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Castello di Duino
Il castello di Duino si trova nel comune di Duino-Aurisina, in provincia di Trieste, nella regione Friuli-Venezia Giulia.
Di proprietà da oltre 420 anni della famiglia Della Torre, ramo Della Torre di Valsassina (von Thurn-Hofer und Valsassina) prima e dei principi della Torre e Tasso poi. Dal 2003 è - assieme al suo parco - aperto al pubblico per visite.
Dal maniero si gode un panorama sulle ripide pareti rocciose a strapiombo sul mare. Nel parco si trova un bunker utilizzato durante la seconda guerra mondiale.
La storia del casato Thurn und Taxis è legata alla gestione dei servizi postali, in quanto esercitò questa attività in diversi stati europei, tra cui Italia, Austria, Germania, Ungheria e Paesi Bassi dal 1400 in poi, per più di 350 anni.
Il castello è stato costruito sulle rovine di un avamposto romano e ingloba una torre del XVI secolo.
I resti del vecchio castello.
La sua edificazione fu voluta nel 1389 da Ugone di Duino, capitano di Trieste, in sostituzione del Castelvecchio risalente al X secolo, di cui sono ancora visibili le rovine su uno sperone roccioso a picco sul mare.
Il castello di Duino
(immagine degli anni trenta)
Alla morte di Ugone, il castello andò in eredità a Ramberto di Walsee, fratello della prima moglie, che ne curò l'ultimazione nei primi decenni del Quattrocento. Passò poi agli Asburgo che lo diedero a varie famiglie nobili tedesche e italiane e per ultima alla famiglia Hofer von Hoenfels il cui ultimo discendente, Matthaeus, morì nel 1587 lasciandolo a sua volta in eredità alle uniche due figlie femmine, Ludovika e Maria Clara Orsa.
Entrambe furono spose, una dopo la morte dell'altra, del conte Raimondo della Torre di Valsassina che assunse anche il cognome Hofer, adattato poi in lingua tedesca a von Thurn-Hofer und Valsassina. Il castello resta così ininterrottamente ai von Thurn-Hofer und Valsassina per oltre 250 anni.
Nel 1849 la contessa Theresa von Thurn-Hofer und Valsassina, ultima discendente diretta dei Della Torre di Valsassina ed erede del castello duinese, sposò il principe Egon zu Hohenlohe-Waldenburg-Schilligsfürst dal quale ebbe sei figli.
La quarta figlia, Maria, andò sposa a sua volta nel 1875 a Venezia del principe Alexander von Thurn und Taxis, a sua volta lontano discendente dei Della Torre e figlio di Hugo Maximilian del ramo boemo, portando in dote il castello.
Da loro nacque nel 1881 Alexander che ereditò a sua volta il castello; creato primo Duca di Castel Duino dal Re d'Italia Vittorio Emanuele III di Savoia, si naturalizzò italiano nel 1923 riassumendo per sé e per i suoi discendenti il cognome di Della Torre e Tasso duchi di Castel Duino, dove tutt'oggi la famiglia abita.
In quel castello lo scrittore e poeta Rainer Maria Rilke ideò e iniziò nel 1912 la composizione delle Elegie duinesi mentre era in visita dalla Principessa Maria della Torre e Tasso (nata principessa di Hohenlohe). Rilke successivamente dedicò la sua opera alla principessa, che fu una dei suoi maggiori patroni.
A ricordo dell'evento è stato intitolato al poeta anche un sentiero panoramico - il sentiero Rilke - lungo circa 2 km. Inaugurato dopo i lavori di restauro nel 1987, corre alto sul costone roccioso tra Duino e la baia di Sistiana, con splendidi scorci sulla Riserva naturale delle Falesie.
Al castello è legata la leggenda della Dama bianca, la moglie di uno dei signori del castello, da questi gettata nel mare e quindi trasformata nella roccia visibile oggi nella baia, di fronte alla costa.
Nel 2008 e 2009 il Castello di Duino è stata la sede del Premio "Città di Trieste", Alabarda d'oro.
fonte& foto: wikipedia.org
foto- davenezia.it
-mw2.google.com
- images.placesonline.com
Il Parco
Bunker del castello di Duino
Il Bunker del castello di Duino fu costruito nel 1943 per la Kriegsmarine tedesca a difesa della base di Sistiana contro un eventuale sbarco alleato. Sfruttato prima che venisse armato di un cannone, come rifugio antiaereo, finita la guerra fu utilizzato dall'esercito inglese che lo trasformò in deposito carburante. nel 2006 il Bunker è stato aperto al pubblico dai Principi Della Torre e Tasso a testimonianza di quegli anni.
fonte: castellodiduino.it
foto:daringtodo.com
- triestetourism.altervista.org
ZUGLIO
Zuglio, piccolo abitato della Carnia situato a pochi chilometri da Tolmezzo, si sviluppa in corrispondenza di Iulium Carnicum, la città romana più settentrionale d’Italia, situata lungo una importante arteria stradale di collegamento tra il mare Adriatico e le zone oltre le Alpi. La città controllò un territorio molto vasto, esteso fino all’odierna area del Cadore. Il Civico Museo Archeologico, aperto nel 1995, offre al visitatore una panoramica dello stato attuale della ricerca archeologica in Carnia e un quadro aggiornato dei risultati acquisiti nel corso delle indagini effettuate a Zuglio. Nella sede espositiva sono valorizzati alcuni importanti reperti come il nucleo di affreschi e stucchi databili al I secolo d.C. recuperati nel complesso delle terme poste nei pressi del Foro. Oltre al Museo è visitabile il complesso forense, edificato in età augustea, costituito da una vasta piazza rettangolare, chiusa sul lato meridionale dall’edificio della basilica civile, e dominata sul lato settentrionale da un edificio sacro.
orto botanico" Giardino dei semplici"
Zuglio, in Carnia, dove ogni anno in maggio si celebra il famoso “Bacio delle Croci”, e l’antica Pieve, situata sul colle che domina la vallata aveva dietro di sé anche un cimitero; la salita durante il funerale con la salma del caro estinto era faticosa ed ecco che gli abitanti della zona, a metà percorso circa si concedevano un riposo (polse, polsà ovvero riposo, riposarsi) e i prati che accoglievano il corteo funebre, erano spesso pieni di lumache (cougnes), da cui il toponimo Polse di Cougnes, dove appunto si trova l’orto botanico chiamato “Il giardino dei semplici”.
