FATE..FOLLETTI..ELFI e GNOMI....

UN MONDO FANTASTICO

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  1. gheagabry
     
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    Vita da gnomi




    Quando sono adulti, i maschi hanno una lunga barba bianca e le femmine portano due belle trecce bionde, che però spariscono sotto un fazzoletto dopo che si sono sposate.
    Il loro abbigliamento preferito: una giacchetta legata con una cintura, pantaloni pesanti (fa freddo nei boschi!) e degli stivaletti invernali, oltre, naturalmente, all'immancabile cappello rosso a punta! Le donne invece portano dei bei vestiti ricamati e un cappello verde, sempre a punta.

    Gli gnomi non sono come noi: loro vivono centinaia e centinaia di anni. Pensate che l'età giusta per sposarsi (forse corrispondente ai nostri 30) è... 100 anni! E che i baby-gnomi fanno pipì a letto fino a 12 anni! Dopo il matrimonio di solito nascono i figli: solitamente si tratta di una coppia di gemelli. Il papà si occupa prevalentemente dell'educazione dei maschietti, mentre la mamma si prende cura delle femminucce.

    Quando il piccolo gnomo compie 13 anni, è pronto per diventare grande. Allora il suo papà gli svela tutti i segreti di cui sono a conoscenza solo gli gnomi, e gli insegna tante cose utili per il suo futuro: ad esempio, a riconoscere funghi ed erbe, a distinguere le piante commestibili da quelle velenose, e gli animali buoni da quelli aggressivi. Inoltre il piccolo deve imparare a correre veloce come una lepre (per sfuggire a possibili predatori), a usare una specie di bacchetta magica che gli gnomi usano per cercare i tesori e infine a fischiare fortissimo, per avvertire i compagni, anche a grande distanza, di un imminente pericolo!
    Le ragazze, invece, vengono istruite dalle mamme nelle faccende di casa: imparano a cucinare, a filare la lana, a prendersi cura dei cuccioli di animali. Le case degli gnomi si trovano di solito tra le radici di grandi alberi: c'è una grande cucina con un caminetto, la camera da letto, il ripostiglio, il bagno e... la botola segreta per scappare in caso di pericolo.
    Il tetto è fatto di scaglie di pigna. Come vedete, gli gnomi sono molto previdenti e sono bravissimi artigiani. Di solito attaccata alla casa c'è l'officina con tutti gli attrezzi necessari per
    lavorare il legno, la ceramica o altri materiali. Grandi amici degli gnomi sono i topi (grandi più o meno quanto loro). Come noi teniamo in casa cani o gatti, loro allevano questi piccoli roditori, costruendo loro delle comode "cucce" e offrendo loro dei pasti ghiotti.



    dal web



    STORIE DI GNOMI






    Un calzolaio, senza sua colpa, era diventato così povero che non gli restava altro se non un pezzo di cuoio per fabbricare un paio di scarpe. Le tagliò di sera per farle il giorno dopo; e siccome aveva la coscienza pulita, andò tranquillamente a letto, si raccomandò a Dio e si addormentò. Al mattino, dopo aver detto le sue preghiere, volle mettersi al lavoro; ed ecco che le scarpe erano sulla tavola bell'e pronte. Egli non seppe che dire dalla meraviglia e, quando si avvicinò per osservarle, vide che erano fatte magistralmente: non c'era un punto sbagliato; un vero capolavoro. E quello stesso giorno venne pure un compratore, al quale le scarpe piacquero tanto che le pagò più del dovuto; così con quella somma il calzolaio pot‚ acquistare cuoio per due paia di scarpe. Le tagliò la sera per mettersi al lavoro di buon mattino, ma non ne ebbe bisogno poiché‚, quando si alzò, erano già pronte e non mancarono neanche i clienti che gli diedero denaro a sufficienza per comprare cuoio per quattro paia di scarpe. Egli le tagliò di nuovo alla sera e le trovò pronte al mattino; e si andò avanti così: quello che egli preparava la sera, al mattino era fatto, sicché‚ ben presto egli divenne un uomo benestante con tutto il necessario per vivere. Ora accadde che una sera, verso Natale, l'uomo aveva appena finito di tagliare il cuoio e, prima di andare a letto, disse a sua moglie: -Che ne diresti se stanotte stessimo alzati, per vedere chi ci aiuta così generosamente?- La donna acconsentì e accese una candela; poi si nascosero dietro gli abiti appesi negli angoli della stanza e stettero attenti. A mezzanotte arrivarono due graziosi omini nudi; si sedettero al tavolo del calzolaio; presero tutto il cuoio preparato e con le loro piccole dita incominciarono a forare, cucire, battere con tanta rapidità, che il calzolaio non poteva distogliere lo sguardo, tutto meravigliato. Non smisero finché‚ non ebbero finito e le scarpe non furono bell'e pronte sul tavolo; poi, prima che spuntasse il giorno, se ne andarono via saltellando. Il mattino dopo la donna disse: -Gli omini ci hanno fatti ricchi, dovremmo mostrarci riconoscenti. Mi rincresce che se ne vadano in giro senza niente da mettersi addosso e che debbano gelare. Sai cosa farò? Cucirò loro un camicino, una giubba, un farsetto e un paio di calzoncini, e farò un paio di calze per ciascuno; tu aggiungici un paio di scarpette-. L'uomo fu ben contento e la sera, quando ebbero terminato tutto, misero sul tavolo i regali al posto del cuoio; poi si nascosero per vedere che faccia avrebbero fatto gli omini. A mezzanotte giunsero di corsa tutti e due e volevano mettersi subito a lavorare, ma quando videro i vestiti mostrarono una gran gioia. Li indossarono in fretta e furia, poi fecero capriole, ballarono e saltarono fino a quando uscirono dalla porta. Da allora non tornarono più, ma il calzolaio se la passò bene tutta la vita.

