli trasformò in una comoda dimora senza alterare il suo aspetto esterno.
    Sempre in questo periodo partì la costruzione di S.Andrea dopo il permesso da parte del Papa Sisto IV di abbattere la preesistente chiesa gotica ormai troppo angusta. Il progetto fu realizzato dall'Alberti e messo in pratica dall'onnipresente Luca Fancelli che nel 1473 diresse la realizzazione della Torre dell'orologio.
    Ludovico II morì in seguito ad una pestilenza, il suo posto lo prese il figlio Federico I che governò solo sei anni. Quest'ultimo venne definito dal cronista mantovano "gobbo cortese e piacevole" per la malformazione fisica di cui la famiglia gonzaghesca era affetta.
    Nel 1490 Isabella d'Este giunse a Mantova come sposa del marchese Francesco II portando con sé la gentilezza ferrarese. Federico II, figlio di Isabella d'Este, duca di Mantova dal 1530, chiamò a corte Giulio Romano, l'allievo di Raffaello che in pochi anni creò il Palazzo Te, si dedicò al riordinamento urbanistico di Mantova, lasciando traccia di se, si puo dire in ogni piazza ed edificio della città.

    Palazzo Te

    Frattanto il dominio dei Gonzaga si era ingrandito con l'acquisto del Monferrato, raggiungendo l'apice di floridezza economica e politica.
    Con la morte di Federico II si succedettero Francesco III, Guglielmo che sposò Eleonora d'Asburgo e Vincenzo I. Quest'ultimo morì nel 1612 e con lui terminò l'epoca gloriosa della famiglia e del feudo mantovano.
    Successivamente si avvicendarono Francesco IV, e poi suo fratello Ferdinando che si scardinalò per diventare signore di Mantova.
    Ferdinando volendo trasferire la sede del potere in una zona lontana dal centro abitato, fece costruire la Favorita su progetto di Nicolò Sebregondi fra il 1616 e il 1624.
    Nel 1627 la linea primogenita dei Gonzaga si estinse ed iniziò così il tramonto della Signoria. Il fratello di Ferdinando, Vincenzo II fu costretto a vendere gran parte della celebre quadreria di famiglia a Carlo I d'Inghilterra per una somma ridicola rispetto l'importanza delle tele.

    da lussy

    LAGO DI GARDA....image

    da augusto

    Mantova - Piazza Virgiliana



    In origine esisteva il porto dell'Ancona, parzialmente interrato. Fu il generale Miollis nel 1797 governatore durante l'occupazione francese, a indurre le autorità cittadine a trasformare lo spazio informe, spesso parzialmente sommerso dalle esondazione del lago di Mezzo, in una piazza adibita alle esercitazioni militari e a ospitare un monumento che ricordasse essere Mantova la patria di Virgilio. L'incarico fu dato all'arch. Paolo Pozzo. Furono colmati gli avvallamenti e demolite costruzione di scarso valore che cingevano lo spiazzo per consentire l'impianto di alberi, piante e arbusti. Il monumento inaugurato nel 1801, fu demolito nel 1919 per essere sostituito dall’attuale opera in marmo di Carrara, il cui progetto fu affidato all’architetto Luca Beltrami. L'inaugurazione avvenne nel 1927.


    da lussy

    CASTELLO SCALIGERO...image

    image..PANORAMA..DEL LAGO...

    imageCASTELLO SCALIGERO...

    OK..AUGUSTO..TU..PROSEGUI CON MANTOVA...E..BELLISSIMA...IO..CERCO..IL LAGO DI GARDA...MI SA CHE E'..PIU'..FACILE.....image

    image.SIRMIONE....

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    LAGO DI GARDA.........RIVIERA...image



    da augusto



    Castello di San Giorgio



    Castello di San GiorgioCostruito a partire dal 1395 e concluso nel 1406 su committenza di Francesco I Gonzaga e su progetto di Bartolino da Novara, è un edificio a pianta quadrata costituito da quattro torri angolari e cinto da un fossato con tre porte e relativi ponti levatoi, volto a difesa della città. L'architetto Luca Fancelli, nel 1459 su indicazione del marchese Ludovico III Gonzaga, che liberò ambienti di Corte Vecchia per il Concilio indetto da Pio II, ristrutturò il castello che perse definitivamente la sua primitiva funzione militare e difensiva.



    da lussy


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    OK..AUGUSTO..ADESSO..AIUTI ME..COL LAGO DI GARDA..VERO?...POI..CI FACCIAMO UNA PAUSA..DOLCETTI?.....

    RIVA DEL GARDA...image

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    da augusto

    VITTORIALE DEGLI ITALIANI
    GARDONE RIVIERA





    Tra il 1921 e il 1938, Gabriele D'Annunzio erige la cittadella del Vittoriale, sua ultima dimora, per raccogliervi i simboli e le reliquie della propria vita di protagonista non solo della letteratura, ma anche della vicenda storico-politica novecentesca. Così in questo teatro della memoria, fra i cimeli del poeta eroe, trovano posto l'imbarcazione motosilurante della Beffa di Buccari e l'aeroplano del temerario volo su Vienna. E un Museo della Guerra propone oggi, in un allestimento di particolare forza evocativa, bandiere, fotografie, medaglie, armi, divise, testi e oggetti legati all'esperienza cruciale dal primo conflitto mondiale alla impresa di Fiume e al fascismo.
    Ma la percezione di un'archeologia del moderno alle radici del Novecento e delle sue avventure o delle sue tentazioni, forse delle sue follie, si rinnova altresì nell'abitazione privata la Prioria. Nella penombra di questo museo d'incanti e di chimere, l'arredamento composito e scenografico del Vittoriale delinea nitido un capitolo inconfondibile di storia della sensibilità e della mentalità: un'avventura della memoria attraverso le atmosfere e le mitologie dell'immaginario.




    da lussy

    imageRIVA DEL GARDA...

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    image......CASTELNUOVO DEL GARDA...

    image................GARDALAND...WAUUUUUUUUUUUUU








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    da augusto

    Il Comune di Salò, che si affaccia sull'omonimo golfo del lago di Garda, è racchiuso a ovest e a sud dai Colli Morenici e a nord dal Monte San Bartolomeo. La frazione di Barbarano è l'unica posta al di fuori del golfo, ma questa si estende sulla costa, ai piedi del monte, verso nord, confinando con Gardone Riviera.
    Il clima è di tipo mediterraneo, grazie alla mitigazione del Lago e dalla presenza del Boaren, vento che discende dalla Valle Sabbia.



    Desenzano del Garda



    Desenzano del Garda è un comune di circa 27.000 abitanti della provincia di Brescia, nel basso Lago di Garda.



    Gardaland è un parco divertimenti dell'Italia Nord Orientale situato in località Ronchi nel comune di Castelnuovo del Garda. È adiacente al Lago di Garda pur non affacciandosi su di esso. Si estende su una superficie di 600.000 metri quadrati ed al suo interno si trovano attrazioni meccaniche, tematiche e acquatiche. Ha anche una propria struttura ricettiva. Ogni anno viene visitato da più di 3,2 milioni di persone.

    Nel giugno del 2005 Gardaland è stato classificato al quinto posto dalla rivista Forbes nella classifica dei migliori dieci parchi di divertimento del mondo con il miglior fatturato.
    Da ottobre 2006 il parco è di proprietà dell'azienda britannica Merlin Entertainments.


    da me




















    da lussy

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  2. tomiva57
     
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    19° G. P. Nuvolari
    17 -20 settembre 2009


    Con la vittoria di Mario Passanante e Francesco Messina su FIAT 508C del 1938 si conclude oggi la diciannovesima edizione del Gran Premio Nuvolari 2009, che ha visto in gara quasi 300 equipaggi provenienti da tutto il mondo. Secondi in classifica i bresciani Bruno Ferrari con il figlio Carlo su BUGATTI 37 del 1927 e terzi Andrea Vesco con Andrea Guerini su FIAT 508S Balilla Sport del 1934. Franca Boni e Giulia Gavazzi l’equipaggio femminile che si è aggiudicato LA COPPA DELLE DAME, mentre la coppa “Franco Marenghi” al pilota che maggiormente ha ricordato lo stile di vita di Tazio Nuvolari, è stata assegnata all’equipaggio Von der Heyden, composto da padre e figlio, su ASTON MARTIN MARK II 2/4 Seat del 1934. Prima scuderia italiana classificata la “Scuderia del Gradino” e prima scuderia straniera quella argentina. Otre 1.000 km attraverso la Lombardia, l’Emilia Romagna e la Toscana, toccando le città più storiche, la carovana di auto d’epoca, costruite tra il 1919 e il 1969.
    Diversi i ritiri delle vetture partecipanti, tra cui - per la rottura del differenziale - anche quella di Giuliano Cané, il noto regolarista bolognese, pilota ufficiale Audi Tradition. Il Gran Premio Nuvolari si conferma tra le gare internazionali più selettive per le prove cronometriche predisposte lungo il percorso che richiedono particolare abilità tecnica, come dimostrato dalla costante incertezza, durante i giorni di gara degli equipaggi al vertice. La classifica finale assoluta, è stilata in base all’anzianità delle vetture, cui viene attribuito un coefficiente per la trasformazione delle penalità acquisite. Soddisfatti gli organizzatori, MANTOVA CORSE con il Museo Tazio Nuvolari e l’ACI di Mantova, e gli sponsor, tra cui i principali sostenitori Audi, Eberhard e Fred Mello. Claudio Rossi - Presidente del Comitato Organizzatore - pensa già con entusiasmo all’edizione 2010, la ventesima, con novità di percorso e di difficoltà sportive.

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    Sono ben 300 gli equipaggi che prendono il via il 18 settembre per la 19^ edizione del Gran Premio Nuvolari, una delle più importanti manifestazioni di auto storiche nel panorama mondiale, seconda per partecipanti solo alla Mille Miglia. Il 50% degli iscritti è straniero, un riconoscimento alla qualità della manifestazione e al richiamo che ancor oggi suscita il ricordo di Tazio Nuvolari negli appassionati di auto di tutto il mondo. Oltre 70 le auto anteguerra sono un patrimonio storico sportivo importante e saranno le prime donne di quel museo viaggiante che il Gran Premio Nuvolari rappresenta agli occhi del pubblico davanti al quale sfileranno durante i mille e cento chilometri di gara. Tra le auto costruite negli anni 50 e 60, Porsche, Alfa Romeo, Jaguar ed MG sono le più numerose e sono le preferite dai regolaristi. Il Gran Premio Nuvolari, con 60 prove cronometrate è considerato dagli specialisti della regolarità una sorta di campionato del mondo, prova unica che attribuisce il titolo di miglior regolarista. La scuola italiana ha grandi specialisti Canè (correrà per l’Audi Tradition), Viaro (ufficiale Museo Alfa Romeo), Ferrari (sulla più performante delle Bugatti), il vincitore della passata edizione Passanante ed alcuni giovani tra i quali Moceri e Gamberini, poi gli argentini capitanati da Carlos Basso che rimangono avversari pericolosi e molto preparati. Una gara per specialisti ma anche un’avventura per tanti appassionati che partecipano come sfida personale, per il piacere di vivere con la propria auto sensazioni, fatiche, emozioni di altri tempi. Il Gran Premio è un appuntamento per molti irrinunciabile, molti concorrenti hanno superato le dieci partecipazioni a testimonianza di una capacità degli organizzatori di proporre ogni anno una manifestazione in grado di creare soddisfazione nei partecipanti. Soddisfazione contagiosa che fa si che di anno in anno aumenti il numero di nuovi partecipanti, garanzia per un futuro in crescita. Edizione importante quella di quest’anno in quanto celebra i 100 anni dello sponsor Audi, sotto i cui colori, con le Auto Union tipo C e tipo D Nuvolari corse e vinse negli anni ‘38 e ‘39
    Eberhard in occasione dell’evento celebrativo del “Grande Nivola” presenterà il nuovo modello di cronografo Grand Prix TN, Fred Mello vestirà i partecipanti con i capi di abbigliamento della linea Tazio Nuvolari. La IES proporrà “Nuvolari”, l’olio lubrificante ad alte prestazioni. Un Gran Premio dunque gratificato dalle iniziative dei suoi sponsor a conferma di una piena maturità e di un’attenzione che anche i media ormai gli riconoscono. Venerdì 18 partenza da Piazza Sordello della prima auto alle ore 13,00 per arrivare a Rimini alle 22,00 dopo aver percorso 300 Km, con prove a tempo anche all’interno dei circuiti di Imola e di Misano. Sabato 19, tappa dei 2 mari, 500 Km. per raggiungere Siena attraverso la splendida Toscana e rientrare a Rimini in serata. Domenica 20 3° tappa, Rimini – Mantova con l’arrivo del primo concorrente in piazza Sordello alle ore 12.30. Alle 16.30 l’epilogo della 4 giorni nuvolariana, con la cerimonia di premiazione al Teatro Bibiena.




    Palazzo d' Arco


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    Il Museo è stato costituito solo da pochi anni, come viene ricordato dalla lapide applicata nell'atrio, Giovanna dei conti d'Arco, per matrimonio marchesa Guidi di Bagno, con illuminato atto testamentario ha voluto che l'assieme costituito dal Palazzo e dalle raccolte in esso contenute divenissero un pubblico Museo, a beneficio della città e del mondo della cultura.
    Il Palazzo d'Arco, quale oggi si presenta nella sua imponente facciata e nelle strutture che si snodano all'interno fino all'esedra che chiude il cortile, fu eretto fra il 1784 e gli anni immediatamente seguenti dall'architetto neoclassico Antonio Colonna per un ramo della casata trentina dei conti d'Arco. Infatti nel 1740 una parte della famiglia era venuta ad insediarsi stabilmente a Mantova, avendo ereditato in questa città la dimora dei conti Chieppio. Fu del conte Giovanni Battista Gherardo d'Arco l'idea di un rifacimento radicale dell'edificio preesistente intorno al 1780. Nel 1872 la proprietà corrispondente alla vecchia residenza dei Chieppio fu ampliata da Francesco Antonio d'Arco che acquistò dai marchesi Dalla Valle l'area situata al di là dell'esedra: un 'area che comprende il giardino e alcuni corpi di costruzione rinascimentale. La facciata si ispira all'arte del Palladio e interessanti sono le soluzioni poste nell'atrio d'ingresso, nel cortile, per lo scalone e gli ambienti interni. Percorrendo poi l'adiacente via Portazzolo, si possono notare lungo il fianco i resti delle strutture precedenti al rinnovamento. Nelle stanze, la mobilia, gli oggetti, e particolarmente i quadri, sono stati mantenuti nella collocazione originaria che avevano alla morte della Marchesa.


    Edited by gheagabry - 20/7/2010, 20:22
     
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    Sabbioneta

    Sabbioneta è un comune italiano di 4.372 abitanti della provincia di Mantova in Lombardia. È stata dichiarata nel 2008 con Mantova Patrimonio dell'umanità dall'UNESCO.
    Storia
    Palazzo del Giardino

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    La città fu fondata da Vespasiano Gonzaga Colonna tra il 1554/1556 e il 1591, anno della sua morte, nel luogo in cui sorgevano una rocca e un antico insediamento.

    Posta su un terreno alluvionale tra i fiumi Po e Oglio, nonché lungo il tracciato dell'antica via Vitelliana, occupava una posizione strategica nel cuore della Pianura padana. Per Vespasiano Gonzaga Sabbioneta doveva essere soprattutto una fortezza e la potenza del suo circuito murario la rendevano sicuramente, a quei tempi, uno dei più muniti baluardi della Lombardia di dominio spagnolo.

