FAVOLE DELLA BUONANOTTE

.....prima che il sonno ci raggiunga...

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    C'era una volta un re che aveva tre figlioli. Due erano svegli e arditi, ma il terzo, ingenuo e sempre trasognato, veniva giudicato un buono a nulla ed era soprannominato Sempliciotto. Il re li amava tutti allo stesso modo, e quando si sentì vecchio e debole temendo di essere vicino a morire, fu molto perplesso perché non sapeva a quale dei suoi tre figli lasciare la corona e il regno. Allora li chiamò e disse:
    - Figli miei, uno di voi dovrà diventare re dopo di me, ma non so chi designare. Ho deciso perciò, di mettervi alla prova: partite, e andate in giro per il mondo a cercare un tappeto. A colui che riuscirà a portarmi il più bello, darò il trono.
    - Ho sentito dire che i tappeti più belli si trovano in oriente - disse con baldanza il figlio maggiore. - quindi, come primogenito, è mio diritto partire subito per l'oriente.
    - Niente affatto! - rimbeccò il secondogenito. - per l'oriente invece, partirò io.
    Il re, affinché non si accendesse tra loro alcuna disputa e non si creassero dei malcontenti, disse:
    - Calma, calma! Sarà la sorte a decidere per voi: ecco qui tre piume. Scenderemo in giardino e il le getterò al vento; ciascuno di voi ne seguirà una.
    Scesero in giardino e il re gettò all'aria le tre piume. Il vento trasportò la prima verso oriente, la seconda verso l'occidente, e la terza, dopo essersi vibrata un po' per l'aria, si posò a terra. Era la piuma di Sempliciotto e i due fratelli risero vedendo il minore condannato a rimanere lì dov'era.
    Quando il re fu rientrato a casa, il povero Sempliciotto sedette malinconicamente sull'erba e raccolse la piuma. Allora vide che, proprio nel posto dov'essa si era posata, c'era un anello di una botola. La sollevò e scoprì una scaletta che sprofondava sotto terra.
    Subito incominciò a discendere. Giunse così a una porta, bussò e udì una voce che cantava:
    " Verde, verde ranocchia gamba secca piccolina, presto va a guardare chi qui dentro vuole entrare ".
    La porta si aprì; Sempliciotto entrò e vide una grande sala dove sedeva una ranocchia vestita da regina, che portava una corona d'oro. Intorno a lei stavano molte ranocchiette giovani.
    - Benvenuto - disse cortesemente la ranocchia. - che cosa vuoi?
    Stupito ed imbarazzato, Sempliciotto raccontò le sue vicende e la rana, quando seppe che il giovane cercava il tappeto più bello del mondo, incominciò a cantare: " Verde verde ranocchina gamba secca piccolina, porta presto qui da me la gran scatola da re "
    Subito una ranocchietta uscì dalla sala e ritornò poco dopo con una scatola d'oro tempestata di gemme. La regina l'aperse e ne tolse un tappeto meraviglioso, intessuto di fili di tutti i colori.
    Sempliciotto lo prese, ringraziò calorosamente e risalì; rimessa la botola al suo posto, entrò nella reggia.
    Anche i due fratelli erano di ritorno. Essi avevano pensato: " Abbiamo già vinto la prova, perché Sempliciotto non troverà tappeti in mezzo all'erba! Basterà che noi prendiamo uno straccio qualsiasi e il regno sarà nostro".
    Perciò si accontentarono di rubare due scialli che videro stesi al sole davanti alla capanna di un pecoraio e tornarono indietro subito.
    Ma quando Sempliciotto si inginocchiò davanti al padre e gli presentò lo stupendo tappeto, diventarono verdi per la rabbia.
    - Come avrà potuto fare ?- si domandavano l'un l'altro increduli e invidiosi. - Ma dove sarà mai andato a trovare una meraviglia simile ?
    appena lo vide, il re rimase stupefatto e sentenziò:- Il regno tocca di diritto al più giovane di voi.
    Allora i due fratelli maggiori incominciarono a protestare :
    - La prova non vale perché noi non l'avevamo presa sul serio. Vogliamo ritentarla.
    Il padre acconsentì; scesero ancora una volta in giardino e il re getto al vento le tre piume dicendo:
    - Seguitele. Io lascerò la corona a quello di voi tre che mi porterà l'anello più bello.
    Le piume dei due fratelli maggiori volarono, una verso oriente, l'altra verso occidente e quella di Sempliciotto si posò sull'erba, come la prima volta.
