FAVOLE DELLA BUONANOTTE

.....prima che il sonno ci raggiunga...

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  1. tomiva57
     
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    Attilio e il folletto

    Attilio era un giovane molto spendaccione e con poca voglia di lavorare e, dal momento che spesso arrivava a trovarsi senza soldi prima della fine del mese, iniziò a escogitare espedienti su come fare a far spendere quelli degli amici anziché i suoi.
    Finché un giorno vide un amico di nome Leopoldo con la faccia contenta di chi ha fatto un 13 e incuriosito iniziò a indagare e gli chiese apertamente cosa fosse successo.
    - Sapessi! - Rispose Leopoldo - l'altro giorno appena finito di piovere ero andato al lago per pescare, quando sotto l'arcobaleno trovai per terra dietro un albero, un minuscolo capellino rosso e uno strano omino che mi correva incontro dicendomi di esserne il legittimo proprietario e, dal momento che sia a chi gli trova il cappello che a chi glielo sfila lui deve fargli un bel dono, in cambio della restituzione mi ha dato un cesto pieno di oro!
    - Però! - Rispose Attilio eccitato per quanto fosse successo all'amico.
    La sera seguente, quando Attilio andò a letto non dormì, anzi continuò a fare su e giù per la stanza e a dirsi: - dunque folletto , arcobaleno , pioggia, oro, folletto, oro... Quell'oro deve essere mio! Ho trovato! - alla fine esclamó esausto.
    Il giorno dopo, Attilio invece che andare a lavoro, rimase a casa a costruire una scatoletta delle stesse dimensioni che Leopoldo aveva asserito essere quelle del folletto.
    Fino a che, dopo una settimana, Attilio proprio mentre aveva appena incominciato a piovere, decise di uscire, scontrandosi così con Leopoldo, che salutò tutto frettolosamente, gridando dalla gioia di dover andare a pesca!
    (È vero ma in realtà si deve sapere che non voleva andare a pescare pesci ma a pesca di un folletto).
    Comunque, mentre giunse al lago, stava iniziando a smettere di piovere e Attilio iniziava a perdere le speranze, quando vide un folletto avanti all'arcobaleno, così con mano decisa gli sfilò il berretto rosso.
    - Hei che fai! Ridammelo, è mio! Se me lo ridai ti farò ricco! -
    Ma Attilio aveva già un piano, così mettendo il berretto nella scatola, disse: - te lo darò dopo che mi avrai dato il regalo! -
    Il folletto con tutta fretta salì sull'arcobaleno e portò come promesso la ciotola con l'oro ma invece che ricevere il berretto, finì nella scatola, che fu riaperta più volte alla fine di ogni pioggia.
    Ma un giorno il folletto, stufo di essere usato, invece che portare l'oro, colorò dei sassi d'oro, facendo in modo che l'inganno fosse noto a tutti tranne che a Attilio.
    Attilio non capiva perché tutti ogni volta che tentava di pagare con quelle che credeva pepite d'oro, veniva cacciato in malomodo e il folletto se la rideva.
    Ma un giorno il folletto, decise di fargli capire che nella vita le cose vanno meritate guadagnate e sudate e che a ogni buona azione corrisponde una buona azione.
    Così disse: - sentì facciamo un patto, se mi ridai la libertà io ti do il potere di trasformare tutto in oro senza limiti -
    Attilio accettò senza farselo ripetere su due volte, ma presto se ne pentì perché proprio tutto diventava di oro e non poteva neanche più cibarsi o bere l'acqua.
    Attilio, da prima contento, iniziò a piangere per la disperazione e a dire: - mai più vorrò avere più di quanto possa avere, mai più! Darei qualsiasi cosa pur di tornare indietro e non avere questo stupido dono! -
    Il folletto tutto soddisfatto chiese: - sei proprio sicuro? -
    - Si - rispose Attilio. Ebbene sia. L'indomani Attilio si svegliò come nulla fosse successo dal giorno del suo incontro col folletto. Convinto si trattasse solo di un brutto sogno, andò tutto contento a lavoro, poi andò a pescare iniziò a piovere e questa volta, quando trovò il capellino rosso dal folletto, non volle nulla se non solo la sua amicizia che, si dice in giro, duri ancora tutt'ora. Come tutte le favole la morale c'è.
     
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  2. almamarina
     
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  3. gheagabry
     
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    C'era una volta una favola piccola piccola, composta di pochi versi tanto che riempiva solo mezza paginetta di quaderno.
    Era nata dalla fantasia di un bambino del quale non ricordo bene il nome ma sono sicura che era bellissima e molto originale.
    L'aveva composta in un caldo pomeriggio d'estate, nella sua cameretta, mentre dalla finestra i raggi del sole gli carezzavano i capelli.

    La sera, di ritorno dal campetto di pallone, si accorse che la favola scritta sul quaderno era sparita, non c'era piu'.
    "Che fine ha fatto la mia favola?" si domando' il bambino.
    E per giorni, non fece altro che domandare a tutti "Avete visto la mia favola?" .
    Non ottenendo risposta dalle persone, decise di chiedere alle cose che lo circondavano, tanto che divenne abitudine sentire la sua vocina domandare
    "Avete visto la mia favola?".
    E chiedeva ai suoi giocattoli, ai fiori del giardino, agli alberi del viale che percorreva ogni mattina per andare a scuola.

    Col naso in su domandava agli uccellini, alle farfalle, alle nuvole
    "Avete visto la mia favola ?"

    "L'ho presa io."
    rispose sorridendo il vento
    "Sono entrato dalla tua finestra aperta e la favola era cosi' bella che era un peccato lasciarla li', sola, tra le righe bianche del tuo quaderno, cosi' l'ho portata in volo in giro per il mondo."



     
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  4. almamarina
     
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  5. gheagabry
     
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  6. gheagabry
     
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    C'era una volta...
    lontano, lontano...
    oltre il cielo e sopra le nuvole, un mondo sperduto,
    tranquillo ma gioioso...
    irradiato da tanti raggi di sole che,
    riflessi nell'acqua limpida dei ruscelli
    illuminavano un bosco incantato
    con i colori dell'arcobaleno...
    Chi abitava questo bosco??
    Tutti i personaggi delle favole:
    folletti, gnomi, draghi,
    fatine, principesse e cavalieri...
    che però si sentivano soli:
    desideravano condividere il loro meraviglioso mondo
    con tutti i bambini della terra.
    Decisero così di creare
    ... ARCOBALENO DELLE FAVOLE...
    un luogo dove tutti i bambini potessero vivere
    questa magica favola e... giocare... cantare...







    In un cielo azzurro e limpido ..ecco due nuvolette passano e fianco a fianco come due vecchie amiche giocano a rincorrersi. Una d’esse ammagliata s’arresta e osserva, ha notato l’arcobaleno
    e si mette a girare di qua e di la. L’altra le chiede: “Ma cosa stai cercando?” e lei risponde: “Il pentolone d’oro da dove esce l’arcobaleno…” “Ma dai.. non crederai alle favole, ancora!”. “Si”, le risponde, la prende per mano e dolcemente la trascina in un mondo fantastico dove tanti Angioletti mescolano colori scintillanti in una pentola d’oro. Poi seguono l’arcobaleno e dalla parte opposta vedono 106 stelline intorno a un pentolone che giocano con i colori dell’arcobaleno.