    Sabbioneta fu soprattutto la capitale di un piccolo stato posto tra i grandi stati regionali: il Ducato di Milano ad ovest, retto in quell'epoca dal governatorato spagnolo, il Ducato di Mantova ad est oltre il fiume Oglio, governato dalla linea primigenia dei Gonzaga, cugini di Vespasiano, e il Ducato di Parma e Piacenza a sud del Po, di dominio della casata Farnese, solidale e amica dello stesso Gonzaga. Il territorio del piccolo stato di Sabbioneta era principalmente concentrato alla propaggine orientale della diocesi di Cremona e costituiva un obbligato crocevia sia per i traffici commerciali nel medio corso del Po, sia per le comunicazioni tra la piana bresciana e l'Emilia.

    Il periodo più prospero nella storia della città fu negli anni della sua riedificazione, sotto il dominio del principe Vespasiano Gonzaga Colonna, di cui divenne la residenza.
    Galleria degli Antichi - Corridor Grande - interno

    La cittadina, costruita in base ai principi umanistici della città ideale, ospita al suo interno diversi monumenti quali il Palazzo Ducale o Palazzo Grande, residenza ducale e luogo deputato all'amministrazione dello stato, il Teatro all'Antica o Teatro Olimpico (1590) progettato da Vincenzo Scamozzi, primo edificio teatrale dell'epoca moderna costruito appositamente per tale funzione, la Galleria degli Antichi o Corridor Grande, deputata ad ospitare la collezione di marmi antichi nonché i trofei di caccia, il Palazzo Giardino o Casino, luogo consacrato all'otium e pregevolmente riqualificato tra il 1582 e il 1587 da Bernardino Campi e dalla sua équipe di collaboratori, le chiese dell'Assunta, Incoronata, del Carmine, la Sinagoga e lo storico quartiere ebraico, oggi non più abitato da una comunità, con le sue attività di stampa, fondate nel 1567 da Tobias Foa.

    Nel territorio sono da segnalare la chiesa di Sant'Antonio Abate nella frazione di Villa Pasquali progettata da Ferdinando Galli da Bibbiena e costruita dal figlio Antonio Galli e il piccolo Santuario della Madonna delle Grazie a Vigoreto anticamente annesso al convento dei Cappuccini.
    Monumenti e luoghi di interesse

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    Palazzo Ducale


    PALAZZO DUCALE (1560-1561)


    Sede di rappresentanza, centro della vita pubblica ed amministrativa dello stato di Sabbioneta, il Palazzo Ducale domina l'omonima Piazza Ducale.
    Fu realizzato tra il 1560 e il 1561 dopo il violento incendio che aveva devastato l'edificio precedente. Il palazzo si sviluppa su quattro livelli: il seminterrato, il piano terra, il piano nobile ed il piano ammezzato, adibito a residenza del duca Vespasiano Gonzaga.
    La facciata presenta nella parte inferiore un porticato a bugnato posto ad un livello rialzato, caratterizzato da cinque aperture arcuate. L'alta gradinata d'ingresso è in marmo bianco. Una cornice marcapiano, sulla quale poggiano cinque aperture, separa la parte superiore da quella inferiore. Le finestre sono profilate in marmo e sono sormontate da timpani triangolari e curvilinei alternati. Sulle architravi è incisa l'iscrizione ducale: "VESP. D. G. DVX SABLON. I" (Vespasiano per grazia di Dio primo duca di Sabbioneta). Nel Cinquecento, sulle mensole sopra le finestre si trovavano busti marmorei di imperatori romani. A destra della scalinata, sulla piazza, un tempo v'era un basamento marmoreo su cui era posta una statua bronzea del duca, dell'aretino Leone Leoni, ora situata nella Chiesa dell'Incoronata. Sopra il parapetto del balconcino erano poste le due colonne di bronzo, le quali reggevano un cupolino di bronzo che formava una piccola loggia. La parte superiore della facciata fu dipinta nel 1584 da Bernardino Campi e da Michelangelo Veronese.

    Sala di Diana
    Nel riquadro al centro della volta si trovano tracce di un dipinto raffigurante Diana ed Endimione, da cui il nome della sala. Il resto della decorazione è a "grottesche". Nelle lunette sono dipinte scene venatorie che si alternano ad immagini di divinità olimpiche. Tutte le decorazioni, anche le grottesche, sono riferibili al mantovano Giulio Rubone, un epigono di Giulio Romano.

    Camerino dei Dardi
    E' il vestibolo della Sala del duca d'Alba o Sala d'Oro. Al centro del soffitto ligneo dorato si trova lo stemma ducale contornato dal collare del Toson d'Oro. Ai lati del Toson d'Oro è collocata l'impresa araldica del fulmine alato. Nel Cinquecento la piccola stanza era munita di un camino sopra il quale era collocato un tondo marmoreo antico con l'effige di Augusto.

    Sala del duca d'Alba o Sala d'Oro

    Un tempo dedicata a Ferdinando Alvarez di Toledo duca d'Alba, ospita ancora un imponente camino in marmo rosa di Verona sostenuto da leoni. L'architrave reca l'iscrizione ducale "VESP. D. G. DVX SABLON. I". Nella nicchia sopra la cappa era posto un busto in bronzo con il ritratto del duca d'Alba fuso dall'aretino Leone Leoni. Il soffitto ligneo dorato è composto da cassettoni lavorati ed intagliati. La porta murata della parete breve un tempo conduceva nel Salone dei Cavalli, l'ambiente più vasto del palazzo, distrutto da un incendio agli inizi dell'Ottocento in cui si trovavano le dieci statue equestri della Cavalcata, parte delle quali sono oggi conservate nella Sala delle Aquile al piano nobile del palazzo.

    Sala delle Aquile
    La vasta sala ospita oggi ciò che rimane della Cavalcata, la serie di statue equestri lignee scolpite nel 1587 da un artista veneto per celebrare le virtù militari della stirpe Gonzaga. Le dieci statue in origine erano collocate nel Salone dei Cavalli, un vasto ambiente posto nel retro del palazzo, distrutto da un violento incendio agli inizi dell'Ottocento. Le fiamme distrussero completamente alcune statue e ne danneggiarono seriamente altre. Al centro centro della sala la statua del duca Vespasiano Gonzaga Colonna in armatura da parata ed il collare dell'ordine cavalleresco del Toson d'Oro. A lato il padre Luigi detto Rodomonte, il bisnonno Gian Francesco, primo signore del feudo di Sabbioneta e Ludovico, terzo capitano del popolo, appartenente alla linea principale dei Gonzaga di Mantova. in fondo alla sala sono posti i cinque busti che furono recuperati dalle statue danneggiate dall'incendio. Il perimetro della sala è interamente percorso da un fregio affrescato con grandi aquile che reggono festoni di fiori e frutta, mentre dal loro collo pendono blasoni con gli stemmi della famiglia Gonzaga. In epoca napoleonica gli stemmi furono cancellati e sostituiti da lettere capitali che compongono la scritta "VIVA LA REPVBBLICA".

    Sala degli Imperatori

    E' il più importante ambiente del palazzo. Il prezioso soffitto diviso in nove lacunari fu scolpito nel 1561 e fu dipinto e dorato l'anno seguente. Nei quattro grandi cassettoni d'angolo sono fissati altrettanti stemmi lignei: lo stemma inquartato Gonzaga-Colonna, e quello della famiglia spagnola Aragona, la casata della seconda moglie del principe. Al centro li riassume un unico blasone che si conviene Gonzaga-Colonna-Aragona. Nel fregio dipinto con motivi vegetali si trovano vasi e anfore, intervallati da mensole sulle quali, fino al 1773, poggiavano busti marmorei di imperatori. Nei dodici riquadri che intervallano le mensole erano invece collocati altrettanti ritratti di imperatori romani realizzati da Bernardino Campi sui celebri modelli di Tiziano, conservati nel Camerino dei Cesari del Palazzo Ducale di Mantova. Gli otto busti antichi e i dodici ritratti sono ora a Mantova, in parte nella reggia gonzaghesca. Le pareti un tempo erano rivestite da pannelli in cuoio di foggia spagnoleggiante.

    Galleria degli Antenati

    Secondo il gusto antico di porre i ritratti degli avi nell'atrium della domus, Vespasiano fece disporre in questo luogo i ritratti a bassorilievo dei suoi antenati. La teoria di celebri personaggi inizia con Luigi Corradi da Gonzaga (dalla finestra, il primo nella parete lunga di destra), colui che il 16 agosto 1328 assunse il potere a Mantova iniziando il dominio della famiglia sulla città virgiliana, e si conclude con i ritratti del Medesimo Vespasiano (dalla finestra, il primo nella parete lunga di sinistra), della seconda moglie Anna d'Aragona e dal suo figlio maschio Luigi (ai lati della finestra, nella parete piccola), raffigurato ancora bambino. Sopra la finestra si trova la scritta in capitali dorate "VESP. GONZ. COL. GENTILIBVS SVIS" (Vespasiano Gonzaga Colonna con i suoi antenati). La volta è decorata a grottesche mentre un elaborato cordone a stucco la divide in diversi riquadri. In quello centrale è Fetonte dipinto sul carro del sole, mentre i due ovali delle estremità ritraggono Mercurio e Marte. Pregevoli sono i sei paesaggi fiamminghi posti alla base della stessa volta.

    Sala degli Elefanti
    Vasto ambiente antistante la piazza probabilmente adibito ai più importanti dibattimenti civili e penali, esso presenta un importante fregio che raffigura una curiosa teoria di elefanti. Il collo di ogni animale è cinto da una catena che viene trattenuta da un braccio umano, simbolo della ragione che tiene a freno le forze della natura per ricostituire l'ordine garantito dalla giustizia. Al centro del fregio, nella parete corta verso la piazza, si trova l'allegoria della giustizia, una figura femminile assisa con spada e bilancia. Nella trabeazione dipinta sopra la finestra si legge il motto oraziano "VI SVPERVM" (Per la forza degli dei). Alle pareti un tempo erano posti i ritratti di alcuni dogi veneziani, dell'imperatore Carlo V e di Isabella Gonzaga Carafa, figlia ed erede di Vespasiano.

    Sala dei Leoni
    L'elaborato soffitto ligneo presenta al centro due fiere araldiche reggenti lo stemma ducale. E' il primo di una serie di quattro soffitti intagliati da falegnami locali in cedro del libano, un prezioso legno, duro da lavorare ma destinato a mantenersi intatto nel tempo in quanto profumato, quindi non facilmente aggredito dagli insetti xilofagi. I soffitti sono ricchi di decorazioni secondo il gusto manierista e molto prossimi al ridondante decorativismo dell'oreficeria spagnola.

    Sala delle Città Marinare
    Alle pareti lunghe si scorgono le tracce di due affreschi che imitano arazzi con vedute di città. Oggi sono visibili solo due riquadri con le vedute di Genova a sinistra e Costantinopoli a destra. Nel 1561 la sala era parte di un corridoio, la Galleria delle Città, lungo circa 24 metri che comprendeva gli ambienti successivi e percorreva due lati del cortile interno. Costituiva dunque una preliminare galleria della quale Vespasiano Gonzaga aveva fatto sistemare provvisoriamente il corpus della sua collezione di pezzi archeologici, nell'attesa di far edificare il lungo corridore della piazza del castello. Negli anni ottanta del Cinquecento la Galleria delle Città fu tramezzata e furono ricavati nuovi ambienti con gli elaborati soffitti in cedro.

    Sala degli Ottagoni
    Sala che deve il suo nome alla forma ottagonale dei lacunari che formano il pregiato soffitto ligneo, essa richiama l'attenzione per le preziose pigne aperte che pendono verso l'osservatore. Questo ambiente ospitava la Libreria grande del duca, una raccolta di manoscritti e libri a stampa, soprattutto trattati di architettura militare, geometria e matematica. Dopo la morte del duca la biblioteca fu trasferita in un salone d'angolo del convento dei Servi di Maria e lì rimase fino al momento delle soppressioni napoleoniche. Oggi la biblioteca è dispersa.


    Il 7 luglio 2008 Sabbioneta è stata inserita assieme a Mantova nell'elenco dei patrimoni dell'umanità da parte dell'UNESCO per la sua eccezionalità di città di fondazione costruita in poco più di trent'anni per volontà del principe Vespasiano I Gonzaga. Secondo l'UNESCO Sabbioneta rappresenta un perfetto esempio di applicazione delle teorie rinascimentali su come vada progettata una città ideale.

    Le vicissitudini accorse immediatamente alla morte di Vespasiano, soprattutto l'annosa questione della successione del piccolo ducato, che divise gli eredi per circa un secolo, nonché il dominio austriaco e poi napoleonico, privarono la città di importanti edifici, quali la rocca, l'armeria e le mezzelune esterne al circuito murario.

    Spoliazioni e confische, in primis la deportazione della collezione antiquaria all'Accademia di Mantova nel 1772 per decreto teresiano e l'incendio della Sala dei Cavalli a Palazzo Ducale nel 1815, privarono la città di alcuni prestigiosi arredi. Resta cospicuo il patrimonio chiesastico, promosso e riqualificato negli ultimi 25 anni grazie ad una politica di recupero e valorizzazione.


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  5. gheagabry
     
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    DA TOMIVA

    di mantova è stato detto molto ..allora vi parlerò di ciò che mi circoda

    Idrovia Fissero-Tartaro-Canalbianco

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    L'idrovia Fissero-Tartaro-Canalbianco, detta anche Fissero-Tartaro-Canalbianco-Po di Levante o Mantova-mare, è una via navigabile lunga 135 km che collega Mantova con il mare Adriatico attraversando la parte orientale della provincia di Mantova, un breve tratto della bassa veronese e tutta la provincia di Rovigo.

    Il primo tratto, lungo 22 km, è costituito dal canale Fissero, dall'incile alla conca di Valdaro (presso il porto di Mantova) fino alla confluenza nel fiume Tartaro, poco prima della conca di Trevenzuolo (in comune di Ostiglia). Il secondo tratto, lungo 18 km, è costituito dal tratto finale del fiume Tartaro, dalla confluenza col Fissero fino alla conca di Torretta Veneta. Il terzo tratto, lungo 78 km, è costituito dal Canalbianco, un canale ricavato quasi totalmente da un paleoalveo del Tartaro; va dalla conca di Torretta Veneta fino alla conca di Volta Grimana. Il quarto tratto, lungo 17 km, è un canale ricavato da un antico ramo del delta del Po, ora abbandonato, chiamato Po di Levante; va dalla conca di Volta Grimana fino alla foce in località Porto Levante del comune di Porto Viro.

    L'idrovia permette la navigazione di natanti della classe V europea (1500-1600 tonnellate).
    Storia

    Il primo a intuire che il sistema di bonifica idraulica del bacino del Tartaro-Canalbianco potesse essere utile anche alla navigazione fu Pietro Paleocapa nel 1835, l'artefice stesso delle opere di bonifica.

    All'inizio del XX secolo il progetto iniziò ad essere studiato nei dettagli e venne inserito nell'organico "Piano di Sistemazione Generale Adige, Garda, Mincio, Tartaro, Canalbianco, Po di Levante" (detto "Progetto Miliani") del 1938, nel quale si prevedeva di costruire un'idrovia per natanti di 600 tonnellate da Mantova al mare Adriatico lungo i corsi opportunamente modificati del Fissero, del Tartaro, del Canalbianco e del Po di Levante

    Dal 1938 fino alla seconda guerra mondiale fu dunque scavato un diversivo del Canalbianco presso Adria e furono costruite le conche di Governolo e Baricetta.

