L'ENEIDE

di Virgilio

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    Libro VI



    Enea e i suoi compagni sbarcano a Cuma, in Campania, dove l'eroe, memore dei consigli di Eleno, si reca nel tempio di Apollo. La somma sacerdotessa di Apollo, la Sibilla Deifobe di Glauco, invasata dal dio durante il vaticinio, gli rivela che riuscirà ad arrivare nel Lazio, ma la nuova patria potrà essere conquistata solo a prezzo di lotte e guerre. Su sua richiesta, la Sibilla guida Enea nel regno del dio Ade, ovvero l'Aldilà secondo la religione greca e romana. Sulle rive del fiume Stige, tra le anime dei morti insepolti incontrano Palinuro, e la Sibilla gli promette che presto avrà il suo giusto rito funebre. Caronte ostacola il loro ingresso a bordo della sua barca, sostenendo che i vivi finora traghettati sono stati per lui grave fonte di problemi. Quando però gli mostrano il ramo d'oro, chiave degli inferi che portano con loro, acconsente a trasportarli. Dopo aver superato l'ostacolo di Cerbero, incontrano molte anime e, tra quelle dei suicidi per amore (nei campi del pianto, lugentes campi), anche Didone, che reagisce gelidamente al passaggio di Enea, il quale piange disperatamente. Giunti alla diramazione tra la via per il Tartaro e quella per i Campi Elisi, incontrano l'ombra del poeta Museo, che porta Enea da Anchise: Enea tenta invano di abbracciarlo per tre volte. Anchise spiega dunque al figlio la dottrina di cicli e rinascite che sostiene l'universo, e gli mostra le ombre dei grandi uomini che rinasceranno nella città che Enea stesso con la propria discendenza contribuirà a fondare, ovvero i grandi personaggi di Roma, come Catone, o Fabio Massimo: altri popoli - afferma Anchise in un noto passo - otterranno gloria nelle belle arti, nella scienza o nel foro, ma i Romani governeranno i popoli con la sapienza delle leggi, perdonando i vinti e annientando solo chi si opporrà: Tu regere imperio populos, Romane, memento / (hae tibi erunt artes) pacique imponere morem / parcere subiectis et debellare superbos (Aen. VI, 851-53). Dopo che Anchise ha profetizzato la prematura morte del nipote di Augusto, Marcello, Enea e la Sibilla risalgono nel mondo dei vivi, passando per la porta dei sogni falsi.
     
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    L'ADE



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    Con Ade si vuole anche intendere più genericamente il mondo degli Inferi.
    Inizialmente solo il caso genitivo del nome della divinità era impiegato come abbreviazione per intendere la casa del dio dell'oltretomba; in seguito, per estensione, si cominciò a utilizzare il termine in tale significato anche al nominativo.
    Nella mitologia latina inizialmente Plutone (l'alter ego latino di Ade) è definito Signore degli Inferi, e solo successivamente Signore dell'Ade. Altro termine utilizzato è Averno, nome del lago dal quale si può accedere agli inferi.

    Ade (dal greco Αιδὼς) identifica il regno degli Inferi greco e romano (chiamato anche Orco o Averno). In realtà, è solo una trasposizione del nome del dio: si voleva identificare il regno col suo stesso re.
    Il regno dei morti greco/latino era, al contrario di quello ebraico e cristiano, un vero e proprio luogo fisico, al quale si poteva persino accedere in terra da alcuni luoghi impervi, difficilmente raggiungibili o comunque segreti e inaccessibili ai mortali.
    Per quanto riguarda la geografia e la topografia degli Inferi, Omero (nell'Odissea) non gli dà un carattere di vero e proprio "regno" esteso, ma lo descrive solamente come una sfera fisica oscura e misteriosa, perlopiù preclusa ai viventi, dove soggiornano in eterno le ombre (e non le anime) degli uomini senza apparente distinzione tra ombre buone ed ombre malvagie, e senza nemmeno un'assegnazione di pena o di premio in base ai meriti terreni.
    Nella tradizione greca, uno degli ingressi all'Ade si trovava nel paese dei Cimmeri, che si trovava al confine crepuscolare dell'Oceano, e proprio in questa regione remota Odisseo dovette recarsi per discendere all'Ade ed incontrare l'ombra dell'indovino Tiresia; nella tradizione romana, invece, uno degli ingressi infernali si trovava vicino al lago dell'Averno (che poi divenne il nome del regno infernale stesso), dal quale Enea discese insieme alla Sibilla cumana.
    Per accedervi bisognava superare Cerbero poi l'Acheronte versando un obolo al terribile Caronte e raggiungere i tre giudici Minosse, Eaco e Radamanto i quali emettevano il loro verdetto. Nell'inferno vi erano cinque fiumi: Stige, Cocito, Acheronte, Flegetonte e Lete, l'acqua di quest'ultimo aveva la caratteristica di far perdere la memoria a chi la beveva. Narra Platone, nella "Repubblica", che le anime dei morti, ormai purificate dai peccati o avendo terminato il loro soggiorno nei Campi Elisi, vengono trasportate da vortici di fuoco e poggiate al suolo. Qui scelgono la loro prossima vita, e successivamente bevono l'acqua del fiume Lete. Si dice che Ulisse, avendo molto patito nella vita precedente per l'ònere di essere re, scelse una vita semplice, agricola, che non avrebbe mai procurato fastidi. Agamennone, stanco per la diffidenza umana, decise di vivere tramutato in aquila.