     
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  7. gheagabry
     
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    La leggenda del Sole



    di Mario Cerutti
    C'era una volta, tanto, tanto tempo fa, un Re senza età e pieno di saggezza che governava un Regno immenso senza sudditi.
    Questo Regno si trovava sperduto nel fondo del cielo ...... proprio in quel punto del cielo dove noi oggi vediamo splendere il Sole. Per governarlo nel modo migliore e per potersi spostare il più velocemente possibile nei suoi immensi confini, questo Re usava cavalcare una gigantesca meteora, composta da mille fulmini. Guidata dalla sua voce e dal suo braccio fermo, quest'ultima attraversava i cieli a velocità incredibili, spostandolo d'immense distanze nel solo tempo di un respiro.
    Forse neppur il Re stesso sapeva da quanti anni, ormai, viveva solo: gli sembrava un'eternità! Tuttavia, per quanto con lui vi fosse stato mai nessuno, egli non aveva mai sentito il peso della solitudine.
    Un giorno, durante uno dei suoi viaggi, questo Re arrivò ad uno dei confini del suo Regno ben delineato da una lunga striscia luminosa. Fermati i fulmini, stette ad osservare i possedimenti che si estendevano a perdita d'occhio oltre tale confine: notò come i suoi possedimenti fossero di un azzurro profondo e pieno, mentre quelli dall'altra parte tendevano ad un colore verde tenero, quasi rosato all'orizzonte. E fu proprio da quell'orizzonte che, improvvisamente, si delineò e prese forma un nembo di vento che si dirigeva verso di lui ad elevata velocità. In prossimità del confine, il nembo si fermò e ne discese una donna dalla bellezza quasi irreale. A tale visione, il Re s'inchinò in un saluto pieno di deferenza ed a questo gesto la nuova venuta rispose con un cenno regale del capo.
    "Sono la Regina di questo Regno", disse lei indicando con la mano i luoghi donde era venuta. "E tu, chi sei?"
    "Sono il Re di quest'altro Reame", rispose lui indicando con un largo gesto delle braccia l'orizzonte alle sue spalle. "È la prima volta che ti vedo. Non avrei mai immaginato che questo regno, al mio confine, avesse una regina tanto bella!".
    Lei ebbe un sorriso di una dolcezza ineffabile e disse: "È la prima volta che giungo fin qui. Questo regno mi è stato affidato da appena trecento anni ed ancora non sono riuscita a vedere tutti i suoi confini. Non so nemmeno quando riuscirò in questa impresa!".
    Il Re ebbe anche lui un sorriso e disse: "Se quello è il tuo desiderio, posso mettere volentieri a tua disposizione i miei corsieri. Vuoi?".
    La Regina accettò e, legato il nembo di vento ad un asteroide, perché non si allontanasse durante la sua assenza, salì sulla meteora a fianco del Re.
    La Regina non aveva mai provato un'emozione simile! Alla voce del Re, i mille fulmini si scagliarono nel cielo ad una velocità tanto elevata che lei fu costretta ad appoggiarsi al fianco del suo compagno: le poderose braccia di lui le circondarono le spalle proteggendola dai continui sobbalzi. Così stretti l'un l'altro, attraversarono immense plaghe di cielo lungo tutti i confini del Regno di lei che solo allora si rese conto di quanto grande fosse il suo dominio.
    Infine tornarono al punto di partenza, esattamente dove avevano lasciato il nembo di vento. Era giunto il momento di separarsi.
    Fu allora che il Re, fissandola con il suo sguardo franco e leale, le disse: "Perché non resti qui con me? Ti farò visitare tutto il mio Regno e, se dovesse piacerti, del mio e del tuo potremmo farne uno unico su cui regnare entrambi. Non saremmo mai più soli nei tempi che verranno!".
    Lei rimase un istante in silenzio, poi sorrise e disse: "Sia come tu dici. Sono certa sia la scelta migliore da fare e non avremo a pentircene!".
    Contraccambiando il sorriso lieto di lei, il Re stese la mano per aiutarla a risalire sulla meteora. Lei gli fece segno di attendere un momento e, accostatasi al nembo di vento, lo slegò affinché potesse pascolare in libertà durante la sua assenza. Salì, quindi, a fianco del Re che, dopo averle nuovamente circondato le spalle con il suo braccio possente, con la mano libera impugnò le redini aizzando i fulmini alla corsa.
    Volarono così, per tempi senza misura, fianco a fianco, nella luce delle stelle e nel buio siderale, lungo gli sterminati confini del Regno di lui. Di tanto in tanto si fermavano per godersi lo spettacolo senza eguali offerto da uno sfondo celeste o dalle forme inimmaginabili di una galassia. Erano legati ormai da un sentimento che dava loro una gioia immensa mai provata. Quanto durò quel viaggio, nessuno lo può dire. Cosa importava del resto? Durasse anche un'eternità: l'importante era restare vicini!
    Finché un giorno si trovarono nuovamente nello stesso punto dal quale erano partiti. Allora il Re fece fermare i fulmini e disse: "Ecco, ora hai potuto vedere tutti i confini del mio Regno. Che ne pensi, dunque, di riunire i nostri territori in un Regno unico, su cui poter regnare entrambi con uguali diritti?".
    Senza parlare, in segno d'assenso lei stese la sua mano verso quella del Re che la strinse forte forte.
    "Cosi sia", egli disse. "Io sarò il tuo Re e tu la mia Regina! Solo ora che ti ho avuta al mio fianco, comprendo quanto grande fosse la mia solitudine e quanto vuota la mia vita. Quanta differenza divide il tempo di prima da quello di adesso! Di tutto ciò ti sono infinitamente grato e vorrei poterti dimostrare il mio affetto offrendoti un dono. Manifestami un tuo desiderio ed io lo soddisferò!".
    "Il dono a me più gradito", rispose lei, "sarebbe quello di poter guidare io stessa i tuoi corsieri. È un desiderio che ho da tanto tempo, fin da quando sono salita al tuo fianco la prima volta che ci siamo incontrati. Solo che non osavo chiedertelo!".
    Con un gesto della mano il Re indicò i fulmini: "Sono a tua disposizione. Sali pure e guidali!".
    Con gli occhi brillanti e radiosi di gioia, la Regina salì a cavallo della meteora e, al comando della sua voce, i mille fulmini si scagliarono nel cielo. Fermo al suo posto, il Re la vide sparire in un attimo oltre l'orizzonte. Non trascorse molto tempo che i fulmini riapparvero per fermarsi, docili, ad un cenno della sua mano: la Regina, tuttavia, non era più con loro!
    Col cuore in gola, il Re balzò a cavallo della meteora, dirigendo i destrieri nella direzione percorsa poco prima. Non tardò a scoprire, in un anfratto di cielo, la sua Regina che giaceva ferita a morte. Inginocchiato accanto a lei, il Re ne raccolse con l'ultimo alito la causa. I fulmini le avevano preso la mano e lei, spaventata, non era stata più capace a dominarli ed era stata sbalzata giù in piena velocità. Ora si sentiva morire .....
    Il Re la strinse tra le sue braccia e ve la tenne a lungo, anche dopo che la vita l'aveva abbandonata. Quindi, con frammenti di stelle le costruì una Dimora affinché potesse in essa riposare nei millenni a venire. Perché poi non vi regnasse mai il buio, con le stesse sue mani costruì una perla immensa della trasparenza del cielo, perfettamente sferica. Quando l'ebbe finita, attraverso ad un varco lasciato appositamente aperto, v'introdusse i mille fulmini che erano stati la sua cavalcatura, sigillandoveli dentro. Improvvisamente la perla s'accese di una luce splendente, bianchissima ed insostenibile: da allora essa illumina senza sosta il cielo.
    Questo avveniva tanto, tanto tempo fa ........ proprio in quel punto del cielo dove oggi noi vediamo splendere il Sole. Forse, quello che noi chiamiamo sole, altro non è che l'immensa Lampada Votiva costruita da un Re allo scopo di vegliare sulla Dimora della sua dolce Regina, addormentata per sempre nel calmo respiro di spazi infiniti ........

     
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  8. tomiva57
     
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    Le cose non sempre sono quelle che sembrano


    Due angeli viaggiatori si fermarono per passare la notte
    nella casa di una ricca famiglia.
    Era una famiglia di persone molto avare che si rifiutarono
    di far dormire i due angeli nella camera degli ospiti.
    Infatti concessero agli angeli solo un piccolo spazio fuori,
    nel duro e freddo pavimento del pergolato davanti
    alla casa.
    Mentre si preparavano come potevano un letto per terra
    il più vecchio degli angeli vide un buco nel muro e lo riparò.
    Quando l'angelo gli chiese perché, lui rispose soltanto:
    "Le cose non sono sempre quello che sembrano".

    La notte dopo la coppia di angeli cercò riparo nella casa
    di una molto povera ma, ospitale famiglia, dove furono
    accolti da un contadino e sua moglie.
    Dopo aver diviso con gli angeli il seppur poco cibo che
    avevano, i contadini cedettero agli angeli i propri
    letti, dove finalmente i viaggiatori si poterono
    riposare comodamente.

    Quando il sole sorse, la n
    mattina dopo, gli angeli trovarono
    l'uomo e sua moglie in lacrime.
    La loro unica mucca, la solo loro fonte di sostentamento,
    giaceva morta nel campo.
    Il giovane angelo ne fu infuriato e chiese al più vecchio
    come avesse potuto lasciare accadere una cosa
    del genere.
    " Al primo uomo, che pure aveva tutto, hai fatto un favore",
    lo accusò. " questa famiglia seppure aveva pochissimo
    era pronta a dividere tutto, e tu hai lasciato
    morire la mucca!".