    I lavori ripresero nel 1961 con la sistemazione del tratto compreso tra l'incile e Trevenzuolo e successivamente nel 1985 con la costruzione delle conche di Trevenzuolo, di Torretta, di Bussari (in comune di Bosaro) e di Canda. Entro il 1994 tutto il tratto era stato nuovamente sistemato per permettere la navigazione ai natanti della classe V europea.[2] Gli ultimi lavori hanno riguardato l'armamento della foce, terminato nel 2000, e il rialzo di alcuni ponti, terminato nel 2001.




    Tre percorsi ciclabili nella Provincia di Mantova

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    A Mantova tra il Po e il Mincio si estende una verde pianura coltivata con cura e intervallata da fiumi e canali. La gente che vi abita è operosa e ospitale, ama il buon vivere e la buona cucina. E’ questo il territorio della pianura mantovana, meta ideale per una vacanza alla scoperta. Il territorio ha memoria e quello che è oggi è frutto di lunghi processi sovrapposti perciò osservare il paesaggio ci fornisce indizi per conoscerlo e diventarne parte fondamentale. Un gruppo di agriturismo mantovani propone tre differenti percorsi ciclabili, pensati per far conoscere e scoprire il territorio rurale con le sue secolari tradizioni, immergendosi in un ambiente tranquillo. I percorsi ciclabili sono riuniti in un progetto chiamato “Agribike”. Le piste ciclabili formano un anello intorno a Mantova e uniscono 3 paesi del medio e basso mantovano:

    - Borgoforte, Comune sulle rive del Po risalente al 1216, quando i mantovani gettarono le fondamenta di un fortilizio a difesa delle scorrerie armate dei dominati vicini, dove si trova Agriturismo Cardinal Mendoza.

    - Gazoldo degli Ippoliti, insediamento preistorico terramaricolo risalente al 1600 a.C. sviluppatosi poi ai tempi dei Romani con la costruzione della Via Postumia su cui sorge ancora oggi, dove si trova Agriturismo La Margherita.

    - San Giorgio di Mantova, Comune a sinistra del fiume Mincio alle porte di Mantova, sorto intorno all’anno 859 in seguito alla costruzione di una chiesa dedicata a S. Giorgio, dove si trova Agriturismo Corte Caselle.

    Il percorso è molto semplice e dinamico: arrivi in uno dei tre agriturismo a scelta, lasci la tua auto in custodia e la mattina successiva dopo una colazione speciale per ciclista parti con una Merida crossway 8400 alla volta di un altro agriturismo, che dista in media 40 Km. La giornata sarà ricca di natura, emozioni e luoghi nuovi da vivere, conoscere e gustare semplicemente. Arrivato alla meta trovi accoglienza e i tuoi bagagli trasportati a cura del titolare dell’agriturismo di partenza. Naturalmente per i più intraprendenti il percorso indicato è da considerare più che altro come suggerimento, infatti, vagare per la campagna alla scoperta di paesaggi e scorci sempre nuovi è forse il modo migliore per visitare e conoscere le bellezze del medio e basso mantovano.

    I periodi migliori per visitare la pianura mantovana sono la primavera, quando la vegetazione è in fiore e si può ammirare la varietà della flora spontanea, la tarda estate e il primo autunno, quando l’aria è più fresca e con le prime foschie i luoghi manifestano un fascino particolare.

    I percorsi proposti utilizzano strade agevoli e poco frequentate, le distanze tra un paese e l’altro sono brevi e di facile percorrenza. Nei tragitti segnati si trovano punti di ristoro.

    Buon divertimento a tutti quelli che verranno a conoscere la pianura mantovana!



    Pista ciclabile Peschiera del Garda, Borghetto di Valeggio sul Mincio, Mantova


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    Peschiera del Garda (lago di Garda - Verona)
    Il posto più comodo e più facilmente raggiungibile per percorrere la ciclopedonale del Mincio è Peschiera del Garda.
    Dall'autostrada A4 Milano-Venezia si esce proprio a Peschiera e ancor prima di entrare nella città fortificata, lungo le rive del Mincio e del lago di Garda, si trovano alcuni parcheggi.

    Il percorso ciclabile si raggiunge entrando nella fortezza ed uscendo da porta Brescia. Attraversato il ponte pedonale si svolta a sinistra e si raggiunge l'argine (destra idrografica) del fiume Mincio.

    Alcuni cartelli, illustrano il percorso ciclo pedonale percorribile parzialmente anche con i roller o pattini e, ovviamente, anche a piedi.

    Nei fine settimana dei periodi primaverili ed estivi vi è un servizio autobus con trasporto biciclette tra Mantova e Peschiera
    Un percorso suggestivo, adatto a tutti, lungo una ciclopista tra le più famose e, giustamente, frequentate. Dal Lago di Garda a Mantova, tra le provincie di Verona e Mantova, all'interno del Parco naturale regionale del fiume Mincio.

    L'itinerario completo, lungo il tratto principale della ciclovia da Peschiera a Mantova, è di circa 48 chilometri. Il percorso è completamente pianeggiante ed asfaltato. .

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    Parco Archeologico del Forcello di Bagnolo San Vito,
    pochi km a sud est di
    Mantova, sorge intorno ai resti di un importante abitato etrusco di VI-IV a.C.
    Gli scavi archeologici condotti nel sito dal 1981 ad oggi, con la direzione scientifi ca
    del prof. Raffaele C. De Marinis dell’Università degli Studi di Milano, hanno portato
    alla luce, anno dopo anno, una piccola porzione di questo abitato, con una lunga
    sequenza stratigrafi ca, articolata in otto fasi insediative principali. Il progetto del Parco

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    Archeologico, nasce dall’esigenza di salvaguardare parte dell’abitato dagli insistenti
    e distruttivi lavori agricoli e al fi ne di valorizzare e divulgare i risultati scientifi ci
    conseguiti con gli scavi. Le scoperte effettuate nell’abitato etrusco del Forcello, la
    cui ricchezza ed importanza sono già da lungo tempo note, hanno fi nalmente un
    effi cace strumento per essere messe al servizio della divulgazione e della didattica.
    Il sito archeologico fu scoperto negli anni ’60 e ’70 del XX secolo grazie alle
    ricerche svolte da appassionati locali, in particolare Amilcare Riccò e Dino Zanoni,
    in concomitanza con i lavori di aratura in profondità dei campi. I materiali raccolti in
    superfi cie fecero intuire l’importanza archeologica della località, che fu confermata
    dal successivo riconoscimento del Forcello, da parte del prof. De Marinis, come
    primo abitato etrusco scoperto a nord del Po. È stato possibile individuarvi un centro
    etrusco per tutte le caratteristiche della cultura materiale, in particolare le ceramiche
    cosiddette etrusco-padane, ma soprattutto per la presenza di iscrizioni in alfabeto e
    lingua etrusca, graffi te o impresse prima della cottura sulle ceramiche.

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    La notizia della clamorosa scoperta fu pubblicata in prima pagina dal Corriere
    della Sera del 29 maggio 1982. Gli interventi di scavo, dal 1981 ad oggi, con la
    direzione scientifi ca del prof. De Marinis, hanno portato alla luce, anno dopo
    anno, una piccola porzione di questo abitato, articolata in otto fasi insediative.
    L’abitato, fondato verso la metà del VI, fu attivo fi no agli inizi del IV sec. a.C.
    L’abitato, di forma pressoché triangolare, copre una superfi cie di circa 12 ettari. Sul
    lato nord-occidentale era delimitato da un grande terrapieno con palizzata lignea,
    lungo almeno 320 metri, che si pensa proseguisse anche sugli altri lati (dove per ora
    non sono stati condotti scavi), come si può arguire dalla morfologia del terreno.
    L’impianto urbano era – con ogni probabilità - di tipo ortogonale, simile a quello
    di altri centri dell’Etruria Padana di nuova fondazione. L’asse viario principale, largo
    15 metri, è perpendicolare al terrapieno di nord-ovest e nelle fasi più recenti era
    percorso da due canali appaiati. Le case sono a pianta rettangolare, separate da vie di
    passaggio e da canaline di scarico e di drenaggio; sono orientate nord-est/sud-ovest
    secondo uno schema regolare che viene rispettato nelle varie fasi di rifacimento.
    Gli Etruschi scelsero di insediarsi su una piccola penisola all’interno del bacino
    del fi ume Mincio, per sfruttare la possibilità di approdo di imbarcazioni, che
    dall’Adriatico risalivano il corso del Po e quindi del Mincio. Importante centro di
    traffi ci con la Grecia e l’Europa centrale, il Forcello ha restituito una ricchezza e varietà
    di reperti davvero eccezionale: ceramica etrusca di produzione locale, anfore greche
    da trasporto per vino e olio, ceramica attica a fi gure nere e a fi gure rosse, oggetti
    di ornamento in bronzo di produzione locale, perle di vetro, fi bule celtiche di tipo
    tardo hallstattiano, e non da ultimo uno scarabeo di produzione greco-fenicia in
    diaspro orientale. La fi ne dell’insediamento si fa risalire al 388 a.C., quando diverse
    tribù celtiche invasero l’Italia settentrionale, conquistando e distruggendo alcune tra
    le più importanti città etrusche, spingendosi fi no a Roma, saccheggiata nel 386 a.C.
    L’abitato del Forcello venne così abbandonato, e con esso il principale centro dell’
    Etruria Padana a nord del Po. Soltanto dopo la fi ne del Forcello acquistò importanza
    Mantova, in posizione più difendibile per la presenza dei laghi formati dal Mincio.
    Il Parco Archeologico del Forcello, nasce con l’obiettivo di rendere fruibile al
    grande pubblico il patrimonio archeologico, coniugando ricerca scientifi ca e
    divulgazione dei risultati.
    La visita al parco prevede una parte introduttiva nella quale i visitatori
    potranno avvicinarsi, con l’ausilio di pannelli didattici, alla storia dell’Etruria
    padana e dell’abitato del Forcello.
    All’interno degli atelier si potrà quindi osservare la ricostruzione del telaio
    e all’esterno delle fornaci per la cottura dei vasi, realizzati sulla base delle
    testimonianze archeologiche.
    Vi sono inoltre all’aperto una zona destinata alla molitura dei cereali e alla
    simulazione di scavo. Per le scuole, di ogni ordine e grado, saranno inoltre
    attivi laboratori su vari temi inerenti le attività artigianali al tempo degli
    etruschi e sul mestiere dell’archeologo.
    Inoltre, visitando il Parco nei periodi di apertura dello scavo, sarà possibile
    assistere al lavoro sul campo e di inventariazione dei reperti, da parte dell’equipe
    di archeologi dell’Università degli Studi di Milano. Per gli adulti si organizzano, nei
    week end, dimostrazioni di archeologia sperimentale ed altre attività (conferenze
    e corsi di più giorni, con pernottamento in agriturismo o bed&breakfast, abbinati
    a degustazioni eno-gastronomiche e gite sul territorio).

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    Madonnaro

    Opera di madonnari
    Sagrato di S.Maria delle Grazie di Curtatone


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    I madonnari sono artisti di strada, così chiamati dalle immagini, soprattutto sacre e principalmente Madonne, che sono soliti disegnare per strada.

    Il termine è di probabile origine centro-italiana.

    Il madonnaro è un artista ambulante nomade che si sposta da un paese all'altro in occasione di sagre e feste popolari. Esegue i suoi disegni con gesso, gessetti o altro materiale povero, su strade, marciapiedi, cemento, selciato di centri urbani e che trae il proprio sostentamento grazie alle offerte del pubblico quali oboli o elemosine.
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    Origini

    L'arte, come indicato da varie descrizioni che si trovano in testi e lettere, fu presente in tutta l'Europa fin dal XVI secolo. Dato il materiale impiegato, dopo qualche giorno il disegno sbiadisce fino a che con la prima pioggia svanisce. Questo è anche il motivo per cui solo di recente è stato possibile iniziare ad averne una documentazione visiva.

    La tradizione dei madonnari nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale si stava perdendo. Lo scarno numero di questi artisti era diminuito fino a quando alcuni di loro cercarono un posto dove riunirsi per dare luogo ad un evento annuale. Uno dei primi incontri avvenne nel 1972, grazie al contributo del comune di Curtatone, il 15 agosto sul sagrato del Santuario della Beata Vergine delle Grazie nei pressi di Mantova; erano in 10. Da più di vent'anni nella località di quel primo incontro, è sorta l'Associazione Madonnari d'Italia a cui aderiscono una trentina di madonnari.

    La riscoperta di quest'arte antica nel corso degli anni successivi ha visto nascere altre manifestazioni sia in Italia che all'estero. Pur conservando lo spirito tradizionale a questi semplici artisti, si sono aggiunti anche pittori qualificati, artisti di varie tendenze e semplici appassionati che, con produzioni a volte discutibili, elaborano madonne e altri temi sacri. Non di rado, questi artisti sono molto abili nella loro tecnica, decisamente particolare e inusuale, riuscendo a creare delle vere opere d'arte, anche se effimere.

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    una delle tante opere della scorsa edizione

    parco del mincio bertone

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    Il Parco Bertone è un Parco Giardino, tipico del periodo romantico. Vi si possono ammirare alberi esotici ed autoctoni che possono avere fino a 150 anni di età. Il bosco, i suggestivi scorci ed il piccolo laghetto creano l’atmosfera giusta per una piacevole passeggiata nel verde. Dal 1994 in questo Parco è attivo un Centro reintroduzione della Cicogna Bianca. Nella sala audiovisivi viene proietattato il cartoon in 3D "Cicogne dalle dune alle Bertone".
    Sulla radura si affacciano tre edifici ottocenteschi uno dei quali, le Vecchie Scuderie, è adibito a sala audiovisivi ed è perfetto per ospitare piccoli convegni.
    Il Parco delle Bertone può essere affittato – nel periodo primaverile ed estivo – per feste di compleanno, matrimoni, cene di gala, concerti e spettacoli. Nei mesi estivi vi si svolgono i Centri estivi per bambini dai 5 ai 12 anni. In alcune serate estive in programma la rassegna "Musica sulle ali delle cicogne": musica etnica dal vivo, sonorità dal bacino del mediterraneo per ricorda le migrazioni delle cicogne. Programmi e calendari nelle news del sito.

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    Carpaneta MANTOVA

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    Descrizione:

    La Foresta Carpaneta è il risultato di un recente progetto di forestazione avviato nel 2003 nell’ambito del progetto “Dieci Grandi Foreste di Pianura”, che rappresenta la scelta strategica, proposta dalla Direzione Generale Agricoltura della Regione Lombardia, di costituire nuove grandi aree verdi naturali, con particolare riguardo alla Pianura Padana.

    La Foresta è situata nel Comune di Bigarello in provincia di Mantova, presso l’Azienda agroforestale Carpaneta, proprietà del demanio regionale dal 1 gennaio 2002 e tuttora sede di sviluppo di un polo agro-forestale di eccellenza nel settore multifunzionale, con interesse specifico nella filiera lattiero casearia, agri-energetica e ricerche da parte di ERSAF.