    fratelli Grimm

     
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  2. gheagabry
     
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    Le Fate e il Cappello Bianco



    C’ era una volta un ragazzo che tornando a casa, una sera, si allontanò senza accorgersene dal sentiero perdendosi nella grande foresta. Quando giunse la notte il ragazzo, stanco del lungo cammino, si stese sotto un albero e si addormentò. Al risveglio, alcune ore più tardi, si accorse che un grande orso era disteso accanto a lui con la testa appoggiata ai suoi vestiti. Il ragazzo in un primo momento si spaventò, ma quando si accorse che l'orso in realtà era mite, si lasciò condurre da lui attraverso il bosco finché vide una luce provenire da una piccola capanna fatta di zolle erbose. Bussò alla porta e una piccola donna gli aprì e lo invitò gentilmente a entrare. Nella capanna, seduta accanto al fuoco, c'era un'altra piccola donna. Dopo avergli offerto una buona cena gli dissero che avrebbe dovuto dividere con loro l'unico letto della capanna.

    Appena coricato il ragazzo sprofondò in un sonno pesante ma si risvegliò bruscamente al suono del pendolo che batteva la mezzanotte. Vide le due piccole donne alzarsi e infilarsi dei cappelli bianchi appesi alla spalliera del letto. La prima disse: «io vado» e l'altra aggiunse: «io ti seguo» e improvvisamente scomparvero.
    Spaventato all'idea di restare solo nella capanna, e vedendo un altro cappello bianco appeso alla spalliera, lo indossò dicendo: «io ti seguo». Ed ecco che immediatamente una forza misteriosa lo portò al cerchio delle Fate dove tante piccole donne danzavano allegramente. A un certo punto una di loro disse: «io vado alla casa di un gentiluomo» e tutte le altre: «io ti seguo». Il ragazzo fece altrettanto e si ritrovò su un tetto, vicino a un alto camino.
    La prima fata, poiché proprio di Fate si trattava, disse: «Giù dal camino!» e le altre, ripetendo la solita formula, la seguirono prima attraverso la cucina e poi giù fino alla cantina. Qui cominciarono a prendere delle bottiglie di vino da portare via, poi ne aprirono una e la porsero al ragazzo il quale bevve così avidamente che cadde in un sonno profondo. Al risveglio si trovò solo, e tutto tremante ritornò nella cucina dove incontrò dei servi che lo condussero dinnanzi al padrone di casa; dato che non sapeva dare una valida spiegazione circa la sua presenza lì fu condannato all'impiccagione.

    Quando già si trovava sul patibolo vide una delle piccole donne farsi largo tra la folla; in mano teneva un cappello bianco simile a quello che lei aveva in capo. La fata chiese al giudice di lasciare indossare il cappello al ragazzo prima di impiccarlo e il giudice, non vedendo cosa ci potesse essere di male, acconsentì.
    La fata si arrampicò allora sul patibolo e mise il cappello sul capo del ragazzo dicendo: «io vado!» e il ragazzo, rapidamente, rispose: «io ti seguo!». Veloci come fulmini volarono fino alla piccola capanna nel bosco. La fata gli spiegò allora quanto si fosse offesa nello scoprire che si era appropriato del cappello bianco e aggiunse che, se voleva essere amico delle creature fatate del bosco, non avrebbe mai più dovuto prendere le cose di loro proprietà.
    Il ragazzo promise e, dopo una buona cena, gli fu concesso di tornare alla sua casa.
    ("Druido Eoghan", celticworld.it)

     
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  3. gheagabry
     
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    Le fate e gli elfi amano vestirsi con i colori caldi che ricordano i boschi, ocra splendenti di sole e i muschi verdi di rugiada, le tinte del melograno, dei frutti rossi, il viola dei mirtilli, dei ribes, i colori dei ciclamini, il bianco della neve.

    Le fate amano il viola, il celeste, il lilla, il bianco perlato. A loro piace adornarsi con fiori e foglie e amano le polverine luminescenti. Amano risplendere al buio e utilizzano gioielli capaci di catturare le flebili luci delle fiamme.

    Le fate prediligono i gusti naturali e privilegiano i cibi integrali (grano, avena, farro, orzo, fagioli crudi, e fiori in abbondanza), si dissetano con acqua di sorgente ed usano il miele come dolcificante, succhiano i pistilli dei fiori più carnosi e succulenti, non resistono alle bacche del sambuco e gustano le foglie del trifoglio come dessert, il tutto innaffiato da dolci tisane benefiche o dalla loro bevanda tradizionale rappresentata dall’Idromele. L’idromele è un’antichissima bevanda conosciuta ed usata anche dai celti a base di miele fermentato, le fate ne sono ghiottissime ma lo usano solo in determinate occasioni…
    I piatti preferiti dalle fate sono comunque quelli a base di fiori! Esse sono maestre nell’usare gerani, gelsomini e violette per preparare delicate e originali ricette.