    - Non troverà gioielli in terra ! - risero i due giovani. - Nessuna paura, dunque. Basterà un anello di ottone per vincere la gara.
    Si allontanarono appena, acquistarono per pochi soldi un anello di similoro e tornarono indietro.
    Sempliciotto sollevò la botola e scese la scaletta. Giunto davanti alla regina delle rane, la salutò rispettosamente e raccontò i casi suoi, come la prima volta.La rana cantò la solita canzoncina e la ranocchia sparì per ritornare poco dopo con una scatola d'oro. Da quella la regina tolse un anello di brillanti che sfavillava come una stella.
    Felice, il giovane risali, e presentato l'anello a suo padre, vinse facilmente la prova, mentre i due fratelli stringevano i pugni per la collera.
    - La corona spetta a Sempliciotto - proclamò ancora il re.
    E ancora i fratelli protestarono: - Ripetiamo la prova.
    - Va bene - disse il re. - Salirà al trono colui che mi porterà la sposa più bella.
    Furono lanciate le piume, e per la terza volta quella di Sempliciotto si posò sull'erba.
    I due fratelli si allontanarono ridendo, chiesero in moglie le prime contadinotte che incontrarono e tornarono indietro.
    Sempliciotto scese la scaletta sotterranea, ma era molto scoraggiato. Pensava che questa volta la regina delle rane quasi certamente non avrebbe potuto aiutarlo.
    Ma la regina non si sgomentò udendo la domanda: dalla scatola d'oro tolse una carota fatta come una carrozzina e strascinata da sei topini; prese la ranocchietta damigella e la mise nella carrozza. Poi agitò lo scettro: subito la carrozza divenne un cocchio d'oro, i topini si trasformarono in sei magnifici cavalli bianchi e la ranocchietta diventò la più bella fanciulla che si potesse immaginare.
    Quando arrivarono a palazzo e il re vide la fanciulla esclamò :
    - Il trono spetta a Sempliciotto.
    I due fratelli allora tentarono un ultimo espediente. Appesero al soffitto un cerchio e dissero:
    - Sarà regina la fanciulla che riuscirà a saltarlo.
    Ma la sposa di Sempliciotto, che era stata una ranocchia, balzò attraverso il cerchio come se volasse, mentre le altre due spose caddero a terra come sacchi di patate.
    Sempliciotto divenne re e regnò saggiamente per tutta la vita
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    C'erano cinque piselli in un baccello, erano verdi e anche il baccello era verde, così loro credevano che tutto il mondo fosse verde, e avevano pienamente ragione!
    Il baccello cresceva, e anche i piselli crescevano, così si assestarono secondo la conformazione della casa, mettendosi tutti in fila. Fuori il sole splendeva e riscaldava il baccello; la pioggia lo schiariva, c'era bel caldo e si stava bene, era chiaro di giorno e buio di notte proprio come doveva essere, e i piselli diventavano sempre più grossi e pensavano sempre di più: se ne stavano sempre lì seduti, qualcosa dovevano pur farla!
    «Dobbiamo restare qui per sempre?» si chiedevano «purché non diventiamo duri a star seduti così a lungo! Mi sembra quasi che ci sia qualcosa fuori di qui; ne ho la sensazione!».
    E passarono diverse settimane; i piselli ingiallirono e anche il baccello si fece giallo.
    «Tutto il mondo sta diventando giallo!» dissero, e ne avevano il motivo.
    Poi sentirono una scossa al baccello; era stato strappato dalla pianta preso in mano e messo nella tasca di una giacca insieme a molti altri baccelli ancora pieni.
    «Tra poco ci apriranno!» esclamarono, e si misero a aspettare. Mi piacerebbe sapere chi di noi andrà più lontano!» disse il pisello più piccolo.
    «Tra breve si vedrà!»
    «Succeda quel che deve succedere!» replicò il più grande.
    Crac! il baccello fu aperto e i cinque piselli rotolarono fuori sotto il sole; si trovarono in una mano di bambino: un ragazzetto li teneva stretti e diceva che andavano proprio bene per la sua cerbottana. Subito un pisello fu messo nella canna e sparato lontano.
    «Ora volo nel vasto mondo! mi segua chi può!» e era già partito.
    «Io invece» esclamò il secondo «volerò fino al sole; è un vero e proprio baccello e mi andrà a meraviglia!» e fu lanciato anche lui.
    «Noi dormiremo dove capiterà!» dissero gli altri due «ma avanzeremo anche noi!» e subito rotolarono sul pavimento prima di finire nella canna, ma poi venne anche il loro turno.