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    La Foresta Carpaneta è costituita da un nucleo boscato di 43 ettari ( assimilabile per composizione alla tipologia forestale del Querce-carpineto planiziale) completati da un’area di 27 ettari, a spiccata funzione didattico ricreativa, in cui sono state definite le seguenti quattro sezioni, legate alla storia, alla cultura e alle tradizioni locali del territorio mantovano:

    *
    Il Parco di Arlecchino, ispirato all’artista settecentesco Tristano Martinelli da Bigarello, dove la presenza di diverse essenze, ordinatamente disposte per forma, colore e profumo stimolano la curiosità nei confronti del mondo vegetale.
    *
    Il Parco di Virgilio dedicato alla vita e alle opere dell’autore latino, caratterizzato da una precisa successione di suggestioni visive che, accompagnate dalla citazione di alcuni brani della letteratura virgiliana, permettono di rivivere le atmosfere dell’epica classica, attraverso una tranquilla passeggiata.
    *
    Il Parco Elzeard Bouffier, dedicato al protagonista del romanzo “L’uomo che piantava gli alberi” e al valore etico della riforestazione.
    *
    La zona della riqualificazione del paesaggio agricolo tradizionale, in cui sono state ricostituite siepi e filari a delimitare piccoli appezzamenti, all’interno dei quali, insieme ad antiche varietà colturali, è stata ricreato un vigneto secondo l’antica tecnica della piantata su sostegno vivo.

    Accesso:

    L’ingresso alle aree fruibili della Foresta Carpaneta è situato nella località di Gazzo di Bigarello, raggiunbile da Mantova percorrendo la ex strada statale n.10 in direzione di Castel d’Ario.
    La Foresta è inoltre collegata alla rete delle piste ciclabili della Provincia di Mantova mediante un itinerario opportunamente segnalato che passando per il parco periurbano della città di Mantova raggiunge il famoso Bosco della Fontana in comune di Marmirolo.


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    Canneto sull' Oglio

    Canneto sull’Oglio vanta il primato d'essere stata la patria dell’industria italiana del giocattolo.
    È qui infatti che, verso il 1870, Luigi Furga Gornini diede vita alla prima fabbrica di bambole e giocattoli: la Furga.

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    CENT'ANNI DI STORIA (E OLTRE) DELLA BAMBOLA ITALIANA:
    LA FURGA

    La storia della Furga è lunghissima e appassionante, e solo alcune parti di essa sono state materialmente scritte; interi capitoli vivono ancora soltanto nei racconti di vecchi operai, e si starebbe ore ad ascoltare anziane signore che, spiegando il loro lavoro, muovono le mani compiendo gesti rituali, come se fra quelle mani stringessero ancora una bambola. Anzi, ci si aspetta quasi che questa bambola si materializzi, come per incanto, dinnanzi a noi. Per riassumere, diremo che la Furga fu fondata da Luigi Furga Gornini, Nobiluomo di Mantova che a Canneto sull'Oglio aveva possedimenti terrieri e vi si trasferiva dalla città nei mesi estivi. Fra il 1870 ed il 1875 impiantò a Canneto un laboratorio per la fabbricazione di maschere in cartapesta: l'idea gli venne da un certo Ceresa, che fu per molti anni operaio in una fabbrica tedesca di maschere carnevalesche. Tale impresa durò poco e Luigi Furga Gornini iniziò a produrre bambole, sfruttando l'esperienza ormai acquisita dagli operai nella lavorazione della cartapesta. Le prime bambole Furga ebbero dunque corpo in cartapesta e testa in composto di cera, ma non si conoscono pezzi originali. Nella Guida Amministrativa commerciale e industriale della Città e provincia di Mantova del 1915-1916 (Ostiglia, La Sociale, 1915), la Furga viene citata con queste parole: Produce in ispecie bambole di cera e biscqui che sono molto ricercate in commercio per la loro ottima fabbricazione. Maggiormente documentata è invece la produzione di bambole con teste in biscuit, montate su corpi in legno, cartapesta e composizione. Inizialmente, tali teste venivano importate dalla Germania: ciò è confermato dal ritrovamento, nelle cantine del Palazzo Furga a Canneto, di numerose teste sfuse in biscuit, di dimensioni diverse, la maggior parte delle quali della tedesca Heubach di Köppelsdorf. Quel che non è dato sapere, invece, è la data di inizio di questa importazione, che potrebbe andare dalla fine dell'800 sino ai primi anni '20. Nel 1922 nasce infatti la Ceramica Furga, che comincia a produrre a Canneto teste in biscuit, piccole bambole, pupazzi in tutto biscuit e servizietti da cucina per il gioco
    La produzione di teste e bambole in biscuit continua sino alla metà degli anni '30; in seguito, gli impianti della Ceramica Furga vengono definitivamente convertiti per la fabbricazione di vasellame, servizi di piatti, da caffè e da tè, sia per la casa che per il gioco. La Ceramica Furga ha cessato al propria attività verso la fine degli anni '50. Nelle bambole Furga con testa in biscuit il busto è in cartapesta, gessata e dipinta di rosa (spesso, però, troviamo pezzi di colore giallo-bruno: si tratta di un colore dato dall'ossidazione della vernice nel tempo). Gli arti sono in legno, gessato e dipinto, con giunti sferici per le articolazioni alle spalle, ai gomiti, alle anche ed alle ginocchia. Le mani, che in alcuni esemplari presentano uno snodo ai polsi, sono in composizione, mentre i piedi sono in cartapesta e composizione. Gli occhi possono essere fissi o mobili; i denti - quasi sempre presenti - sono in biscuit, mentre la calotta che richiede la testa e sulla quale poggia la parrucca - in lana mohair o capelli veri - è sempre in cartapesta. Nei bébés caratterizzati braccia e gambe sono interamente in composizione, prodotti in due metà, unite e gessate, all'interno delle quali è inserita una sfera in legno per lo snodo. Altri bébés portano invece corpi in stoffa imbottita, con mani in composizione. Nei primi anni '20 nascono poi le mignonettes, piccole bambole interamente in biscuit, con testa e busto in unico pezzo ed arti snodati all'attaccatura. Alcuni esemplari hanno occhi dipinti, altri in vetro, fissi; le parrucche sono in lana mohair. Esse presentano sempre calze bianche con bordo blu, e scarpette nere con tacco, modellate e dipinte. Le loro misure variano tra i 10 ed i 25 centimetri; i pezzi più grandi hanno anche i denti. Interessanti sono i marchi di fabbrica - seguiti da numeri corrispondenti al tipo di bambole - che troviamo sulla nuca delle bambole a contraddistinguere la produzione di quegli anni: "Furga Canneto s.Oglio" è senz'altro il più famoso, ma nelle cantine del Palazzo Furga sono stati ritrovati modelli recanti le firme più svariate: "Made in Italy", "Italy", "F.C. s/O" (Furga Canneto sull'Oglio), "F." (Furga?), "LCF" (Luigi Furga Canneto?). Sulle teste di alcuni bébés caratterizzati troviamo, oltre ai numeri, una B; nelle pupe, le misure sono espresse in frazioni: 1/2, 1/3, eccetera nei modelli marcati "Made in Italy" e "Italy", mentre in altri modelli la numerazione indicata sulla nuca corrisponde all'altezza della bambola finita: "600." sta dunque per una bambola alta 60 centimetri, "950." per una alta 95, ecceter
    Come abbiamo detto, la produzione di teste e bambole in biscuit continuò, da parte della Furga, sino alla metà degli anni '30, affiancata da altre meno costose, ma non raggiunse mai i livelli qualitativi delle coeve francesi e tedesche: i modelli, infatti, sono spesso copiati da altri, mentre gli abiti sono estremamente semplici. Del resto, l'acquirente medio italiano non avrebbe potuto permettersi l'acquisto di bambole più pregiate. Nel 1919, con la nascita della torinese Lenci e l'avvento delle sue splendide bambole in feltro, la Furga incontra non poche difficoltà. Per cercare di contrastarne la concorrenza, l'azienda cannetese inizia quindi la produzione di bambole in cartone pressato ricoperto in feltro. Pur se scarsamente documentata, questa produzione va dalla fine degli anni `20 agli anni `40, con bambole-bambine e bèbès destinati al gioco, o bambole da boudoir con ricchi abiti in organza di lino e l'espressione altera del volto. In questi esemplari i lineamenti del volto sono dipinti a mano, con l'ausilio di maschere; i capelli sono in lana mohair, oppure in seta. La produzione avviene stampando del cartoncino, inumidito con acqua e sapone, con presse a bilanciere. Alle due estremità della pressa erano fissati stampo e controstampo del pezzo che si desiderava pressare: i pezzi prodotti con questo sistema sono stampati in due metà, e successivamente incollati. Stampando la parte anteriore della testa, il cartone veniva sovrapposto al feltro, uniti insieme da uno strato di colla: una volta stampato il viso, il feltro in eccesso veniva incollato, avvolto e opportunamente cucito sulla parte posteriore del capo. Lo stesso procedimento veniva utilizzato per il busto, mentre per gli arti in cartone pressato il rivestimento in feltro veniva infilato a mo' di guanto. In altre bambole, gli arti sono invece in feltro imbottito con kapok. Cartapesta e cartone pressato, dunque: sono questi i materiali con i quali l'industria cannetese affronterà gli anni '30 e buona parte del decennio successivo. La cartapesta, ricoperta in stoffa o con uno strato di gesso e successivamente dipinta, permetteva di fabbricare bambole a basso costo, con risultati qualitativi apprezzabili. Gli occhi delle bambole interamente in cartapesta sono generalmente dipinti, ma si conoscono pezzi con occhi in vetro, che si chiudono e guardano di lato. I capelli sono in lana mohair e le varie parti del corpo sono tenute insieme da elastici. La produzione di bambole in cartapesta è stata piuttosto limitata ed è cessata verso la fine degli anni '40, sostituita da altre composizioni. Per la lavorazione della cartapesta si parte da un primo modello in creta e da uno successivo in gesso. Per il cartone pressato, lo stampo veniva fuso in ghisa o altro metallo: una metà in negativo (femmina) e l'altra in positivo (maschio). Lo stampo e il suo controstampo così ottenuti venivano montati su di una pressa. Sopra lo stampo femmina veniva quindi posto del cartone leggero, ondulato, inumidito con acqua e sapone; in corrispondenza del naso e della bocca si mettevano più strati di cartoncino, in modo da rendere più resistenti proprio quelle parti del volto maggiormente soggette ad urti. Il controstampo maschio, scendendo, andava a pressare il cartone sottostante e, nel contempo, una lama tagliava il cartone in eccedenza. I pezzi erano dunque sempre stampati in due metà, incollati successivamente o uniti con piccoli ganci metallici. Il procedimento usato per la cartapesta non è molto diverso da quello descritto per il cartone pressato: anche qui i pezzi venivano prodotti in due metà e successivamente incollati. Lo stampo, però, era in gesso, nel quale le operaie sovrapponevano, pressandoli a mano, più strati di carta da pacco. La carta, tagliata in piccole strisce, veniva inumidita con acqua e sapone. I pezzi così ottenuti erano poi sottoposti a essicazione. La cartapesta fatta a mano si utilizzava per i pezzi di grandi dimensioni, ad esempio i cavalli a dondolo
    La gessatura della cartapesta avveniva a spruzzo o, per le parti più piccole, ad immersione in una speciale mistura; questo procedimento rendeva la superficie uniforme e pronta per essere decorata. La dipintura era data a spruzzo, mentre i particolari venivano fatti a pennello, a mano libera o con l'ausilio di maschere. E' comunque bene precisare che la cartapesta e il cartone pressato possono equivalersi, nella definizione di materiale costruttivo, dal momento che il concetto di "carta pestata" si può applicato ad entrambi i sistemi produttivi. Affiancata alla produzione di bambole in cartapesta o ricoperte in feltro, inizia per la Furga una produzione ben più ampia, e largamente rappresentata, di bambole con testa in cartone pressato, gessato e dipinto, corpo e arti in stoffa imbottita con truciolo di legno. In questi pezzi braccia e gambe sono uniti al busto da un filo di ferro, piegato all'estremità su di una rondella, anch'essa in ferro, per proteggere la stoffa ed evitarne la lacerazione. Le dita delle mani sono unite, delineate da cuciture: solo il pollice è isolato. La testa, che è del tipo con le spalle, viene fissata direttamente al corpo mediante colla e chiodi. In esemplari con collo a flangia, invece, la testa è stretta da una corda alla chiusura del busto in stoffa. I tratti del volto sono dipinti a mano, mentre la coloritura generale è data a spruzzo. Le parrucche sono in lana mohair. Le bambole più grandi hanno generalmente testa in pastello - composizione di terra di Vicenza, segatura, scarti di cotone, colla di farina ed amido - ma il corpo continua ad essere di stoffa. Quelle più piccole, invece, hanno testa e busto in cartone pressato in unico pezzo, con arti in stoffa imbottita. Costruite con materiali cosiddetti poveri, queste bambole sono abbigliate altrettanto poveramente, con abiti semplici, confezionati spesso con stoffe - molto probabilmente scarti di altre lavorazioni - poco pregiate e con appena qualche elemento decorativo nel colletto, o l'inserimento di brevi pizzi e di piccole gale. Abiti più elaborati avrebbero richiesto un impiego maggiore di tempo nella loro confezione. Alcune bambole indossano, addirittura, mutande in carta crespata, bordate da nastrini in raso, segno che, anche nella povertà di mezzi e tempi, vi era una certa cura dei particolari. Nelle gambe di alcuni esemplari, tre diversi tipi di tessuto, cuciti insieme, segnano l'arto, la calza e la scarpa. Le scarpe sono sostenute, all'interno, da una soletta in cartone.

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    Da allora ne è passata tanta di acqua sotto i ponti, ma Canneto sull’Oglio non ha ancora smesso di essere considerata, a pieno titolo, il paese dei balocchi per antonomasia. La storia del comune continua a essere strettamente legata a quella di una produzione di sogni per bambini che, da artigianale, col tempo ha assunto connotazioni industriali: già ai primi del Novecento, infatti, accanto alla Furga nacquero, sul territorio di Canneto sull’Oglio, altre aziende dedicate alla creazione di giocattoli, come per esempio la Giulio Lorenzini, la Zanini& Zambelli, la Grazioli, la Bieffe.
    Il Museo del Giocattolo


    Polo industriale per eccellenza nel settore del giocattolo a livello internazionale, Canneto sull’Oglio non poteva non dedicare una sezione del suo Museo Civico a una Mostra permanente del giocattolo storico, intitolata a Giulio Superti Furga e realizzata grazie alle donazioni e ai prestiti di privati.
    Bambole da collezione


    All’interno del Museo del giocattolo di Canneto sull’Oglio sono conservati veri e propri capolavori nati per solleticare, attraverso il gioco, la fantasia dei bambini: dai semplici bambolotti di cartapesta alle eleganti pupe in biscuit, dalle bambole di celluloide alle romantiche damine con il viso di ceramica, ma anche cavalli a dondolo di legno, piccoli mobili e carretti di latta, pupazzi di stoffa e automobiline dei tempi andati. Il meglio, insomma, per far andare in sollucchero collezionisti e appassionati di tutte le età.



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  6. tomiva57
     
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    :36_3_11.gif: grazie gabry
     
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    grazie!
     