Pieve di S. Pietro
il campanile
Ogni anno a primavera ricorre il Bacio delle Croci a Zuglio, una delle più suggestive e sentite feste della Carnia, espressione vivissima di fede popolare, molto partecipata dalle genti di queste montagne, che vi convergono da tutte le vallate e che suggellerà con la sua arcana ritualità il giorno dell’Ascensione.
Secondo la tradizione di questo antichissimo rito, la primissima mattina del 16 maggio, seguendo i sentieri tra i boschi, i fedeli porteranno in processione fino in cima al colle di San Pietro, sopra Zuglio, le preziose croci argentee solitamente custodite nelle chiese delle varie vallate carniche.
Le croci saranno issate su lunghi bastoni e infiocchettate con nastri multicolori; sul Plan de vincule, uno spazio erboso sotto la pieve medievale di San Pietro, si disporranno in cerchio e, rispondendo alla chiamata del prevosto fatta secondo delle antiche formule liturgiche in lingua friulana, inclineranno ad una ad una le croci (in un simbolico bacio) verso quella della pieve di San Pietro, chiesa “madre” della Carnia.
MALBORGHETTO Valbruna
Il comune di Malborghetto-Valbruna è situato in provincia di Udine e conta poco più di 1000 abitanti.
Il territorio comunale sorge ad un'altitudine di circa 720 m s.l.m. ed è composto dalle frazioni di: Malborghetto, Valbruna, Bagni di Lusnizza, Cucco, Ugovizza e Santa Caterina.
Il paese è incastonato fra le splendide vette montagnose delle Alpi Giulie fra cui la Jof Fuart, la Jof di Montasio e il monte Osternig (tutte oltre i 2000 metri).
Il paese è attraversato dal fiume Fella, un importante corso d'acqua che si getta nel Tagliamento.
Numerosi sono comunque i torrenti che scorrono in zona; molti alimentano le aree termali che contraddistinguono l'area.
lago di Fusine
Malborghetto - Valbruna - Val Saisera - linee austro ungariche
val Saisera
Fino alla conclusione della Prima Guerra Mondiale, Valbruna e la Val Saisera, come tutta la Val Canale, si trovavano in territorio austriaco.
Il confine con il Regno d´Italia dallo spartiacque carnico seguiva il rio Pontebbana fino alla sua confluenza a fondo valle con il fiume Fella dividendo Pontebba tra la parte italiana e quella austriaca (Pontafel); il limite prebellico si alzava poi sulle Alpi Giulie seguendo la cresta montuosa che separa la Val Dogna dalla Val Canale fino allo Jôf di Miezegnot, da dove scendeva alla Sella di Somdogna.
La Saisera, vallata trasversale alla Val Canale, rappresentava la via alternativa a quest´ultima per entrare in Austria utilizzando come passaggio naturale la Sella di Somdogna.
Per questo motivo l´esercito italiano progettò ed intraprese la costruzione della rotabile della Val Dogna; in tutta risposta il genio austriaco eresse nel 1914 il così detto sbarramento Saisera, che insieme alle opere denominate sbarramento Malborghetto (forte Hensel) e sbarramento Predil (forte lago Predil e batterie di sella e di cima Predil) e a quelle edificate nel plezzano (forte Hermann e chiusa di Plezzo/Bovec - Slovenia) doveva contrastare l´ingresso in Carinzia dei reparti italiani.
fortificazioni
Lo sbarramento Saisera strutturato su due linee (Hintere e Vordere Saisera), attraversava la Val Saisera scendendo dalle posizioni dello Schwarzemberg per raggiungere il Piccolo Nabois (m 1691, osservatorio in caverna, stazione radio, postazione per cannone da montagna e stazione di arrivo di una teleferica) e da qui si collegava con lo Jôf Fuart (m 2666, posti di osservazione).
Durante al guerra i pionieri austriaci realizzarono anche la strada della Saisera, che corrisponde all´attuale tracciato asfaltato.
Tutta la valle era sede di magazzini per materiali, baraccamenti per le truppe e postazioni di artiglieria; mentre diverse teleferiche garantivano i rifornimenti ai presidi in quota.
Sbarramento Saisera
La doppia linea difensiva era stata costruita secondo i criteri utilizzati sul fronte orientale dove il terreno era poco consistente e argilloso.
Le trincee in scavo di terra erano rinforzate da tronchi d´albero e graticci di rami, mentre per le feritoie venivano utilizzati scudi metallici.
Solo una serie di posizioni era scavata nella roccia (fortini di fiancheggiamento) e sono quelle attualmente visibili nei pressi del cimitero militare, riutilizzate nel secondo conflitto mondiale, oltre a quelle chiamate del Sasso Bucato, una grande roccia traforata con diverse feritoie.
La gran parte delle trincee di fondo valle è difficilmente riconoscibile perché vennero riempite nel primo dopoguerra per riottenere i pascoli e private tutto il materiale utile che venne recuperato per ricostruire le abitazioni di Valbruna distrutte dal conflitto.
Il cimitero militare della Saisera
È contraddistinto dalla massiccia cappella lignea opera della 59ª brigata da montagna che domina gli ampi gradoni delle sepolture.
Ospita, oltre ai soldati austro-ungheresi, anche numerosi prigionieri russi, impiegati nelle retrovie come portatori o addetti alla sussistenza.