    " Le cose non sono sempre quelle che sembrano " replicò
    l'angelo. " Quando eravamo nel cortile della villa
    ho notato che c'era dell'oro nascosto nel muro e che si
    poteva scoprire grazie a quel piccolo buco.
    Siccome quell'uomo era così avaro e ossessionato
    dal denaro io ho riparato quel buco, così non avrebbe
    trovato anche quella ricchezza.
    Poi la notte scorsa quando dormimmo nel letto del
    contadino l'angelo della morte venne per sua moglie,
    io invece di lei gli ho dato la mucca.
    Le cose non sono sempre quello che sembrano ".


    ( Da- Qumrân 2)
     
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  9. gheagabry
     
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    LE FATE DELLA MUSICA
    C’era una volta (ma in realtà c’è ancora!) una magica Valle, nascosta agli esseri umani, che può essere raggiunta solo da persone capaci di guardare con il cuore oltre che con gli occhi; è una Valle speciale, nella quale è possibile udire migliaia di belle melodie, che aleggiano nell’aria come foglie portate dal vento. È la Valle della Musica.
    Questa Valle meravigliosa è abitata da migliaia di minuscole fate colorate dalle ali di farfalla. Ogni volta che una fatina si sposta volando sbatte le ali, e questo movimento produce una melodia dolce e delicata, oppure vivace e frizzante, o ancora calma e rilassante. Proprio così: ogni fata è accompagnata da una musica che la caratterizza, prodotta dal suo frenetico batter d’ali, che la rende riconoscibile in mezzo a tante altre fate. Ogni fatina è unica, e unica e speciale è la musica che l’accompagna.
    Puoi quindi immaginare quanto sia meraviglioso passeggiare nella Valle della Musica, immersi tra fiori, colori e fantastiche melodie.
    Ogni primavera la Valle della Musica è attraversata da un’ondata di eccitazione: bisogna organizzare la Grande Festa di Primavera, durante la quale nascono le nuove fate della musica, che escono dai fiori appena sbocciati; inoltre viene scelta la fata la cui musica accompagnerà l’arrivo della bella stagione sulla Terra! Tutte le fate desiderano essere la Fata Prescelta, poiché si tratta di un grande onore: la Prescelta deve volare per il mondo insieme alle fate della Primavera, e risvegliare con la melodia prodotta dal suo batter d’ali tutti i fiori, le piante e gli animali.
    Tutte le fate si esercitano con impegno in vista della Grande Festa, e nel frattempo si danno un gran daffare per preparare i festeggiamenti.
    Anche quell’anno la Valle della Musica era in gran fermento! Fate che svolazzavano qua e là, fate che trasportavano bacche e nocciole, fate che trascinavano vasi ricolmi di succo di more e miele.
    In mezzo a tanto viavai quasi nessuno si accorgeva di una piccola fata dall’aria piuttosto triste, che anziché volare si limitava a camminare, senza mai battere le ali. Come mai? Eppure aveva due belle alucce argentate, brillanti di polvere fatata, che è un po’ come la polverina speciale che si trova sulle ali delle farfalle.
    Si trattava di Cora, nata l’anno precedente da una magnifica margherita, che appena uscita dal suo fiore aveva messo in subbuglio l’intera Valle! Come mai? È presto detto: il suo battito d’ali non generava una bella melodia, ma un rumore inaudito! Tutte le fate erano costrette a tapparsi le orecchie quando lei passava loro accanto, per questo Cora aveva smesso di volare: non voleva disturbare nessuno con tutto il chiasso che riusciva a produrre. Piano piano si era ritrovata da sola, un po’ perché non era in grado di stare dietro alle sue compagne, che grazie al volo riuscivano a spostarsi molto più velocemente di lei, un po’ perché non aveva una musica che la distinguesse. Cora si sentiva sola, ma non sapeva davvero che cosa fare.
    Quella mattina la piccola Cora stava passeggiando sconsolata nei pressi di un ruscello: era molto annoiata, perché non riusciva a rendersi utile nei preparativi per la Grande festa di Primavera, e si sentiva un po’ triste perché era esclusa dalla gara per diventare Fata Prescelta. Era tanto assorta che quasi non si accorse dell’arrivo di una delle fate più importanti della Valle: Pitia, la Fata della Parola.
    Il compito di Pitia era molto importante: sceglieva le giuste parole da accompagnare alla musica della Fata Prescelta, cosicché tutte le Fate della Primavera, incaricate di portare la nuova stagione sulla Terra, potessero cantare sulla sua melodia. Un lavoro piuttosto difficile, a dire il vero, ma che Pitia portava a compimento ogni anno con precisione… e con un sorriso.
    Quando Pitia vide Cora, triste e sconsolata, le si avvicinò e le disse:
    “Ciao, se non sbaglio tu sei Cora, vero?”
    La fatina sobbalzò, colta di sorpresa, e poi sgranò gli occhi rendendosi conto che la Fata della Parola si ricordava di lei. Incredibile!
    “Sai chi sono?”
    “Certo! Ricordo anche che tu possiedi una capacità molto particolare…”
    Cora fece spallucce e rispose:
    “Altro che particolare! Sono la fata più rumorosa che esista, non posso volare senza produrre una serie di suoni fastidiosi e chiassosi! In effetti, finisco per rimanere sempre da sola.”
    “Capisco…”
    “Davvero?”
    “Certo! Non è piacevole essere soli. Eppure… fammi pensare…”
    Pitia aggrottò le sopracciglia e picchiettò il piedino sull’erba, riflettendo. Le dispiaceva vedere le fate tristi o di cattivo umore, e in questo caso in particolare desiderava restituire a quella fatina sconsolata un po’ di gioia. Cora la fissava intimorita, senza osare aprire bocca: era già incredibile che la mitica Fata della Parola si ricordasse di lei, anche solo sperare che potesse aiutarla le pareva troppo!
    Tutto ad un tratto Pitia esclamò:
    “Trovato! Vieni con me!” e spiccò il volo. Subito Cora le gridò:
    “Aspetta, dimentichi che io non posso volare!”
    L’altra si voltò e le rispose:
    “Ma certo che puoi! Coraggio, per una volta le altre fate potranno sopportare un po’ di baccano! Andiamo!”
    Cora fece un profondo respiro e via! Si alzò in volo, accompagnata dal solito rumore. Molte fate si voltarono a guardarla, alcune con disapprovazione, ma lei cercò di non notarle e tirò dritto per la sua strada, seguendo Pitia.
    Giunsero in poco tempo ad una grande quercia, forse la più antica della Valle, i cui rami appena mossi dal vento producevano un fruscìo tanto dolce da sembrare una canzone. Atterrarono ai piedi dell’albero, e Cora quasi sospirò di sollievo nel momento in cui il chiasso prodotto dalle sue ali cessò. Le due fate camminarono svelte per un breve tratto, e giunsero ad una piccola casetta seminascosta tra le radici nodose. Pitia chiamò dolcemente:
    “Siria, ci sei?”
    Dopo pochi secondi una graziosissima fata si affacciò alla porta, quasi stupita di ricevere visite.
    “Ciao Pitia! Come mai da queste parti?”
    “Ti ho portato qualcuno: Siria, lei è Cora.”
    Le due fatine si guardarono incuriosite, e si salutarono educatamente. Poi però si voltarono verso Pitia, senza capire: perché la Fata della Parola aveva voluto farle incontrare?
    “Sentite, mi è venuta un’idea: Cora non può volare perché appena batte le ali produce un gran rumore, per lo più fastidioso per le altre fate; Siria invece non può volare, perché è nata senza ali, e quindi anche lei non ha una musica che la contraddistingue.”
    Solo in quel momento Cora notò che Siria effettivamente non aveva ali. Si dispiacque moltissimo per lei, e le lanciò uno sguardo carico di simpatia, cui lei rispose con un timido sorriso.
    “Mi è venuta in mente un’antica formula magica capace di legare gli opposti per creare un’ Unione Perfetta. Vorrei provarla con voi! Non capite? Se tu, Cora, produci rumore, e tu, Siria, non sei in grado di emettere nessun suono, insieme potreste creare qualcosa di unico e perfetto!”
    Le due fatine parvero riflettere per un attimo, ma appena capirono le intenzioni di Pitia i loro visini s’illuminarono all’istante! Si presero per mano e dichiararono:
    “Siamo pronte!”
    Pitia si schiarì la voce, sollevò le braccia ed esclamò solenne:
    “Ciò che è chiaro non è scuro,
    ciò che è grande non è piccolo,
    ciò che è alto non è basso;
    ma se guardi con il cuore
    scoprirai senza timore
    che non c’è ombra senza luce
    e non c’è Luna senza Sole.”
    Ci fu un gran bagliore, che avvolse le due fatine, e poi svanì, senza lasciare traccia. Cora e Siria si guardarono incerte, poi fissarono Pitia. Siria chiese titubante:
    “Dovrebbe capitare qualcosa?”
    La Fata della Parola sorrise e rispose:
    “Perché non provate a volare?”
    “Ma io non ho ali!”
    “E io faccio troppo rumore!”
    Pitia scosse una mano con noncuranza ed esclamò:
    “Vi basterà tenervi per mano. Coraggio!”
    Cora e Siria si strinsero la mano, saltarono… e riuscirono a spiccare il volo! Cora notò con gioia che il suo rumore, regolato dal silenzio di Siria, non era più così assordante, era anzi quasi piacevole, e Siria si accorse che grazie alle ali di Cora poteva volare anche lei! Un’unione perfetta!
    Così anche Cora e Siria poterono prendere parte ai preparativi per la Grande Festa, e poterono volare a piacere in giro per la Valle, senza disturbare nessuno. Pitia le osservava felice, soddisfatta di essere stata utile alle due piccole, dolcissime fate. Lei, che era una Fata della Parola, riusciva a sentire nel rumore di Cora e nel silenzio di Siria ciò che per le altre fate era impossibile udire: la musica dell’amicizia.
    Quell’anno ci fu una Festa di Primavera grandiosa, come non se ne vedevano da anni! Perché finalmente nella Valle della Musica c’era spazio per tutti: per la musica, come per il rumore e il silenzio.
    Antonella Arietano
     
