Replying to L`infinito di Leopardi

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  1. Posted 15/11/2010, 15:47
    Parafrasi " L'infinito", di Giacomo Leopardi


    Mi è caro questo colle solitario e questa siepe che l’orizzonte esclude.

    Ma quando mi siedo e osservo spazi interinati e silenzi, in tutta quella quiete, mi nascondo nei pensieri, e il cuore si spaventa.

    E come il vento soffia tra gli alberi, io penso a questo silenzio infinito, e ricordo il tempo passato e quello presente e vivo e il suo rumore; Così, in questa immensità il mio pensiero affonda: e naufragare in questo mare sterminato è dolce.
  2. Posted 12/11/2010, 20:42
    GRAZIE
  3. Posted 12/11/2010, 20:38
    L`infinito di Leopardi


    E' il primo degli idilli pubblicati dal poeta sul "Nuovo Ricognitore" di Milano. Più che mai in questa breve composizione comunica il profondo senso di solitudine piena di dolore calmo e raccolto. Fa da sfondo all’esperienza della sua anima il paesaggio che è parte di un ambiente paesano e famigliare. La sofferenza del Leopardi acquista una risonanza cosmica, come se nella sua tristezza si esprimesse la voce dolente degli uomini di tutti i luoghi e di tutti i tempi.
    La natura eterna appare serena ed impassibile di fronte al pianto e alla rassegnata malinconia dei mortali. Il luogo della riflessione del poeta è il monte Tabor di Recanati ma nella lirica appare lontano dalla realtà, ci troviamo nel mondo della fantasia, il luogo appartato ci suggerisce, però, la solitudine de poeta ed il suo isolamento.
    La siepe rappresenta l’impedimento, la forza che pone dei limiti invalicabili alla conoscenza dell’uomo, ma è gradita perché gli desta per contrasto, l’immagine dell’infinito spaziale e temporale, gli permette di spaziare con la fantasia. Si costruisce col pensiero spazi interminabili, che si estendono al di là dalla siepe e li riempie di un silenzio infinitamente superiore ad ogni umano silenzio.
    La fantasia ha dato libero spazio al sentimento ha potuto creare una pace ed una immobilità divine, approdo sognato e distacco dall’agitato ed irrequieto mondo umano. L’animo del Leopardi dell’essere finito, supera i limiti sella sua individualità e si sperde, smarrito, in quell’infinita vertiginosa vastità, che cancella ogni traccia della propria piccolezza. Il vento che passa fra le foglie e le fa stormire rappresenta un lieve sussurro se paragonato all’immaginato sovrumano silenzio.
    Rappresenta la storia degli uomini sullo sfondo del tempo infinito. Le età ormai scomparse (le morte stagioni) sono state un momentaneo bisbigliare di foglie mosse dal vento e di loro non è rimasta alcuna traccia. Avverrà così anche per l’epoca presente viva oggi per un attimo prima di smarrirsi e scomparire nell’immensità del tempo. Questo smarrirsi nell’immensità dell’infinito è come un naufragare in un mare aperto, soltanto in questo modo l’animo del poeta trova la sua quiete in questo immergersi nell’infinito.

    Commento

    La poesia è una fuga fantastica, e la fuga fantastica è un'esperienza sensistica, oggetto della realtà sensibile che fa scattare la fuga. L'incipit ci proietta in questa realtà concreta (il colle e la siepe); il "questo" è un elemento deittico che rafforza il realismo. Colle e siepe sono cari perché impediscono la vista, spingendo ad immaginare; c'è quindi un rapporto causa-effetto tra "caro" ed "esclude" (è "caro" perché "esclude").
    L'uomo, non vedendo con gli occhi, è invitato a vedere con la mente. C'è continuità semantica tra "interminati" e "sovrumani", in clausola di versi, e tra "spazi" e "silenzi", in incipit. "Interminati", "sovrumani" e "profondissimi" ben suggeriscono l'infinità di spazio in cui si muove la fantasia per il significato che hanno che per la loro lunghezza (4-5 sillabe).
    Tale è la grandezza degli spazi che il cuore sobbalza: "per poco il cor non si spaura"; dà sensazione di smarrimento. Mente e cuore, abituati a vivere nel finito, quasi si smarriscono nell'infinito. Il v. 8 lega perfettamente le 2 sequenze: il continuum è reso a livello formale su tutti i piani, c'è un movimento lirico assolutamente unitario.
    Il punto fermo a metà del verso divide perfettamente i due momenti, uniti da "E". Prima c'è un momento visivo, poi uditivo. Si crea una corrispondenza assolutamente perfetta tra le due parti della poesia e tra le 2 fasi dell'esperienza: "questo colle", "questa siepe", "queste piante", "questa voce". Lo "stormir" del vento è un suono vago e lontano, indefinito, sussurrato. "Questo" delinea il tangibile; "quello" il remoto. I numerosi enjambement trascrivono il continuum, tracciano una linea continua dall'inizio alla fine del canto. Nel polisindeto c'è l'opposizione finito-infinito, presente-passato. Significa il susseguirsi incalzante dei movimenti interiori. Il naufragio, lo smarrimento, è "dolce", termine che rimanda al "caro" del v. 1. L'esperienza di questo canto dà all'uomo l'illusione del piacere infinito cui esso aspira. E' una poesia consolativa: consola l'uomo, in quanto non potrà mai raggiungere il piacere infinito.
    La poesia è un'illusione indispensabile per quest'uomo dolente. La poesia del "caro immaginar" nasce dal più lucido razionalismo, e per questo è strettamente legato all' "arido vero". La prima fase dell'esperienza, l'entrata nell'infinito, provoca paura, mentre la seconda dà un senso di infinita beatitudine. "Questa immensità" mostra proprio come l'uomo sia entrato nell'infinito. Questa esperienza estatico-mistica non è un percorso, come in Dante, alla ricerca dela verità, ma per fuggire la verità.