Dopo la sistemazione condotta negli anni trenta che ha visto, tra l´altro, la sostituzione delle croci originali in legno con le attuali lapidi in cemento, il cimitero è stato restaurato nel 2002 a cura della Croce Nera Austriaca, l´ente statale che si occupa della manutenzione di tutti i siti dedicati ai caduti austriaci di tutte le guerre.
Il suo mantenimento è affidato al gruppo Alpini di Malborghetto ed ogni novembre si tiene una cerimonia in memoria dei caduti di tutte le nazionalità.
Il Cimitero austro-ungarico della Saisera, il Cimitero degli Eroi, venne realizzato nel 1916 ai margini della seconda linea difensiva dello sbarramento Saisera; servì inizialmente per raccogliere i militari già seppelliti nei piccoli cimiteri che si trovavano sulle montagne circostanti, in seguito custodì i caduti nei duri combattimenti svoltasi nel luglio 1916 sul Piccolo Jôf di Miezegnot.
Molti dei caduti sepolti a Valbruna appartenevano alle T Truppen, unità formate da soldati provenienti dal fronte orientale e affetti dal Tracoma, una contagiosa malattia degli occhi che poteva causare la cecità.
Per questo motivo i militari, suddivisi in T Baon (battaglioni tracomatosi), venivano dislocati in luoghi impervi ed isolati per evitare l´ulteriore diffusione della malattia.
La cappella Zita
Venne edificata nel 1917 dagli stiriani del 10° battaglione territoriale (Landsturm Infanterie Baon) nei pressi di Malga Rauna dove già sorgeva un piccolo cimitero di guerra.
Realizzata in stile gotico su progetto del tenente Kielmannsegg, fu dedicata a Zita di Borbone, moglie dell´Imperatore Karl, successore di Franz Josef morto nel novembre del 1916.
La cappella, sopravissuta agli eventi bellici è stata restaurata nel 1984.
Ogni anno, il quindici di agosto, nel corso di una manifestazione organizzata dai Pompieri Volontari di Valbruna, una messa viene celebrata in ricordo dei caduti di tutte le guerre.
trincee
Fruibilità
Sasso bucato
Autostrada A23 Udine - Tarvisio, uscita Malborghetto – Valbruna.
Il cimitero militare e la parte visitabile dello sbarramento Saisera (Sasso Bucato) sono accessibili percorrendo dall´abitato di Valbruna la strada della Val Saisera.
Il Sasso Bucato è individuabile facilmente seguendo la segnaletica a bolli gialloneri disposta quasi al termine della valle prima del Rifugio Montasio.
Per raggiungere la Cappella Zita, prima di arrivare al cimitero militare, si stacca sulla destra una strada forestale che sale ripida nel bosco (indicazioni sentiero CAI 607) Il sentiero viene intersecato in più punti da una strada forestale che porta alla Malga Rauna.
La strada può rappresentare un´alternativa al sentiero, anche se la sua lunghezza allunga decisamente il tempo di percorrenza dell´itinerario.
Attraversando in salita uno splendido bosco di faggio e abeti si arriva alla Malga Rauna, già sede di baraccamenti e magazzini e da qui, in pochi minuti alla Cappella Zita (m 1515, segnavia CAI 607, difficoltà E, durata 1,30).
L´eventuale proseguimento verso le posizioni austriache del Piccolo Miezegnot (Kleine Mittagskofel, m 1954) e di quelle italiane dello Jôf di Miezegnot (Mittagskofel, m 2087) risulta più impegnativo per il dislivello da affrontare (oltre 1200 m) e la lunghezza del percorso (segnavia CAI 607, difficoltà E, durata 2,5 ore da Malga Rauna).
Equipaggiamento: abbigliamento e calzature da escursionismo in montagna, bastoni da trekking, vestiti di ricambio, cibo, acqua.
E´necessario essere nelle condizioni fisiche che permettano un´ascensione in montagna.
(Cartografia: Alpi Giulie occidentali – Tarvisiano foglio 019, Ed. Tabacco, Udine)
PONTEBBA
Pontebba (Ponteibe in friulano, Pontafel in tedesco, Tablja in sloveno) è un comune in parte quadrilingue di 1.607 abitanti della provincia di Udine. È un nodo ferroviario e un centro commerciale e turistico di primaria importanza.
L'abitato è attraversato dal torrente Pontebbana, che fino al 1919 segnava il confine italo-austriaco, dividendo il paese in due comuni: Pontebba (Italia-Provincia del Friuli) e Pontafel (Austria Ungheria-Carinzia).
Per lungo tempo Tarvisio e la Val Canale ricaddero nella giurisdizione del vescovo di Bamberga (Baviera). La parte inferiore, il Canal del Ferro, gravitava invece nell'area italiana, coi feudi patriarcali dell'Abbazia di Moggio Udinese prima e con la Carnia di amministrazione veneziana poi. Per i quattro secoli del dominio della Serenissima, il confine con i territori austriaci passò proprio per Pontebba. C'era allora una Pontebba Veneta e una Pontebba imperiale (Pontafel), separate dal torrente Pontebbana. Pontafel prese il nome di Pontebba Nuova nel 1918 con l'annessione all'Italia e venne unito a Pontebba il 15 agosto 1924. Il 20 settembre 1926 venne accorpato l'ex comune di La Glesie San Leopoldo a Pontebba. Medaglia d'oro al Merito Civile. «In occasione di un disastroso terremoto, con grande dignità, spirito di sacrificio ed impegno civile, affrontava la difficile opera di ricostruzione del tessuto abitativo, nonché della rinascita del proprio futuro sociale, morale ed economico. Splendido esempio di valore civico e d’alto senso del dovere, meritevole dell’ammirazione e della riconoscenza della Nazione tutta.»