    L'Ade, che accoglie le anime di tutti i morti, escluse quelle dei morti rimasti insepolti (tale fu la sorte di Tarquito, Oronte (Eneide), Licaone (Priamo), Asteropeo; forse anche Ippoloco) alle volte viene confuso con Tartaro, il luogo che accoglie sia i Titani che invano tentarono di sconfiggere gli dei Olimpi, sia quei mortali puniti per i loro gravi misfatti come Tantalo, Sisifo, le Danaidi; e questo più che altro sulla base dell'iconografia cristiana relativa all'Inferno.
     
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    STIGE



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    Lo Stige (fiume del lamento) è uno dei cinque fiumi presenti negli Inferi secondo la mitologia greca e romana, gli altri sono Cocito, Acheronte, Flegetonte e Lete.


    Nella mitologia era uno dei fiumi degli inferi: esso si estendeva in nove grandi meandri che formavano una palude, detta palude Stigia, che ostacolava la strada per arrivare al vestibolo dell'oltretomba.
    Gli dei lo chiamavano a testimone nei loro giuramenti, ma la potenza del fiume era tale che essi stessi la temevano. Il giuramento sullo Stige era una formula inviolabile; se un dio era sospettato di mentire, Zeus prendeva una brocca di acqua di questo fiume e gliela faceva bere. Se Stige scopriva che aveva mentito, il dio passava un anno in coma e nove anni lontano dai simposi. Quando un dio lo invocava, metteva in gioco la relazione che lo unisce ai prìncipi creatori.
    Le sue acque avevano anche il potere di dare l'immortalità: secondo il mito, infatti, è qui che Teti immerse il figlio neonato Achille per renderlo pari agli dei, tenendolo però per il tallone che non fu quindi toccato dall'acqua, rendendolo vulnerabile.



    Lo Stige, è un corso d'acqua speciale. Porfirio di Tiro allievo di Cassio Longino e di Plotino, esegeta omerico, gli dedicò un'intera, dotta, monografia che ci è in parte conservata da Stobeo. Il corso d'acqua, già in Omero, che lo menziona tuttavia solo come “acqua dello Stige”, ha la funzione peculiare di fungere da “gran giuramento degli dei”4. E' un privilegio che Stige ha ricevuto da Zeus. Se un dio è sospettato di mentire, o per qualche motivo deve giurare, Zeus manda a prendere un boccale d'acqua di Stige e glielo fa bere come in un'ordalia: se il dio ha mentito, Stige lo scoprirà e per un anno il dio resterà in una sorta di coma e in seguito per altri nove anni non potrà accedere ai banchetti e ai concili degli dei. Stige non è un fiume qualsiasi, è un braccio dell'Oceano e condivide con questo la natura di brodo primordiale. “Quando un dio [lo] invoca , mette in gioco la relazione che lo unisce ai principi creatori, fonti della propria divinità”5. Gli stessi dei temono Stige, perché esso “è stato scelto per essere il garante di un ancestrale atto di fondazione della società, il giuramento”6.

    Ci sono poi in Ade due fonti: una per la memoria e una per l'oblio e solo quest'ultima è veramente caratteristica dell'oltretomba, perché Ade è luogo di tenebra e dimenticanza. Queste due acque rivestono una grande importanza nella visione orfica della salvezza.
     