    «Andremo più lontano di tutti!»
    «Succeda quel che deve succedere!» esclamò l'ultimo che venne sparato verso l'alto, volò contro una vecchia assicella che si trovava sotto la finestra di una mansarda, e s'infilò proprio in una fessura dove c'erano muschio e terra umida.
    Il muschio gli si richiuse sopra; era nascosto ma non era stato dimenticato dal Signore.
    «Succeda quel che deve succedere!» disse di nuovo.
    In quella piccola mansarda abitava una povera donna che di giorno andava a pulire le stufe, a tagliare la legna e a fare i lavori pesanti, perché era forte e piena di volontà, ma ciò nonostante rimaneva povera. In casa, nella cameretta, c'era anche la sua unica figlia, una adolescente delicata e gracile; da un anno intero era a letto e non voleva né vivere né morire.
    «Andrà dalla sorellina!» diceva la donna. «Avevo due figlie, era troppo faticoso mantenerle entrambe, e così il Signore le ha divise con me e se ne è presa una; ora io vorrei tenere quest'unica che mi è rimasta, ma lui non vuole tenerle separate e così lei andrà a raggiungere la sorellina.»
    La ragazzina malata però viveva ancora. Se ne stava a letto immobile e paziente per tutto il giorno, mentre la madre era fuori per guadagnare qualcosa.
    Era primavera, e una mattina presto, mentre la madre stava andando al lavoro e il sole splendeva chiaro attraverso la finestrella e si posava sul pavimento, la fanciulla malata guardò attraverso il vetro più basso.
    «Che cos'è quel verde che spunta dietro il vetro? Si muove col vento!» la madre andò alla finestra, e la aprì.
    «Oh!» esclamò «è un piccolo pisello che ha messo fuori delle foglioline verdi. Come ha fatto a arrivare in quella fessura? Adesso hai un giardinetto da guardare!»
    Il letto della malata venne avvicinato alla finestra, perché lei potesse vedere il pisello che germogliava; intanto la madre andò al lavoro.
    «Mamma, credo che guarirò!» raccontò la bambina alla sera «Il sole oggi era così caldo su di me. Il pisello cresce proprio bene, e anch'io voglio crescere e uscire al sole.»
    «Se solo accadesse davvero!» esclamò la madre, ma non lo credeva possibile; intanto però a quel verde germoglio che aveva donato alla bambina la voglia di vivere mise un bastoncino, perché non si piegasse al vento. Legò un filo dall'assicella alla finestra così che il gambo del pisello avesse qualcosa a cui appoggiarsi e arrampicarsi, crescendo; e così infatti fece, e di giorno in giorno cresceva a vista d'occhio.
    «Oh, mette anche i fiori!» disse un mattino la donna, e cominciò a sperare e a credere che la piccola malata sarebbe guarita. Le tornò in mente che nell'ultimo periodo la sua figliola parlava con più vivacità, le ultime mattine si era tirata su da sola nel letto e era rimasta lì seduta a guardare con occhi splendenti quel giardinetto costituito da una sola pianta di piselli.
    La settimana successiva per la prima volta la malata restò alzata per più di un'ora. Felice si sedette al sole, con la finestra aperta, e fuori c'era un fiore bianco e rosso di pisello completamente sbocciato. La fanciulla piegò la testa e baciò con delicatezza quei petali lievi. Era proprio un giorno di festa, quel giorno!
    «Il Signore in persona lo ha piantato e lo ha fatto crescere, per dare a te gioia e speranza, cara figliola, e anche a me» disse la madre felice, e sorrise al fiore come se fosse un angelo del Signore.
    E che ne è stato degli altri piselli?
    Quello che volò nel vasto mondo: «Mi segua chi può!» cadde in una grondaia e finì nel gozzo di un piccione, e lì rimase come Giona nella balena.
    I due pigroni fecero la stessa strada e furono anch'essi mangiati dai piccioni, e ciò vuol dire essere utili in modo concreto.
    Il quarto, che voleva raggiungere il sole, cadde nella fogna e restò per molti giorni e settimane nell'acqua stagnante, gonfiandosi tutto.
    «Divento bello grosso!» esclamò.
    «Sto per scoppiare e non credo che nessun pisello abbia mai fatto altrettanto. Sono sicuramente il più notevole dei cinque che erano nel baccello!» e la fogna lo approvava.
    Alla finestra della mansarda stava la fanciulla con gli occhi scintillanti e con il colore della salute sulle guance.............