Pontebba possiede una chiesa gotica di un certo interesse, Santa Maria Maggiore, costruita a cavallo fra il XV e il XVI secolo. All'interno si possono ammirare un pregevole altare ligneo e una tela di Palma il Giovane che raffigura una Madonna con i santissimi Rocco e Sebastiano (terzo decennio del XVII secolo). L'edificio è stato completamente restaurato dopo i danni sofferti a causa del terremoto del 1976. A Pontebba ebbe i natali Arturo Zardini, compositore e poeta autore di stelutis alpinis.
da:natisone.it
il municipio
santuario di S. Maria Maggiore
IL FLÜGELALTAR
FLÜGELALTAR In lingua tedesca significa "altare alato".
Questo è il nome del prezioso altare ligneo conservato nella chiesa di S. Maria Maggiore a Pontebba.
Il nome deriva dal fatto che esso è costituto da un corpo centrale con due portelle mobili.
Gioiello più fulgido della Chiesa, è stato dichiarato monumento nazionale.
Questo altare tardo-gotico è datato 1517 ed è, probabilmente, per la qualità degli intagli, il capolavoro del Maestro Enrico da Villaco, fondatore e maggior esponente della Bottega di Villaco.
Pare inoltre che sia il prototipo, di qualità mai più eguagliata, di una serie di altari, simili per l'impostazione, che la Bottega di Villaco diffuse in diverse chiese austriache.
Sia le sculture che le pitture denotano un certo influsso rinascimentale italiano, assumendo un aspetto meno cupo e più naturalistico.
La pitture, presumibilmente rientranti nell'ambito della scuola danubiana, si distinguono per la loro alta qualità, riflesso di un modello colto.
In questo altare una parte di primaria importanza è rivestita da Maria, fulcro vero e proprio dell'opera.
Dal punto di vista esecutivo l'altare si distingue per una superba e raffinatissima tecnica di realizzazione, fin nei minimi particolari, minuziosamente realizzati.
Lo scrigno custodisce un grande tesoro: i "misteri della nostra salvezza". Gli sportelli si aprono come si apre un libro: è un libro di preghiera.
L'altare resta chiuso nei tempi penitenziali di avvento e di quaresima e le pitture ci raccontano fatti che hanno preparato e concluso il grande avvenimento: l'intervento definitivo di Dio nella nostra storia.
Ecco cosa raccontano le pitture:
ANNUNCIAZIONE: Dio potrà intervenire perché ha trovato una persona che lo accoglie.
Maria gli dice il "Sì" che cambierà la storia del mondo (Vangelo di S. Luca 1,26-38)
VISITA A ELISABETTA: Giovanni il profeta, ancora nel seno della mamma, annuncia a Elisabetta che Dio è già qui, nel seno di Maria. (Vangelo di S. Luca 1,39-45)
FUGA IN EGITTO: Tu che contempli prepara pure il cuore ad una storia che sarà tragica, perché quel bimbo, già fin dalla nascita, sarà cercato a morte dai grandi e dai prepotenti. (Vangelo di S. Matteo 2,19-23)
PENTECOSTE: Questa è la conclusione di ciò che avvenne 2000 anni fa, ma è l'inizio della storia della Chiesa che continua tuttora. (Atti degli Apostoli 1,12)
NATALE: È la prima scena dello scrigno: perché la creatura umana potesse salire fino a Dio, Dio è sceso sulla terra. Il padrone dell'universo si è fatto bambino, più povero di tutti perché tutti i poveri, restando liberi di accoglierlo o no, potessero sentirlo vicino, amico, fratello (Vangelo di S. Luca 2,4-20). Giuseppe ha in mano una candela (simbolo della fede) e la ripara dal vento. Maria tende la mani giunte in preghiera verso il basso; il Dio del Cielo ora è quaggiù, sulla paglia.
I MAGI: "Venne tra la sua gente ed i suoi non l'hanno accolto", però gli uomini saggi che guardano il cielo vengono da molto lontano, sono tutti uomini del mondo, bianchi, neri, gialli, e con doni simbolici lo riconoscono come Re (oro), Dio (incenso), mortale (mirra) (Vangelo di S. Matteo 2,1-1-2). Maria, con grande gesto da Regina, mostra il bimbo ed accoglie i nostri doni per Lui.
RISURREZIONE: a Pasqua colui che avevano assassinato esce dalla tomba: l'angelo, il guideo, il discepolo, le donne che vanno ignare al sepolcro, la città ostile dietro lo steccato, le guardie che dormono… Pare di riascoltare, in uno, tutti i racconti evangelici di quel mattino di Pasqua (Vangelo di s. Matteo 28,47-66 e cap. 28 tutto).
MORTE DI MARIA: È il più bello ed inconsueto dei quadri. Maria muore in ginocchio, chiude gli occhi dicendo dolcemente l'ultimo suo Sì, sorretta da Giovanni, mentre Tommaso, l'apostolo che aveva dubitato, le regge la candela accesa, simbolo della fede che non muore. La circondano i dodici apostoli, con Pietro che presiede una serena liturgia della morte.
(MORTE DI MARIA: spiegazione)
L'anima di Maria è come bimba in braccio al Padre del cielo, solo il suo corpo è ancora per poco quaggiù, sulla Terra (Protoevangelo di Giacomo).
INCORONAZIONE: Padre, Figlio e Spirito Santo, in clima di solenne festa liturgia, coronano il sogno del Creatore che in Maria è ormai divenuto realtà: la creatura amata ha accolto l'amore ed entra da regina nel cuore e nella vita della famiglia divina: le mani di Maria sono aperte in accoglienza, ma lo sguardo, noncurante della propria gloria, è rivolto con estrema dolcezza verso il basso, dove ancora soffrono tanti suoi figli… Durante 500 anni, quanti sguardi di pianto, di supplica, di fede e di disperazione hanno incrociato questo sguardo?
LE GUGLIE: al centro la donna vestita di sole (che biblicamente è la Chiesa, ma che i Padri hanno felicemente identificato con Maria) offre al mondo Gesù, il quale, aggrappandosi al suo collo, si sporge a benedire. Più in alto ancora si trova il Cristo risorto, con tutti i segni della Passione, che mostra ai discepoli le mani ed il costato e li saluta con la mano alzata: "Pace a voi!".