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    Libro VII




    Enea alla corte del re Latino, olio su tela di Ferdinand Bol, 1661-1663 ca, Amsterdam, Rijksmuseum.
    I troiani dopo aver seppellito Caieta, la nutrice di Enea, nell'Esperia, stanchissimi e affamati, sbarcano alla foce del Tevere; Enea decide quindi di inviare un ambasciatore di nome Ilioneo al re del luogo, Latino. Questi accoglie con favore l'ambasciatore, e gli dice di essere a conoscenza che Dardano, il capostipite dei Troiani, era nato nella etrusca città di Corito (VII 209: ab sede Tyrrena Corythi). Ilioneo risponde: "Da qui ebbe origine Dardano ... Qui Apollo ci spinge con ordini continui"(VII 240). In ogni caso il re Latino si mostra favorevole ad accogliere i Troiani perché suo padre, il dio italico Fauno, gli ha preannunciato che l'unione di uno straniero con sua figlia Lavinia avrebbe generato una stirpe eroica e gloriosa: per questo motivo il re aveva in precedenza rifiutato di concedere Lavinia in moglie al giovane re dei Rutuli, Turno (la volontà degli dei si era manifestata anche attraverso prodigi), anche lui semidio (figlio della ninfa Venilia). La piega che gli eventi stanno prendendo non piace a Giunone che con l'aiuto di Aletto, una delle Furie, rende geloso Turno e spinge la moglie del re, Amata, a fomentare l'odio verso gli stranieri nella popolazione locale. L'uccisione del giovane valletto latino Almone (Eneide), colpito alla gola da una freccia durante una rissa tra Troiani e Italici provocata dalla dea infernale, scatena la guerra: Turno, nonostante il parere contrario di Latino, raduna un esercito da inviare contro i Troiani. Il suo alleato principale è Mezenzio, il re etrusco di Cere, cacciato dai suoi sudditi per la sua crudeltà.
     
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    LATINO






    Secondo la leggenda sull'origine dei Romani da Enea, particolarmente coltivata sotto i Giulio-Claudi, Latino (in latino Lătīnŭs) era il re eponimo dei Latini, antico popolo italico pre-romano dell'Italia centrale.


    Sulla sua genealogia le tradizioni sono molto intricate e parecchio contraddittorie; tuttavia numerosi mitografi, tra questi soprattutto Virgilio, si sono impegnati a conferire a questo re un carattere indigeno.
    Di conseguenza esistono due versioni riguardanti la sua nascita. La cosiddetta versione "ellenizzante" pone comunque diverse ipotesi:
    Una lo vuole figlio di Ulisse e della maga Circe;
    C'è chi afferma che Latino era non un figlio, ma un nipote di Ulisse, quindi figlio di Telemaco e di Circe;
    In altri autori lo si considera figlio di Telegono e Penelope,
    Secondo una tradizione molto più antica era fratello gemello di Greco, uno dei figli di Zeus e della prima donna, Pandora.
    La versione ideata da Virgilio e riportata nell'Eneide fa di Latino un figlio di Fauno, dio locale indigeno, e della dea di Minturno, chiamata Marica.
    Ma anche questa tradizione è finita per dare spazio ad un'altra. Secondo la leggenda legata al culto del dio Ercole, Latino era frutto di uno dei suoi amori con una fanciulla del Lazio, a seconda delle versioni:
    Palanto, una prigioniera Iperborea che l'eroe aveva ricevuto come ostaggio dal padre di lei. Essa sarebbe l'eponima del colle Palatino.
    la moglie del re Fauno, che il dio aveva concesso all'eroe;
    la figlia del dio, secondo un'ulteriore versione.

    Secondo l'Eneide di Virgilio, poema che esalta il nuovo Impero Romano e in particolare Augusto, Latino accoglie Enea in fuga da Troia, quando approda sul litorale dell'attuale Lazio (dalla regione deriverebbe pertanto il nome). Per creare un'alleanza con l'eroe troiano gli offre la mano della figlia Lavinia, suscitando il risentimento di Turno, un principe locale, cui la fanciulla era stata promessa in sposa. La causa scatenante della guerra nel Lazio è però l'uccisione di Almone, giovane cortigiano del re, durante una rissa scoppiata tra Latini e Troiani.
     
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    Libro VIII


    Mentre guarda le truppe nemiche che si radunano sulla sponda opposta del Tevere, Enea cade addormentato e in sogno gli appare il dio del fiume Tiberino che, dopo avergli annunciato che lì suo figlio Ascanio fonderà una città di nome Alba, gli suggerisce di allearsi con Evandro, principe di una cittadina del Palatino. Il giorno successivo Enea risale il fiume ed entra nella città. Qui Il figlio di Evandro Pallante li riceve benevolmente. Enea, parlando al re, gli ricorda il comune antenato dei loro due popoli Atlante, e gli chiede aiuto. Evandro risponde che Tarconte, leader di tutti gli Etruschi, ha riunito i reggitori delle varie città, coi loro eserciti, per condurre una guerra proprio contro Turno, ma affiderebbe volentieri il comando delle operazioni a Enea. Il capo troiano accetta e si dirige immediatamente verso "le spiagge del re etrusco"; Tarconte lo riceve nel proprio "campo" federale che si trova presso il bosco del dio Silvano. In quei pressi Venere consegna a Enea armi divine e soprattutto uno scudo opera di Vulcano, istoriato con scene della futura storia di Roma, dalla nascita di Romolo e Remo al trionfo di Augusto dopo la vittoria di Azio.