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  8. tomiva57
     
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    San Benedetto Po

    San Benedetto Po (San Bnedèt in dialetto mantovano) è un comune italiano di 7.708 abitanti della provincia di Mantova in Lombardia.
    Storia
    La storia di San Benedetto Po è legata inscindibilmente con la nascita, la vita, lo sviluppo e la soppressione napoleonica dell'abbazia del Polirone, uno dei siti cluniacensi più importanti tra i più di mille che sorsero nell'Europa medievale. Il monastero fu fondato da Tedaldo di Canossa nel 1007. La famiglia dei Canossa fu artefice del suo sviluppo con donazioni di terreni. Particolari attenzioni vennero da Matilde, che alla sua morte avvenuta nel 1115, volle esservi sepolta. In vita donò l'abbazia del Polirone al Papa che lo affidò a Ugo di Cluny. Nel 1634 Urbano VIII ne comprò i resti mortali affinché fossero tumulati in San Pietro dove ancora oggi si trova all'interno di un mausoleo disegnato dal Bernini. Nel corso dei secoli, periodi di decadenza si alternano con momenti di rinnovato splendore. Dal 1420 su impulso dei Gonzaga, il Polirone passò alla congregazione di S. Giustina di Padova che portò, tra gli altri, Giulio Romano a partecipare ai lavori di ristrutturazione della Basilica di San Benedetto. L'attività del monastero continuerà fino a quando Napoleone il 9 marzo 1797 ne decise la soppressione.

    Nel 1336 per consentire la bonifica della zona di San Benedetto Po fu effettuata la deviazione del Secchia facendolo sboccare in Po a Mirasole

    Nel 1565 furono costruiti degli argini per la difesa dalle inondazioni del Po


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    ABBAZIA DI SAN BENEDETTO PO

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    Il complesso monastico polironiano è uno straordinario ed articolato insieme di edifici situati al centro del paese di San Benedetto Po (15 km a sud di Mantova città). Oltre duemila anni di storia sono sedimentati nelle strutture di questo complesso monumentale che presenta un percorso espositivo attraverso mosaici, affreschi, reperti archeologici e decorativi, statue e testimonianze della cultura dal 1007 sino ai giorni nostri. L'abbazia fu attiva dal 1007, anno di fondazione, fino al 1797, anno di soppressione. Bonifacio di Canossa nel 1016, fece costruire la grande chiesa abbaziale, nel luogo dell’attuale, mentre Matilde di Canossa donò il monastero al pontefice Gregorio VII, il quale, a sua volta, l’affidò a Cluny. L’abbazia fu così sotto la giurisdizione spirituale del monastero di Cluny, in Borgogna, e Polirone divenne un importante luogo di cultura, centro della Riforma e del movimento anti-imperiale. Nel 1420 il complesso monastico passò alla congregazione di Santa Giustina di Padova, i cui monaci fecero ricostruire tutti gli edifici principali dell’abbazia assumendone la configurazione attuale.

    Nel ‘500 il monastero raggiunse la massima estensione edilizia e si consolidò come centro di spiritualità e di cultura; accolse alcuni tra i maggiori artisti del Rinascimento, tra cui Correggio, Girolamo Bonsignori, Antonio Begarelli, Paolo Veronese e Giulio Romano, che ricostruì la Basilica dell’abbazia e la trasformò in un capolavoro dell’architettura del Cinquecento.
    All’interno della basilica, si trova l'oratorio di Santa Maria, che conserva ancora i mosaici pavimentali del 1151. Il monastero nel 1510 ricevette la visita di Martin Lutero.
    image la biblioteca monastica

    Pregevoli sono i chiostri di San Simeone, dei Secolari e di San Benedetto. Oltre alla bellezza artistica del complesso quello che colpisce è l’assoluta tranquillità del luogo e la sensazione di essere in un’altra dimensione.


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    MUSEO CIVICO POLIRONIANO


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    Il 2 ottobre 2009 è stata riaperta la sede del Museo Civico Polironiano dopo importanti lavori di restauro e adeguamento impiantistico che riconsegneranno gli ambienti che furono i dormitori, lo scriptorium e la biblioteca del monastero di Polirone, in una veste nuova e interamente rinnovata nell`allestimento.
    L`intervento rientra tra gli obiettivi dell`Accordo di Programma stipulato nell`anno 2002 tra Comune, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Regione Lombardia, Provincia di Mantova, Parrocchia di San Benedetto Abate.
    La sezione etnografica del Museo, che si snoda quindi lungo un percorso-allestito di 17.000 mq, ha lo scopo di valorizzare le collezioni demo-etno-antropologiche che costituiscono il patrimonio più cospicuo appartenente al Museo. Essa si propone di documentare e trasmettere ai visitatori un`immagine complessiva della società e del mondo padano di oggi, còlti nell`attuale fase di passaggio caratterizzata da un instabile equilibrio fra la fedeltà alla tradizione del passato e la spinta verso le innovazioni del futuro.
    Il percorso espositivo pone in contatto tra loro due realtà che, a prima vista, sembrerebbero inconciliabili: gli interni dell`antico monastero e gli oggetti d`uso quotidiano che documentano l`affermarsi di profonde discontinuità con il passato negli stili di vita oggi presenti nella società padana.
    La congiunzione di queste due dimensioni del tempo condensa in sé il concetto che sta alla base del nuovo allestimento: far dialogare la storicità di lunga durata del monumento chiamato a fungere da contenitore del Museo con la contemporaneità della gran parte dei pezzi esposti.
    Il Museo propone ai visitatori un itinerario scandito in cinque parti: la prima presenta le più tipiche produzioni agroalimentari che oggi caratterizzano il settore economico primario in area padana; la seconda illustra i principali mutamenti dell`assetto sociale e della vita comunitaria verificatisi in questa stessa zona nel corso degli ultimi cent`anni; la terza narra le profonde trasformazioni del paesaggio e dell`ambiente naturale qui operate dall`uomo e allude ai più importanti lasciti dovuti alla presenza monastica; la quarta (in fase di allestimento) documenta le forme di trasmissione e di persistenza in loco di usanze tradizionali e devozioni popolari che tuttora rispondono ai bisogni di protezione avvertiti dagli abitanti del bacino del Po; la quinta e ultima parte (in fase di allestimento) è infine dedicata ai linguaggi e ai generi artistici (sia di matrice popolare che d`autore) i quali hanno saputo valorizzare il patrimonio ambientale e di cultura legato a questa terra, al fiume e ai suoi miti.
    Le collezioni museali comprendono anche una parte storico - artistica con materiali provenienti da scavi archeologici, allestita nei seminterrati nell`ex refettorio monastico, mentre nelle cantine del monastero trova collocazione l`importante raccolta di carri agricoli reggiani, modenesi e bolognesi, unica nel suo genere in Lombardia.
    Sono attivi percorsi e laboratori didattici di approfondimento su diverse tematiche, specifici per le scuole di ogni ordine e grado.
    Completano l`offerta culturale del museo la biblioteca specializzata consultabile anche on line, l`archivio fotografico digitalizzato e l`archivio documentario, in fase di catalogazione.



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    Fondato nel 1977, il Museo Civico Polironiano di San Benedetto Po è uno dei maggiori musei etnografici d'Italia.

    Con oltre 13.000 oggetti costituisce un importante documento storico e propone un recupero delle testimonianze, materiali e immateriali, specifiche dell’area di riferimento del Museo: la pianura fluviale solcata dal Po, adagiata tra le Prealpi e l’Appennino Tosco-Emiliano.

    Oggi quello che si visita è il nuovo allestimento inaugurato il 2 ottobre 2009 che si trova nei suggestivi piani superiori del complesso monastico. La prima parte allestita (sezioni dalla 1 alla 15) è dedicata alla cultura materiale e alla società rurale; la seconda (sezioni dalla 16 alla 24) sarà riservata alla magia, alla religione popolare, alle leggende locali e alle espressioni artistiche del mondo padano. Quest’ultima parte è attualmente in corso d’opera e sarà completata nell’anno 2010.
    Di notevole interesse anche la collezione storico- archeologica del Museo, attualmente esposta nei seminterrati dell’ex refettorio monastico. La collezione comprende materiali fittili, lapidei e ceramiche conventuali recuperati durante le campagne di scavo.
    Un’altra importante collezione è quella degli antichi carri agricoli reggiano–modenesi che si trova nei seminterrati dell’ex infermeria monastica.






     
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  9. tomiva57
     
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    lungo il po ...in barca

    virgilio%2Bin%2Bvallazza
    foto:plus.google.com



    Discesa del fiume Po con una barca a motore, dai laghi di Mantova fino al delta. Nel tratto del fiume Mincio da Mantova in poi si prova già un senso di libertà, entriamo in un altro mondo quello scandito dal ritmo dell'acqua. Dopo la chiusa di ,,,si entra nel maestoso Po' e subito ci rendiamo conto di quanto piccola è la nostra barca, siamo invasi da un senso di tranquillità e di pace, siamo in armonia con il fiume e il suo mondo, tanto da farci dimenticare il rumore del nostro motore. Aironi e gabbiani ci accompagnano in questo fantastico viaggio e la nostra mente ci fa dimenticare di essere in mezzo alla pianura Padana, ma basta una punta di un campanile che svetta oltre la sponda per ricordarci che oltre si trova un caratteristico paese del Polesine. Il viaggio termina con l'affascinante delta e l'incontro con il mare


    lungo il po in canoa

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    foto:lecicloviedelpo.movimentolento.it

    Danilo Chioni

    Tra Torino e Venezia c’è la Val Padana, sconfinata pianura, cuore del paese. È uno dei luoghi più ricchi, industrializzati ed inquinati del pianeta, un susseguirsi di capannoni e asfalto, borghi e paesi più o meno antichi, più o meno devastati dal cemento, un’infinita distesa di campi spremuti da decenni di monocoltura e pesticidi. Nel suo cuore pulsa una lingua blu di 650 Km.
    Discendere il Po in canoa significa non accorgersi di tutto questo, vuol dire muoversi in uno spazio fuori dal tempo, protetti da rive che impediscono di cogliere oltre il letto del fiume. Rari campanili sfuggono alle chiome dei pioppi e alimentano il contrasto tra ciò che si vive e ciò che si immagina.
    Il fiume è testardo e poco gli importa se è spesso imbrigliato, se la sua acqua è spesso veleno, se chi lo attraversa dall’alto di un ponte non si meraviglia di lui. Al viaggiatore che oggi sceglie di fare la sua stessa strada offre scenari di bellezza esotica, scorci mutevoli di un paesaggio in continua evoluzione. Al tempo dei Dogi navi cariche di sale risalivano la corrente trainate da cavalli o da buoi sulle sponde: i trecento chilometri che separano la Serenissima da Cremona erano percorsi tra vegetazione lussureggiante e zone malariche quando il Po era arteria per uomini e merci e il suo fluire ne scandiva il progresso.
    Discendere il Po oggi significa non incontrare nessuno per giorni e fare incontri con chi continua a viverlo, uomini testardi che legano i propri ricordi al fiume, visi che raccontano di una vita passata su un’acqua sempre diversa, eppure sempre schiava di quel ciclo che rimescola la molecola più importante di tutte, origine della vita. Tra spiagge di sabbia bianca, ghiareti e lunghe anse lo sguardo si perde cullato da un’immobilità apparente mentre il sole solca il fiume e si perde alle spalle di chi lo naviga verso il mare.

    Discendere il Po in canoa significa condividere i problemi del fiume: le chiuse, cateratte moderne, sbarrano il passaggio ai pesci nelle loro migrazioni periodiche e alterano il delicato equilibrio tra erosione, trasporto e sedimentazione in nome di quell’energia apparentemente pulita. Gigantesche scavatrici galleggianti sottraggono sedimenti al fiume, indispensabili per costruire le nostre case, col risultato che al mare di sabbia non ne arriva più e il delta invece di avanzare indietreggia annualmente di parecchi metri, con conseguente salinizzazione e impoverimento di aree sempre più vaste.
    Per raggiungere Venezia si può abbandonare l’ormai grande fiume a circa 50 Km dall’Adriatico e per il viaggiatore è un momento carico di significati. Quando si imbocca il canale che conduce in laguna ci si volta salutando il gigante e lo si guarda scomparire mentre le porte della conca, chiudendosi, proiettano uomini e imbarcazioni verso quell’acqua già salmastra e già in balia dei capricci di marea.
    Percorrere il Canal Grande dopo 600 chilometri a remi sull’acqua è una sensazione poco decifrabile, parola fine di un racconto scritto soprattutto da lui: il Po


    in motonave


    e-la-motonave-virgilio
    foto:tripadvisor.com


    Gli itinerari a bordo delle motonavi



    vi sono diversi percorsi ..tipo .
    San Benedetto Po - Sacchetta - Mantova

    Dal Po alla citta' dei Gonzaga

    motonavi-andes-negrini
    foto:tripadvisor.com



    Fiume Po - 1 chiusa - fiume Mincio - laghi di Mantova

    Durata navigazione: 2,30 ore - km 30
    La navigazione procede per più di 2 ore percorrendo gli stessi 30 Km di itinerario fluviale previsti dal percorso 1, ma in senso inverso.
    Si parte dal ponte di San Benedetto Po e si discende un tratto intermedio del Po fra i più rappresentativi del grande fiume. A Governolo si attraversa la conca di navigazione che innalza il nostro natante al livello del Mincio. Si prosegue sul fiume Mincio attraverso uno dei tronchi più suggestivi del suo Parco Naturale. Si giunge a Mantova in vista dello scenario architettonico più classico della città gonzaghesca che si specchia nelle acque dei suoi laghi. Il percorso breve prevede l’imbarco posticipato a Sacchetta.


    motonavi-andes-negrini
    foto:tripadvisor.com



    Edited by tomiva57 - 25/8/2016, 16:43
     
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  10. tomiva57
     
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    castellaro lagusello

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    Il nome

    Castellaro nasce nell'XI secolo come semplice "castelliere", cioè come cinta muraria ancora senza case all'interno: un temporaneo rifugio affacciato su un "lagusello", un piccolo lago.


    La Storia

    • Età del bronzo, insediamenti su palafitte sono presenti intorno al lago.

    • Età romana, tracce di un abitato sono state rinvenute in una località vicina.

    • 1145, in un documento di Papa Eugenio che riporta l'elenco delle pievi dipendenti dalla diocesi di Verona, viene citata per la prima volta la plebem de Castellaro.
    La costruzione del borgo fortificato si fa risalire all'XI- XII secolo.

    • 1391, Gian Galeazzo Visconti cede il fortilizio a Francesco Gonzaga, ma se lo riprende l'anno dopo e lo tiene fino al 1405, quando Castellaro passa di nuovo ai Gonzaga restando in loro possesso sino al 1441.
    In quell'anno il baricentro si sposta di nuovo da Mantova a Verona, sotto la sovranità della Repubblica Veneta.

    • 1637, la Serenissima si disfa della piccola fortezza che agli inizi del Seicento aveva perso del tutto la sua funzione difensiva. Castellaro e il lago vengono messi all'asta e comprati, per 545 ducati, dai conti Arrighi.
    La struttura rimane quella della corte medievale, con mura merlate atte a contenere le case dei contadini con i loro orti, e la curtis alta, la residenza gentilizia, al posto del presidio militare.

    • 1815, Castellaro entra a far parte del Regno del Lombardo-Veneto.

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    Osservare il laghetto a forma di cuore dalla bifora di una torre

    Lasciate ogni preoccupazione, o voi che entrate ...
    Chi arriva qui, abbandonando in soli quindici minuti l'autostrada Milano-Venezia e il lago di Garda nevrotizzato dal turismo di massa, entra in un'altra dimensione, quieta e bucolica; si immerge in atmosfere virgiliane, dove la visione dei famosi canneti (qui vicino, c'è un posto che contende a Pietole i natali di Virgilio) cancella finalmente le brutture del paesaggio padano, le cui case sono perlopiù diventate - scrive Ceronetti - "ridacchianti maschere di stupidità disposte in rettifilo".