Il volto di Cristo risorto è forte, intensissimo, ma anche dolce e rassicurante .
IL RESTAURO
Nel 1985 l'altare versava in uno stato di notevole degrado, ma era tuttavia ancora recuperabile. Degrado dovuto, oltre che alle cause fisiche naturali, anche ad alcuni restauri (l'ultimo del 1937) mal eseguiti.
Dopo cinque anni di restauro l'altare è ora ritornato al suo antico splendore, nella Chiesa di Pontebba, anch'essa rimessa a nuovo sotto in controllo della Sovrintendenza alle Belle Arti.
CJALCONS
I cjarsons, pronuncia chiarscions, (detti anche cjalsons, cjalcons o cjalzòns) sono un tipico piatto della cucina friulana, soprattutto dell’area montana.
Sono una pasta ripiena simile agli agnolotti o ai ravioli, caratterizzati da un contrasto tra il sapore dolce ed il salato, il ripieno è realizzato in diverse varianti a seconda della ricetta locale e può contenere uvetta, cioccolato fondente o cacao, cannella, spinaci, erba cipollina, ricotta, marmellata, rhum, grappa, prezzemolo, biscotti secchi, uova, latte. Si condiscono con burro fuso oppure ont (burro schiumato da cui è stata eliminata l’acqua e raddensato per facilitarne la conservazione nei mesi estivi) e ricotta affumicata (scuete fumade).
IL PARCO DI FRAFOREANO
Il parco di circa 3 ettari si estende a sud-ovest della villa, lungo l’argine del Tagliamento. Mirabile esempio di architettura dei giardini, il parco è attribuito all’architetto Jappelli, veneziano, che vi lavorò intorno alla metà dell’800. (La Dott.ssa Gabriella Bucco ritiene che potrebbe anche trattarsi dell’architetto Alberto Scala, peraltro influenzato dallo Jappelli). La zona, ricca di acque, ha favorito l’impianto di un parco rigoglioso sulla scia dei parchi romantici all’inglese tanto di moda all’epoca. Si sviluppa attorno a un piccolo lago, dotato di 2 isolotti, delimitato dai Taxodium disthicum, che in autunno assumono una intensa colorazione rossiccia e la cui terra di risulta è andata a formare una collinetta, il Monte Cucco. Scrive Francesca Venuto in Giardini del Friuli-Venezia Giulia: “Un progetto accurato guidò la disposizione pittoresca e fantasiosa dei sentieri, dei ruscelli, del laghetto a serpentina con gli isolotti collegati da piccoli ponti lignei, la grotta-ghiacciaia ad arco, il monticello-belvedere cui si accede mediante un percorso avvolgente, scandito da due siepi parallele di bosso, scendendo poi a lambire le acque: quasi una versione informale dei labirinti settecenteschi”. Inoltrandosi nel giardino lungo i vialetti s’incontrano, oltre alle essenze tipiche della zona (come carpini, roveri, tassi, tuie), secolari piante esotiche di notevole interesse e dimensione quali il pioppo della Carolina, cedri del Libano, sequoie, un affascinante boschetto di bambù e ampi prati in un gioco di pieni e di vuoti che ha lo scopo di mettere in valore le piante più importanti e la vista passante sullo specchio d’acqua. Il pioppo bianco e un ippocastano sono segnalati come monumentali/notevoli dall’Ente Regionale Ville Venete.
La villa
Il parco storico di Fraforeano si trova nel comune di Ronchis, provincia di Udine, Friuli Venezia Giulia, a 4 km dal casello Latisana/Lignano dell’autostrada A4 Venezia Trieste. È annesso alla settecentesca Villa de Kechler de Asarta e si estende su una superficie di quasi 3 ettari, costeggiando in parte l’argine del Tagliamento. Le origini di Villa Kechler de Asarta vanno di pari passo con la storia del Feudo di Fraforeano che, in base a documenti risalenti al 1275, era stato concesso dal patriarca di Aquileia ai Conti di Varmo. Dal 1468 al 1640, il Feudo appartenne alla nobile famiglia veneziana dei Barbarigo, ora estinta, che lo vendettero successivamente ai Molin che poi a loro volta lo passarono ad un’altra nobile famiglia veneziana, i Correr. Nel 1756 fu acquistato dai Crotta, che nel 1838 lo vendettero ai Gaspari. Attualmente la villa e il parco sono di proprietà della famiglia Kechler che li hanno ricevuti in eredità dai de Asarta, ramo di una illustre famiglia spagnola trasferitosi in Italia intorno al 1700, che li aveva comperati nel 1883. Il complesso architettonico, con la casa dominicale affiancata da barchesse, originariamente destinate ad uso agricolo, deve il suo aspetto attuale a trasformazioni avvenute nella seconda metà dell’800 per volere di Vittorio de Asarta, che introdusse nella gestione della tenuta agricola una radicale modernizzazione (primo impiego europeo dell’aratro elettrico).
Le visite di Hemingway
L’incontro tra Ernest Hemingway e la famiglia Kechler avvenne la prima volta a Cortina nel 1948, quando il grande scrittore fu presentato a Federico Kechler che lo accompagnò a pescare nella valle di Anterselva. Nacque così la grande amicizia che durò tutta la vita e che si estese anche agli altri due fratelli Kechler, Carlo e Alberto (Titi). Fu proprio questo ultimo a condurlo a caccia di anatre in Valle San Gaetano (vicino a Caorle/Venezia, allora proprietà di Nanuk Franchetti) e che lo ebbe ospite per varie battute al fagiano nella proprietà di Fraforeano. Quando Hemingway veniva a trovare i suoi amici friulani, era solito soggiornare tra Percoto di Pavia di Udine, San Martino di Codroipo e Fraforeano di Ronchis. Furono queste due ultime località che fecero da sfondo alla storia del colonnello Courtwell e della contessina Renata in “Di là dal fiume e tra gli alberi”. Lo scrittore americano amava moltissimo la campagna friulana e se si ripensa al protagonista del libro, si ritrova tutto l’Hemingway legato a questi luoghi tanto da fargli dire “Mi piacerebbe essere sepolto lontano sui bordi della tenuta, ma in vista della vecchia casa elegante e dei grandi alberi alti”.