    Libro IX



    Mentre Enea si trova in Etruria, presso Tarconte, la dea Iride va ad avvisare Turno che "Enea è giunto fino alla lontana città di Corito (Tarquinia) e sta assumendo il comando della banda degli agresti Etruschi confederati" (IX,9). Turno allora, approfittando dell'assenza di Enea, sferra un assalto contro l'accampamento troiano, ma i Troiani riescono a resistere. Turno vuole bruciare le loro navi, ma grande è il suo stupore quando vede emergere, nel posto dove esse si trovavano, una moltitudine di Ninfe. Capisce allora che non è il momento di attaccare i Troiani, perché significherebbe inimicarsi gli dei. Dà quindi ordine a quattordici suoi giovani condottieri (ciascuno dei quali è alla testa di un contingente composto da altri cento giovani), di porre assedio al campo troiano.
    Nella stessa notte, gli inseparabili amici Eurialo e Niso si propongono di raggiungere Enea attraversando le linee nemiche. Entrano nel campo dei Rutuli, tutti addormentati, e decidono di farne strage. A iniziarla è Niso che armato di spada colpisce un alleato molto caro a Turno, ovvero il giovane augure Ramnete, sorpreso a russare un sonno particolarmente affannoso fra i tappeti ammucchiati a mo' di pagliericcio nella sua tenda, e tre suoi servi; le vittime successive sono lo scudiero e l'auriga di Remo, e il condottiero stesso, decapitato di netto da Niso che lascia il busto sul letto facendone colare tutto il sangue; e appresso al signore, il troiano stacca la testa anche ad alcuni guerrieri del suo gruppo, tra cui l'insigne e delicato giovinetto Serrano, disteso al suolo per l'effetto soporifero dell'abbondante gozzoviglia cui si era dato dopo aver allegramente giocato a dadi. La strage ai danni degli italici viene proseguita da Eurialo che sceglie come vittime alcuni guerrieri di minore importanza. Uno di essi, Reto, svegliatosi improvvisamente, cerca di fuggire, venendo però anch'egli ucciso da Eurialo.
    Usciti dall'accampamento dei Rutuli, Eurialo e Niso vengono intercettati da un gruppo di cavalieri italici guidati da Volcente e costretti a nascondersi: Volcente cattura Eurialo e lo uccide, sicché Niso viene allo scoperto per vendicare l'amico e si scaglia contro il suo assassino, riuscendo a ucciderlo, ma muore subito dopo, trafitto dalle armi degli uomini di Volcente.
    Turno, infuriato per l'incursione compiuta da Eurialo e Niso, attacca nuovamente il campo dei Troiani. Ascanio si rende autore del suo primo atto d'eroismo militare trafiggendo mortalmente Numano, il cognato di Turno. Questi allora distrugge la palizzata, uccidendo i due giganteschi fratelli Pandaro e Bizia. Il re rutulo entra quindi nel campo nemico e fa strage di nemici in fuga: solo l'eroico Linceo cerca di assalire Turno con la spada snudata ma, prevenutolo, il Rutulo gli fa volare via la testa con l'elmo mandando a giacere il busto a terra; rimbrottati dai loro capi i Troiani assalgono Turno che viene circondato dalle lance ed è costretto a tuffarsi nel Tevere per mettersi in salvo (in seguito ritornerà dai suoi compagni trasportato dalla corrente).






    TIBERINO






    Tiberino è una figura della mitologia romana, era una divinità della natura, legata al fiume Tevere. Secondo la mitologia romana era fratello di Fonto, dio delle sorgenti, e figlio di Giano e di Giuturna, signora delle acque.
    La sua festa annuale (le Tiberinalia) veniva celebrata l'8 dicembre, anniversario della fondazione del tempio del dio sull'Isola Tiberina ed era un rito di purificazione e propiziatorio.
    È una delle più antiche divinità italiche.



    PALLANTE






    Pallante o Pallade è un personaggio della mitologia romana, figlio di Evandro re degli Arcadi, i profughi che fondarono la città di Pallante o Pallanteo, sul colle Palatino .
    Nell'Eneide, Virgilio pone Pallante fra le figure di rilievo del poema.