    Qui no, perché il borgo fortificato di Castellaro che si specchia nel suo laghetto a forma di cuore, è stato prima dimenticato e, successivamente è stato oggetto di attente cure da parte dell'amministrazione.

    Così, si sono salvate le antiche mura guelfe, la pavimentazione in pietre di fiume, i sassi a vista della canonica e delle case: come di quella avvolta dai rampicanti, di fronte a villa Arrighi-Tacoli, che non ci si stancherebbe mai di guardare perché rimasta intatta dal Duecento.

    Ma andiamo con ordine. Si entra nel piccolo borgo dal lato settentrionale attraverso un'ampia porta che era dotata fino al Settecento di un ponte levatoio.
    Un'alta torre quadrata, detta dell'orologio, sovrasta la porta a sua protezione.
    Subito s'incontra, inoltrandosi fra le rustiche case, la chiesa barocca dedicata a S. Nicola in cui è custodita una Madonna in legno del Quattrocento.

    Attraverso i vicoletti laterali in cui regna un silenzio dimenticato, rotto solo dallo zampettare delle galline nei cortili, si giunge alla piazzetta terminale su cui si affaccia l'ottocentesca villa Arrighi (oggi proprietà dei conti Tacoli e visitabile solo su richiesta), che ingloba un fortilizio padronale con mura di cinta a merli guelfi e bifore, dalle quali si gode una bella vista sul lago e la campagna circostante.

    La villa è la trasformazione del preesistente castello feudale e incorpora la chiesetta gentilizia di S. Giuseppe che, ultimata nel 1737, conserva alcuni dipinti del Seicento. La chiesa si apre sull'esterno, sulla piazzetta dalla quale si accede allo specchio d'acqua scendendo una breve scalinata. Le barche di legno ormeggiate vicino alla riva aggiungono incanto all'idillio di questo luogo.


    Mirabile è anche la visione da sud del borgo, che abbraccia la cinta muraria risalente all'XI secolo (coeva all'antico castello e un tempo scandita da nove torri), il laghetto ornato di canne palustri e la rigogliosa natura intorno.

    Il prodotto del borgo


    Monzambano è zona di vini Doc: Tocai (bianco) e Merlot (chiaretto e rosso) si accompagnano ai piatti della cucina locale di chiara impronta mantovana.

    Un altro prodotto, anche questo culinario, è il salame artigianale, noto per la particolare concia (con una purea di aglio e spezie) e onorato con una Sagra.

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    Il piatto del borgo

    Re del menu sono i capunsei, una specie di gnocchetti il cui impasto di pangrattato, grana e brodo bollente un tempo veniva inserito nel cappone, da cui il nome.


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    La pieve di Cavriana
    Una splendida chiesa romanica fra le colline moreniche
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    a cura di Chris
    Era un pomeriggio caldo e soleggiato d'autunno e, tornando da Verona, mi son ricordato di aver letto di uno splendido borgo incastonato fra le colline moreniche: Castellaro Lagusello. Così, nei pressi di Peschiera del Garda, lascio la trafficata statale per le piccole e sinuose strade dell’entroterra gardesano.

    Dopo qualche minuto di viaggio, dopo aver superato numerosi saliscendi e altrettante curve eccomi al cospetto del piccolo borgo.
    Lasciato Castellaro Lagusello dopo una breve sosta per la visita del centro, il viaggio di ritorno verso casa prosegue sempre fra le piccole carrozzabili di questo angolo di verde in cui si incontrano le province di Mantova, Verona e Brescia.

    E qui, transitando per Cavriana, l’occhio viene attirato verso l’alto, verso una chiesetta edificata in laterizi attorniata da cipressi. Proseguire per casa o effettuare un’ulteriore deviazione per andare a vedere da vicino quella costruzione? Vista la vicinanza e calcolato in pochi minuti il tempo necessario per raggiungerla la scelta è quella di deviare per Cavriana. Percorriamo poi un viale di tigli e in pochi istanti siamo nei pressi del tempio cristiano. Cipressi sani e vigorosi ed erba appena tosata circondano la chiesa, anch’essa molto pulita e curata. Il piazzale sterrato dove viene lasciata l’automobile si trova sul retro della chiesa.

    L’attenzione cade immediatamente sulla forma trilobata dell’abside. Una forma sicuramente comune a molte altre chiese, ma dopo aver studiato la storia dell’ Abbazia di Leno e aver memorizzato l’evoluzione subita dalla chiesa abbaziale, il pensiero mi porta ad accostarla alla prima chiesa romanica, quella fondata da re Desiderio nel 758 d.c..

    Un altro particolare che attira la mia attenzione è l’assenza di una torre campanaria: le campane sono invece poste sulla sommità di una torre che si alza dal tetto della chiesa. E anche in questo caso colgo una certa similutine con la prima chiesa abbaziale di Leno; la pianta di questa prima chiesa è priva del campanile e mi piace pensare che anche a Leno non ci fosse una torre campanaria staccata dalla chiesa.

    Dopo aver ammirato l’abside dall’esterno mi sposto di lato e lentamente Interno della Pieve di Cavriana (Mn)cammino verso la facciata; penso ancora alla chiesa di re Desiderio di Leno ed ora anche le dimensioni delle due chiese mi sembrano simili. La facciata della chiesa è essenziale con il piccolo portone sormontato da un imponente rosone. Potrà aver subito numerosi restauri e ricostruzioni ma è palese l’origine romanica del tempio.

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    La porta è chiusa ma un cartello indica di accedere dalla porta laterale; la chiesa è molto scura in quanto non ci sono finestre: l’unica fonte di luce è il rosone. L’accensione di un impianto di luci a tempo permette di ammirare l’interno della pieve: in particolare mi colpisce la struttura del campanile e come questo venga sostenuto da una bella e possente colonna interna.

    Statua dela Madonna di Cavriana (Mn)L’interno della chiesa è lineare e le uniche decorazioni presenti sono tracce di alcuni affreschi risalenti al XI e XII secolo e una bella scultura raffigurante la Madonna posta al centro dell’abside e databile probabilmente XIV secolo. Non sono uno storico e nemmeno uno studioso d’arte: pertanto le datazioni di cui sopra non sono state attribuite da me ma le ho recuperate da un pieghevole presente nella chiesa.

    E leggendo le poche righe di questo illustrativo ecco la sorpresa più grande: leggo che questa chiesa fu la prima parrocchiale di Cavriana e che probabilmente fu edificata dai monaci benedettini dell’Abbazia di Leno, propietari di una corte nelle adiacenze. Mi piace pensare, forse sognare, che fu costruita riprendendo il modello della chiesa desideriana di Leno.



    Anche se la storia di Leno è legata all’Abbazia di San Benedetto fondata nel 758 da Desiderio , ed ai Longobardi, non fu essa a dare origine alla vita religiosa e civile del grosso centro della pianura padana.
    Leno infatti esisteva già prima come pago romano, poi come pieve, estendendo la sua influenza e la sua giurisdizione su un territorio molto vasto.
    Un’epigrafe del VI secolo infatti testimonia la sicura presenza in loco di una chiesa.
    Nel 758 quando fu costruita l’Abbazia le pieve era già scomparsa o era ancora efficiente?
    Pur rimanendo nel campo delle induzioni, a causa della penuria di documenti dell’epoca arrivati sino a noi, il Guerrini , importante storico bresciano, ritiene che la pieve doveva ancora essere attiva, ma inadeguata quando Desiderio fondò la chiesa dedicata al Salvatore , alla Vergine e all’Arcangelo Michele, speciale protettore, quest’ultimo , del regno longobardo.
    Gradualmente il parroco della pieve diventò sempre meno importante diventando poco più di un curato e venne soppiantato dall’abate il cui prestigio è, come noto, destinato a crescere sempre più e non solo nel campo religioso.

    Leno, dunque, e il monastero si svilupparono sotto l’egida dei longobardi: il ritrovamento di molti oggetti individuano Leno come uno dei più consistenti insediamenti longobardi della pianura padana, nella quale il centro leonense rappresentava un importante avamposto rispetto alle minacce dei bizzantini.
    Cosa comportò per la nostra Abbazia la sconfitta dei Longobardi con la battagli adi Pavia del 774?
    Probabilmente il monastero accusò inizialmente i colpi della crisi e della fine dei longobardi, ma superò il tutto anche grazie all’accorta politica di Carlo Magno che , dopo aver sconfitto Desiderio nel 774, si dimostrò "amico" del monastero e riconfermò i beni precedentemente acquisiti , aggiungendo la corte di Sabbioneta .
    Per la precisione non fu subito "amore" tra l'imperatore franco e le istituzioni monastiche bresciane: infatti , dopo la conquista di Pavia, donò alla fondazione religiosa di San Martino di Tours il cenobio di Sirmione con tutti i suoi beni, sottraendolo al monastero di San Salvatore.
    Qualche anno più tardi invece Carlo Magno accordò la sua protezione al monastero bresciano femminile confermando tutti i beni, senza però enumerarli e senza citare i precetti dei re longobardi, quasi volesse esorcizzare il periodo iniziale dei cenobi bresciani dall'influsso longobardo.
    Dalla lettura di alcuni documenti imperiali sembra che nessun imperatore carolingio desiderasse riprendere il progetto dei re longobardi , infatti l'istituzione monastica era vista solo come un grande sistema produttivo da far funzionare nel modo più economicamente vantaggioso.

    In quegli anni l'Abbazia benedettina era retta da Ermoaldo, primo abate, morto il quale, successe Lamperto, uno dei dodici monaci venuti da Montecassino, che ottenne la benedizione dal Papa.
    La leggenda vuole che Lamperto abbia dovuto sostenere un assalto di 10.000 briganti camuni guidati da Odosimo e che li sconfisse grazie alla sua "intrepida franchezza" con la quale avrebbe disarmato gli aggressori che rinunciarono all’attacco.

    Il monastero leonense nel frattempo cresceva per estensione, importanza strategica, religiosa ed economica, ed indipendenza da autorità locali.
    Gli storici sono concordi nell’indicare il IX secolo come quello del massimo splendore del monastero di Leno, e gli avvenimenti ci dicono di quale stoffa fossero gli abati esperti tanto nell’uso della spada che del pastorale.
    Oltre ai domini originari ,di continuo accresciuti con accorta politica , i monaci godettero di larghi privilegi, avendo il dominio diretto delle loro terre e la facoltà di cedere i loro diritti feudali, e si distinsero oltre che per caratteristiche prettamente spirituali, anche per capacità politiche,diplomatiche e anche strategico-militari: famosa è la figura di quel periodo del monaco-guerriero .

    Con l’andar del tempo l’abbazia venne sempre più coinvolta negli avvenimenti politici e sociali dei tempi e gli abati furono costretti a cedere a vassalli le terre del monastero, entrando anch’essi nella logica delle trasformazioni portate dal Feudalesimo .
    In questo contesto storico, tra vassalli, valvassori e servitù della gleba in continua evoluzione, la vita del monastero di San Benedetto rischia di snaturarsi e di essere eccessivamente contaminata da logiche feudali: la facoltà concessa agli abati di dare in feudo i beni dell’abbazia ai propri "fideles" allargò sempre più il numero di vassalli infeudati al punto che fu necessario l’intervento di riforme per tutelare l’integrità patrimoniale del monastero.
    L’Abbazia di Leno fu infatti tra le prime ad aprirsi alla riforma di Cluny e ad accettare la regola cluniacense.

    Nel 1036 l’imperatore nomina abate di Leno Richerio ,un tedesco bavarese formatosi nel monastero di Nieder Albaich che si rivelò aperto alla regola cluniacense, e che fu definito "l’uomo dell’imperatore".
    Richerio si dimostrò abile diplomatico , fedele al Papa della riforma ecclesiastica, ma anche non in contrasto con l’imperatore.
    Della protezione di quest’ultimo il monastero aveva sicuramente bisogno per difendersi dalle usurpazioni poste in essere dai suoi vassalli fomentati anche da rivalità interne fra potenti famiglie come ad esempio i Gambara .
    E’ sicuramente per l’evidente fedeltà all’imperatore, per la spiccata sicurezza gestionale, oltre che per fermezza morale se Richerio viene nominato ,sia dall’imperatore che dal Papa , abate di Montecassino che resse fino al 1055, cioè per 17 anni, assieme al monastero di Leno, fatto che ancora una volta sottolinea il forte legame che nei secoli ha unito il monastero leonense con quello beneventino.






     
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    Il Ponte di Barche di Torre d'Oglio

    Il Ponte delle Barche di Torre d'Oglio è caratteristico perchè costituito da barche; risale al 1926 e fa parte del Parco dell'Oglio Sud, vale a dire lungo la strada golenale che porta da Cesole a San Matteo delle Chiaviche. L'attraversamento del Po e dell'Oglio ha sempre rappresentato un po' "un'avventura" essendo il fiume considerato come un'interruzione del territorio, delineando chiaramente "i confini". Fu quindi progettato il Ponte in chiatte con una struttura composta da sei barche
    Il ponte fu progettato, 1922, con una struttura componibile di sei barche in cemento retinato, costruite dalla ditta Gabellini di Roma, con un pontile di larice di 13 metri (le sei strutture accostate coprivano una lunghezza di 78 metri). Tuttavia la struttura era completata da una chiatta speciale “porta baracche”, fornita di pontile, da altre quattro «vedove» con pontile di cinque metri (totale 20 metri), da altre due barche sciolte, ossia vedove con pontile da cinque metri, da due baracche per alloggio del personale e magazzino, da una «ponticella volante per l’approdo fissa al ponte e resa mobile con speciale dispositivo», oltre che da dispositivi vari di ancoraggio e da attrezzi e strutture per la sua manutenzione. I lavori inziarono nel 1926, il ponte fu collocato seguendo il senso della corrente: si scelse come sito un punto appena a monte del vecchio porto natante, perché si potesse così utilizzare, per la massima parte, le già esistenti rampe stradali d’accesso agli argini. L’inconveniente più grave però era che il ponte diventava impraticabile ogniqualvolta le morbide acque del fiume si alzavano e raggiungevano quote anche limitate: ciò si verificava in conseguenza dell’allagamento dell’ultimo tratto, di circa 200 metri, in prossimità della strada d’accesso al ponte, la strada posta a destra d’Oglio in territorio del Comune di Viadana. Si pensò così alla costruzione di una nuova rampa d’accesso, da collocare in vicinanza di Corte Motta, poi si arrivò alla soluzione ancora oggi in uso: dato che non risultava possibile mantenere il ponte stabile nella stessa posizione con testate bloccate, era necessario dunque renderlo mobile per uno spazio di circa novanta metri da valle a monte, a seconda del periodo di magra o di piena. Stabilita e realizzata questa soluzione tecnica tutto sembrava, finalmente, funzionare al meglio. Fu ricostruito dopo la seconda guerra Mondiale (a seguito di un mitragliamento ad opera dei Tedeschi, il ponte era stato affondato ed alcune barche furono disperse) Da quel momento non si pensò nemmeno lontanamente di costruire un ponte di cemento: la viabilità forse ne avrebbe guadagnato, ma la perdita di un ponte vissuto come unico, così legato alla storia, alla fatica e alle abitudini di quelle comunità prossime alle acque, avrebbe avuto l’effetto di un vero e proprio lutto e avrebbe assunto le caratteristiche dell’eliminazione di un bene personale e ancora utile, di fronte alla cui perdita ci si ribella, come quando viene a cadere un dente buono. Così il Ponte riprese il suo tran tran, soggetto ad opere di manutenzione costante, giacché, periodicamente, occorreva rifare il tavolato, sistemare qualche barca, sostituire le vecchie corde con funi di acciaio, tenere in ordine gli argini… Qualcosa o qualcuno fino ad oggi ha fermato, qui, l’opera distruttiva del progresso e dell’interesse economico. Rivive ancora, dunque, nella zona, soprattutto il sabato e la domenica o nei periodi estivi, una sorta di saga popolare e sul ponte si assiste ancora all’esuberante via vai della gente, ad un festoso appuntamento col passato. Per chi vive da tempo nell’inespressivo contatto con i manufatti di cemento o nel frastuono cittadino, o anche per chi è rimasto semplicemente attaccato a questo luogo della memoria, il ponte è rimasto un punto di riferimento, un appuntamento con la tranquillità, con la natura perduta e ritrovata.
    Dopo il Ponte di Barche di Torre d’Oglio, in riva destra verso Cizzolo, là dove il Po e l’Oglio si contendono il letto fluviale, si impone il bosco golenale a salice bianco più vasto del territorio del Parco, sopravvissuto alla quasi totale conversione dei terreni alle coltivazioni del pioppo. Qui si mantiene l’habitat naturale per vari animali, in particolare uccelli che prediligono gli ambienti forestali di ripa e che popolano i “sabbioni” che caratterizzano la foce, tra i quali, non è raro osservare il cavaliere d’Italia.