"Talvolta città diverse si succedono
Sopra lo stesso suolo e sotto lo stesso nome,
nascono e muoiono senza essersi conosciute ,
incomunicabili tra loro"
Italo Calvino, Le città invisibili
Vi è una città, la più meridionale dell'Europa del Nord "un luogo che coniuga la suggestione mediterranea con l'atmosfera di forme tipicamente nordiche".
E' ............
TRIESTE
«Si si, xè Trieste»
"Il primo impatto con la città giuliana è un dialogo che si consuma in una carrozza della seconda classe, lentamente, ci si avvicina a questa città ai confini nord-orientali di un’Italia che appare sempre molto più lontana, diversa, altra. Ancora prima di scendere dal treno ti accoglie un idioma sconosciuto che ti classifica come foresto, uno di fuori, «uno che parla in lingua» e non capisce nulla del dialetto locale. Ma se ti fermi ad ascoltare con attenzione capisci che quella parlata, apparentemente così astrusa, trasmette, invece, lo spirito stesso della città: termini veneti che si mischiano con parole slovene, mentre il tedesco e il croato, rielaborati e adattati, fanno la loro saltuaria comparsa in alcune frasi. Un’unione che a volte sembra trasformarsi in scontro, ma che dona una singolare armonia alla parlata: questa è Trieste, terra di confine in cui i popoli si incontrano e scontrano da sempre, ma riescono a dare vita a un’originale atmosfera di complicità che raramente è riscontrabile in altre città italiane...la prima statua che si incontra è quella di Sissi, imperatrice d’Austria: sembra quasi un messaggio destinato ai foresti abituati ai classici busti di Garibaldi o Mazzini. Qui la Storia ha lasciato un segno diverso da quello a cui siamo abituati: i fasti dell’Impero Asburgico, di cui Trieste era il porto, riecheggiano tra i palazzi e le vie del centro e può succedere di entrare in un bar e scoprire che al posto delle fotografie di calciatori ci siano quelle di Francesco Giuseppe o i simboli della glorioso passato austriaco.
Trieste è una città impossibile da definire: il suo molteplice fascino di crocevia mitteleuropeo ha influenzato grandi scrittori come Italo Svevo, Umberto Saba e James Joyce.
Trieste città di mare, ma diversa da ogni altra; città di confine, di palazzi, di storie di re e regine, di guerre e di etnie diverse che qui, quasi per magia, si uniscono in un delicato e armonioso connubio. Lo stesso che lo scrittore Italo Svevo aveva sublimato così efficacemente nel suo nome d’arte... Col mare che penetra nelle strade e nelle piazze.."
Il nome di Trieste deriva da Tergeste. Così fu chiamata dai romani circa alla metà del I secolo la colonia romana che fu qui fondata...Il nome "Tergeste" consiste di due parole, che a loro volta derivano dal vecchio dialetto della regione: "Terg" significava mercato ed "este" significava città......la " città di mercato"
Le origini della città di Trieste sono antichissime, tuttavia sono di modesta entità le tracce, giunte fino a noi, del suo più remoto passato....La leggenda vuole che anche il mitologico eroe greco Giasone, alla ricerca del “vello d’ora“, sbarcasse con gli Argonauti alle foci del Timavo. Un bosco sacro, alle pendici del monte Hermada, sarebbe inoltre dedicato agli eroi Antenore e Diomede.
Nel 50 a.C. circa, il piccolo borgo di pescatori divenne colonia romana ed il nucleo abitativo venne cinto da forti mura e, successivamente, arricchito di importanti costruzioni quali il Foro ed il Teatro, i cui resti sono visibili ancora oggi sul colle di S.Giusto.
A partire dall’inizio del III secolo d.C., l’urbe tergestina fu ripetutamente travolta dalle invasioni barbariche e soltanto a metà dell’800, quando il vescovo Giovanni acquista da Lotario, re dei Franchi, il potere sulla città cominciò una fase storica caratterizzata da maggior stabilità.
Trieste riuscì ad affermarsi come libero comune appena nel 1300 ma, nel momento in cui venne nuovamente minacciata la tanto sospirata autonomia, la città, nel 1382, si pose spontaneamente sotto la protezione di Leopoldo III d’Austria, instaurando il lungo e fecondo rapporto con la dinastia asburgica.
Il passaggio alla Trieste moderna avvenne nel 1719, quando Carlo VI decretò, con un editto, la libertà di navigazione, aprendo così le porte al commercio e assegnando alla città il privilegio di Porto Franco. Successivamente, sotto Maria Teresa e Giuseppe II, i benefici concessi alla città accrebbero i già prosperi traffici, attirando la contempo persone di varia provenienza e creando così quel cosmopolitismo che ancora oggi si ritrova nei luoghi di culto, nel dialetto e nei cognomi stessi dei triestini. Il vecchio borgo, all’interno del perimetro medioevale, non bastò più ad accogliere gli abitanti, il cui numero, in poco tempo, si era notevolmente accresciuto e, conseguentemente, la città si espanse guadagnando terreno sul fronte mare e collegando progressivamente i vari colli che si protendono a ventaglio dall’interno verso la costa.
Nell’ ‘800, in un clima di prosperità generale, vennero fondati i grandi gruppi assicurativi, le compagnie di navigazione, si sviluppò la Borsa e crebbe la produzione artistica e culturale. La crescita della città, da un lato ne fece uno dei centri più importanti dell’allora impero asburgico, dall’altro ne rafforzò il sentimento di italianità, sia culturale che politica.