    Pallante è tra i primi ad avvistare le navi dei profughi troiani, guidati da Enea, mentre risalgono il Tevere con l'intento di fondare una città nella patria di Dardano (che secondo la leggenda era stato il fondatore di Troia) e, quale figlio del re e depositario del dovere dell'ospitalità, accompagna gli esuli alla corte del padre.
    Successivamente Enea viene accolto dal re Latino, che gli fa conoscere la figlia Lavinia della quale si innamora. Latino ha però già promesso la figlia a Turno, re dei Rutuli. Il padre di Lavinia ascolta le intenzioni di Enea ma temendo una vendetta da parte di Turno si oppone ai suoi desideri. La disputa per la mano della fanciulla diventa una guerra, in cui vengono coinvolte diverse genti italiche, compresi Etruschi e Volsci. Enea si allea con Evandro e suo figlio Pallante. La guerra è molto sanguinosa e Pallante fa strage tra i giovani guerrieri latini. Per primo uccide Lago trafiggendogli le costole con la lancia scagliata; subito dopo sorprende Isbone, amico del caduto, immergendogli la spada nel polmone, e inoltre Stenio ed Anchemolo, poi decapita Timbro e recide la mano destra al gemello Laride (Laride e Timbro erano figli di Dauco) che impugnava la spada contro di lui, lasciandolo agonizzante; quindi uccide Reteo che difendeva Ilo, e Aleso, reduce quest'ultimo dall'aver ucciso alcuni troiani (Ladone, Ferete, Demodoco, Strimonio e Toante), trafiggendolo al petto con la lancia. Infine Pallante viene affrontato ed ucciso da Turno che si appropria del suo balteo. Per evitare ulteriori vittime si decide che la sfida fra Enea e Turno si risolva in un combattimento tra i due pretendenti. Enea ha il sopravvento e vendica Pallante uccidendo Turno; dopodiché sposa Lavinia e fonda la città di Lavinio (l'odierna Pratica di Mare).

    L'importanza di Pallante risiede nel fatto che il giovane eroe è il primo in terra "italiana" a morire a favore di Enea e dei suoi, destinati a essere i progenitori di Roma. Una sorta di sacrificio (umano) agli dèi per favorire la nascita dell'Urbe e quindi dell'Impero romano. Se ne ricorda Dante che scrive: «Vedi quanta virtù l'ha fatto degno / Di riverenzia; e cominciò dall'ora, / Che Pallante morì per dargli il regno» (Paradiso, VI)
    Al di là dell'aspetto evidentemente mitologico della narrazione, scavi archeologici effettuati dal 1937 nell'area adiacente la chiesa di S. Omobono, all'incrocio tra le attuali via L. Petroselli e Vico Jugario, hanno portato alla luce reperti di chiara origine greca, risalenti alla metà dell'VIII secolo a.C., e quindi perfettamente coincidenti con l'epoca della tradizionale fondazione di Roma. Tali ritrovamenti possono pertanto essere considerati come la conferma archeologica della realtà storica degli indizi che hanno poi contribuito a generare la tradizione mitologica sulle origini leggendarie della città.







    Eurialo e Niso





    « ... Appresentossi in prima
    Eurïalo con Niso. Un giovinetto
    di singolar bellezza Eurïalo era;
    e Niso un di lui fido e casto amante. »
    (Virgilio, Eneide, traduzione di A.Caro, V, 425-428)





    Eurialo e Niso (in latino Euryalus et Nisus) sono due personaggi che compaiono in due episodi dell' Eneide di Virgilio. Giovani guerrieri profughi di Troia, costituiscono un grande esempio di amicizia e di valori che Virgilio teneva a riportare in vita con la sua opera.
    Il particolare rapporto che li lega è definito dall'autore "amore", ciò che nel contesto dell'epoca va inteso come serena manifestazione di continuità tra l'amicizia fraterna e l'affettuosità omoerotica. Non è l'unico caso nel poema: anche tra gli italici nemici dei troiani vi è una coppia siffatta, quella costituita dai due giovani latini Cidone e Clizio.



    Eurialo (figlio di Ofelte) è il più giovane dei due amici, poco più che un fanciullo, e con la sua bellezza riesce sempre ad ottenere il favore degli altri.
    Partecipa alla gara di corsa a piedi nel quinto libro a fianco dell'amico Niso e riesce a vincerla grazie all'aiuto del compagno. Nonostante le proteste di Salio, un altro corridore, che è inciampato a causa di Niso, Eurialo sfrutta le sue lacrime e il suo bell'aspetto per far sì che gli spettatori parteggino per lui.
    Nel nono libro affianca nuovamente Niso nel tentativo di raggiungere Enea, passando per l'accampamento dei Rutuli addormentati. I due giovani, approfittando dell'occasione favorevole, compiono un'ingente strage di nemici. L'inesperienza di Eurialo si dimostra quando il giovinetto ruba nell'accampamento nemico diversi oggetti di valore, tra cui uno splendido elmo. Saranno proprio quei trofei a mettere a repentaglio la vita di Eurialo; da una parte il riflesso dell'elmo attirerà l'attenzione del nemico Volcente sui due compagni, dall'altra il peso del bottino ostacolerà il giovane in fuga dai soldati nemici. Eurialo muore trafitto dalla spada dello stesso Volcente in un bosco vicino all'accampamento rutulo.
    In quel momento Virgilio richiama alla mente un altro paragone con il candido corpo esanime di Eurialo, ossia l'immagine di un fiore purpureo reciso da un aratro o un papavero che abbassa il capo durante la pioggia.