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  10. gheagabry
     
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    C’era una volta, in un paese lontano lontano,un gatto molto simpatico e assai saggio che governava una comunità di tutte le specie animali, cani compresi.
    Il pacioso monarca era noto al suo popolo con l’appellativo di Gatto-Maestro di pigrizia, qualità questa, tenuta in gran conto da tutte le creature di quel posto incantato.
    All’inizio di ogni anno nel regno della Fattoria- perché così si chiamava quel luogo dove cavalli e topi giocavano a tre-sette con buoi e pavoni- si celebrava una grande festa in cui tutti gli animali erano tenuti a dare il meglio di sé in giochi e gare di ogni sorta.
    C’era la corsa con il sacco in cui eccelleva Arturo il canguro , il gioco della carriola in cui Dante l’elefante portava a spasso, tirandolo per la coda, Crispino il topolino e via così, di gioco in gioco, la grande festa della Fattoria portava in dono la sera ai nostri stanchi amici.
    In realtà Gatto-Maestro di Pigrizia, era tanto divertito dai giochi che fece uno speciale editto per cui “ogni giorno era da considerarsi- citiamo testualmente- come primo giorno dell’anno” e ne consegue che i giochi nel regno della Fattoria da allora non ebbero mai sosta e, si narra, continuino anche ora.
    Gioca tu che rigioco io un giorno arrivò un Uomo che, pieno di meraviglia per la vista di quello spettacoloso susseguirsi dei giochi, chiese (con assai poco garbo) di potervi partecipare.
    Il regale Micio- esaurito uno dei compiti che più assillavano il suo regnare che noi potremmo tradurre efficacemente con “fare un grande, enorme sbadiglio”- nella sua infinita bontà, rispose all’ospite umano che sì, gli era riconosciuta la possibilità di gareggiare in qualsivoglia gioco.
    L’Uomo arrivò dunque di buon mattino, si prodigò in numerosi esercizi ginnici (che suscitarono curiosità e grasse risa tra oche, scoiattoli e leprotti) e al fine si mise sulla linea di partenza della prima gara: la corsa con il sacco. Appena Rino il maialino diede il segnale di via l’Uomo si mosse nel sacco con tutta la forza che aveva in corpo, sgraziato certo, ma determinato ad arrivare fino infondo. Ruzzolò un paio di volte, si rialzò e capitombolò ancora e dopo qualche minuto di siffatti tentativi, trovò un equilibrio precario e arrivò alla meta. Alzati gli occhi, scossa la polvere dal sacco, si rese conto d’essere giunto ultimo. Arturo il canguro si stava già gustando il succo d’arancia (i canguri vanno pazzi per i succhi d’arancia) ma anche Trovatello l’agnello e tutti gli altri animali in gara erano abbondantemente già giunti al traguardo. L’Uomo non si perse d’animo e passò alla seconda gara: il gioco della carriola. Il gioco come saprete, consiste nello spingere un compagno per un tratto non tanto lungo e arrivare di gran carriera all’arrivo. All’Uomo mancava quindi un compare che gli venne immediatamente sorteggiato e sfortuna volle che Pippo l’ippopotamo fosse quanto la sorte tenne in serbo per il nostro sfortunato ometto. Pippo era noto in tutta la Fattoria per non essere grande amante della fatica e aveva chiarito da subito che lui mai e poi mai avrebbe spinto nessuno, animale, vegetale o minerale che fosse! L’Uomo si mise di buzzo buono per spingere Pippo fino alla fine della gara ma con scarsi risultati. Dante e Crispino erano da tempo arrivati vincitori e come nella precedente competizione anche in questa l’Uomo si piazzò buon ultimo. Anche le altre gare videro l’Uomo arrivare ultimissimo: Cinzia la scimmia vinse la gara d’arrampicata, Raffa la giraffa sbancò all’albero della cuccagna e ad ogni gara l’Uomo aumentava le imprecazioni e le arrabbiature. Le oche, i polli e persino il porcospino (che di carattere era un po’ scontroso) fecero di tutto per rincuorare l’Uomo che però non si capacitava di come non fosse riuscito, nemmeno di lontano, a vincere un mezzo, singolo, misero gioco. Alla fine della giornata Gatto-Maestro in Pigrizia si complimentò, come peraltro sempre avveniva, con tutti i partecipanti e tra un bocconcino d’aringa e una grattatina, diede inizio al banchetto per i festeggiamenti della sera.
    Ma l’Uomo, indispettito, protestò con veemenza per le tante sconfitte patite colà quel giorno e con tono di grande sfida disse che se ne andava per costruire un mondo dove lui e soltanto lui era il padrone di tutte le cose, un mondo dove gli animali fossero relegati ai mestieri più umili senza più giochi né banchetti, né feste.
    Gatto-Maestro di Pigrizia e il resto della Fattoria guardarono l’Uomo allontanarsi furente e nulla poterono fare per trattenerlo. Tentarono di convincere l’Uomo che dopo tutto quella vita che conducevano era più felice se presa come un gioco, che non contava poi molto vincere e che il banchetto l’avrebbe convinto a restare... ma lui niente, non ne volle sapere, girò le spalle e scomparve all’orizzonte.
    Ed è un gran Peccato miei piccoli lettori che Gatto-Maestro di Pigrizia e gli altri, non siano riusciti a convincerlo...perché quel mondo che l'Uomo volle costruire -senza giochi, feste e banchetti- altri non è che il mondo in cui oggi noi tutti viviamo.
     
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    grazie special ghea...
     