     
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  4. gheagabry
     
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    LE ORIGINI DELLE FATE

    (tratto da : Fate, di Brian Froud e Alan Lee)





    Sin dai tempi antichi il mistero delle fate è stato oggetto di congetture da parte dell’uomo. Che cosa sono le fate? Da dove sono venute? La mitologia norvegese racconta che le larve che uscirono dal cadavere del gigante Ymir si trasformarono in elfi della luce ed elfi delle tenebre. Gli elfi della luce, che vivono nell’aria, sono creature buone e felici; gli elfi delle tenebre, i cui domini sono sottoterra, sono di carnagione scura e cattivi ed hanno influssi malefici. La versione islandese, invece, dice che Eva stava lavando tutti i suoi figli in riva al fiume, quando Dio le parlò. Piena di paura e di sgomento, Eva nascose i bambini che non aveva ancora lavato. Dio le chiese se tutti i suoi figli erano lì: Eva rispose che c’erano tutti. Dio allora dichiarò che quelli che gli aveva nascosti, sarebbero stati nascosti anche agli uomini. Questi bambini nascosti divennero gli elfi e le fate. Il termine fata deriva dall’antico “faunoe o fatuoe” che nella mitologia pagana indicava le compagne dei fauni, creature dotate del potere di predire il futuro e di soprassedere agli eventi umani. La denominazione fata deriva anche da “fatica”, parola che nel medioevo fu sinonimo di “donna selvatica” cioè di donna dei boschi, delle acque e, in genere, del mondo naturale. Le fate sono esseri soprannaturali dotati di potere magico grazie al quale possono cambiare aspetto e farlo cambiare agli altri. Frequentano caverne, rocce, colline, boschi e sorgenti; sono pronte a correre in aiuto degli innocenti e dei perseguitati; riparano torti, vendicano offese, ma possono essere anche maligne e vendicative. Dove si trova il regno delle fate? La sua posizione è sfuggente. A volte è appena sopra la linea dell’orizzonte, altre sotto i nostri piedi. Avalon è probabilmente l’isola delle fate più famosa. Il leggendario re Artù fu portato nella terra delle fate, ferito a morte, per essere curato da quattro regine delle fate. Si crede che Artù giaccia ancora, con i suoi cavalieri, nel cuore di una collina immaginaria, immerso in un sonno profondo da cui si sveglierà nell’ora del bisogno per governare di nuovo le sue terre. Terrapieni, forti e colli antichi sono le dimore tradizionali delle fate. Di notte le colline abitate dalle fate si vedono spesso risplendere di miriadi di luci scintillanti. Se le fate sono riluttanti ad uscire dalle loro colline, si può scoprire l’entrata camminando nove volte intorno alla collina con la luna piena. La via d’ingresso verrà allora rivelata. Chi non osa entrare nella dimora delle fate può appoggiare l’orecchio contro il terreno e forse sarà premiato dalle musiche e dai canti delle loro feste.
    Oltre che come dimora, le colline cave sono usate come nascondiglio dell’oro e spesso anche come luogo di sepoltura.

     
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  5. gheagabry
     
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    Forever_Alone_by_bibbles



    Le cose in cui ho sempre creduto di più sono le storie delle fate..


    "Immagina il verde degli alberi, l’azzurro delle onde, la luce splendente del sole, senti il profumo dell’estate, il fruscio delle foglie, la leggera brezza che sfiora la pelle … Immagina un’incantevole serata in riva al lago, il riflesso della luna che si specchia nell’acqua, senti le dolci note d’arpa che si disperdono nell’aria …e un parco dove tra gli alberi fate ed elfi danzano, alchimisti preparano pozioni magiche e i bambini ascoltano fiabe attorno al fuoco..."