    Niso appartiene a una famiglia illustre: è infatti figlio - al pari di Ippocoonte e dell'omerico Asio - di quell'Irtaco che aveva sposato Arisbe, la moglie ripudiata di Priamo. Egli è, rispetto a Eurialo, più maturo ed esperto. Compare per la prima volta nel libro quinto del poema al fianco di Eurialo nella gara di corsa, in cui scivola, ma aiuta il compagno a vincere grazie ad uno stratagemma.
    Successivamente, nel nono libro, Niso si fa avanti per uscire dall'accampamento dei troiani assediati dai Rutuli e raggiungere Enea, ma Eurialo vuole seguirlo. Dapprima Niso non acconsente ritenendo il fanciullo non ancora pronto per affrontare un'impresa tanto rischiosa, ma, data la sua insistenza, parte con lui. Entrato nel campo nemico, Niso vi uccide parecchi giovani italici sopraffatti dal sonno, dal vino e dall'inesperienza.
    Morirà nel tentativo di salvare l'amico fatto prigioniero dai cavalieri di Volcente. Il suo affetto per il giovinetto lo spinge a uccidere il responsabile della sua uccisione.


    Nella sortita notturna del nono libro, Virgilio s'ispira a quella di Diomede e Ulisse dell'Iliade.
    L'esercio rutulo sta cingendo d'assedio la cittadella dei Troiani sbarcati nel Lazio; Enea, alla ricerca di alleati, si è recato tra gli Etruschi. Niso si propone di uscire per andare a raggiungere Enea e avvertirlo del pericolo imminente, ma Eurialo vuole rimanere al suo fianco, pur sapendo di essere solo un fanciullo e di poter avere ancora una lunga vita davanti a sé. Dopo aver ricevuto il consenso dei compagni riguardo alla loro proposta, Eurialo e Niso si preparano a partire per la loro missione. Ascanio, il figlio di Enea, promette loro grandi premi, tra cui tazze d'argento, cavalli, armature, donne e schiavi, mentre gli altri troiani li equipaggiano con armi adatte all'impresa.
    I due amici penetrano nel campo dei Rutuli addormentati. Niso mette al corrente Eurialo della sua intenzione di farne strage e passa immediatamente all'azione, aggredendo un amico intimo di Turno, il borioso re e augure Ramnete, mentre russa nella sua tenda su un cumulo di tappeti, e con la spada lo colpisce alla gola; introdottosi quindi nel padiglione del giovane Remo, altro importante condottiero italico, sgozza l'auriga disteso sotto i cavalli per poi staccare la testa al suo signore coricato nel letto, e ancora al bellissimo giovinetto Serrano, riverso a terra nel sopore della gozzoviglia dopo aver dedicato al gioco dei dadi buona parte di quella che sarebbe stata la sua ultima notte. Questi sono i più importanti tra i numerosi guerrieri che finiscono vittime di Niso.
    Anche Eurialo non resiste alla tentazione di uccidere qualche italico; un certo Reto, svegliatosi improvvisamente, cerca di nascondersi dietro un cratere, ma viene ucciso proprio da Eurialo. A questo punto Niso esorta l'amico a cessare la strage: i due troiani escono dal campo nemico. Eurialo porta via con sé alcuni oggetti di valore, tra cui l'elmo di Messapo.
    Proprio per la vanità di Eurialo i due amici vengono avvistati da un drappello di trecento cavalieri guidato da Volcente; accade infatti che i bagliori dell'elmo e il suo vistoso pennacchio attirano l'attenzione dei nemici; questi allora iniziano ad inseguire la coppia di troiani, che tenta di rifugiarsi nel bosco.
    Gli uomini di Volcente si sparpagliano quindi in tutto il bosco attraverso passaggi sconosciuti ad Eurialo e Niso, che cercano una via di fuga.
    Improvvisamente Niso si ritrova da solo e, correndo a ritroso per cercare l'amico, lo vede circondato da soldati italici. A quel punto, disperato, scaglia le sue armi contro i nemici e riesce a uccidere Sulmone e Tago, due cavalieri di Volcente, il quale, non capendo chi possa essere l'autore di quelle uccisioni, si scaglia su Eurialo con la spada, trafiggendolo mortalmente.

    Niso allora grida disperato contro Volcente e si scaglia con tutta la sua violenza contro di lui, conficcandogli la spada in gola ed uccidendolo. Il giovane viene però attaccato dagli altri soldati presenti e, morendo, si getta sull'amico e si dà finalmente pace.