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    L'ultimo ponte di barche, custode delle acque basse


    L'ennesimo ambiente di grande volore storico-naturalistico minacciato da inutili velleità "moderne".
    La Repubblica

    L´auto sbuca dalla nebbia, rallenta, monta sulla passerella a passo d´uomo, percuote le vecchie assi come uno xilofono, al ritmo sincopato lento della pianura. È il rumore dei francesi sulla Beresina, dei carriaggi di Armando Diaz verso il Piave, dei tedeschi in fuga nel ‘45. Le giunture coperte di "galabrösa" - la brina dei padani - cigolano al passaggio, il pianale tuona sui barconi inchiavardati con pulegge. Sotto, il mormorio dell´acqua alpina in viaggio verso il Po, che sbuca lì dietro l´angolo. «Giù le mani dal ponte» ti dicono i passanti intabarrati, e fanno il segno di vittoria con le dita, come se Torre d´Oglio fosse Mostar. Non difendono un manufatto, ma l´anima della pianura.
    La Padania è in guerra per l´ultimo ponte. Non vuole che gli cambino i connotati, come la Provincia di Mantova è decisa a fare in febbraio. La protesta è arrivata in Parlamento, con firme, interrogazioni, presidi sul territorio. Questo, ti dicono, non è solo un «ponte di barche». È di più: un ponte che naviga. L´unico in Europa. Risale o scende la corrente, si sposta come un traghetto con a bordo due passerelle - simili ad ali di pipistrello - da agganciare a quattro approdi diversi, su livelli stradali differenti. Ha anche il suo ponte di comando: la baracca degli addetti, con letti e cucinino. A bordo vietato dormire, il fiume può alzarsi anche di due metri in meno di ventiquattr´ore.
    Sta effigiato in tutte le guide turistiche, il Touring lo mette in copertina, ma fa niente. Al suo posto vogliono metterci «un ambaradan». Una struttura galleggiante fissa, con ai margini due pedane spaziali governate da terra, in grigliata di metallo, e un bel po´ di cemento sulle rive, buono per farci passare i Tir. Portata decupla, forse più; e cancellazione della strada articolata su quattro livelli. Insomma, la fine di un pezzo di storia italiana. Il ponte, del ‘26, è uno degli ultimi del mondo di ieri; fatto prima che il calcestruzzo generasse le «ardite campate» d´epoca totalitaria, e le bombe del ‘45 completassero l´opera affondando le strutture galleggianti sopravvissute nel Grande Nord.
    Mica per niente Bertolucci ci ha girato Novecento. Intorno, un labirinto di chiuse, golene, sbarramenti, sifoni, chiaviche, stazioni di sollevamento. E poi argini, fontanazzi, confluenze, idrovore, canali di scolo e canali di bonifica che si incrociano, si sovrappassano in una trama indecifrabile, con l´Oglio che scorre più alto rispetto alla pianura e la può inondare in ogni momento. E il Po, che nei millenni s´è cercato la strada in cento modi diversi, lasciando tracce impressionanti di alvei in secca, e oggi, ancora qui, compie la sua virata più spettacolare. Dopo Pomponesco, il Dio Serpente si gira verso le sorgenti, risucchiato dall´Oglio che subito lo rigurgita in direzione del Delta, in un´altra pazzesca curva da autodromo.
    Altro che i canali di Francia. Questa è una Mesopotamia, con segni secolari di regimazione delle acque, ben precedenti alla bonifica fascista (la chiamarono «riscatto delle terre»), con cascine del Cinquecento, luoghi come Sabbioneta - capolavoro italiano del Rinascimento - costruita su un terrapieno che, in mezzo a fiumi pensili, la fa diventare isola nel gioco impercettibile delle isoipse di questo mare di mezzo pronto a riformarsi a ogni piena. Un labirinto di meraviglie: con in mezzo lui, il ponte di Torre d´Oglio, simbolo e baricentro di un mondo in bilico fra Reggio, Mantova, Parma e Cremona, cuore nobile della pianura.
    «Protesta lumbard». Alla Provincia di centrosinistra liquidano così la rivolta, e accampano «spese di gestione insostenibili». Poi vai a vedere chi attraversa il ponte, e non trovi leghisti. Stupefatti tedeschi in bicicletta che passano in muto raccoglimento. Contadini della Bassa con i trattori, mamme mantovane che portano i figli all´asilo, cavallerizzi pavesi che vengono qui solo per sentir gli zoccoli calpestare le assi di legno, o i giunti pigolare sulla corrente verdegrigia. Fai il conto dei passaggi - mille in sei ore in un´orrenda giornata di pioggia - e t´accorgi che, col pedaggio di un euro a testa ai non residenti, il ponte si autofinanzierebbe alla grande.
    Ma alla Provincia non mollano. Per convincerti che non sarà una tragedia, ti mostrano un bel modello: la passerella di Arles, quella a bilancieri dipinta da Van Gogh. Così, come se la Padania fosse la Provenza, come se la corrente del fiume camuno fosse quella, sonnolenta e navigabile, delle chiatte del Midi. Intanto il ponte agonizza per assenza di personale. I pontieri vecchi se ne sono andati, stufi di combattere; quelli giovani non riescono a coprire i turni, non hanno più qualcuno che insegni loro il mestiere. Spesso il pontiere è solo, non ce la fa a navigare verso l´approdo giusto quando l´acqua sale, e così il glorioso manufatto si logora. E il problema si risolve all´italiana, senza bisogno di permessi della Soprintendenza.
    A Viadana, poco a monte, di fronte a Brescello e al campanile di Don Camillo, il Po scroscia sotto le stelle d´inverno. Sull´argine fa un freddo becco, «da lazaron» dicono qui. All´osteria Bortolino si batte carte tra tortellini di zucca, trippa con fagioli, bottiglie di Barbera. Cibo tosto, in bilico fra Lombardia ed Emilia. «Quando vuoi far conoscere la pianura ai forestieri, li porti a vedere quel ponte. Lì c´è già tutto. Ma vallo a spiegare ai politici», brontola Paolo Bergamaschi, 55 anni, consigliere per gli affari esteri dei verdi al Parlamento europeo. Sa che, se fosse in Francia o Germania, la gloriosa passerella navigante sarebbe una vedette. La circonderebbero di cartelli, la collegherebbero a un museo e a un percorso turistico. «Non ci vuole niente far rendere questo posto, e trovare contributi europei».
    Al mattino dopo fai appena a tempo a vederlo. Dalla passerella fra le barche avvisti già alle sette una striscia fosforica, alta poco più di un metro, che arriva controcorrente dalla confluenza col Po, invade le golene disseminate di salici e alberi di noce, dilaga nelle terre basse, diventa una banchisa di latte, poi si gonfia, oscura il cielo in pochi minuti, forma una massa compatta, felliniana, da Amarcord. «La nebbia ritorna», ghigna Umberto Chiarini, padano innamorato delle sue terre, dietro il suo barbone da baleniere. E col caravan ti porta in immersione, come in sommergibile, in un silenzioso fondale oceanico.
    Navighiamo in un bicchiere di orzata. Intorno, non c´è luogo che non abbia nome "idraulico". Sabbioni, San Matteo delle Chiaviche, Boccabassa, Canale Navarolo. O la Valle dell´Oca, così detta perché si allagava per salvare le terre vicine, più fertili. Oltre i filari di pioppi, la Corte Motta o la Corte Camerlenga - sentite che nomi - fattorie con terrapieni che portano al primo piano, dove rifugiare uomini, animali e carriaggi in caso di "rotta" del fiume, arche di Noè in mattoni dove il diluvio non arriva una volta per tutte, ma torna sempre.
    «Non tutto si misura in denaro e viabilità - si accalora Chiarini - i pontieri sono anche sentinelle delle acque». Col ponte, spiega, si rischia di cancellare un presidio. La contezza dei punti deboli dove il fiume può sfondare. La topografia delle "brede", le terre basse; o dei "bugni" (o "budri"), voragini tonde come pignatte che squarciano le argille; dei fontanazzi addormentati; dei sifoni alla base dell´argine. La conoscenza delle sabbie, della cotica erbosa degli argini, della permeabilità dei terreni. O i trucchi per tamponare le falle, che non vanno mai chiuse completamente, perché l´acqua si asseconda, non si tappa mai. Altrimenti, esplode e fa disastri.
    Odone Rondelli, pontiere in pensione, abita a Cizzolo, a due passi dall´argine, in una casa decorata da vecchi legni portati dal Po. Radici a forma di mantide, uccello, tartaruga. Sul tavolo, ciccioli, salame e lambrusco. Quando arrivò la piena del 2000, fu lui a dire come bloccare i fontanazzi senza danneggiare il terrapieno, usando la stessa acqua che usciva. Lo sapeva perché glielo avevano insegnato i vecchi. Ora, con i nuovi pontieri trimestrali, la sapienza antica non passa più di mano. La controprova? «Le rotte del Po sono spesso coincise col passaggio di eserciti, quando la gente, per salvarsi la pelle, non riusciva più a controllare il fiume».
    Nella bruma l´impianto idrovoro di San Matteo delle Chiaviche, dove confluiscono tre canali su livelli diversi (Fossola, Ceriana e Navarolo), ti si para davanti enorme, sembra la diga sullo Yangtse, con la lapide dell´ingegner Cavour Beduschi «redentore» delle terre impaludate, l´uomo della grande bonifica mantovana. Pannelli elettrici anni Venti, pompe a elica e chiocciola, fondamenta fatte con migliaia di tronchi di salice piantati nel fango a suon di battipali. Una meraviglia, perfetta per un ecomuseo che forse si farà, forse no.
    Il ponte cigola, fa un lamento lungo come di uccello. Questo, spiega Chiarini, era ed è un punto d´incontro di passanti, turisti, pescatori e barcaioli. «Non capirlo, rivela non solo ignoranza nei confronti di un territorio complesso e affascinante, ma anche la fine di un´etica della manutenzione, che è alla base della sopravvivenza del sistema padano». Il freddo aumenta. Poco in là, cavalieri passano in silenzio sotto l´argine maestro. Un terzetto di poiane in predazione si appollaia sui fili della luce. Nella nebbia filtra aria di neve.



    bellissima descrizione
     
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  14. tomiva57
     
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    Il Castello di Castel D'Ario