    Hans Christian Andersen
     
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    QUELLO CHE RACCONTANO I FIORI

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    Quando ero una bambina, cara Aurora, avrei tanto voluto sapere quel che si dicevano i fiori. Il mio professore di Botanica sosteneva che i fiori non parlano. Forse era sordo o forse non mi voleva dire la verità...Ma io sapevo che non era vero: sentivo il loro bisbigliare confuso la sera.
    Erano sopratutto le rose a parlare moltissimo ma quando io mi avvicinavo per sentire meglio, si trasmettevano un messaggio: "Attenzione, arriva la bambina curiosa che viene a spiarci!" e subito dopo regnava il silenzio.
    Io ero ostinata: camminavo quasi senza toccare l'erba e chinandomi nascondevo la mia ombra in quella degli alberi.
    Finalmente sentìi delle chiare parole, ma non capivo in che lingua fossero. Avevano piccole voci che il minimo rumore copriva facilmente. Non parlavano francese e neppure latino che avevo cominciato a studiare da poco. Ma io capivo benissimo quel che dicevano, meglio di tutto quello che avevo sentito prima di allora.
    Una sera finalmente riuscìi a sdraiarmi vicino ad un cespuglio di papaveri e seguire il loro discorso. Non era facile poiché tutti parlavano e facevano una gran confusione... Stava parlando un grosso papavero:
    “Signore e Signori è venuto il tempo di finirla. Tutti i fiori sono uguali e la nostra famiglia non è da meno delle altre. Se volete considerare le rose come una famiglia nobile siete liberi di farlo”.
    “ Noi non ci stiamo e ci consideriamo alla pari con tutti gli altri fiori..." Le margherite risposero tutte in coro:“ Il papavero ha ragione non abbiamo mai capito le arie che si danno le rose...”
    Una margherita chiese : “Vi sembra forse che una rosa sia fatta meglio di me? Noi siamo più ricche, visto che una rosa non ha più di cento petali, mentre noi ne abbiamo cinquecento....”
    Allora tutti cominciarono a vantare le proprie bellezze superiori a quelle delle rose. Paragonavano il fiore della rosa ad un cavolo e criticavano il loro profumo: un fiore educato non fa odori per farsi notare!
    Cominciarono a litigare ma il dispetto che nutrivano contro le rose bloccò la rissa che stava per nascere...
    Ero stanca di sentire i loro discorsi sciocchi e dando un calcio al pergolato gridai:
    “ Zitti! state dicendo un mucchio di fandonie! Niente di quello che dite merita di essere ascoltato! Io pensavo di sentire qui bellissime poesie, sono profondamente delusa dalle vostre rivalità!” Si fece un profondo silenzio.
    Vediamo se le piante rustiche sono più sagge di quelle coltivate che hanno ricevuto dall'uomo la loro bellezza artificiale. Sentiamo la rosa selvatica cosa dice della rosa a cento petali.
    Bisogna dire che ai tempi della mia infanzia i giardinieri non avevano ancora creato tutte le nuove specie di rose. I nostri giardini erano pieni di roseti campagnoli. Poi sono venute le rose a cento petali. Io non ero per niente persuasa di quel che diceva il mio professore: che erano fiori mostruosi creati dai giardinieri. Per me la rosa centifoglia era il massimo della bellezza nel campo della floricoltura. Anche il suo profumo inebriante mi sembrava magico. Il mio professore che annusava il tabacco non l'avrebbe mai sentito.
    Ascoltavo cosa dicevano le rose rampicanti sopra la mia testa:
    “ Resta qui caro Zephiro, non andartene, i nostri fiori si stanno per schiudere e grazie a te il nostro profumo si sentirà in tutto il giardino. Raccontaci delle nostre origini.” - E’ anche la mia storia: Al tempo che tutte le cose del creato parlavano la lingua degli dei, io ero il figlio del re delle tempeste. Le mie ali nere toccavano gli orizzonti, i miei capelli si mischiavano con le nuvole....ero spaventoso. Avevo il potere di spostare le nuvole a mio piacimento....Insieme a mio padre ed ai miei fratelli abbiamo regnato per un lunghissimo tempo sul nostro pianeta deserto. Il nostro compito era distruggere e frantumare tutto quello che incontravamo sulla nostra strada. Sembrava impossibile la nascita di una qualsiasi forma di vita.