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    Sul mare-oceano, sull'isola di Bujan, c'era una volta una piccola casetta, un' izba decrepita. In questa izba vivevano un vecchio con la sua vecchietta. Vivevano in grande povertà: il vecchio fabbricava le reti e andava al mare per prendere i pesci. Ne prendeva solo quanto ne bastava per il vitto quotidiano.
    Una volta, chissà come, il vecchio gettò la sua rete, cominciò a tirare e si accorse che era molto pesante, come mai gli era capitato.
    Tira e tira, riuscì a tirar fuori la rete. Guardò: la rete era vuota; c’era in tutto un pesciolino, ma non un semplice pesciolino: era un pesciolino tutto d’oro.
    Il pesciolino pregò il vecchio con voce umana: “Non prendermi, vecchietto! E’ meglio se mi lasci andare nel mare azzurro; io ti sarò riconoscente: farò quello che vorrai”.
    Il vecchio pensò e ripensò, poi disse: « Che bisogno ho di te? Va’ pure a passeggio nel tuo mare!».
    Gettò il pesciolino d’oro nel mare e tornò a casa.
    La vecchia gli chiese: “ Hai preso molti pesci, vecchio?”
    “In tutto ho preso solo un pesciolino d’oro, ma l'ho ributtato in mare. Mi pregò con insistenza. Lasciami andare, mi disse, nell’azzurro mare ed io ti ricompenserò, farò tutto quello che vorrai! Ho avuto compassione del pesce, non ho voluto da lui un riscatto ma l’ho lasciato libero a sua volontà”
    “ Vecchio demonio! Ti era capitata tra le mani una vera fortuna e tu non hai saputo prenderla.”
    La vecchia si incattivì, insultò il vecchio da mattina a sera, non lo lasciò in pace:
    “Dovevi chiedergli almeno un po’ di pane. Qui abbiamo solo delle croste secche: che mangerai?”.
    Il vecchio non si trattenne, andò dal pesciolino d'oro per chiedergli del pane.
    Arrivò alla riva, e gridò con voce forte:
    “Pesciolino, pesciolino! Mettiti con la coda in mare e con la testa verso di me”.
    Il pesciolino nuotò a riva: “Di che cosa hai bisogno, vecchio?” .
    “La vecchia si è arrabbiata, mi ha mandato a chiedere del pane.”
    “Torna a casa: ci sarà del pane fin che ne vuoi”.
    Il vecchio tornò a casa: “E allora, vecchia, c'e il pane?”.
    “Di pane ce n'e finchè vuoi. Ma ecco il guaio. Il mastello si è rotto, e non so dove lavare la biancheria. Va' dal pesciolino e chiedigli un nuovo mastello.”
    Il vecchio andò al mare: “Pesciolino, pesciolino! Mettiti con la coda in mare e con la testa verso di me”.
    Il pesciolino arrivò: “Che vuoi vecchio?” .
    “La vecchia mi ha mandato per chiedere un nuovo mastello.”
    “Bene, avrai il mastello”.
    Il vecchio tornò a casa, stava ancora sulla porta, che la vecchia di nuovo si gettò contro di lui, lo investì gridando “Va dal pesce d'oro, chiedigli di costruirci una nuova izba, non si può più vivere nella nostra, appena la guardi va in pezzi!”
    E il vecchio tornò sul mare: “Pesciolino, pesciolino! Mettiti con la coda in mare e con la testa verso di me!”.
    Il pesciolino arrivò nuotando, si mise con la testa verso di lui e la coda in mare. “Che cosa vuoi, vecchio?”.
    “Costruisci per noi una nuova izba; la vecchia si lamenta e grida, non mi lascia in pace; non voglio, dice, vivere più in questa izba vecchia, appena la guardi, va in pezzi!”
    “Non rattristarti, vecchio! Va' a casa, e prega Dio. Tutto sarà fatto.”
    Tornò il vecchio. Nel suo cortile c’è una izba nuova, di legno di quercia, tutta con trafori e ornamenti.
    Gli corre incontro la vecchia, arrabbiata più di prima, impreca e litiga più di prima:
    “Ah tu, vecchio cane, imbecille! Non sei capace di servirti della fortuna. Ti ho chiesto un'izba, e tu, ecco, sarà fatto! No, invece! Va' di nuovo dal pesce d'oro e digli che io non voglio più essere contadina, ma moglie del governatore, in modo che la gente mi obbedisca, e quando le persone mi incontrano mi facciano l’inchino fino alla cintola!”.
    Andò il vecchio al mare e gridò con grossa voce: “Pesciolino, pesciolino! Mettiti con la coda in mare e con la testa verso di me.”
    Nuotò a riva il pesciolino, si mise con la coda in mare e la testa verso il vecchio: “Che cosa vuoi, vecchio?” .
    Rispose il vecchio: “La vecchia non mi dà pace, è del tutto impazzita. Non vuole essere più contadina, ma moglie del governatore!”.
    “Bene, non affliggerti! Torna a casa, prega Dio, tutto sarà fatto!”
    Tornò a casa il vecchio, e invece dell'izba adesso c'è una casa di pietra, una casa di tre piani.Nel cortile i servitori corrono di qua e di là, in cucina i cuochi battono e lavorano, la vecchia in un prezioso abito di broccato sta seduta su un'alta poltrona e dà ordini.
    “Salute, moglie!”, disse il vecchio.
    “Ah tu, rozzo ignorante ! Come osi chiamar me tua moglie, me, la moglie del governatore? Ehi, gente, portate questo contadinaccio nella scuderia e frustatelo quanto più potete.”
    Subito i servitori accorsero, presero il vecchio per la collottola e lo trascinarono nella scuderia. Cominciarono gli scudieri a frustarlo, e lo frustarono a tal punto che egli a mala pena poteva reggersi sulle gambe.
    Dopo di che la vecchia gli diede l' incarico di portinaio, ordinò che gli fosse data una scopa, e che pulisse il cortile. Ordinò anche che gli fosse dato da mangiare a da bere in cucina.
    Mala vita per il vecchietto! Per tutto il giorno deve scopare il cortile, e non appena trovano che c’è qualche punto non pulito bene, subito nella scuderia, e giù frustate!
    “Che strega!” pensa il Vecchio. "Ha avuto una fortuna, e adesso si mette a grufolare come un porco, e non mi considera più neppure suo marito!"
    Passò molto tempo, poco tempo, la vecchia si annoiò di essere moglie del governatore e, fece chiamare il vecchio, e gli ordinò:
    “Va', vecchio demonio, dal pesciolino d'oro, e digli che non voglio più essere moglie di governatore, ma zarina!”
    Andò il vecchio al mare: “Pesciolino, pesciolino! Mettiti con la coda in mare e con la testa verso di me”.
    Arrivò il pesciolino d'oro nuotando: “Di che cosa hai bisogno, vecchio?”
    “Ecco, mia moglie è del tutto impazzita, più di prima. Non si contenta più di essere la moglie del governatore, adesso vuole essere zarina.”
    “Non affliggerti, vecchio! Va' a casa, e prega Dio. Tutto sarà fatto.”
    Il vecchio tornò a casa e invece del palazzo di prima trovò un alto palazzo dal tetto d' oro, con intorno le sentinelle che fanno il presentat'arm. Davanti al palazzo c'è un verde prato. Nel prato ci sono i soldati, in fila. La vecchia è vestita da zarina, viene fuori sul balcone con i generali e i boiari, e fa la rassegna delle truppe, sta attenta al cambio delle sentinelle. Rullano i tamburi, suona la musica, i soldati gridano “Hurrà”.
    Passò molto tempo, poco tempo, la vecchia si annoiò di essere zarina e ordinò di chiamare il vecchio, che si presentasse davanti ai suoi occhi luminosi.
    Ci fu una grande confusione, i generali si danno da fare, i boiari corrono, non sanno dove sbattere la testa: “Quale vecchio?”.
    A gran fatica riuscirono a trovarlo nel cortile delle immondizie, e lo portarono dalla regina.
    “Ascolta, vecchio demonio!” gli dice la vecchia. “Va' dal pesciolino d'oro a digli: non voglio più essere zarina, ma voglio essere la signora dei mari, in modo che tutti i mari e tutti i pesci mi ubbidiscano.”
    Il vecchio tentò di rifiutarsi, ma che vuoi farci? La zarina ti fa staccar la testa! Con il cuore stretto, andò al mare, e disse:
    «Pesciolino, pesciolino, mettiti con la coda in mare e la testa verso di me”.
    Ma il pesciolino d'oro non si vede, proprio non si vede! Il vecchio lo chiama una seconda volta. Di nuovo, niente! Lo chiama una terza volta, e a un tratto il mare si gonfia e muggisce; prima era tutto sereno, pulito, e ora tutto nero.
    I1 pesciolino nuotò a riva: “Che vuoi, vecchio?” .
    ”La vecchia è diventata ancora più pazza; non vuole più essere zarina, vuole essere la signora del mare, dominare su tutte le acque, comandare a tutti i pesci.”
    Il pesciolino d'oro non disse nulla al vecchio, si voltò e sprofondò nel mare.
    Il vecchio tornò a casa, guardò e non credette ai suoi occhi: il palazzo era come se non ci fosse mai stato, al suo posto stava la vecchia izba decrepita, e nell'izba stava seduta la vecchia, con il suo vecchio sarafan' stracciato e la testa tra le mani.
    Ritornarono a vivere come prima, il vecchio ritornò alla sua pesca in mare; solo che, per quante volte gettasse le reti in acqua, non riuscì più a prendere il pesciolino d'oro.



