L'ODISSEA

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  1. gheagabry
     
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    LE SIRENE




    Le Sirene (dal latino tardo sirena - pl.: sirenae; derivato dal greco Σειρήν seirēn - pl.: Σειρῆνες seirēnes) sono delle figure mitologico-religiose greco-romane.
    L'origine letteraria della figura delle Sirene è nell'Odissea di Omero dove vengono presentate come cantatrici marine abitanti un'isola presso Scilla e Cariddi, le quali incantavano, facendo poi morire, i marinai che incautamente vi sbarcavano. Odisseo, consigliato da Circe:

    « Tu arriverai, prima, delle Sirene, che tutti
    gli uomini incantano, chi arriva da loro.
    A colui che ignaro s'accosta e ascolta la voce
    delle Sirene, mai più la moglie e i figli bambini
    gli sono vicini, felici che a casa è tornato,
    ma le Sirene lo incantano con limpido canto,
    adagiate sul prato: intorno è un mucchio di ossa
    di uomini putridi, con la pelle che raggrinza »

    (Omero. Odissea XII, 39-46)



    Omero non descrisse l'aspetto fisico delle Sirene; a tal proposito si è presupposto che ciò sia dovuto alla consapevolezza di Omero che il proprio uditore conoscesse le forme di queste creature grazie ad altri racconti mitici come le avventure di Giasone e degli Argonauti.
    Apollonio Rodio riprende quindi la narrazione delle Sirene figlie di Acheloo (in altre fonti di Forco[4]) che, come ricorda Károly Kerényi[5], era la divinità fluviale e marina, figlia di Teti e di Oceano[6] ma che Omero[7] pose una volta davanti allo stesso Oceano "origine di tutte le cose".
    Libanio, nella Progymnasmata IV, ricorda che Eracle aveva staccato un corno al dio acquatico quando lottò con lui per conquistare l'affascinante Deianira, e dalle gocce di sangue cadute dalle ferite provocate al Dio erano nate le sue figlie, le Sirene[8].
    Un'altra tradizione, riportata da Pseudo-Apollodoro, le vuole figlie di Acheloo e di Melpomene, una delle Muse:

    « Le Sirene erano figlie di Acheloo e di una delle Muse, Melpomene; si chiamavano Pisinoe, Aglaope e Telsiepia. Una di esse suonava la cetra, la seconda cantava, la terza suonava l'aulo: con questa musica persuadevano i navigatori a fermarsi. Dalle cosce in giù esse avevano la forma di uccelli. [...] Una profezia diceva che le Sirene sarebbero morte se una nave riusciva a passare: ed esse, infatti, morirono »
    (Pseudo-Apollodoro. Epitome VII, 19-20.)





    Seirēnes (Σειρῆνες), nome plurale femminile nella antica lingua greca, nella sua forma maschile significa "vespe" o "api", è collegato quindi alla figura di Penfredo una delle Graie, le "vergini simili a cigni". I pittori vascolari rappresentavano le Sirene anche come esseri maschili con la barba, e sia se fossero di forme maschili o femminili, si può individuare la loro natura per il corpo che richiama sempre quello di un uccello (con le parti inferiori a volte a forma di uovo) con una testa umana, a volte con braccia e mammelle, quasi sempre con artigli ai piedi, artigli non aventi però la funzione del rapimento, funzione propria delle Arpie, in quanto, altra caratteristica loro fondante, le Sirene sono strettamente collegate al mondo della musica, suonando la lira o il doppio flauto e accompagnandosi col canto.
    Le Sirene sono anche onniscienti e in grado di placare i venti, forse con il loro canto, cantando le melodie dell'Ade.

    George M.A. Hanfmann ricorda che questo stretto collegamento con il mondo dei morti, testimoniato soprattutto dal fatto che fin dai tempi più antichi le loro immagini fossero a corredo delle tombe, fa supporre ad alcuni autori che le Sirene fossero in origine degli uccelli in cui trovavano dimora le anime dei defunti.
    Con la identificazione delle località omeriche, in età antica si ritenne che le Sirene abitassero l'Italia meridionale. Strabone, in Gheographikà I,22, ci dice che i popoli marinari di Napoli, Sorrento e della Sicilia, le veneravano.
    Il loro corpo, per metà donna e metà uccello sarebbe frutto di un incantesimo vendicativo da parte di Afrodite disprezzata dalle vergini Sirene per i suoi amori. Un'altra tradizione le vuole punite da Demetra per non aver impedito il ratto della figlia Persefone da parte di Ade mentre insieme coglievano dei fiori.
    Ovidio, nelle Metamorfosi, offre una spiegazione poetica alla loro natura e al loro destino: esse non furono punite da Demetra, ma le stesse Sirene chiesero di essere trasformate in uccelli per cercare in volo l'amica perduta.