    Io ero il più forte e arrabbiato di tutti. Quando mio padre era stanco e riposava toccava a me di continuare la sua opera di distruzione.
    Nelle profondità del pianeta viveva uno spirito che si agitava per uscire all’aperto. Era una divinità potentissima: lo spirito della vita che voleva esistere e rompendo le montagne riempiva i mari di polvere. Poi un giorno l’abbiamo visto spuntare da ogni dove…I nostri sforzi raddoppiarono ma i nuovi esseri aumentarono di numero e si salvavano proprio per la loro piccolezza. Invano cercavamo a distruggerla, la vita risorgeva sotto nuove forme, in nuovi luoghi….
    Incominciavamo ad essere stanchi e ci siamo dati appuntamento sopra le nuvole con il re delle tempeste, nostro padre. Mentre noi eravamo via, la Terra si ricoprì di un numero infinito di piante ed animali.
    Il padre ci disse: “Ecco la Terra che ha indossato il vestito di nozze col Sole. Andate a mettervi fra di loro, radunate le nuvole più nere, rovesciate le foreste e scatenate i mari. Non tornate finché ci sarà ancora un essere vivente.”
    Ci siamo sparpagliati come uno sciame mortale sui due emisferi. Come un fulmine io calai sull’ Estremo Oriente seminando morte e distruzione. Soddisfatto dei risultati raggiunti mi fermai a riposare.
    E fu allora che sentì un profumo sconosciuto poi notai un essere nato da non molto sulla Terra: la rosa…Stavo per schiacciarla quando ella mi disse: “Abbi pietà di me, sono così bella e dolce, respira il mio profumo e mi lascerai vivere.” Il suo profumo inebriante mi fecce addormentare vicino a lei sul prato.
    Al mio risveglio ella mi disse “Siamo amici…sei bello quando pieghi le ali e ti amo. Resta qui o portami con te.”
    Misi il fiore sul mio petto e presi il volo…
    Entrai nel palazzo fra le nuvole dove mi aspettava mio padre. “Che vuoi e perchè hai lasciato in piedi quella foresta?”
    Allora gli mostrai la rosa dicendo: “Ecco un tesoro che voglio salvare”.
    Rosso di rabbia mi porto via il fiore che ridusse in polvere, poi mi fecce girare e strappo via le mie ali.
    “Miserabile bambino! Non sei più mio figlio. Vai sulla Terra a raggiungere lo spirito della vita! Vediamo se saprà fare di te qualcosa visto che per me sei niente e nessuno.”
    Caddi nel vuoto poi rotolai da dove ero partito e mi ritrovai vicino alla rosa sempre bella e profumata.
    “Miracolo, ti credevo morta! Sei forse risorta?”
    “Si nel mondo dello spirito della vita tutto risorge…..Vedi questi boccioli? Sono le rose del futuro! Resta con noi, sarai nostro compagno e amico…”
    Ero tanto triste e umiliato. Ero ormai legato a questa Terra che le mie lacrime bagnavano.
    Lo Spirito della Vita senti il mio pianto e si fece vedere con le sembianze di un angelo radioso.
    “Hai conosciuto la pietà, hai avuto pietà per la rosa e io ho compassione per te. Tuo padre è potente ma io sono più potente di lui. Lui distrugge, io creo!”
    Mi toccò e io mi trasformai in un bel bambino con il colorito delle rose, poi ricevetti delle ali come quelle delle farfalle.
    “ Resta con i fiori” mi disse. “Sarai al riparo nella foresta. Poi quando avrò placato la furia degli elementi potrai percorrere la Terra e sarai benedetto dagli uomini e cantato dai poeti. E tu dolce rosa che per prima hai saputo disarmare la furia con la bellezza, sarai il simbolo della riconciliazione fra le forze contrapposte della natura.”
    Da allora vivo in pace e armonia e sono benvoluto da tutti….
    Zephiro si mise a ballare con le roselline al suono di una musica celestiale.
    Quando raccontai al professore quello che avevo sentito, disse che ero malata e che dovevo prendere una purga.
    Meno male che la nonna non la pensava così e disse al professore che era da compatire visto che non aveva mai sentito parlare le rose. Sentire il parlare dei fiori e una qualità dell’infanzia.