    Aleksandr Puskin
     
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  14. gheagabry
     
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    C'era una volta un mercante così ricco, ma così ricco, che avrebbe potuto lastricare una strada intera con le sue monete d'argento e d'oro, ma non lo faceva. Lui usava il suo denaro soltanto così: se gli usciva un soldo dalla tasca, di sicuro ce n'entravano altri venti; era fatto così, quel mercante, e così morì.
    Il figlio, che ereditò tutto quel denaro, amava vivere spensieratamente: tutte le sere andava ai balli in maschera, e usava le banconote per fare gli aquiloni, e si divertiva a far rimbalzare sullo specchio d'acqua del lago non i ciottoli tondi, ma le monete d'oro, che saltavano meglio: alla fine gli restarono soltanto quattro soldi e nessun vestito, ma soltanto un paio di babbucce e una vecchia vestaglia.
    I suoi amici non si curavano più di lui, dato che non poteva più uscire con loro nelle strade; ma uno di loro, che era il più buono, gli mandò un vecchio armadio e gli disse:
    "Mettici dentro le tue cose".
    Ma lui non aveva più niente! Allora ci entrò lui stesso.
    Era un baule molto strano. Non appena si chiudeva la serratura, esso si alzava in volo; e così anche quella volta si alzò, e passando per la cappa del camino, volo fin sopra le nuvole, lontano lontano: il fondo del baule cigolava, e lui aveva una gran paura che si rompesse: che ruzzolone avrebbe fatto! Vola che ti vola, il baule arrivò nel Paese dei Turchi.
    Quando fu arrivato nascose il baule nel bosco, sotto le foglie secche, dopodiché entro nella città: poteva permettersi di farlo, perché in Turchia tutti vanno in giro in babbucce e vestaglia, come lui.
    A un certo punto incontrò una balia con un bambino.
    "Senti un po', balia turca!", disse lui. "Sai dirmi cos'è quel palazzo vicino alla città, con finestre così alte?"
    "Lassù abita la figlia del re", rispose la balia. "Le fu predetto che sarebbe stata infelice per causa di un fidanzato: perciò nessuno al mondo può avvicinarla, a meno che non sia accompagnato dal re e dalla regina".
    "Molte grazie", disse il figlio del mercante, e ritornò nel bosco. Quando fu arrivato entrò nel baule, volò sopra il tetto del palazzo ed entrò da una finestra proprio nella stanza della principessa.
    Lei era distesa su un sofà, e dormiva: era così bella che il figlio del mercante dovette darle un bacio; ella si svegliò spaventatissima, ma lui le disse che era il Dio dei turchi in persona. E che era disceso dal cielo per incontrarla: la cosa le fece molto piacere.
    Allora si misero a sedere l'uno di fianco all'altro, ed egli le raccontò favole sui suoi occhi: diceva che erano due laghi oscuri e splendidi, che i pensieri ci nuotavano come sirene, e la sua fronte era un monte di neve con meravigliose camere e splendidi quadri; e le raccontava anche della cicogna, che porta i cari bambini. Che belle fiabe che raccontava! Finché lui non chiese la sua mano, e lei gli rispose di sì.
    "Se vieni a trovarmi sabato prossimo", disse lei, "il re e la regina saranno qui a prendere il tè! Senz'altro si sentiranno molto lusingati del fatto che io sposo il Dio dei turchi. Però tu dovresti inventare una favola che sia davvero molto bella, perché i miei genitori ci tengono assai: mia madre le vuole con la morale, secondo la tradizione; mio padre invece le preferisce buffe, perché gli piace ridere.
    "D'accordo, in dono alla mia sposa porterò una fiaba", disse lui, e così si separarono. Prima però la principessa gli fece dono di una scimitarra tutta tempestata di monete d'oro, che gli garbava assai.
    Una volta uscito dal palazzo, volò a comprarsi una vestaglia nuova, e poi rientrò nel bosco. Qui si mise a sedere e cercò di pensare a una fiaba: doveva averne una pronta per sabato, il che non era per niente facile.
    Finché un giorno la fiaba fu pronta, ed era proprio sabato.
    Il re e la regina, con tutta la corte, lo aspettavano nella camera della principessa bevendo il tè, e lo accolsero con molta gentilezza.
    "Allora, ci vuole raccontare una fiaba?", disse la regina, "Ma che sia profonda e istruttiva!"
    "Però deve fare anche ridere", disse il re.
    "Senz'altro!", rispose lui, e cominciò a raccontare. Adesso bisogna fare molta attenzione.


    "C'era una volta un pacchetto di fiammiferi, i quali appartenevano a una famiglia nobile, e ne andavano molto orgogliosi: il loro albero genealogico era un vecchio e maestoso albero nella foresta. Adesso i fiammiferi stavano sulla mensola, tra un acciarino e una vecchia pentola di ferro, ed era a loro che essi raccontavano la loro giovinezza:
    "Allora", dicevano, "al tempo dei nostri verdi anni, stavamo proprio sopra un albero verde! Ogni alba e ogni tramonto ci veniva servito il tè di diamanti, cioè la rugiada, e per tutto il giorno avevamo i raggi del sole, perché il sole splendeva, e tutti gli uccelli del bosco venivano a raccontarci delle storie. Noi sapevamo bene di essere ricchi, perché gli altri alberi erano vestiti soltanto nei mesi d'estate, mentre la nostra famiglia poteva permettersi verdi vestiti d'estate e d'inverno. Ma poi arrivarono dei boscaioli, vi fu una grande rivoluzione, e la nostra famiglia andò perduta. Il tronco principale del casato trovò posto come albero maestro su una bellissima nave, che se voleva poteva fare il giro del mondo; gli altri rami andarono chi di qua, chi di là, e a noi fu dato l'incarico di accendere la luce per la plebaglia; è solo per questo motivo che gente nobile come noi è venuta a stare qui in cucina!"
    "A me le cose sono andate in un modo diverso", disse la pentola in ferro accanto ai fiammiferi. "Dal giorno che sono venuto al mondo, mi hanno bollito e raschiato tante volte! A me tocca di occuparmi di cose concrete, e diciamo la verità, la più importante della casa sono io. Il mio unico piacere è stare sulla mensola, dopo il pranzo, ben lavata e risplendente, a conservare con garbo coi compagni, anche se, a parte il secchio dell'acqua che ogni tanto dà un'occhiata al cortile, noi siamo tutta gente casalinga. L'unica a portarci un po' di notizie da fuori è la sporta, ma è quella è sempre così agitata quando ci parla di popolo e di governo, perché è una democratica; si figuri, l'altro giorno dallo spavento una vecchia pentola è caduta sul pavimento e si è rotta!"
    "Basta, stai chiacchierando troppo", disse l'acciarino, e batté sulla pietra focaia, sprizzando scintille. "Non sarebbe ora di organizzare una serata divertente?"
    "Perché non discutiamo di chi tra di noi è il più distinto?", dissero i fiammiferi.
    "Meglio di no", disse la pentola, "non mi piace parlare di me; perché invece non organizziamo un veglione come si deve? Posso cominciare io: vi racconterò una storia che ciascuno di noi ha vissuto: è così utile approfondire le proprie esperienze! Ed è anche molto divertente! Dunque: sulle sponde del mar Baltico, all'ombra dei faggi di Danimarca...".
    "Che bell'inizio", dissero i piattini in coro, "questa storia ci piacerà senz'altro!"
    "È laggiù che ho passato la mia giovinezza, presso una famiglia tranquilla. I mobili venivano sempre spolverati, il pavimento tirato a lucido, e ogni quindici giorni si cambiavano le tendine..."
    "Com'è interessante questa storia", disse il piumino; "si capisce subito che chi parla è una signora; dalle sue parole spira un'aria così pulita!"
    "Proprio così!", disse il secchio dell'acqua, e dalla gioia fece un tal balzo che l'acqua si rovesciò sul pavimento.
    Ma la pentola continuò a raccontare: e la fine non fu meno bella del principio.
    Tutti i piatti tintinnavano dalla gioia; il piumino raccolse del prezzemolo verde dal secchio della sabbia e incoronò la pentola, perché sapeva che questo avrebbe fatto rabbia a gli altri. "E poi", pensava dentro di sé, "se io la incorono oggi, domani sarà lei a incoronare me".
    "Adesso vogliamo ballare!", dissero le molle del focolare, e ballarono: Dio, mio, quanto alzavano le gambe! La vecchia fodera della sedia nell'angolo si sbellicava a guardarle. "E adesso, possiamo essere incoronate anche noi?", chiesero. E anche loro furono incoronate.
    "Dio mio! Dopo tutto non è che plebaglia!", pensavano i fiammiferi. Ora toccava alla teiera a cantare, ma si sentiva un po' raffreddata, disse, non poteva mica cantare se non era sul punto di bollire; ma la verità è che le piaceva cantare soltanto a tavola, tra gli invitati.
    Vicino alla finestra c'era una vecchia penna d'oca, che la cuoca usava sempre per fare i conti; in lei non c'era nulla che richiamasse l'attenzione, a parte il fatto che lei era sempre troppo immersa nel suo calamaio, e ne andava anche orgogliosa. "La teiera non vuol cantare?" sbottò lei, "Bene; qui fuori nella gabbia c'è un usignolo: lui sì che sa cantare. Lei invece non ha mai imparato nulla... ma forse stasera non vogliamo sparlare di nessuno!" "Trovo molto sconveniente", disse il bollitore, che amava cantare in cucina, ed era fratellastro della teiera", dover ascoltare un uccello estraneo di quel genere. Vi sembra patriottico? La sporta cosa ne pensa?"
    "Io non posso che friggere dalla rabbia!", disse la sporta, " non potete immaginare quanto sia arrabbiata! Vi pare il modo di trascorrere una serata? Non sarebbe meglio mettere un po' in ordine la casa? Ognuno allora dovrebbe mettersi al proprio posto, e io dovrei dirigere tutti quanti. Questo sì che sarebbe diverso"..
    "Sì, sì, facciamo baccano", dissero tutti quanti. In quel momento la porta si spalancò. Era la domestica, e tutti si misero fermi, nessuno aprì bocca; ma non c'era una sola pentola che non si sentisse molto distinta e che non fosse ben conscia delle sue capacità. "Ah! Se avessi voluto", pensava ognuna di loro, "sarebbe stata davvero una serata divertente".
    La cameriera prese i fiammiferi e accese il fuoco. Mamma mia, come bruciavano! Che fiamme!
    "Adesso sì", pensavano, "Che tutti possono vedere chi sono i più importanti! Che splendore, che luce abbiamo noi!..." ed erano già consumati".