    COMMENTO

    L'infinito di Leopardi è un infinito "negativo", nel senso che è un infinito creato dall'immaginazione e dal desiderio, un puro prodotto della mente umana. È chiaro che il suo modo di porsi di fronte al "problema infinito" è di tipo metafisico, è la ricerca del rapporto tra infinito come spazio assoluto e tempo assoluto e la nostra cognizione del tempo e dello spazio empirici. Ma nella sua riflessione inserisce il suo particolare modo di interpretare l'infinito, o meglio l'indefinito, come fluttuare di sensazioni.
    Nello "Zibaldone" Leopardi afferma che "L'infinito è un parto della nostra immaginazione, della nostra piccolezza ad un tempo e della nostra superbia […] l'infinito è un'idea, un sogno, non una realtà: almeno niuna prova abbiamo noi dell'esistenza di esso, neppur per analogia". Per Leopardi l'infinito coincide con lo slancio vitale, con lo spasimo, la tensione che l'uomo ha connaturata in sé verso la felicità. L'infinito diventa il principio stesso del piacere, e il fine stesso a cui tende questo slancio dell'uomo.
    È il desiderio assoluto di felicità che porta l'uomo a ricercare il piacere in un numero sempre crescente di sensazioni, nella speranza vana della sua completezza; è una tensione che non ha limiti, né per durata nel tempo, né per estensione, per questo si scontra irrevocabilmente con la vita umana, lo spazio, il tempo, la morte. Infatti "l'anima umana desidera sempre essenzialmente e mira unicamente, benché sotto molti aspetti, al piacere, ossia alla felicità […] Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti, perché è ingenita e congenita con l'esistenza, e perciò non può avere fine in questo o in quel piacere che non puyò essere infinito, ma solamente, termina con la vita".
    Per Leopardi, questa tensione può spegnersi solo nel momento della morte perché è uno slancio connaturato alla vita stessa, "l'anima, amando sostanzialmente il piacere, abbraccia tutta l'estensione immaginabile di questo sentimento, senza poterla neppure concepire, perché non si può formare idea chiara di una cosa che ella desidera illimitatamente".
    Per superare i limiti fisici della natura umana interviene l'immaginazione, che ha come "attività" principale la raffigurazione del piacere: "Il piacere infinito non si può trovare nella realtà, si trova così nell'immaginazione, dalla quale derivano la speranza, le illusioni, ecc…" Ma l'immaginazione ha bisogno di stimoli e perciò "l'anima si immagina quello che non vede, che quell'albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe se la sua vita si estendesse dappertutto, perché il reale escluderebbe l'immaginario.".
    E dunque "la molteplicità delle sensazioni confonde l'anima, gli impedisce di vedere i confini di ciascheduna, toglie l'esaurimento subitaneo del piacere, la fa errare da un piacere in un altro senza poterne approfondire nessuno, e quindi si rassomiglia in certo modo ad un piacere infinito.". Resta quindi nell'animo un senso di inappagamento, di insoddisfazione perché non si riesce effettivamente a concepire l'infinitudine, ma solo l'indefinito, che è un'idea inadeguata, approssimata, vaga: e questa insoddisfazione conduce al tedio, alla noia spirituale. Ci sono però immagini, sensazioni che suscitano nell'animo l'idea di infinito, ad esempio la visione di una torre antica, perché "il concepire uno spazio di molti secoli produce una sensazione indefinita, l'idea di un tempo indeterminato, dove l'anima si perde e sebbene sa che non ci sono confini, non li distingue e non sa quali sieno", oppure le immagini "di una campagna ad andamento declive in guisa che la vista in certa lontananza non arrivi alla valle, e quella di un filare di alberi, la cui fine si perde di vista" o, infine "una fabbrica, una torre veduta in modo che paia innalzarsi sola sopra l'orizzonte e questo non si vede, produce un contrasto efficacissimo e sublimissimo tra finito e indefinito" Ovviamente, a questo proposito, l'immagine che meglio ha esemplificato questa concezione leopardiana dell'indefinito è senz'altro costituita dagli "interminati spazi" della famosa poesia intitolata, appunto, "L'infinito".