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    Il castello medievale di Castel d'Ario si presenta oggi come una imponente cinta muraria, lunga circa 300 metri, inframezzata da tre torri perimetrali e da quella di accesso, preceduta dai resti dell’antico rivellino.
    Una quinta torre, più massiccia ed elevata, si trova all’interno, inserita in una sporgenza della cinta: è la torre definita della “Fame” nella seconda metà dell’Ottocento, ma in realtà è la costruzione più antica di tutto il castello e quanto resta della complessa struttura della rocca. La rocca (ormai da secoli priva della parte di cinta all’interno del castello, con adiacenti terrapieno e fossato) ha costituito infatti fino al tardo Cinquecento una fortezza a se stante, protetta da basse mura che all’esterno davano su terrapieno e fossato e all’interno, intorno alla torre, su un analogo terrapieno che permetteva l’utilizzo delle feritoie senza bisogno di spalti soprelevati. Un unico accesso pedonale, a sud della rocca verso l’argine del canale Molinella, era fornito di ponte levatoio, mentre un altro ponte levatoio, completo di rivellino, collegava la rocca con l’interno del recinto.
    La torre della Fame ha pianta quadrata di oltre 10 metri di lato e si innalza per circa 24 metri; ma la sommità, che pure presenta all’interno un volto a crociera intatto, è priva della merlatura e di una ulteriore torretta che ospitava la campana del borgo, indispensabile per segnalare le ore del lavoro e i vari pericoli. Sulle pareti a nord e a ovest della torre sono ben visibili le impronte dei solai di una torre angolare ad essa addossata, detta torresino, che consentiva tra l’altro l’accesso tramite scale in legno ai vari piani, privi di collegamenti interni.
    L’articolata conformazione della rocca rispondeva a funzioni ben precise: era un posto di guardia del territorio e dall’alto controllava tutto il circondario, ricevendo e trasmettendo alle torri vicine, disposte sul confine mantovano, avvistamenti di nemici o situazioni di pericolo tramite segnali luminosi (lumere) o sonori (bombarde).
    Nella rocca vivevano il castellano con la famiglia, vari militi e guardie; mentre ben due piani della torre erano adibiti a prigione: quello superiore e quello inferiore, teatro – quest’ultimo - di morti atroci. Nel 1321 vi furono infatti rinchiusi a tradimento e lasciati morire di fame tre membri della famiglia Pico della Mirandola ad opera di Passerino Bonacolsi; e nel 1328 quattro Bonacolsi subirono uguale sorte per volere dei Gonzaga. I resti di sette scheletri, uno dei quali con la tibia ancora nei ceppi, furono rinvenuti a metà Ottocento durante i lavori di sgombero del materiale franato nella cella per ricavarvi una ghiacciaia e attribuiti agli storici sventurati.
    Da quel momento la torre, già ridotta da tempo a cimelio inutile, acquistò nuova importanza. Fu descritta (e si scoprì allora che due pareti del secondo piano erano affrescate con figure femminili, oggi leggibili molto a stento e bisognose di un urgente restauro), disegnata (il primo ‘spaccato’ è del 1853), indicata come monumento nazionale e come tale salvaguardata assieme all’adiacente recinto del castello. Il recinto (cioè tutto il rimanente spazio del castello) è sicuramente costruzione successiva alla rocca e, anche se in un documento del 1273 risultano coesistere entrambi, non è detto che già da allora esso avesse l’attuale fisionomia in quanto vi si possono individuare vari particolari ascrivibili a epoche successive.
    Certo è che le due fortezze che compongono il castello e cioè la rocca e il recinto sono facilmente distinguibili anche oggi: la zona attorno alla torre ha mura più basse e più antiche e sporgenti rispetto alla facciata del castello; mentre il contorno del recinto si snoda su tre lati con file di buche pontaie che sottolineano il doppio cammino di ronda terminante all’interno del palazzo pretorio. In più sono evidenti i due tratti di muro che collegano le due zone suddette; muri privi di camminamenti, con feritoie basse e disposte in modo irregolare e con evidenti segni di interventi nel tempo.
    Anche il recinto aveva una sua specifica funzione: doveva ospitare gli uomini del borgo, i loro beni ed i soldati nei frequenti casi di pericolo. All’interno del recinto la costruzione più importante era il palazzo pretorio, dimora del vicario (cioè del funzionario del signore-padrone) che esercitava una vigilanza assoluta, ma c’erano pure altre case, magazzini, depositi se pur rudimentali. Nel castello infatti venivano convogliati tutti i prodotti della terra per essere registrati, tassati e conservati; il loro periodico prelievo, per il sostentamento o per la semina, era pure accuratamente sorvegliato.
    La funzione della rocca come vedetta e del recinto come rifugio cessa intorno a metà Cinquecento quando viene meno il ruolo del castello come fortezza di confine. I Gonzaga, che in quel periodo governano il paese (l’hanno avuto in sub-feudo dal vescovo di Trento che a sua volta l’aveva avuto in feudo dall’imperatore nel 1082, e lo terranno per circa quattro secoli, dal 1328 al 1708) hanno infatti spostato le loro mire di potere verso il Monferrato e i castelli sul confine veneto non vengono aggiornati militarmente e anzi la stessa manutenzione diventa compito della popolazione locale.
    Così, nel corso del Cinquecento, il castello di Castel d'Ario si trasforma in un vero e proprio borgo, con palazzi (uno viene chiamato “la palazzina”), vie, piazza centrale. Oltre al vicario con famiglia e ad alcuni suoi collaboratori, vi risiedono il massaro (o contabile, pure con famiglia e parenti), vari inquilini proprietari o in affitto, il banchiere ebreo (insediatosi nel 1514, anche con la famiglia). Compresi in vari edifici, tra cui anche la torre della rocca, vi sono poi cantine e granai utilizzati da nobili e notabili locali e una casa di proprietà del mulino. E sempre c’è qualche locale adibito a prigione
    La floridezza del borgo cessa nel 1630 in seguito alla terribile epidemia di peste che decima la popolazione e manda il rovina il manufatto. Verso fine Seicento, al centro del castello risulta un campo coltivato a mais.
    Nel corso del Settecento, quando il paese ritorna sotto il dominio diretto di Trento, le asportazioni di materiali sono numerose e documentate. Sparisce il torresino addossato alla torre della rocca e già in parte franato e le sue pietre vengono utilizzate per ultimare il volto della nuova chiesa e per costruire l’intero campanile; mentre materiali prelevati da punti imprecisati servono per il nuovo municipio e anche per costruzioni private nella nuova Piazza con portici.
    Il palazzo pretorio, unica costruzione rimasta abitabile, viene restaurato ma ridotto di lunghezza e adibito a sede delle guardie e delle prigioni. Funzione che prosegue anche durante l’epoca napoleonica quando vi si insedia una brigata di gendarmi a cavallo. Per rispettare le nuove disposizioni in merito, si aprono varie finestre nella parete che coincide con la cinta muraria alla destra dell’entrata del castello.
    Ormai è semi-distrutto il rivellino, sparita l’intera merlatura, eliminato il sistema di fossati interni ed esterni. Attorno al castello resta l’antica valle, che un tempo veniva allagata per difesa ma che almeno da inizio Seicento è coltivata a risaia. E tale resterà fino alla prima guerra mondiale causando non pochi problemi di salute agli inquilini del castello. Infatti, a pochi anni dal citato insediamento della gendarmeria sotto Napoleone, le guardie chiedono di essere trasferite perché si ammalano continuamente di febbre malarica.
    Sotto il governo austriaco, dopo un’estenuante disputa col Demanio che rivendica la proprietà del castello, il Comune riesce invece a dimostrare che è proprietà sua anche se, subito dopo la conclusione della vertenza, tenta per due volte di venderlo in quanto si rivela un possesso che abbisogna di manutenzione continua e onerosa. Ma manca l’acquirente e così il disastrato maniero viene sfruttato al limite delle sue possibilità ed i restauri si riducono a rappezzi quando non se ne può proprio fare a meno.
    Ogni vano, anche angusto, viene affittato. Ogni fazzoletto di terra coltivabile pure. Ogni angolo capiente diventa deposito di attrezzature comunali ingombranti, come il carro funebre o la botte per innaffiare le strade. Nel 1851 si ricava la ghiacciaia comunale nella torre della rocca. Nel 1865 si adatta a macello comunale la torre perimetrale a nord e si costruiscono due stallette adiacenti.
    A inizio Novecento si permette a vari privati di costruire stanze e baracche addossate alle mura interne.
    Solo intorno agli anni Trenta, dopo l’alzata di scudi della Soprintendenza, si mette un po’ di ordine. Il castello diventa Casa del fascio; ripulito dentro per ospitare esercitazioni e spettacoli, e anche all’esterno dove si ricava il primo campo da calcio. Al termine della seconda guerra mondiale, dato che il manufatto non ha subito danni, torna ad essere affittato a vari inquilini, ma per pochi decenni. Di nuovo abbandonato, è oggetto di restauro solo verso la fine del secolo e allora, quando si mette mano alle pareti del palazzo pretorio, si scopre che sotto i resti di intonaco spuntano affreschi con gli stemmi degli Scaligeri.
    Si esegue un veloce recupero, senza approfondimenti specifici.
    Eppure la storia spiega il perché della presenza di quegli stemmi.
    Per vent’anni (1357-77) i ricchi e potenti signori di Verona avevano avuto in pegno il castello dai Gonzaga a fronte di un prestito consistente in fiorini d’oro. In quel periodo, quali proprietari di un castello ceduto sì ma completamente spoglio, avevano dunque provveduto all’arredo non solo militare e domestico, ma anche alle decorazioni.
    La “firma” di Cansignorio, l’ultimo grande e spietato scaligero morto nel 1375, è nella sua iniziale incoronata che affianca vari stemmi riproducenti il cimiero alato e la scala a cinque pioli con i mastini rampanti.
    Ora, il salone affrescato, al piano nobile del palazzo pretorio, è diventato luogo di rappresentanza ed ospita mostre, spettacoli ed eventi di vario genere.
    Il piano terra è adibito a biblioteca comunale, mentre il sottotetto è sfruttato come spazio espositivo aggiunto o ad uso degli artisti in occasione degli spettacoli.

     
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  15. tomiva57
     
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    La patria del riso
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    La parte del Mantovano che va dalla riva sinistra del Mincio al confine del Veronese è chiamata "Strada del riso", perché è proprio in questa zona che, almeno a partire dal Cinquecento, si è sviluppata una fiorente coltura del riso che ha visto le varietà mantovane, in particolare il Vialone Nano, primeggiare a livello nazionale per qualità.
    Particolarmente significativo a RONCOFERRARO il singolare Monumento alla Mondina. Un'antica riseria attiva già dal XVIII secolo, la Pila del Galeotto, è visibile e visitabile sulla strada tra GAZZO e CADÈ.
    La degustazione dei risotti, dai più classici come quello "alla pilota" ai più imprevedibili, può avvenire nei numerosi ristoranti della zona, riuniti nella Associazione "Strada del riso e dei suoi risotti" (tel. 0376 369727). Per quanto riguarda la parte monumentale, gli edifici più rilevanti della zona sono le ville rurali, come la Corte Spinosa (XVI sec.) e gli imponenti ruderi della Favorita (XVII sec.) a PORTO MANTOVANO. A VILLIMPENTA sono evidenti i resti del castello, eretto dagli Scaligeri e in cui operò fra gli altri anche Luca Fancelli.
    CASTEL D'ARIO, che ospita un altro castello, è nota soprattutto per aver dato i natali all'asso del motorismo Tazio Nuvolari, la cui casa natale è visibile in paese. Un'altra attrattiva casteldariese è la Bigolada, distribuzione in piazza di "bigoi con le sardèle" che avviene sempre il primo giorno di Quaresima.



    La “Strada dei vini e dei sapori mantovani”
    bottiglie di Vini d.o.c mantovani

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    Dal 2000 anche nella nostra provincia opera l’Associazione “Strada dei vini e dei sapori mantovani”, riconosciuta dalla Regione Lombardia. L’Associazione si propone di valorizzare le produzioni tipiche del mantovano dal vino, alle produzioni tipiche e ai piatti della tradizione. Su trecento chilometri, opportunamente segnalati con apposita cartellonistica, la nostra provincia si presenta in tutte le sue eccellenze: agroalimentari, appunto, ma anche artistiche, storiche, naturalistiche e paesaggistiche.
    Della Strada fanno parte sia enti come la Camera di Commercio, la Provincia, alcuni Comuni e Pro Loco e naturalmente cantine, ristoranti e botteghe del gusto.
    Le cantine associate si sono attrezzate per visite e degustazioni mentre l’impegno dei ristoratori è di servire i piatti della tradizione: tortelli di zucca, risotto alla pilota o “menà”, luccio in salsa e una gran varietà di dolci. Nelle botteghe del gusto si possono trovare i grandi formaggi Parmigiano Reggiano e Grana Padano, i salami del Consorzio e i cotechini, le zucche e le pere mantovane e le molte mostarde che ben si accompagnano con i formaggi. I Barcaioli del Mincio a Rivalta offrono poi la possibilità di visite fluviali nel cuore della riserva naturale.
    Seguendo il simbolo dell’Associazione, una sinuosa strada gialla che si insinua in tre acini colorati di giallo, rosso e viola, si possono scoprire aspetti del territorio che non sempre hanno avuto la loro giusta valorizzazione.



    Le terre del tartufo

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    Il paese di più antica tradizione è OSTIGLIA, città romana e patria dello storico Cornelio Nepote. A pochi chilometri dal paese si erge il Santuario della Comuna, capolavoro dell'architettura cinquecentesca. Di fronte, sull'altra riva del Po, si affaccia REVERE, che racchiude nel suo centro storico edifici di rilevante interesse quali la maestosa Parrocchiale e soprattutto l'elegante Palazzo Ducale, edificato nel XV secolo da Luca Fancelli.
    Di particolare interesse le chiese matildiche di PIEVE DI CORIANO, FELONICA e SERMIDE.
    Dal punto di vista naturalistico si segnalano due oasi: le Paludi di Ostiglia, gestita dalla Lipu, e l'Isola Boschina, che occupa un parco di circa quattordici ettari entro cui si trova un'elegante villa neoclassica con annessi edifici rurali.
    Parte da Revere e raggiunge Bondeno, nel ferrarese, la ciclabile che utilizza in buona parte l'argine inferiore del Po.
    L'estremo lembo sudorientale del territorio mantovano presenta autentiche rarità gastronomiche, particolarmente il tartufo, che è esaltato in apposite fiere. Importanti anche il melone e la cipolla.



    Prodotti tipici
    Salame e polenta

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    Le produzioni tipiche della provincia mantovana non si discostano da quelle di tutta la pianura padana, tanto che l’agroalimentare è un punto di forza dell’economia mantovana. Il maiale, allevato a quanto pare fin dai tempi degli Etruschi, e dalla sua macellazione non si butta via niente, fornisce la carne per la realizzazione di prodotti molto caratterizzati: salame e salamella sono in pratica le punte di diamante della lavorazione locale del maiale. Salame con o senza aglio di grande qualità mentre la salamella, prodotto fresco, va cotta alla brace, alla griglia, ecc., ed è il condimento ideale per il risotto più tipico e famoso: quello alla pilota. Non possiamo non accennare ai due grandi formaggi che qui si producono: Grana Padano e Parmigiano Reggiano e qui va sottolineato il fatto che la nostra provincia è l’unica nella quali si possono produrre questi due formaggi di eccellenza. Del resto anche il vino sta sempre più diventando prodotto di alta qualità. Le zone di produzione sono due: le colline moreniche del Garda (merlot, pinot-chardonney, cabernet sauvignon, pinot bianco e grigio e chiaretto) e la bassa con il lambrusco. Il riso, vialone nano, è un’altra della produzioni tipiche che ha trovato nelle nostra zona fertile terreno fin dal ‘500. Lunga è la lista dei prodotti del campo, ma possiamo tranquillamente segnalare la zucca, elemento fondamentale per un piatto unico come i “tortelli”. Tipici sono pure il melone e la pera IGP, la cipolla e il tartufo. Come si vede grande varietà di prodotti per una cucina di grande qualità.


    La zucca

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    La coltivazione

    Le zucche sono piante robuste che danno i loro migliori risultati produttivi nei climi caldi, in terreni ben esposti, sciolti e profondi, dotati di sostanza organica. Per avere ottimi risultati, servono un’accurata lavorazione del suolo, oltre ad una buona concimazione organica e minerale.
    La semina a pieno campo si effettua tra aprile e maggio, collocando tre-cinque semi in piccole buche. Si consiglia di proteggere i seminati e le piantine dal freddo. Dopo circa 40 giorni si può eseguire il trapianto delle piantine, ognuna delle quali deve essere sistemata ogni 2/3 metri quadrati. Nella fase di sviluppo, la pianta necessita di numerose concimazioni e irrigazioni costanti. Alla comparsa dei primi frutti, è bene operare un diradamento con il fine di ottenere zucche di maggiori dimensioni. Interrompere l’irrigazione durante la fase di maturazione delle zucche.
    La raccolta si esegue quando le foglie si seccano e i frutti sono completamente maturi e il peduncolo è essicato. Bisogna ricordare che la coltivazione della zucca su uno stesso terreno prevede la rotazione con un’altra coltura per almeno un anno, quali mais e frumento. Come crescere una zucca nel proprio giardino (trapianto)
    Scavare una buca larga e profonda (almeno 50 cm). Disporre letame sul fondo della buca o compost. Ricoprire tutto con uno stato di terra alto almeno 25 cm. Eseguire il trapianto. Per favorire un’abbondante produzione di zucche, irrigare abbondantemente.




    Tortelli di zucca

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    La ricetta dei tortelli di zucca

    (4 persone)

    Per la sfoglia:
    3 uova
    300 g di farina
    Per il ripieno:
    1 e 1/2 kg di zucca mantovana
    150 g di amaretti
    70 g di mostarda mantovana di mele
    1 hg di formaggio grana
    noce moscata
    scorza di mezzo limone grattugiata
    Per il condimento:
    formaggio grana grattugiato a piacere
    burro - salvia

    1 – Cuocere la zucca al forno o al vapore, dopo averla tagliata a pezzi e privata dei semi
    2 – Una volta cotta, eliminare la buccia e schiacciare bene la polpa.
    3 – Unire alla zucca gli amaretti pestati, la mostarda tritata fine, la noce moscata, la scorza di limone e il formaggio, la cui dose aumenterà nel caso l’impasto non fosse sufficientemente consistente. L’impasto ben amalgamato andrà poi fatto riposare per un giorno in frigorifero.
    4 – Preparare la sfoglia con uova e farina e posizionare piccoli mucchietti di pesto a distanza regolare, e con l’apposita rotellina formare quadrati di sfoglia a cui dare la forma desiderata (a raviolo, ad agnolo, ecc.).
    5 – Cuocere i tortelli così ottenuti in acqua salata e una volta scolati, distribuirli in una pirofila a strati alternati con il condimento di burro fuso, salvia e formaggio grana grattugiato. Lasciar riposare qualche minuto e servire


    buon appetito
     
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25 replies since 18/7/2010, 14:22   9705 views
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