    dal web
     
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  6. gheagabry
     
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    In un tempo molto lontano, tra boschi e prati, vivevano dei piccoli esserini alati amici degli animali, chiamati, con l'arrivo dell'uomo, fate.
    Le fate erano in armonia con la natura: loro curavano le piante ed in cambio ricevevano cibo e riparo. Erano felici le une con le altre; giocavano tutto il giorno con gli amici animali, senza stancarsi.
    Con l'arrivo della sera si coricavano su delle piccole zolle di muschio e, coperte da una foglia donata dall'albero più vicino, dormivano sonni profondi, protette dalle stelle e dalla Luna.
    Così facendo la Terra diventò un pianeta pacifico pieno di verde. C'erano fate in tutti i posti: dal deserto alla prateria, dal fiume ai boschi.
    Tutte erano unite da un legame talmente forte che, quando una fata si spegneva come una stella con l'arrivare delle prime luci, tutte le altre accorrevano per salutarla un'ultima volta.
    Con l'arrivo dell'uomo le cose cambiarono: le fate, pacifiche e sempre aperte alle nuove conoscenze, si mostrarono ai primi uomini, sicure che sarebbero diventati presto parte integrante della loro vita.
    Gli uomini, inizialmente incuriositi, osservarono per alcune ore quegli strani esserini, che danzavano gioiosi per i prati. Finito l'incanto iniziale, gli uomini ricominciarono le loro attività. Estrassero dalle loro bisacce degli strani arnesi di pietra che le fate non avevano mai visto ed iniziarono a legarle su dei rami trovati lì vicino. I piccoli esserini erano sempre più incuriositi, e ipotizzavano il loro scopo.
    “Secondo me lo usano per giocare.” disse una piccola fata con una campanula viola sulla testa.
    “Io sono convinta che sia un bastone per fare dei salti altissimi” disse un'altra con un vestitino composto da tante versi foglioline.
    Nel frattempo l'uomo che stava costruendo lo strano strumento cominciò a camminare in direzione di un docile gruppo di cervi. Gli animali nel vederlo non batterono ciglio, abituati com'erano alla presenza delle fatine. Tutte erano in attesa, con il fiato sospeso, curiose di sapere cosa quegli strani individui volessero mai fare. L'uomo afferrò il bastone, lo puntò e lo lanciò verso il cervo più grande del gruppo, abbattendolo in pochi secondi. Le fate, scioccate e spaventate, si rifugiarono dove poterono, cercando di scappare sia dall'uomo tanto brutale che dalle zampe degli animali spaventati.
    Il carnefice, assieme agli altri della sua specie, esultarono e si congratularono con il cacciatore.
    Le fate, quella notte, mentre gli uomini dormivano, ricominciarono a ballare e a far festa, sapendo però che quelle abitudini non potevano continuare. Arrivata l'alba, le fatine, per paura di essere uccise dall'uomo, decisero di non ballare e giocare, ma di rimanere, ognuna, nella propria casetta. Erano talmente dispiaciute di non poter passare più così tanto tempo insieme che piansero tante lacrime da bagnare il prato, dandosi, però, appuntamento alla sera successiva.
    Spuntato il sole gli uomini si svegliarono, scoprendo che tutt'intorno a loro erano presenti piccole gocce fredde che, poco a poco, sparirono con il calore.
    Da quel giorno in poi le fate si ritrovano ogni notte a far festa, consapevoli di dover separarsi la mattina, lasciandoci, come segnale della loro tristezza, tante piccole lacrime, chiamate, dagli uomini, rugiada.
    (dal Web)

     
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  7. gheagabry
     
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    Terra di fate

    Valli di nebbia, fiumi tenebrosie, boschi che somigliano alle nuvole:
    poichè tutto è coperto dalle lacrime, nessuno può distinguerne le forme.
    Enormi lune sorgono e tramontano... ancora, ancora e ancora...
    in ogni istante della notte, inquiete, in un mutare incessante di luogo.

    E così, spengono la luce delle stelle col sospiro del loro volto pallido.
    Poi viene mezzanotte sul quadrante lunare ed una più sottile delle altre,
    di una specie che dopo lunghe prove fu giudicata la migliore,
    scende giù, sempre giù, ancora giù, fin quando il suo centro si posa sulla cima di una montagna, come una corona, mentre l'immensa superficie, simile a un arazzo, s'adagia sui castelli e sui borghi (dovunque essi si trovino) e si distende su strane foreste, sulle ali dei fantasmi, sopra il mare, sulle cose che dormono e un immenso labirinto di luce le ricopre.
    Allora si fa profonda - profonda! -la passione del sonno in ogni cosa.
    Al mattino, nell'ora del risveglio, il velo della luna si distende lungo i cieli in tempesta e, come tutte le cose, rassomiglia ad un giallo albatro.
    Ma quella luna non è più la stessa; più non sembra una tenda stravagante.
    A poco a poco i suoi esili atomi si disciolgono in pioggia;
    le farfalle, che dalla terra salgono a cercare ansiose il cielo e subito discendono (creature insoddisfatte!) ce ne portano solo una goccia sulle ali tremanti.

    Edgar Allan Poe

     
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  8. gheagabry
     
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    La fatina della meditazione

    C'era una volta in un bosco un villaggio di fatine. Ognuna di loro viveva in una casetta fatta a fungo ed ognuna di colori diversi. Tutte le fatine erano specializzate in qualcosa, c'era la fata cuoca, la fata pasticcera, la fata sarta, la fata musicista, la fata lavandaia e via dicendo. Tra loro però c'era anche una fatina giovane, diciamo apprendista che stava cercando quale fosse il suo talento da sviluppare per aiutare poi le altre sorelle fatine. Quindi, ogni mattina si svegliava ed andava ad imparare il mestiere da ciascuna, però i risultati erano pessimi e non riusciva a capire quale fosse il suo talento perché pareva che non ci sapesse fare con nessuno dei mestieri che le altre le stavano insegnando.