Il ritorno all’Italia, così lungamente atteso, avvenne nel 1918, in un tripudio tricolore, ma tale annessione retrocesse Trieste al ruolo di “porto qualunque”, avendo perso, una volta svincolata dal contesto mitteleuropeo, la sua unicità.
Il secondo conflitto mondiale comportò la perdita delle terre della penisola Istriana, passate alla neocostituita Jugoslavia. Solo nel 1954, con la firma del Memorandum di Londra, Trieste e il suo entroterra furono definitivamente restituiti all’Italia.
...luogo dell'anima....
Da più di un secolo, scrittori di varie nazionalità hanno avuto Trieste come “luogo dell’anima”, da Rainer Maria Rilke che proprio durante il suo soggiorno al Castello di Duino, ospite della bisnonna principessa Marie von Thurn und Taxis, nel 1912, iniziò a comporre le famose Elegie Duinesi, a Richard Francis Burton che, in epoca asburgica, visse i suoi ultimi 18 anni di vita a Trieste. Jules Verne scrive La congiura di Trieste e descrive vie e giardini di questa città con estremo realismo.
Jan Morris (Trieste o del nessun luogo), scrittrice gallese, lasciata Trieste subito dopo la ricongiunzione all'Italia, ha scelto di raccontare il genio della città evocando il fascino indefinibile che esercita sui viaggiatori, l'enigma che si cela dietro la sua compostezza, una città in nessun luogo, un luogo dove ciascuno è libero di vivere senza costrizioni, di scoprire la propria identità più autentica.
Ma sicuramente lo scrittore che tutti ricollegano al capoluogo giuliano è James Joyce.
....soffia la Bora.....
C' è il vento e c' è la bora. Il vento, dice Stendhal, è quando «si è costantemente occupati a tenere stretto il cappello». Bora è quando «si ha paura di rompersi un braccio». La bora desertifica strade, affonda barche, scoperchia case, rovescia treni, sradica alberi, sbriciola tegole e staccionate, trasforma i moli in banchisa e gli alberi in foreste di cristallo, prende di petto gli aerei e li fa atterrare da fermi come aquiloni. Quand' è gentile, si limita a rubare cappelli, a far volare ombrelli, alzare gonne e gonfiare pastrani. Così succede che quando torna, lei non si limita a rimettere le cose a posto, come ha fatto ieri, chiudendo i conti con uno schifoso autunno monsonico. Fa di più: racconta una leggenda.....Arriva improvvisa....scende dai ripidi pendii di montagna sul mare come se non avesse il tempo di fermarsi o come se volesse sorvolare il mare e andare in altro luogo. È capricciosa, soffia con buffi improvvisi a intervalli, c’è chi la ama, chi ne fa il simbolo di una città intera e chi, quando arriva, si rifugia nei caffè per non cadere tanta è la forza e la sua violenza.
Nel 394 l' imperatore romano d' Oriente, Teodosio, battè l' usurpatore d' Occidente Flavio Eugenio e poté riunificare per pochi mesi l' impero, grazie al vento che venendo da dietro raddoppiò la portata dei suoi giavellotti. Vinse il buon Teodosio, e gioì, ma quella stessa bora lo uccise poche settimane dopo, con una polmonite presa sul campo di battaglia, nella valle del Vipacco, sulla storica soglia di Gorizia dove da millenni si scontrano i popoli e i venti. Che storie. Come quella di Fouché, il fosco poliziotto di Napoleone che a Trieste concluse la sua esistenza terrena e la cui bara fu rovesciata con il carro per una raffica di bora e neve. Fu così che, in una sera tempestosa, l' ex ministro della polizia napoleonica, l' uomo disprezzato da tutti, «scese tra le ire del cielo nei riposi eterni della tomba». Succede così, la bora è la bora. «La bora - scriveva Scipio Slataper - è il tuo respiro, fratello gigante». Essere triestini non è solo un' origine geografica. è una categoria dello spirito. I triestini sono una razza inquieta di esploratori di bettole e grandi spazi aperti. In entrambe le direzioni, la bora dà loro la spinta determinante, li obbliga a trovar rifugio al chiuso di una taverna piena di fumo, ma li invita anche al viaggio, ripulisce l' orizzonte e lo propone come meta. «Quando vidi il mare pulirsi - racconta Scipio Slataper - e sentii fremere intorno a me l' aria, giungendomi alla pelle un piacevole frizzo e alle nari un fresco e leggero odore di sassi e di pini, allora capii cos' era. Nasceva la bora». è un vento solido, quasi liquido. è alta poche decine di metri. Si forma nel vallone fra Trieste e Lubiana,si comprime come un proiettile nelle lande sotto il monte Nevoso, poi se ti becca son dolori. Devi aggrapparti all' erba secca per non volare come un vecchio barattolo. Talvolta comincia con un ululo cupo e la pioggia, poi il fischio diventa una nota continua, sempre più bassa. Allora la temperatura scende, impercettibile, ma regolare. I friulani ne hanno paura, la chiamano «Vent sclàf», vento slavo, facendo del vento una metafora demografica, simbolo della massa nomade e bellicosa che preme sulle pianure padane e dintorni. Il poeta triestino Umberto Saba amò la bora scura, quella che spacca tutto col cielo nero. Odiò invece quella solare, artica. «Conosco la bora, chiara e scura, la detesto quando scende fuori misura con cielo sereno. Amo l' altra che ha una buia violenza cattiva». E aggiunse: «Io devo recuperare la bora / oppure qui affondare / nel mio paese natale / nella mia triste Trieste / nella mia Trieste triste / che amare è impossibile / e odiare anche». E Tomizza, il poeta istriano di «Materada». La bora, scrisse, «porta ognuno a ritrovare una parte di se stesso rimasta immutata dai giorni dell' infanzia, e nel contempo uguaglia tutti, rendendoli anche solidali fra loro, fedelmente attaccati a questo unico e composto margine di terra che ogni tanto, con la bora appunto, dichiara la sua assolutezza e la sua irripetibilità».