    NON BISOGNA CONFONDERE CERTE QUALITA’ CON LE MALATTIE!


    di George Sand
     
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    Così naque l'arcobaleno

    C’era una volta, esattamente nel punto più alto dell’arcobaleno dai sette colori, tra altissimi alberi arancione e graziose collinette rosa pallido, un piccolo paesino fiorito e colorato, dimora delle fatine dei colori. Il potere che accomunava tutte le fate dei colori, era quello di riuscire a cambiare con il pensiero i colori delle cose, dei fiori e del cielo, poiché questo le rendeva allegre e soddisfatte. Se la mattina il cielo era grigio e presagiva pioggia, loro lo tinteggiavano di un azzurro vigoroso; e se il torrente, al mutare della stagione assumeva un color marroncino che a loro non piaceva, lo tingevano di verde acqua per aggradare i loro occhi.
    In quel piccolo regno, viveva anche una piccolissima fatina di nome Fen che, essendo ancora troppo pargola per dipingere grandi nature, si divertiva a colorare buffamente i fiorellini sui prati e le foglie degli alberi, esercitandosi cosi' anche per quando sarebbe diventata grande.
    Un giorno Fen, passeggiando nella boscaglia come ogni mattina, cadde urtando contro una pietra. Un po’ rintronata notò una piccola fessura con qualcosa di luccicante all’interno e intrepidamente infilò una mano. Allora la pietra si aprì e dall’interno uscì una piccola, minuscola e malandata fatina.
    “Ehi, ma tu non sei una fata dei colori come me! A quale sorta di fatine fai parte? Non mi era mai capitato di incappare in una fata che non fosse della mia appartenenza! E dimmi ... come mai sei ridotta così male? E perchè in quella roccia?”
    ”Bambine …“ sospirò tra sé e sé la minuta fatina colta da tante domande, poi pronunciò: ”Io ero esattamente come te, coff … coff … una fata dei colori ma, ahimè, cosa terribile ho scoperto e poi mi sono ritrovata così” .
    “Che è successo?” chiese nuovamente Fen.
    “Inutile spiegare a parole, vieni con me e ti farò vedere …”. Allora la fatina condusse Fen ai limiti della selva verdeggiante e le fece guardare nella cavità di un albero.
    Con occhi sgranati, Fen scoprì che l’interno dava su un altro mondo, diverso, diversissimo dal suo. Vide un cielo nero, pieno di nuvole e, ai suoi piedi, palazzi altissimi, fabbriche, canne fumarie con fumo fetido e, a tutto andare, automobili, treni, e una fitta nebbia da lì al cielo: .... terribile!!
    “Ma, cos’è questo posto? E dove sono i colori? Qui dà tutto sul grigio e tutto è maleodorante! Ma cos’è? Tu lo sai?” domandò Fen in fermento alla piccola fatina malridotta.
    “Questa è una finestra che dà sul mondo degli uomini:è così che loro vivono, è qui che le loro vite risiedono. Tempo fa, avevo sentito parlare di loro, .... si dicevano alcune delle cose che qui puoi scorgere, ma non è tutto”.
    Posandosi sulla spalla di Fen la fatina si accasciò dolcemente spiegando: ”Qualche giorno fa, colta da una irrefrenabile curiosità, ho oltrepassato questa incavatura, perlustrando un po’ questo mondo, un po’ per pena, un po’ per abitudine, ho provato a colorare ed a pitturare da tutte le parti. Non l’avessi mai fatto!! I colori che emanavo battevano e tornavano indietro colpendo me e, senza accorgermene, mi sono ritrovata piccola piccola e senza forze. Con le ultime energie sono tornata nel nostro regno e mi sono rifugiata in quella roccia per riposare, poi mi hai trovata tu ed ora eccomi qui, ridotta così ... e chissà se potrò mai tornare normale! Sigh … sigh …”.
    “Oh no, non piangere!” pronunciò Fen con tenerezza. “Vedrai che troveremo una soluzione”.
    Detto questo mise la piccola fatina nel suo grembiulino e cominciò a ragionare sul da farsi. Continuando a fissare il cielo grigio di quello strano mondo, una soluzione non tardò molto ad arrivare. “Senti, il cielo … vedi, il cielo non può riflettere nulla. Se mandi un incantesimo di colorazione al cielo, le nuvole tratterranno per forza il colore ed allora se tu poi ti ci vai a infilare, potresti tornare normale!”
    “Non so se funzionerebbe, ma ad ogni modo, come puoi notare, sono troppo debole adesso per lanciare un qualunque incantesimo, devi farlo tu Fen!”
    “IO?”, pronunciò Fen guardando allibita la minuta fatina. “Io è già tanto se riesco a tinteggiare qualche fiore e qualche foglia! Non potrei mai riuscire …”
    “Ma chi l’ha detto? Prova, magari ci riesci. Dai ... per favore.”
    Allora Fen deglutì e si convinse. Unì le mani a principio di incantesimo e ne lanciò uno potentissimo verso quel fosco cielo riuscendo a tingere le nubi di un bellissimo rosato. Così, un po’ sbalordita, prese la piccola fatina per mano e la lanciò in alto, talmente in alto che in breve ella raggiunse una nuvola. Al contatto con l’incantesimo, ritornò alle sue dimensioni naturali.
    Fen lanciò un grido di gioia così energico che dalle sue mani si allontanò un arcobaleno dai sette bellissimi colori che andò a riempire il cielo, ora azzurro, degli umani, facendo così conoscere loro, la bellezza dei colori.
    di Daniela De Maria
     