    Così, un giorno, la fatina corse disperata fino al centro del bosco e in lacrime si fermò seduta appoggiata ad una quercia secolare. Iniziò a piangere e singhiozzare disperata, finché di colpo le lacrime smisero di scendere e si rese conto di essersi improvvisamente calmata. Infatti, appoggiandosi alla corteccia dell'albero iniziò a percepire la voce della saggia quercia, questa le chiese: "come mai piangi e ti disperi così bella piccola fatina?"
    - lei rispose: "sono una frana, non riesco ad imparare a fare nulla di quello che riescono a fare le altre..non so cucinare, non so lavare, non so cucire e neanche suonare o cantare...quale sarà la mia fine se non potrò aiutare le mie sorelle?
    - l'albero disse: "io credo in te e sono certo che tu abbia un talento straordinario, solo che lo devi trovare dentro di te e non fuori"
    - la fatina dubbiosa rispose: "a cosa serve un talento invisibile?"
    - l'albero continuò: "tu hai un dono speciale e le altre staranno tutte meglio dopo che tu l'avrai scoperto. Continua ad andare tutti i giorni ad imparare dalle tue sorelle, non importa se la torta non è perfetta, se la tua cucina non è saporita o se il vestito che cuci è storto, continua ad imparare con fiducia e vedrai che presto capirai il tuo talento."


    La fatina seguì il saggio consiglio della quercia e continuò ad andare ogni giorno senza lamentarsi a scuola di cucina, cucito, canto ecc...poi si prendeva del tempo per andare nel bosco a trovare la sua saggia consigliera. Si sedeva ai piedi della quercia con le gambe incrociate e semplicemente si metteva in ascolto dei messaggi che la quercia le comunicava, così col passare del tempo la piccola fatina si sentì sempre meglio e imparò un po' di tutto.
    Intanto, le altre fate divennero curiose di sapere come faceva ad essere sempre felice e soddisfatta. La piccola fatina disse di aver scoperto una quercia saggia a cui rivolgeva le sue richieste e che dispensava ottimi consigli, ma quando ci andò con le sue sorelle, queste non sentivano le risposte.
    La quercia le disse "cara, tu hai un talento speciale nel sostenere le tue sorelle e aiutarle ad essere più felici, questo è il tuo compito al villaggio. Ricordati anche che le risposte ad ogni tuo dubbio o problema sono già dentro di te come dentro ogni altra fata, tu sei stata brava a scoprire questo segreto ora continua ad insegnarlo a tutte le fatine che te lo chiederanno". E così fece, divenne un insegnante straordinaria ed insegnò a tutte l'arte del vivere felici.


    (dal Web)

     
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  9. gheagabry
     
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    La Storia degli Elfi



    Iluvatar li fece nascere sotto le Stelle, e tra tutte le cose,
    è proprio la luce delle Stelle quella che essi amano di più.
    Gli elfi erano immortali e vivevano a lungo quanto la Terra,

    senza conoscere malattia e pestilenze,ma i loro corpi avevano la stessa sostanza della Terra, e come essa erano passibili di distruzione.

    Alti quanto gli uomini, gli elfi ne erano però più forti di cuore e di membra, e il volgere degli anni e delle Ere portava loro non già vecchiaia, ma altra bellezza e saggezza.

    Potevano essere uccisi dalle armi o dal dolore, ma la loro non era che una morte apparente, perchè la loro vita continuava nelle Aule di Mandos, in Valinor, da dove col tempo possono tornare.

    Gli elfi avevano occhi risplendenti della luce delle stelle che videro alla nascita, capelli d’oro, d’argento o neri quanto l’ambra nera; emanavano luce, e il suono delle loro voci era puro, dolce e vario come l’acqua di fonte.

    La storia di questo popolo, benedetto da Iluvatar ma, perché immortale, destinato alla malinconia e alla tristezza, è narrata con particolare affetto da Tolkien nei suoi libri.

    La fine della Terza Era del mondo segnò la fine della permanenza degli Elfi nella Terra di Mezzo, e nella Quarta Era, quella del Dominio degli Uomini, l’ultimo Elfo salpò con l’ultima nave per le Aule di Mandos.




    dal web

    Edited by gheagabry - 19/8/2012, 21:37
     
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  10. gheagabry
     
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    LEGGENDA DEGLI UBGTAH E GLI SPECCHI


    Ma chi sono questi ubgtah? Gli gnomi lo sanno molto
    bene, perchè ogni volta che si guardano allo specchio....

    Tanto tempo fa, quando gli gnomi si cibavano solo di nocciole (vale a dire, prima dell"Anno in cui le Nubi contenevano Miele"), gli ubgtah vivevano insieme agli gnomi. Si dividevano il territorio e il cibo.
    Dividevano anche i giochi.
    Tuttavia, non erano buoni compagni; essi avevano un terribile difetto che gli gnomi non riuscivano a sopportare: non smettevano mai di ridere: Questo fatto non sarebbe stato tanto grave, se non fossero gli gnomi l'oggetto delle loro continue risate e delle loro burle. Cosa poteva esserci di tanto divertente per gli ubgtah? Gli gnomi faticarono a scoprirlo. Quando lo capirono la lora rabbia giunse al limite.
    Naturalmente gli ubgtah ridevano della loro statura e del loro cappuccio rosso: il cappuccio e la statura, le cose più sacre per uno gnomo.
    E così ordirono la loro tremenda vendetta.
    Tutti gli gnomi dei boschi si riunirono in assemblea, durante una notte di luna piena. Dopo lunghe discussioni, decisero di ricorrere alla complicità degli specchi per consumare la loro vendetta.
    Gli ubgtah erano molto presuntuosi e continuavano a guardarsi allo specchio. A partire da quella notte di luna piena, ogni volta che un ubgtah si specchiava, veniva risucchiato per sempre nello specchio.
    Da quel momento, tutte le volte che uno gnomo si guardava allo specchio, l'ubgtah imprigionato doveva imitarne esattamente ogni particolare: gesti, attegiamenti, colori...
    Ma soprattutto la statura e il cappuccio degli gnomi. Durante tutto l'anno, gli gnomi sembrarono gli abitanti più vanesi del bosco, perchè stavano continuamente davanti allo specchio.
    Loro, però, sapevano molto bene perchè si specchiavano così frequente.