    "Che bella fiaba", disse la regina, "mi sembrava proprio di essere in cucina, vicino ai fiammiferi! Ora ti daremo in sposa nostra figlia".
    "Certo", disse il re, "la sposerai lunedì stesso!", perché gli davano del tu, dal momento che ormai faceva parte della famiglia.
    Furono fissate le nozze, e la sera della vigilia tutta la città fu illuminata; volavano per l'aria ciambelline e maritozzi; i bambini per strada si alzavano sulla punta dei piedi per afferrarle, e gridavano: "Urrà", e fischiavano con le dita; era uno spettacolo straordinario.
    "Eh sì, anch'io forse dovrei fare qualcosa!", pensò il figlio del mercante; e comprò fuochi artificiali, petardi e tutto il resto, li mise nel baule e si alzò in volo.
    Che spettacolo! Che botti!
    Tutti i turchi, a ogni botto, saltavano così in alto che le loro babbucce sfioravano le orecchie; non si era mai visto uno spettacolo del genere. Ora sì che era chiaro che quello era proprio il Dio dei turchi, lo sposo promesso della principessa.
    Quando il figlio del mercante fu ridisceso nel bosco, pensò:
    "Mi piacerebbe ora recarmi in città e sentire che impressione ho fatto!" E in fondo era normale che desiderasse una cosa del genere.
    Mamma mia, le cose che la gente non diceva! Tutti quelli a cui domandava dicevano una cosa diversa, ma erano d'accordo: era stato straordinario.
    "Io ho visto il Dio dei turchi in carne e ossa", gridava uno; "Aveva gli occhi come stelle brillanti, e una barba come acqua spumeggiante".
    "Volava su un tappeto di fuoco", diceva un altro; "e bellissimi angeli uscivano fuori dalle pieghe!"
    Oh, quante belle cose sentiva dire sul suo conto! E il giorno dopo si sarebbe sposato.
    Allora ritornò nel bosco, per rimettersi nel baule, ma dove mai si era messo quel baule? Era bruciato! Una scintilla dei fuochi artificiali c'era caduta dentro, poi il fuoco si era propagato, e così il baule era ridotto in cenere. Ora non poteva più volare, né tornare dalla sua fidanzata.
    Lei rimase tutto il giorno sul tetto ad aspettare; e sta ancora aspettando, mentre egli gira il mondo e racconta le sue fiabe: ma non sono più così allegre come quella che raccontò sui fiammiferi.
    Che gente strana


    di Hans Christian Andersen
     
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  15. tomiva57
     
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    GRAZIE GABRY

    Favole della buona notte


    Favole della buona notte"Se volete che vostro figlio sia intelligente, raccontategli una fiaba; se volete che sia molto intelligente, raccontategliene di più." (Albert Einstein).
    La favola per il bimbo una specie di gioco che illumina il mondo e lo aiuta a crescere in maniera equilibrata trovando il significato e le giuste motivazioni del vivere quotidiano.
    Esse contengono dei messaggi importanti: infatti, all'interno di ogni racconto vi sono percorsi di vita accompagnati da difficoltà, contrarietà, ingiustizie che il protagonista riesce a superare con l'intelligenza e il coraggio.
    I genitori facciano attenzione a far comprendere bene il linguaggio delle fiabe in quanto esse aiutano a proiettere all'esterno le paure e le emozioni che il bambino ha dentro.



    Favole della buona notte



    IL CHICCO DI GRANO


    C'era una volta un chicco di grano. Mentre lo trasportavano in un grosso sacco di tela con i suoi fratelli, era scivolato fuori da un minuscolo buchetto ed era atterrato su una strada polverosa, tra i sassi.
    Una strana creatura nera con lunghe penne lucenti sulle ali, lo aveva prelevato per portarlo nella sua tana, sull'albero più alto del campo lì vicino.
    Mentre volava tra le zampe del corvo, era riuscito a fuggire tra un'unghia ed un polpastrello, atterrando nel mezzo del campo. La soffice terra bruna lo aveva accolto, dandogli il rifugio ed il calore di cui aveva bisogno per calmare i timori e lenire la tristezza dell'improvviso atterraggio tra le pietre.
    Dov'erano i suoi fratelli? Loro, tutti insieme, avrebbero continuato a ridere e cantare come prima dell'inizio del suo viaggio solitario mentre lui, in quel pur comodo nido, che fine avrebbe fatto? Tutto preso dai suoi pensieri, quasi non si accorse di un piccolo schianto quando, tutto ad un tratto, gli spuntarono delle piccole cose sotto; come dei piccoli fili.
    Mentre era ancora intento a meravigliarsi della novità, quelle strane protuberanze cominciarono a muoversi nella terra, come animate da vita propria.Spaventato, cercò di fermarle, ma quelle non gli diedero retta, e continuarono a penetrare la terra.
    D'improvviso un grande piacere sconvolse il piccolo chicco, che sentì fluire in sé la linfa, veicolata dalle radici fino alla parte più profonda del suo essere, quella che non sapeva di possedere.
    Un improvviso respiro gli gonfiò il corpo, frantumandogli l'armatura; e così il chicco si trovò libero, avvolto nel nero che lo sfiorava, inducendolo a crescere sempre più.Così, dal desiderio che provava, spuntarono le ali, che lo condussero fuori dal terreno, oltre la superficie del campo, su nel cielo.
    E sotto di sé, il chicco mai più triste, vide la sua trasformazione definitiva in fusto, foglie e poi spiga colma di chicchi come lui.
    Ecco, senza l'iniziale ruzzolone sulla strada polverosa, senza la perdita dei suoi fratelli, senza il corvo dalle lunghe ali lucenti e dalle unghie ricurve, il chicco non avrebbe sentito il respiro della terra che lo aveva spinto fin lassù e non avrebbe saputo che crescere significa provare paura e tristezza, ma anche amore, desiderio e piacere.




