L'ENEIDE

di Virgilio

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  1. gheagabry
     
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    DIDONE





    Didone, o Elissa, è una figura mitologica, regina fenicia fondatrice di Cartagine e precedentemente regina di Tiro. Secondo la narrazione virgiliana, si innamorò di Enea e disperata per il suo allontanamento si uccise.

    Primogenita di Belo, re di Tiro, era sposa di Sicharbas (Sicherba o Sicarba, che diverrà Sicheo, Sychaeus, in Virgilio). La sua successione al trono fu contrastata dal fratello, Pigmalione, che ne uccise segretamente il marito e prese il potere.

    Probabilmente con lo scopo di evitare la guerra civile, Didone lasciò Tiro con un largo seguito e cominciò una lunga peregrinazione, le cui tappe principali furono Cipro e Malta.....

    Giunone aveva promesso loro una nuova terra in cui fondare una propria città e gliel'aveva indicata come la terra in cui scavando sulla spiaggia avrebbero trovato un teschio di cavallo. Approdata infine sulle coste libiche, Didone ottenne dal re Iarba il permesso di stabilirvisi, prendendo tanto terreno "quanto ne poteva contenere una pelle di bue"; infatti l'antico soprannome di Cartagine era "Birsa", che in greco significa "pelle di bue" e in fenicio "rocca". Didone scelse una penisola, tagliò astutamente la pelle di toro in tante striscioline e le mise in fila, in modo da delimitare quello che sarebbe stato il futuro territorio della città di Cartagine e riuscì ad occupare un territorio di circa ventidue stadi (uno stadio equivale a circa 185,27 m2) ... Durante la propria vedovanza Didone venne insistentemente richiesta in moglie dal re Iarba e dai principi numidi, popolazione locale; secondo le narrazioni più antiche (ne parla ad esempio Giustino, III secolo d.C.), dopo aver finto di accettare le nozze, Didone si uccise con una spada invocando il nome di Sicherba. Didone venne divinizzata dal proprio popolo con il nome di Tanit e quale ipostasi della grande dea Astarte (la Giunone romana).





    Nella versione virgiliana invece, sotto l'influenza della sorella Anna e di alcune divinità, Didone si innamorò di Enea giunto naufrago a Cartagine con il suo popolo (I e IV libro dell'Eneide). È a lei che l'eroe troiano racconta le vicende vissute a partire dalla fine di Troia (Infandum, regina, iubes renovare dolorem). La Fama diffuse fino a Iarba notizie del loro amore, che era stato consumato in una grotta; il re dei Getuli invocò Giove Ammone, perché fermasse questo "Paride effeminato" che insidiava la regina. Tramite Mercurio, Giove impose la nuova partenza all'eroe troiano, che lasciò Didone dopo un ultimo terribile incontro, in cui lei lo maledisse e previde eterna inimicizia tra i popoli. Poi, sviata Anna e la nutrice Barce con delle scuse, disperata si uccise con la stessa spada che Enea le aveva donato, gettandosi poi nel fuoco di una pira sacrificale. Enea incontrerà poi di nuovo la regina nell'Ade, nel bosco del pianto (VI libro), e manifesterà sincero dolore per la sua repentina fine; ma l'ombra di Didone non lo guarderà neppure negli occhi e resterà gelida, correndo poi verso il marito Sicheo, con cui si era ricongiunta nell'oltretomba (...coniunx ubi pristinus illi / respondet curis aequatque Sychaeus amorem). Il silenzio finale di Didone è, secondo Eliot, un riflesso del senso di impossibilità di amare dello stesso Enea, schiavo del fato






    « Grido e brucia il mio cuore senza pace
    Da quando più non sono
    Se non cosa in rovina e abbandonata »

    (Giuseppe Ungaretti, Cori descrittivi di stati d'animo di Didone, II)




    La rielaborazione del mito di Didone non fu propria solo di Virgilio. Già Ennio e Nevio se ne erano impossessati e come Virgilio lo avevano utilizzato per attuare un aggancio tra leggenda e storia dando implicitamente una giustificazione mitica all'origine delle guerre tra Roma e Cartagine, al presunto "odio atavico" tra i due popoli.

    Dante nella Divina Commedia colloca Didone nel Canto V dell'Inferno, in compagnia dei celebri Paolo e Francesca, nella schiera degli spiriti lussuriosi. Nel canto Dante non cita per nome Didone, ma la descrive mediante una perifrasi che ne indica i peccati e il nome del marito (L'altra è colei che s'ancise amorosa, /E ruppe fede al cener di Sicheo). Didone, infatti, legandosi a Enea si rese colpevole del tradimento della memoria del marito morto Sicheo, e infine si tolse la vita una volta che Enea la abbandonò per continuare il viaggio indicatogli dagli dèi.

    Il topos letterario della donna abbandonata, di cui Didone fa parte, ha viaggiato nella letteratura fino ad Ungaretti in età moderna. Dalla Medea di Euripide e Apollonio Rodio (che ne descrive la giovinezza e l'ingenuità) fino all'Arianna di Catullo del carme LXIV e alla Didone virgiliana e a quella ovidiana della VII epistola, a tutti gli effetti più donna che regina.



    Il culto di Tanit sopravvisse alla distruzione di Cartagine e fu introdotto nella stessa Roma dall'imperatore Settimio Severo. Esso si estinse definitivamente con le invasioni barbariche. La tradizione romana vedeva un collegamento tra la famiglia cartaginese dei Barca e la regina leggendaria (naturalmente in una prospettiva anti-romana), ed anche la regina Zenobia di Palmira, molto più tardi, si proclamò discendente ed erede politica di Didone.




     
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42 replies since 13/7/2010, 19:26   16590 views
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