    (Tratto da "IL LIBRO SEGRETO DEGLI GNOMI" DE AGOSTINI-AMZ-)
     
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  11. gheagabry
     
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    Maura Saviano




    Sono ovunque e in nessun luogo
    mi troverai nel mormorio dolce del ruscello
    nel cinguettìo gaio del passerotto sul ramo
    nella goccia di rugiada scintillante sul filo d’erba
    nel raggio dorato del Sole che filtra tra le foglie del bosco
    nella strada argentea che disegna la Luna sul mare
    nel crepitìo vigoroso della fiamma nel camino
    nell’alito di vento profumato di rosa o di salsedine
    che ti accarezza il volto all’improvviso
    nel fiocco di neve che cade silenzioso
    nella foglia che danzando si posa ai tuoi piedi
    nelle sagome degli alberi semicelate dalla nebbia
    nella spuma bianca dell’onda che lambisce la spiaggia
    nel canto rassicurante delle cicale di giorno
    nel canto misterioso dei grilli di notte
    nel seme che attende fiducioso nel grembo materno della terra…

    Lì troverai ogni tua risposta che cerchi con cuore sincero
    poiché io sono la Vecchia, la Madre, la Fanciulla, l’Una.
    Mi puoi chiamare con 1000 nomi e con nessun nome
    Verdiana, la fata dei boschi
    Shaylynn, la fata che vive nel palazzo di cristallo in fondo al lago
    Morgwen, ovvero Morgana e Ginevra insieme, la metà oscura
    e la metà luminosa dell’anno
    la bandrui, la druidessa irlandese
    la saliga, la donna selvaggia delle Dolomiti.

    Sono questo e molto altro ancora
    tra molti giri di Ruota
    in questa vita, nella prossima vita, tra 100 vite, tra 1000 vite.







    dal web
     
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  12. gheagabry
     
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    Twas a longing came into my heart
    I could not sense a name
    It tore me from my shattered heart
    Then swift to nature came

    The beauty of the soft green hills
    The singing of the trees
    They left my soul more empty still
    I could not find a peace
    I could not find a peace

    I saw the shining fairy ring
    Myself within its heart
    And I found a lonely comfort
    Though its magic touched me now
    Its magic touched me now

    I wandered by a running stream
    And touched its stones so deep
    Then I sat underneath a great old tree
    Then drifted into sleep

    It lifted me with gentle powers
    And took me far away
    When I awoke the darkest night
    Had chased away the deep

    I lay within a fairy ring
    Myself within its heart
    And I found a lonely comfort
    Yet the magic touched me not
    The magic touched me not

    My mind a whirl of clouded dreams
    I knew not where I dwelled
    Yet in that shining fairy ring
    A calming word I felt

    Oh thrice I called unto the Fay
    And thrice about this turned
    I fell upon living earth
    And that moment learned

    For there that night I felt a touch
    And in that moment knew
    The fairy magic had rebuilt
    My hearts desire true

    For in that touch I felt such love
    And in that moment knew
    That I did touch a perfect love
    My heart's desire true
    My heart's desire true

    I lay within a fairy ring
    Myself within its heart
    And I found a loving comfort there
    The love that I had sought
    The love that I had sought

    My words at once are stilled within
    My heart has felt so much
    I oft returned to the magic ring
    To feel the fairy touch

    Oh now when 'ere the moon is full
    I bid my cares depart
    And kneel within the shining ring
    To touch the fairies heart
    To touch the fairies heart
    To touch the fairies heart

     
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  13. gheagabry
     
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    CUORE DI FATA

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    ......In una gelida notte di Novembre in cui la luna era al suo primo quarto, La dolce Fata fiordliso si ritrovò nel Bosco. Ogni Fata ha un pianeta, o una stella da cui attingere energia una volta all'anno, in un giorno segreto che solo le Fate conoscono. E quella era notte in cui Fiordaliso avrebbe dovuto fissare immobile davanti alla falce bianca, finchè dopo una formula magica s'incamminò per uscire dal Bosco.
    "Brrr! che Gelo", si disse affondando i piedini nella neve.
    "Ancora un pò e sarei morta di freddo!" Mentre passava davanti alle radici nodose di un grosso Abete, cercò con gli occhi una lucina che aveva intravisto quand'era nel Bosco: la casina dei Grilli. Attraverso l'apertura vide nell'albero tremolare fiamella di una candela che si stava spegnendo. Si avvicinò per vedere i due grilli che dormivano beati di un lungo sonno , che sarebbe finito solo a primavera, si accorse con spavento che la piccola stufa che doveva dare loro tepore durante tutto l'inverno si era spenta. "Poverini!" disse "moriranno di freddo!" !Anche se sono ben coperti, con questo gelo prenderanno una polmonite."
    La casa dei Grilli era molto piccola e la Fata si chinò ad osservare i suoi piccoli amici.
    D'istinto soffiò su di loro un pò del suo fiato caldo. Il tepore di quel respiro riempì la piccola cavità. Fiordaliso capì che quello era forse l'unico modo per tenere in vita i due poveri Grilli fino all'alba. Se fosse andata adesso a cercare aiuti durante la notte, al suo ritorno, con quel freddo, avrebbe trovato morti i suoi amici.
    Inginocchiata nella neve continuò a soffiare dolcemente. L'alba si avvicinava, ma lenta per la piccola Fata bionda che continuava a soffiare sempre più debolmente. Quando il primo sole si alzò livido a rischiarare il Bosco coperto di bianco, la piccola figura della fata era ormai immobile, coperta di ghiaccio. Più tardi uno Gnomo la trovò, e dette l'allarme. i Grilli erano salvi ma la Fatina dal grande cuore non avrebbe più allietato col suo sorriso gli amici del Bosco.a