    MEMORIE DI UN ALLIENO



    E' strano come in certi momenti tutta la tua vita riesca a passarti davanti all'occhio. Forse non proprio tutta, ma solo quella frazione che ti ha portato ad essere quello che sei; di solito sono errori, cose di cui ti penti, che avresti fatto in un altro modo, e ti trovi a desiderare di avere una seconda possibilit…, perch‚ adesso ti sembra possibile.
    Adesso a un minuto alla fine della tua vita, ti sembra possibile, concreta e tangibile la possibilità di poter diventare un essere migliore. Ma il tuo tempo è scaduto e l'unica speranza che ti rimane è quella di far tesoro delle peggiori azioni che hai commesso, per non ripeterle la prossima volta... sempre che ci sia una prossima volta.
    Rivedo i miei genitori, rivivo il loro amore. Amore che forse non mi sono mai meritato. Tutto, tutto quello che vorrei avere la possibilità di rivivere in modo diverso, è iniziato il giorno in cui mi diplomai...
    "Chip", mi disse la mamma, "lo sai che non versiamo in condizioni economiche invidiabili. Quindi, non abbiamo potuto mantenere la tradizione di regalarti per questo giorno speciale la galassia che tanto desideravi. Però, ci sarebbe il pianeta Aseter...".
    Conoscevo la situazione drammatica delle nostre finanze, tutta via ero rimasto un po' deluso.
    Io le promesse le mantengo sempre, loro no. Tuttavia accettai il loro dono e dopo neanche 2 anni luce, mi trasferii nella mia nuova dimora. Forse avevo giudicato troppo in fretta i miei, il pianeta era davvero bello, piccolo, intimo e soprattutto tutto e solo mio. I primi tempi furono davvero superlativi. Potevo fare tutto ciò che volevo, senza sentire i rimproveri di nessuno, ma presto la noia prese il sopravvento.
    Io, solo e sempre io! Certo, telefonavo alla mamma, papà passava a trovarmi, ma mi sentivo molto solo lo stesso. I pianeti vicino al mio erano disabitati, se finivo lo zucchero dovevo montare sulla macchina a reazione nucleare e percorrere più di due costellazioni, due e mezzo per la precisione, prima di trovare un pianeta abitato. Non ero io che abitavo fuori mano, è che nello spazio c'è così tanto spazio che è veramente difficile avere dei dirimpettai. Soffrivo di una solitudine cosmica. Dovevo trovare una soluzione.
    Avevo sentito di un tizio che riusciva a penetrare i sogni di chiunque e con loro viveva fantastiche avventure. Io non avevo quella capacità straordinaria, ma iniziavo ad avere un'idea di come potevo risolvere il mio problema.
    Sapevo che in un pianeta lontano dal mio di almeno 14352 galassie esistevano degli esseri, gli uomini, che non credevano alla vita su altri pianeti - non tutti almeno - , avrei potuto lavorare in incognito. Così comprai tutti i Cd-Rom che trattavano l'argomento e cominciai a studiare i comportamenti umani, affascinato e sconvolto da tanta stupidità! Sembrava facile introdursi tra loro, ma c'era un grosso problema da risolvere: il mio aspetto. Ero verde, con un solo occhio e due grosse antenne sulla testa sproporzionata. Ritenevo impossibile vivere tra di loro, si sarebbero sicuramente accorti della differenza tra di noi, non avevo dubbi in proposito! La popolazione era quella giusta, io dovevo solo stendere un piano efficace per avere un po' di compagnia.
    La risposta arrivò in sogno, un po' influenzato, forse, dal personaggio che mi aveva ispirato.
    L'unico modo per non stare più da solo sul mio pianeta non era trasferirmi personalmente, ma trasferire loro. E se non volevano? Non gli avrei chiesto il permesso!!!
    Iniziai con questo piano, senza sapere bene cosa fare. Per prima cosa decisi di fare un sopralluogo, per capire un po' come vivevano quelle strane creature. Per dieci giorni consecutivi montai sulla mia macchina a reazione nucleare e osservai gli uomini, prendendo appunti e studiandoli a casa.
    Capii subito che i bersagli più facili sarebbero stati i bambini. Iniziò così la mia carriera di rapitore, il Cavaliere Verde che rapiva e poi riconsegnava alle famiglie i pargoli. La cosa stravagante era che questi bimbi non si stupivano affatto del mio aspetto, in realtà vedendo i loro giochi nelle camerette capivo bene anche il perchè. Io ero decisamente più bello dei loro pupazzi, nonostante il mio occhio singolo e la mia pelle verde.
    Fu così che conobbi Laura, una bimba dagli occhioni azzurri e i capelli biondi. Mi raccontò favole meravigliose che io non conoscevo. Stava bene con me, ma dopo un po' iniziò a chiedere della mamma. Ogni giorno era sempre più triste e io sempre più nervoso, infine la riportai a casa sua, ma io non tornai sul mio pianeta con le mani palmate vuote.
    Tornò con me Riccardo che mi parlò degli orchetti, dei troll, delle epopee fantasy. Il genere non era quello che più mi attraeva, ma il suo entusiasmo era contagioso. Era sempre così allegro e pieno di iniziative, cosa decisamente in contrasto con il mio carattere.
    Lo riportai a casa per la disperazione, la solitudine era terribile, ma molto meglio del sovarccarico emotivo.
    Mi sembrava di aver risolto totalmente il mio problema, ma alla fine di ogni incontro i miei giovani ospiti volevano tornare a casa loro. Nessuno voleva stare con me. Era questa la realtà.
    Rapii mille e più bambini, ma il finale si ripeteva sempre e io mi sentivo disperato. Talvolta alcuni di loro si ricordavano di me e mi scrivevano lunghe letterine colme d'affetto, ma io ero comunque destinato a stare solo. Fu durante uno dei miei giri di ricognizione sulla terra, mentre meditavo un nuovo rapimento che scoprii di avere un cuore. Non volevo rapire più nessun bambino, loro dovevano stare a casa con i loro genitori e io sarei rimasto solo con il loro ricordo. Passai a salutare tutti i miei giovani amici. Mi abbracciarono e mi baciarono tutti.
    Quando andai da Riccardo, lui mi diede una letterina. "Leggila quando sarai arrivato a casa, e rispondimi se ti è possibile!". Fu il nostro ultimo incontro, avvenuto non più di tardi di due giorni fa.
    Appena arrivato a casa aprii la busta. La lettera era scritta in stampatello da un bambino che non conosce ancora bene la differenza tra le lettere:
    Caro Chip, grazie per avermi portato via con te. Sono stato bene, ti voio bene. Ieri ho sentito la mamma piangere, io sono corso da lei e mi ha detto che è troppo tardi, che ora è finito tutto.
    Non ho capito bene, ma diceva qualcosa sul sole, che si spegne.
    Puoi aiutarmi tu a capire?
    Un bacio
    Richi.
    Non avevo capito bene il suo discorso, forse perchè‚ anche lui non lo aveva capito affatto, ma mi misi subito il collegamento con la base stellare dell'energia gratuita. "Sì, signor Chip, il sole si spegnerà tra 36 ore." fu la risposta alle mie domande. "Scusi colonnello, se la disturbo ancora, ma la popolazione della terra?". "La terra morirà con tutti i suoi abitanti." e interruppe il collegamento.
    I miei bambini moriranno? Non riuscivo a cancellare questa domanda dal mio cuore, guardavo il mio pianeta e mi spremevo le meningi per trovare una soluzione...
    Avevo la risposta, dopo qualche ora, avevo la risposta. Andai a trovare i miei genitori, li baciai e dissi loro che mi sarei trasferito in un altro posto e che non sarei più tornato. Mamma piangeva, papà aveva le lacrime agli occhi. "Papà," gli chiesi "mi presti il tuo trasportatore planetario?". "Certo, Chip, ma sei veramente convinto?". "Si papà, grazie di tutto a tutti e due!".
    Agganciai il mio pianeta al gancio traino del trasportatore di papà e iniziai il mio viaggio.
    Raggiunsi in fretta il sole. Programmai il trasportatore in modo che tornasse dai miei genitori evitando buchi neri e meteoriti e misi una lettera sul sedile, dove spiegavo a loro il motivo della mia scelta e il mio vero obiettivo. Poi salii sulla mia macchina a reazione nucleare e mi allontanai dal mio pianeta. Quando lo vidi piccolo piccolo, ingranai la marcia e mi precipitai a velocità supersonica verso di esso.
    E adesso sono qui, a poche decine di metri dal mio pianeta e procedo con una velocità al limite delle capacità della mia vettura. Tra poco ci sarà lo schianto, spero solo che funzioni e che ripari al male che ho fatto a tutti quelli che amavo. Ciao!
    Un'esplosione e la vettura di Chip si perse nel suo pianeta in fiamme.
    E fu così, che per amore, nacque un nuovo sole!
     
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