     
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    X libro



    Nel frattempo sull'Olimpo è in atto un duro scontro tra gli dei: Giove è irritato per lo scoppio della guerra, Giunone addossa la colpa ai Troiani e Venere implora Giove di non abbandonarli proprio mentre sono circondati da forze molto più numerose delle loro.
    Enea, intanto, ha assunto il comando della Lega Etrusca, e alla testa dell'esercito imbarcato sulla flotta federale, assieme a Tarconte, torna dal territorio etrusco alla foce del Tevere. Quando lo vedono riapparire i Troiani, ancora assediati nel loro campo, riacquistano fiducia. Turno muove le schiere italiche contro il nemico ma Enea, forte dello scudo di Vulcano e della protezione di Venere, è di fatto inarrestabile. Egli si slancia contro i nemici dapprima con la spada, e con essa uccide il gigantesco e coraggioso Terone, per poi ferire mortalmente il giovane Lica (Eneide). Subito dopo abbatte due fratelli armati di clava, Cisseo e Gia, originari della Grecia, e Faro, al quale scaglia la lancia che trapassa di netto la bocca. Si fa allora eroicamente avanti una coppia di guerrieri latini, Cidone e Clizio, legati da un rapporto omoerotico: Enea stende morto Clizio, il più giovane dei due, mentre Cidone viene salvato dall'intervento dei sette figli di Forco che si frappongono improvvisamente tra lui ed Enea, il quale è costretto a chiedere al fedele Acate le lance, che scaglia sui suoi assalitori uccidendone un paio, Meone e Alcanore; un terzo fratello, Numitore, ferisce Acate in maniera non grave.
    Enea e Acate si allontanano mentre i combattimenti riprendono più cruenti di prima. Pallante fa strage di alcuni giovani guerrieri, tra cui i due valorosi gemelli latini Laride e Timbro, figli di Dauco: con la spada decapita Timbro e recide la mano destra a Laride, abbandonandolo moribondo sul terreno. Poi uccide Aleso, l'antico auriga di Agamennone, stabilitosi in Italia dopo la guerra di Troia. Viene quindi affrontato da Turno in duello: sull'Olimpo Ercole, invocato dal giovane prima dello scontro, chiede a Giove se la sua vita possa essere risparmiata, ma Giove ricorda l'inevitabilità del fato: "Stat sua cuique dies, breve et inreparabile tempus/ Omnibus est vitae" ("A ciascuno è dato il suo giorno, il tempo della vita/ è breve e irreparabile per tutti", Aen. X, 467-468). Turno uccide Pallante, spogliandolo poi del balteo.
    Enea, infuriato per la morte del suo amico e alleato, lo vendica scagliandosi sui nemici e facendone scempio: innanzitutto cattura vivi otto giovani per immolarli sulla pira che arderà Pallante; poi abbatte Mago ed altri guerrieri latini tra cui Ceculo, semidio figlio di Vulcano, Umbrone, Anxure al quale tronca la mano, e pure un sacerdote di Apollo e di Diana, figlio di tale Emone. Quindi affronta il giovane etrusco Tarquito, schierato con Mezenzio e anch'egli semidio, e con la spada gli spicca via la testa dal busto, facendo infine rotolare i resti del nemico, grondanti di sangue, nella foce del Tevere. Le schiere italiche fuggono terrorizzate, ma Enea prosegue con la carneficina: cadono due fedelissimi di Turno, Anteo e Luca (Eneide), poi Numa e anche Camerte, il biondo signore di Amyclae, nonché figlio di Volcente. Enea quindi uccide una coppia di fratelli che avevano osato sfidarlo dal carro insultandolo, Lucago e Ligeri, colpendo il primo all'inguine con la lancia scagliata e buttandolo giù dal carro, mentre all'altro apre il petto con la spada. I Rutuli sono così costretti ad allentare l'assedio al campo dei Troiani, che finalmente possono intervenire al fianco di Enea; belle prove vengono offerte da Salio, il sicano di origini acarnane unitosi a Enea e ai suoi uomini, destinato però anche lui a soccombere (per mano dell'italico Nealce).
    Intanto Giunone, temendo per la sorte di Turno, è riuscita ad allontanare il re rutulo dal campo di battaglia. Enea può così affrontare il tiranno etrusco Mezenzio, che sta facendo a sua volta strage di Troiani, ferendolo con la lancia all'inguine; quindi si getta sul figlio Lauso intervenuto in difesa del padre e gli pianta la spada nel petto: toccato dal gesto eroico dell'avversario non infierisce sul suo corpo ma lo fa adagiare sul suo stesso scudo restituendolo al padre.
    Mezenzio inveisce per la morte del figlio ed affronta, benché gravemente impedito, il troiano a duello. Enea uccide con un colpo di lancia il cavallo di Mezenzio e quindi il tiranno stesso, spogliandolo poi delle sue armi ed appendendole nel campo di battaglia, come trofeo per Marte.
     