    Racconto tratto dal libro
    "STORIE del BOSCO di GNOMI di GIGANTI di FATE
    Toni Wolf - Dami Editore

     
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  14. gheagabry
     
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    La leggenda della nebbia



    Un giorno d'autunno, presso un laghetto sperduto fra i monti, le fate dell'acqua trovarono un bambinetto biondo, bellissimo. Chi era? Chi l'aveva portato fin lassù?
    Le fatine non lo sapevano. Le verdi rive del lago erano deserte e silenziose. Si udiva soltanto il frusciare del vento. Le piccole fate avvolsero il piccino in caldi panni e lo chiamarono Oliviero.
    Le stagioni passavano una dopo l'altra e nessuno mai saliva al piccolo lago dimenticato. Le fatine erano felici: il piccolo Oliviero, che esse amavano piu di ogni cosa al mondo, era tutto per loro.
    Ma cose strane succedevano a loro insapute quando esse riposavano nelle incantate profondità del lago.
    Un pettirosso volava ogni sera presso il bambino addormentato sulla riva e lo svegliava becchettandogli affettuosamente una guancia. Poi gli raccontava di un paese bello e lontano dove la sua mamma lo invocava ogni giorno. Oliviero ascoltava, attento. Pensava che un giorno avrebbe abbandonato il malinconico laghetto: sarebbe andato lontano... avrebbe visto com'è una mamma. Un mattino di novembre le fatine si levarono da loro letto d'acqua e mossero verso la riva. Chiamarono a lungo Oliviero: il bambino non c'era piu.
    Le fate si levarono a volo, affannate, e videro Oliviero scendere a valle preceduto da un pettirosso
    Allora compresero. Lo raggiunsero a volo e gli si affollarono attorno, allargando con le mani le loro vesti di velo grigio, perché il bambino non riuscisse piu a scorgere il pettirosso che gli faceva da guida, né il sentiero, né la valle lontana.
    Come per miracolo, dalle dita delle fate i veli cominciarono ad allungarsi, diffondendosi ovunque.
    Avvolsero Oliviero con una impalpabile nube, cancellarono monti e campagne, soffocarono la luce del giorno. Ma il fanciullo non si scoraggiò. Scostava con le mani i veli grigi che gli battevano sul viso.
    Da allora, ogni anno, la nebbia stende i suoi umidi veli: sono le vesti bagnate di lacrime delle pallide fate del lago.