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  13. gheagabry
     
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    C'era una volta...un mugnaio che tutti sapevano essere un gran fanfarone. Egli infatti sosteneva che il suo mulino era il più grande di tutti, la sua casa la più pulita del villaggio, la sua farina la più bianca di tutto il regno. Le sue spacconate erano talmente esagerate che giunsero persino alle orecchie del Re.
    Così un giorno che, con tutto il suo corteo, sua maestà passava di lì, lo volle conoscere.
    Il mugnaio gli presentò la figlia e non seppe resistere all' idea di raccontare un altra fandonia.
    "Sire, guardate mia figlia, è la fanciulla più bella del reame!"
    Il Re, dubbioso, guardò la ragazza, e rimase in assoluto silenzio.
    Per nulla scoraggiato, il mugnaio continuò:
    "...e poi è molto intelligente ed è bravissima in tutto!" Il Re tacque ancora.
    Il mugnaio, che assolutamente voleva impressionarlo, non trovò di meglio che inventare:
    "Pensate che mia figlia è capace di filare la paglia e la trasforma in oro!"
    Il Re, abbastanza seccato, questa volta rispose da par suo: "Benissimo, la metterò subito alla prova! Se tramuterà la paglia in oro sarà ricompensata, altrimenti morirà!"
    E ordinò alle guardie di condurre la ragazza al castello.
    Il Re chiuse la fanciulla in una stanza con un mucchio di paglia e le ordinò: "Trasformala tutta in oro entro domani!"
    La povera ragazza, rimasta sola, scoppiò a piangere disperata.
    "Padre mio, in che guaio mi hai cacciata!" disse singhiozzando, quando, a un tratto, apparve dal nulla un piccolo gnomo tutto vestito di rosso, con una lunga barba bianca, che le disse:
    "Se ti aiuterò a tramutare in fili d' oro questa paglia, tu cosa mi darai in cambio?"
    La ragazza gli porse un bellissimo gioiello a forma di cuore che aveva al collo e gli disse:
    "Posso darti questo, è la cosa più preziosa che ho!"
    Lo gnomo accettò e la mattina seguente la fanciulla, che aveva dormito tutta la notte di un sonno agitato, vide che la promessa era stata mantenuta.
    Il Re, certo che il suo ordine non poteva essere stato eseguito, aprì la porta della cella, pronto a far punire la giovane. Ma si fermò sbalordito: sul tavolo davanti a lui c'erano ben allineati sei rocchetti di fili d' oro.
    Il Re, soddisfatto, pensò di sfruttare la situazione a proprio vantaggio.
    "Sei stata molto brava, ma ti manderò altra paglia perché mi serve dell' altro filo d' oro!"
    La ragazza, che non poteva svelare la storia dello gnomo, si disperò più di prima, ma nel corso della notte comparve ancora una volta lo gnomo.
    "Cosa mi dai" chiese alla ragazza "se ti aiuto ancora?"
    "L' unica cosa che mi resta è questo anello antico. Ti prego, accettalo e aiutami, altrimenti la mia sorte è segnata!"
    Tutto accadde come la notte precedente e la mattina dopo il Re poté contare felice in quanti rocchetti d' oro era stata trasformata la paglia.
    La fanciulla, dopo aver compiuto quel prodigio, gli sembrava adesso molto più graziosa di prima. La fissò a lungo in viso poi ebbe un'idea:
    "Filerai un ultima volta della paglia per me e, se anche questa volta riuscirai a tramutarla in oro, io ti sposerò!" le disse.
    A questo punto un grande sconforto assalì la ragazza, che pensava tra se: "Se questa notte tornerà lo gnomo, non avrò più niente da offrirgli in cambio del suo aiuto! come riuscirò a salvarmi da questa situazione?"
    La poverina era disperata e pianse tutta la sera, finché a notte fonda arrivò nuovamente lo gnomo:
    "Sono tornato ancora per aiutarti. Ma questa volta cosa mi darai in cambio?"
    La ragazza fra le lacrime rispose: "Questa volta non ho proprio più niente da offrirti, purtroppo!"
    Lo gnomo la guardò sorridendo e disse: "Ho saputo che il Re ti sposerà. Quando sarai Regina, io verrò a prendere il tuo primo figlio in cambio dell' aiuto che ti darò adesso per salvarti!"
    Senza pensarci troppo, la ragazza accettò il patto e la mattima seguente si ripeté ancora una volta il prodigio.
    Il Re, ormai diventato ricchissimo, fece assegnare alla figlia del mugnaio un appartamento in un' ala del castello e cominciò i preparativi per le nozze. La fanciulla si fece promettere che, una volta sposata, non sarebbe più stata obbligata a trasformare la paglia in oro.
    Il Re accettò, quindi furono celebrate le nozze. Con gran gioia del mugnaio fanfarone, il matrimonio, nonostante tutto, riuscì bene.
    Il Re e la Regina erano molto felici e lo furono ancora di più quando nacque un bel maschietto.
    Ormai la Regina aveva dimenticato le passate disavventure, finché un terribile giorno improvvisamente ricomparve lo gnomo:
    "Sono venuto a prendere tuo figlio, ricordi il patto che avevamo fatto?"
    "Non posso! Non posso mantenere quella promessa che ti feci sventatamente! Ti offrirò in cambio tutti i miei gioielli! Chiedimi qualsiasi altra cosa, ma ti supplico, non portarmi via mio figlio!" singhiozzò la Regina, disperata.
    Lo gnomo questa volta sembrava davvero deciso a farle rispettare l'accordo che avevano concluso, ma poi, intenerito dalle lacrime della donna, le fece una proposta:
    "Va bene, ti darò quest' ultima possibilità: se riuscirai a indovinare il mio nome ti lascerò il bambino! Ma ricordati, ti lascio solamente tre giorni per scoprirlo, e tu sai per esperienza di quali incredibili magie posso essere capace!"
    E detto questo lo gnomo scomparve.
    Questa volta la Regina corse dal Re e gli confessò tutto.
    Furono allora chiamati alla corte tutti i sapienti del regno, i quali consultarono i loro libri per cercare di trovare il nome dello gnomo.
    Sfortunatamente però nessun manoscritto da loro esaminato parlava di gnomi dalla lunga barba bianca, vestiti di rosso e capaci di fare mirabolanti magie.
    Erano già trascorsi due giorni e il tempo a disposizione stava per terminare, quando un messaggero del Re riferì di aver assistito, per un fortunato caso, a uno strano rito.
    Mentre attraversava un fittissimo bosco, aveva infatti visto un vecchietto vestito di rosso che ballava intorno a un fuoco e cantava:
    "Tremotino, Tremotino, il mio nome è tutto qua, se nessuno lo saprà, il bambino mio sarà!"
    Il terzo giorno era ornai giunto, e a corte tutti aspettavano con ansia l' arrivo dello gnomo, che improvvisamente comparve dal nulla.
    Appena lo vide, la Regina gli puntò il dito dicendo:
    "Tremotino!"
    A questa parola un lampo colpì lo gnomo, che scomparve in una nube di fumo.
    La Regina corse felice ad abbracciare il figlioletto e gli disse:
    "Ormai sei salvo! Nessuno potrà più portarti via!"