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  12. gheagabry
     
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    Cidone e Clizio





    Enea e i suoi compagni, sbarcati nel Lazio dopo la distruzione di Troia, devono combattere contro le popolazioni locali: i Rutuli e i Latini. Allo scoppio del conflitto, Enea, lasciato il controllo del castrum troiano nelle mani del figlio Ascanio, compie diverse peregrinazioni per l'Italia alla ricerca di alleati, guadagnandosi l'appoggio di Arcadi, Liguri ed Etruschi. Tutti quanti si imbarcano sulle navi di questi ultimi. Quando fanno ritorno nel Lazio, trovano la cittadella troiana assediata dagli italici: una volta sbarcato, Enea decide di affrontare dapprima i guerrieri latini, i nemici meno organizzati, e comincia a farne strage. Armato di spada uccide di duello in duello Terone (Eneide), Lica (Eneide), Faro e i fratelli Cisseo e Gia. Qui entrano in scena Cidone e Clizio.

    La morte di Clizio

    " Tu quoque, flaventem prima lanugine malas
    dum sequeris Clytium infelix, noua gaudia, Cydon,
    Dardania stratus dextra, securus amorum
    qui iuuenum tibi semper erant, miserande iaceres,
    ni fratrum stipata cohors foret obuia, Phorci
    progenies, septem numero, septenaque tela
    coniciunt "
    (Virgilio, Eneide, libro X, vv.324-330)


    Cidone e Clizio sono due giovani latini uniti da un legame omoerotico. Di Clizio, Virgilio scrive che è ancora giovinetto: una tenera barba bionda incornicia il suo bellissimo volto. Su Cidone il poeta non dà una descrizione fisica: dice invece che prima di Clizio ha amato altri adolescenti, sicché è da ritenere che rispetto al compagno egli abbia un'età leggermente superiore. L'episodio ruota tutto alla parola stratus: questa è la fine che rischia di fare Cidone, seguendo nella morte Clizio, che dunque risulta essere stato colpito di spada da Enea dopo essersi spinto per assalirlo: il suo cadavere giace ora disteso al suolo. Ma Cidone riesce a salvarsi per l'intervento dei sette figli del latino Forco, che si frappongono tra lui ed Enea.

    " E tu, Cidon, per le sue mani estinto
    misero! giaceresti a Clizio appresso,
    tuo novo amore, a cui de' primi fiori
    eran le guance colorite a pena;
    se non che de' fratelli ebbe una schiera
    subitamente a dosso. Eran costoro
    sette figli di Forco, e sette dardi
    gli avventaro in un tempo. "
    (traduzione di Annibal Caro)




    Interpretazione dell'episodio

    " E tu pur, folle
    infelice Cidon, che, di novella
    passion d'amore acceso, al giovinetto
    Clizio vai dietro, cui fiorisce appena
    in su le guance il biondo pel, tu pure
    steso al suol giaceresti, o sfortunato,
    per la destra d'Enea, né più d'amore
    caldo il tuo cor sarìa pei giovinetti
    se il colpo a deviar corso non fosse
    il ben compatto stuolo dei fratelli,
    prole di Forco; sette sono, e sette
    strali sfrenan dall'arco [...] "
    (traduzione di Emilio Pratellesi)




    La vicenda di Cidone e Clizio è trattata in pochissimi versi e non è di immediata comprensione. Il poeta prima accenna a Cidone che segue Clizio nel suo slancio contro Enea; quindi incentra l'episodio sull'immagine di Cidone che rischia di condividere la stessa sorte - appena accennata - del commilitone amato, attorno al cui cadavere si scatena l'evento successivo, ovvero la comparsa dei sette figli di Forco che permettono a Cidone di allontanarsi. Per l'intenso rapporto che li unisce, questi due personaggi possono essere considerati nel poema i corrispettivi italici dei ragazzi troiani Eurialo e Niso; qui però l'iniziativa viene presa dal guerriero più giovane, ed è solo lui a perdere la vita. Tutto questo contribuisce a fare di Clizio una nobilissima figura di eroe.
     
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  13. tappi
     
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  15. gheagabry
     
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    La locuzione latina Stat sua cuique dies ("A ciascuno è dato il suo giorno", Virgilio, Eneide X, 467) è un frammento delle parole di Giove a Ercole, nel X libro dell’ Eneide di Virgilio. Ercole, l'Alcide, piange per l'approssimarsi della morte di Pallante per mano di Turno, e il padre degli dèi lo consola con queste parole, ricordando poi la fine immatura del figlio Sarpedone sotto le mura di Troia. L’intera frase recita: Stat sua cuique dies, breve et inreparabile tempus / Omnibus est vitae ("A ciascuno è dato il suo giorno, il tempo della vita / è breve e irreparabile per tutti", Aen. X, 467-468).
     
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