    « Lui certo può essersi meritato il castigo parlando
    troppo e facendo la spia; ma voi, figlie dell'Acheloo, da da dove vengono
    piume e zampe d'uccelli, quando avete volto di donna?
    Forse perché Proserpina coglieva i fiori
    primaverili, eravate nel numero delle sue compagne,
    dotte Sirene? Dopo che inutilmente l'avete cercata per tutto il mondo,
    avete desiderato, perché il mare sentisse la vostra pena
    di potervi fermare sulle onde col remeggio delle ali,
    e avendo il conseso degli dèi, avete visto
    improvvisamente i vostri arti fiorire di penne;
    ma perché il vostro canto, nato a blandire le orecchie,
    e il tesoro della vostra bocca non perdesse l'uso
    della lingua, vi restò volto di vergini e voce umana »

    (Ovidio. Metamorfosi V, 555-563.)





    Vi sono due tradizioni apparentemente contraddittorie, quindi, su queste figure mitiche: una le vuole mortifere e dannose per gli uomini, mentre l'altra le indica come consolatrici per gli stessi rispetto al proprio destino e, soprattutto, alla morte. Da notare, tuttavia, che nel primo caso nulla indica una loro natura volutamente crudele, bensì è il loro destino e la loro funzione di cantatrici/incantatrici ad essere disastroso per gli uomini.
    Ma 'cosa' cantano le Sirene di così struggente e mortifero per gli esseri umani?

    « Vieni, celebre Odisseo, grande gloria degli Achei,
    e ferma la nave, perché di noi due possa udire la voce.
    Nessuno è mai passato di qui con la nera nave
    senza ascoltare con la nostra bocca il suono di miele,
    ma egli va dopo averne goduto e sapendo più cose »

    (Omero. Odissea XII, 184-8)




    « Si dice che a queste parole Odisseo abbia voluto sciogliere i vincoli che lo legavano, ma i suoi compagni lo abbiano legato ancora più saldamente. E non si potrebbe stupire di un simile effetto del canto, poiché le Sirene si presentavano con tali parole come dee oracolari onniscienti, quali forse effettivamente erano nei luoghi dove si tributava loro un culto. Non di meno però esse erano le dee della morte e dell'amore a servizio della dea degli Inferi. In un certo qual modo la dea del regno dei morti era essa stessa morta. Le Sirene servivano la morte e dovevano morire esse stessa-così diceva un racconto- se la nave passava vicino e un equipaggio non cadeva loro preda. Esse si uccisero quando Odisseo e i suoi compagni poterono salvarsi »
    (Károly Kerényi. Op.cit. pag.58)





    « E' un canto che è una promessa: se si fermerà presso di loro, se ne andrà "sapendo più cose". Le Sirene, pur consapevoli della loro voce di miele, sanno che è irresistibile, per gli uomini che arrivano a sentirla, non tanto è la dolcezza del canto, quanto il conoscere il proprio passato e sapere "ciò che accade nella terra ferace". Così è stato per tutti coloro che si sono accostati alla loro isola: si sono fermati... Sembra al di fuori delle loro intenzioni trattenere per sempre gli uomini che hanno accettato il loro invito: mentono o, incoerenza del mito che le vuole onniscienti, non sanno che il desiderio di "sapere più cose" ha portato tutti coloro che si sono fermati presso di loro per soddisfarlo a dimenticare gli affetti familiari, a trascurare tutto ciò che ha a che fare con la vita, fino a lasciarsi morire: sembrano non rendersi conto che, dal mare, si possono vedere tra i fiori, le loro ossa e loro membra imputridite... La bella voce è solo l'involucro della vera tentazione delle Sirene omeriche: "sapere più cose". E' la tentazione "originaria" dell'onniscienza. Cedere a questa tentazione, assecondare, in modo assoluto, questo desiderio porta a rompere i legami famigliari, a perdere la dimensione sociale e civile, a morire. Per questo Omero le condanna. Per questo l'eroe deve fuggirle, non deve interrompere il suo nóstos »
    (Alessandra Tarabocchia Canavero. Op.cit. pag.133)