    Wilhelm e Jacob Grimm
     
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  14. gheagabry
     
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    L'acciarino magico



    Un soldato marciava allegramente verso il suo villaggio: uno, due! Uno, due! Con lo zaino in spalla e la sciabola al fianco, ritornava dalla guerra. Improvvisamente incontrò una strega molto vecchia e brutta.
    - Buongiorno, soldato, - gli disse, - hai una bella sciabola, ma il tuo zaino sembra vuoto. Ti piacerebbe possedere molti soldi?
    - Si, certo, rispose il soldato.
    - Bene, allora scendi nel tronco cavo di questo albero. Prima ti attaccherò una corda intorno alla vita, per farti poi risalire quando me lo domanderai, - continuò la strega.
    - Che cosa troverò in questo grosso albero? - domandò il giovane soldato.
    - Denaro, soldato, tanto quanto ne vorrai. Quando sarai arrivato sul fondo, vedrai una galleria illuminata da un centinaio di lampade. Sulla sinistra troverai tre porte: ciascuna di esse apre una stanza. Nella prima camera vedrai un cofano sul quale è seduto un cane con due occhi grandi e piatti. Non averne paura, stendi per terra il mio grembiule blu a quadri, afferra poi il cane e mettilo su di esso: come per incanto, resterà immobile. Apri pure il cofano e prendi tutti i soldi di rame che desideri. Se preferisci invece le monete d'argento, entra nella seconda stanza. Anche qui c'è un cofano difeso da un cane con due occhi grandi come le macine di un mulino. Agisci come la prima volta e prendi tutti i soldi d'argento che desideri. Ma se vuoi l'oro, entra nella terza stanza. Anche là troverai un cane con due occhi grandi come la torre rotonda di Copenaghen. Fai come prima e prendi tutte le monete d'oro che desideri.-
    - Certo che mi conviene molto, - mormorò il soldato. - E voi cosa desiderate in cambio di queste ricchezze?
    - Riportami solamente l'acciarino che mia madre ha dimenticato l'ultima volta che è scesa nell'albero.
    - D'accordo. Dammi il tuo grembiule a quadri blu, attacca la corda intorno alla mia vita, poi scenderò subito in fondo all'albero, - disse il giovanotto, risoluto.
    Le cose andarono come aveva detto la strega.
    Il soldato trovò uno dopo l'altro i tre cani spaventosi con i loro occhi grandi.
    Si riempì le tasche di monete di rame, ma le svuotò subito dopo per prendere quelle d'argento ed infine per le monete d'oro di cui si riempì anche gli stivali e lo zaino.
    Ora era cosi ricco che avrebbe potuto comperare la città di Copenaghen! trovò l'acciarino, lo prese e chiamò la strega.
    - Che cosa vuoi fare di questo acciarino? - le domandò il giovanotto quando fu nuovamente fuori sulla strada.
    - Sei troppo curioso, soldato! Accontentati dell'oro che hai!
    - Voglio anche l'acciarino! Ridammelo o ti ammazzerò!
    La strega si rifiutò con fermezza; il soldato allora l'ammazzò e con passo pesante, perché era molto carico, si diresse verso la città vicina dove alloggiò nel miglior albergo.
    Là condusse una bella vita, circondato da cortigiani che lo adulavano.
    Un giorno senti parlare dei pregi e della bellezza della principessa, figlia del re di Danimarca.
    - Mi piacerebbe molto conoscerla, - sospirò il soldato.



    - E' impossibile, - gli fu risposto. - La principessa vive rinchiusa in un castello, circondato da alte mura. Nessuno può avvicinarsi. Il re la sorveglia gelosamente perché un mago gli ha predetto che sposerà un semplice soldato.
    Per dimenticare questa delusione il giovane uscì con i suoi amici e sperperò molti soldi; tanto che, un giorno, non gliene rimase nemmeno uno.
    Lasciò l'albergo per andare a vivere in una povera mansarda.
    I suoi amici gli voltarono le spalle.
    Una sera, volendo accendere la sua candela, batté l'acciarino della strega.
    Nell'attimo stesso che s'accese la scintilla, apparve uno dei tre cani con gli occhi grandi.
    - Ordina, padrone! Io ti servirò, - gli disse, - e i miei compagni sono anch'essi pronti ad ubbidirti.
    Il soldato capì che l'acciarino era magico e chiese alcune monete d'oro.
    In questo modo ridiventò presto ricco e adulato.
    Tuttavia era triste, perché era innamorato segretamente della principessa.
    Una notte, ormai disperato, incaricò uno dei cani di portargli la principessa.
    Era così bella, profondamente addormentata sul dorso dell'animale, che il soldato le diede un bacio.
    Il cane la riportò poi al castello.
    Il giorno dopo la principessa raccontò ai genitori sovrani ciò che credeva fosse stato un sogno.
    Diffidente, il re la fece seguire dalle sue ancelle per vedere dove andasse di notte.
    Il cane, però, riuscì a far perdere le tracce.
    Allora la regina fece cucire nei vestiti di sua figlia un taschino pieno d'orzo, forato all'estremità. Così, quando il cane, la notte seguente, portò via la principessa, i semi d'orzo caddero per terra indicando la strada che portava alla casa del soldato.
    Il giovanotto fu immediatamente gettato in prigione e condannato all' impiccagione.
    Il giorno dell'esecuzione, moltissima gente si era riunita nella piazza.
    I sovrani e i giudici troneggiavano dall'alto di un palco.
    Due guardie portarono il condannato che, prima di morire, espresse l'ultimo desiderio: quello di fumare un' ultima volta la pipa; ciò gli fu concesso.
    Prese dalla tasca l'acciarino magico e lo batté tre volte: i tre cani comparvero, feroci con i loro grandi occhi.
    Balzarono sui sovrani e li fecero precipitare dall'alto del palco sulla piazza ove si sfracellarono.
    - Viva il piccolo soldato! - urlò la folla che detestava i sovrani tiranni, - viva il nostro re!
    Il soldato, divenuto re, sposò la principessa e furono felici per moltissimi anni, ben protetti dai tre cani dai grandi occhi.




    Hans Christian Andersen

     
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