    dal web
     
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  15. gheagabry
     
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    LA DONNA ELFO



    Nelle profondità dell'immensa foresta boema, di cui oggi si è salvata solo una piccolissima parte, abitava dall'alba dei tempi un piccolo popolo di esseri spirituali, nati dall'aria, quasi incorporei, che rifuggivano la fulgente luce del sole e la compagnia degli umani. La loro natura era superiore a quella dell'uomo, che era nata dall'argilla, e pertanto i piccoli esseri potevano essere intravisti soltanto da creature umane dotate di particolare sensibilità, e soltanto alla tenue luce argentata della luna.
    I poeti ed i bardi conoscevano questi esseri con il nome di elfi.
    Un giorno la foresta, da millenni silenziosa e immutabile, risuonò di grida e rumori di guerra ; un barbaro popolo degli uomini aveva attraversato le montagne, che facevano corona all'antica, immensa foresta, e si preparava a dilagare nella sottostante pianura.. Spaventati dal fragore delle armi e dal nitrire dei cavalli, gli abitanti della fragile razza non mortale fuggirono in tutta fretta ; e così le querce annose, e le rocce, i dirupi, i canneti delle paludi persero i loro amici non umani.
    Una soltanto del popolo degli Elfi, un'amadriade, rimase a difendere la quercia che amava, e vi fissò la dimora.
    Tra gli invasori vi era un giovane scudiero di nome Krokus : egli era diverso dagli altri, meno amante della guerra, più quieto e pensoso. A lui era affidato il compito di guardare il cavallo del suo Signore, e di portarlo a pascolare nella foresta. Krokus adempieva il suo incarico ben volentieri, e girovagando fra gli alberi maestosi sognava una vita più pacifica, dove ci fosse tempo e posto per la bellezza.
    In una notte di un autunno così chiaro che sembrava estate, una notte bianca di luna, Krokus si attardò più del solito nella foresta, e si sdraiò ai piedi della quercia abitata dall'essere fatato a riposare.
    In un laghetto vicino la luna tremava nell'acqua scura della notte e il vento muoveva appena le canne che lo circondavano. Parve al giovane che al di là del laghetto, fra le canne inquiete, fra un accenno appena di bruma che raccontava le nebbie ormai prossime, si muovesse lieve una figura di donna, più un'ombra che un essere corporeo. Ma ben distinta gli giunse la dolce voce di lei, che gli spiegò di essere l'elfo che abitava la quercia che gli aveva dato riparo, e che aveva a propria volta bisogno del suo aiuto per non essere abbattuta, perché con la quercia sarebbe morta anche lei, la creatura che gli stava parlando.
    IL giovane non esitò un istante: promise di abbandonare il suo signore e di mettersi al servizio di lei, e mantenne la promessa, scegliendo di costruire accanto all'albero maestoso la sua dimora. Dissodò il terreno, seminò fiori ed ortaggi, costruì una comoda capanna. Ogni sera, la donna elfo veniva a trovarlo, e gli insegnava i segreti delle cose. Mentre passeggiavano lungo le rive del laghetto, le canne sussurravano lievi il loro saluto serale. Venne il pieno autunno a riempire di pioggia l'aria della sera, e poi la neve quieta dell'inverno a disegnare incantesimi sui giunchi del lago.
    E accadde una cosa strana : mentre la sensibilità del giovane uomo si affinava sempre più, l'esile figura della elfo prendeva maggior consistenza, il suo aspetto era sempre più simile a quello di una giovane donna, e ben presto fra i due esseri nacque l'amore.
    Ed in primavera si sposarono, e i vecchi poeti narrano che al loro matrimonio vennero gli elfi in gran numero, a cantare l'antica invocazione con la quale, dall'alba dei tempi, il popolo fatato onorava le nozze delle proprie creature : così belli erano questi canti, che più tardi gli uomini li faranno propri nella lingua gaelica, quella degli antichi druidi, i sacri sacerdoti dei celti, e giungeranno fino a noi tramite la tradizione orale delle Isole di Scozia.


    "Sul tuo viso amabile e bello
    il segno delle nove grazie imprimo :
    la grazia della splendida voce,
    la grazia della fortuna.
    La grazia della bontà,
    la grazia della saggezza,
    la grazia della carità,
    la grazia della bellezza di donna,
    la grazia d'amare con l'anima tutta,
    la grazia del saggio parlare.
    ...............
    Sei tu la gioia d'ogni gioia,
    Sei la luce del raggio di sole
    Sei la porta che all'ospite s'apre,
    Sei la stella che dal cielo guida,
    Tu sei il passo del daino sul monte,
    tu sei il ricco gregge nel prato,
    sei la grazia del cigno che nuota,
    la delizia dei sogni più dolci."
    (canto di nozze tratto dai "carmina gaelica")


    E l'amore di Krokus e della sua donna fatata, tanto gentilmente invocato dagli elfi loro amici, crebbe e prosperò.
    Vissero così a lungo, felici, e ben presto la fama di Krokus, che conosceva ormai tutti i segreti, si sparse per tutto il paese. Chi voleva aiuto, per qualsiasi cosa, andava da lui, e non tornava mai senza essere stato soddisfatto. Krokus, sempre più rispettato e potente, divenne infine il signore di quei luoghi.
    Poi accadde che, in una bella sera estiva inondata dai profumi della foresta, Krokus, che se ne era allontanato per dirimere una controversia fra due contadini, fece ritorno alla sua casa, il cuore ricolmo di pace e di felicità. E passando vicino al laghetto, egli la intravide, la sua dolce sposa, bella ancora come un tempo l'aveva vista, e proprio nel punto dove per la prima volta i suoi occhi si erano posati su di lei, tanti anni prima, e qualcosa nel suo cuore lo spinse ad avvicinarla con la cautela e il turbamento di allora.
    La bella creatura lo accolse con dolcezza, ma nei suoi occhi si leggeva l'infelicità che la opprimeva. Alle domande ansiose di lui, ella non seppe rispondere altro che il suo destino era arrivato a compimento.
    Invano, per tutta la sera e ancora durante la notte, lo sposo protestò la forza del suo braccio, più che sufficiente a difendere l'albero che era la vita della sua amata elfo da eventuali nemici, invano le ricordò che egli era ormai il signore di quelle terre e che nessuna forza umana poteva colpirli. Lei si agitava inquieta e inconsolabile nel letto nuziale, dove tante volte si erano amati.
    La notte infine passò, e giunse il mattino. Allo spuntar del sole, grosse nuvole minacciose si profilarono all'orizzonte, tuoni lontani risuonarono alti sopra gli alberi, e l'eco rimandò il minaccioso brontolio di valle in valle.
    A mezzogiorno in punto un terribile fulmine si abbatté sulla bella quercia che era stata il centro della loro vita, squarciandone il tronco possente. Tremarono i rami nella caduta, rompendosi in mille pezzi. Invano Krokus si disperò, cercando l'amata elfo per giorni e giorni.
    Nessuno la vide mai più.



    (ginevra2000.it)
     
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