PAOLO RUMIZ
......una leggenda triestina......
La leggenda narra che in un tempo assai remoto nella rocca di Duino abitava un cavaliere malvagio che disprezzava la sua sposa gentile e virtuosa.
Questa lo amava a tal punto da perdonargli tutte le offese e sperava di poter intenerire il suo cuore con parole amorevoli. L'uomo, invece, infastidito dall'atteggiamento della moglie, aveva escogitato un piano per ucciderla. Una sera l'attirò su una roccia stretta sotto le muraglie del castello per spingerla in mare. Esterrefatta la castellana volse lo sguardo al cielo, domandandogli aiuto. Un grido appena soffocato le uscì dalla bocca e rimase interrotto: nel suo grande dolore era rimasta pietrificata.
Da quel giorno verso l'ora degli spiriti la Dama Bianca si stacca dalla roccia e comincia a peregrinare. Per tre volte appare e per altrettante scompare nelle cupe sale del castello. Passa attraverso le porte chiuse, vaga di sala in sala finché non ritrova la culla in cui un tempo dormiva suo figlio.
Lì la Dama Bianca rimane in un silenzio profondo fino all'alba, quando, abbandonata quella culla, ritorna alla sua roccia, dove il dolore la trasforma nuovamente in pietra.
Altri, invece, raccontano di un candelabro romano che si trova in una sala del castello e che ogni notte arde ed attraversa i saloni, mentre le porte si aprono da sole.
È la Dama Bianca che lo regge quando, invisibile, vaga disperata per il castello.
"Ho attraversato tutta la città.
Poi ho salita un'erta,popolosa in principio, in là deserta,chiusa da un muricciolo:
un cantuccio in cui solo siedo; e mi pare che dove esso termina termini la città.
Trieste ha una scontrosa grazia.
Se piace,
è come un ragazzaccio aspro e vorace,
con gli occhi azzurri e mani troppo grandi per regalare un fiore;
come un amore con gelosia.
Da quest'erta ogni chiesa, ogni sua via scopro, se mena all'ingombrata spiaggia,
o alla collina cui, sulla sassosa cima, una casa, l'ultima, s'aggrappa.
Intorno circola ad ogni cosa
un'aria strana, un'aria tormentosa,l'aria natia.
La mia città che in ogni parte è viva,
ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita
pensosa e schiva."
Umberto Saba
MORTEGLIANO (Lavariano, Chiasiellis) -
Mortegliano, a sud di Udine, è nota per la straordinaria altezza del suo campanile, di ben 113,20 metri, primato indiscusso in Italia. A 41 metri sul livello del mare, a quindici chilometri dal capoluogo provinciale e a pari distanza da Codroipo e Palmanova, Mortegliano (3500 ab.), con le sue frazioni Lavariano ( 1000 ab.) e Chiasiellis (500 ab.), presenta il tipico paesaggio della media pianura friulana al di sopra della linea delle risorgive, con campi coltivati e ampie zone verdi lungo il tratto finale del torrente Cormor. Vi si arriva dalla strada statale che da Udine porta a Muzzana e Lignano Sabbiadoro (SS.353) come pure dalla scorrevole "Napoleonica", la Stradalta.
Non molto distante dalla autostrada Tarvisio-Udine-Trieste-Venezia e dall'aeroporto regionale, già importante centro agricolo, conosciuto per la coltura del mais ("Blave di Mortean") è un vivace centro commerciale, artigianale e di servizi, riferimento tradizionale per l'economia di una vasta fascia di paesi circostanti. Ogni mercoledì vi si tiene un antico e rinomato mercato settimanale, mentre a settembre la sagra paesana richiama migliaia di persone da tutto il Friuli.
E' un paese dalla storia antica di origini romane, ricca di vicende, come del resto Lavariano, già sede di una fara longobarda e Chiasiellis, possesso avito del Monastero benedettino di Aquileia. Tre Pievi ove esistevano vivaci vicinie sono state unite, ai primi dell'Ottocento, in un solo Comune che oggi ha una superficie di 30 chilometri quadrati e offre valide strutture d'accoglienza per il visitatore e per l'ospite nonché ottime ragioni per una sosta.
Municipio di Mortegliano
Il capoluogo dalle caratteristiche vie larghe (4 borghi) nella centrale piazza Verdi accosta nell'edificio municipale diversi stili architettonici del secolo XX in relazione al contesto abitativo storico. La sobria facciata della seicentesca Chiesa parrocchiale della SS. Trinità preannuncia, al suo interno, una valida testimonianza dell'arte religiosa friulana dei secoli XVII e XVIII.
Chiesa della S.S.Trinità
Sul soffitto dell'aula Gio Pietro Venier; pittore udinese di gusti barocchi, presenta la Trinità, al centro, S. Nicolò e S. Giacomo, mentre nel catino dell'abside, si esercita a riprodurre la visione del Paradiso secondo la profezia dell'Apocalisse con, agli angoli, i quattro padri della Chiesa occidentale. La pala dell'altar maggiore raffigura la Trinità mentre incorona la Vergine al di sopra di un paesaggio agreste ed è opera di Pietro Fariano del secolo XVIII. Pierre Bainville, francese di Palmanova, è l'autore della pala del transito di S. Giuseppe sull'omonimo altare settecentesco. Capolavoro in assoluto della Chiesa è l'organo Dacci con positivo tergale da poco restaurato, uno strumento unico e raro per la tecnica e la perfezione del suono.
scalata del campanile
Cenni storici
(foto Viola - Mortegliano) dopo il 6 maggio 1976
POZZUOLO DEL FRIULI
[Il monumento eretto a Pozzuolo del Friuli in memoria della battaglia del 30 ottobre 1917]
AQUILEIA
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