    Nel libro XII dell’Odissea viene raccontato un famoso episodio: l’episodio nel quale Odisseo ascolta il canto delle sirene.
    A partire dal verso 153 Odisseo ripete i consigli datigli da Circe ai compagni e, quando si avvicinano all’isola dove vivono le sirene, essi le mettono in pratica: si tappano le orecchie mentre legano Odisseo all’albero della nave perché egli possa sentire il canto delle sirene senza essere attratto e finire per morire sull’isola delle sirene.
    Questo avviene in un orario che potremmo definire significativo, ossia l’ora più calda del giorno (il primo pomeriggio), perché è un momento in cui si è stanchi (i compagni di Odisseo stanno sulla barca a navigare sotto il sole cocente) e quindi in un certo senso senza qualunque difesa naturale, in questo caso contro il canto ingannevole delle sirene che attirano e poi provocano la morte di chi si fa irretire.
    In un certo senso potremmo anche dire che l’ora del calore è anche quella delle passioni amorose, che sono una parte dell’attrazione provocata dalle sirene.
    Non dobbiamo però pensare alle sirene secondo il modello medioevale che è per noi entrato nella mentalità, ma a donne con ali d’uccello, fonti d’attrazione fatale.
    Esse sono spietate seduttrici ed essendo donne fuori dall’oikos (che non indica la casa in senso solo fisico, ma anche in senso lato l’insieme di ci ci sta attorno), fa notare in un’analisi la studiosa Eva Cantarella, sono sempre pericolose: si pensi ai precedenti incontri con Circe e Calipso. Questo ha già infatti portato ad una minor fiducia da
    parte di Odisseo per le donne, che si manifesterà apertamente con Ino Leucotea (nell’opera è raccontato prima ma accadrà cronologicamente dopo).
    Inizia quindi il loro canto, definito dall’autore “armonioso”, “divino” e “suono di miele”, che vuole attrarre in tutti i modi Odisseo calcando la mano sui suoi punti deboli: gli propongono una conoscenza illimitata (si ricordi che Odisseo è l’eroe che ha la maggior curiositas, ossia l’interesse ad aumentare sempre le proprie conoscenze ed a non lasciar nulla di non sperimentato) e di cantare delle gesta a Troia (e quindi di cantare la sua lode epica, mostrando la sua kleos, la fama).
    Quando Odisseo chiede di essere slegato lo legano in modo ancora più stretto.
    Poi se ne vanno e continuano il loro viaggio di ritorno per Itaca, che vivrà però molte altre peripezie.
    Da questa vicenda e dalle altre che lo caratterizzano maggiormente si può evincere un’immagine del personaggio che è Odisseo (l’Ulisse latino): la già citata curiositas è un elemento portante della sua vita e del suo modo di vedere il mondo: un “luogo” da cui trarre sempre novità e imparare qualcosa di nuovo.
    Da qui poi deriva anche il suo desiderio di andare sempre oltre i limiti, anche quelli posti dagli dei e posti dalla sua stessa natura umana, che porterà Dante a collocarlo nel suo Inferno.
    Altri aspetti possono essere la grande fiducia nei compagni (anche dopo i vari problemi che gli hanno provocato andando oltre gli ordini suoi e divini, come nell’episodio delle vacche del Sole che non potevano essere mangiate mentre loro lo fanno) e la volontà del ritorno
    che è sempre più forte in lui di ogni altro desiderio.
    Infatti è anche questo che lo porta a farsi legare per evitare di cedere al canto delle sirene, che va contro alla sua curiositas che forse gli direbbe di provare anche ad andare dalle sirene.
    Questo episodio può inoltre essere simbolicamente visto come un’anticipazione del finale, nel quale Odisseo sarà l’unico a salvarsi e qui è l’unico ad essere in grado di resistere al canto delle sirene, infatti tappa le orecchie degli altri.
    In queste particolarità nella caratterizzazione del personaggio e in parte anche nella marginalità degli eventi e delle figure incontrate (le sirene appunto), notiamo la modernità dell’Odissea rispetto all’Iliade.




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