    "L'infinito" di Leopardi è forse uno degli idilli più organici per quanto riguarda significato-struttura-significante, la disposizione delle parole, il loro potere semantico, l'uso stesso che ne fa il poeta contribuiscono a rendere questa poesia un "viaggio interiore", una scoperta dello spirito, una illuminazione. L'infinito di cui parla è temporale e spaziale e viene evocato tramite il limite fisico(la siepe, il fruscio del vento) che porta il poeta da una dimensione fisica e sensoriale ad una "metafisica". I sensi, in questo caso la vista e l'udito, conducono alla intuizione di qualcosa che è al di là.

    L'osservazione del paesaggio si svolge in meditazione: il paesaggio, la natura, la fisicità vengono interiorizzati ed entrano a far parte dello "spirito" del poeta, o meglio: il poeta riesce a calarsi nell'infinito. Parte da una visione familiare, la vista del colle, il Monte Tabor, ermo, ma caro, ovvero solitario ma già appartenente alla esperienza personale del poeta, spettatore ma anche compartecipe della sua vita, così come familiare è la siepe. Una siepe che diventa un limite, che evoca il desiderio, l'immaginazione di ciò che il guardo esclude, di ciò che non si può raggiungere con il solo ausilio dei sensi Da un connotato fisico di realtà, si risveglia l'immaginazione di uno spazio ben più u1timo. Ed ecco che sia il colle che la siepe prima indicati con gli aggettivi questo/questa ad indicarne la vicinanza sia fisica che spirituale, diventano la porta per l'infinito. La siepe diventa quella, è già posta in un'altra dimensione, decisamente diversa da quella fisica. Il poeta siede e guarda, in uno spazio senza tempo, e la sua immaginazione coglie e crea (io nel pensier mi fingo) irterminati spazi, sovrumani silenzi e profondissima quiete.

    Leopardi ha colto, ha intuito l'infinito spaziale, che viene visto nella negazione della realtà fisica a cui è sempre abituato. Infatti gli spazi sono interminati, i silenzi sono sovrumani, la quiete è profondissima. Danno l'idea di una dimensione impossibile da paragonare con quella "solita", "abituale". Anche la disposizione nel verso, con l'enjambemant tra interminati e spazi e tra sovrumani e silenzi e la dieresi su quiete danno la sensazione di una vastità infinita; inoltre sono tutte parole polisillabe: tutto acquista una dilatazione inusitata in tutte le direzioni. Portando all'interno del suo animo questi pensieri, rivelano il confine tra la limitatezza della vita umana e l'immensità della Natura, di cui l'uomo fa parte, ma che non può cogliere appieno .

    Questa intuizione gli dà un senso di paura (ove per poco il cor non si spaura), un senso di smarrimento in una dimensione mai conosciuta prima, mai immaginata con tale chiarezza.I1 cuore quasi non riesce a sostenere la potenza di questa visione, è uno sgomento dato dalla consapevolezza di aver superato i suoi limiti, di aver trasceso la sua quotidianità e di aver partecipato di un evento ai confini della religiosità. Ma il vento, espressione della sua limitatezza fisica, lo riporta all'esistenza terrena e non più cosmica; tuttavia gli dà l'impulso per spaziare di nuovo nell'infinito temporale perché la voce della realtà (odo stormir tra queste piante) viene paragonata al silenzio dell'infinito(da notare quello infinito, cioè appartenente all'altra dimensione).

    Il senso della vita terrena si rianima nel vento, e con esso il limite temporale dell'uomo, la morte. Ma il pensiero riprende il suo corso e fluisce (l'affollarsi dei pensieri è sottolineato dall'anafora della "e") nell'eterno, nella distensione temporale della vita dal passato al presente, che è vivo, mentre il passato è morto. Tutto si riduce a un suono, è il respiro della vita universale, il suo battito eterno, smorzato, affievolito e quindi morto nel passato e invece vivo e prepotente nel presente. Il pensiero e l'uomo vengono sommersi da questa immensità, da questa incommensurabilità e il mare, simbolo della vastità (come riprenderà Montale), fa annegare il suo pensiero, la sua mente, la sua razionalità, lo fa perdere, obliare in una dimensione universale in comunione con l' infinito , tanto più dolce perché insperata, inaspettata. È la pace dell'uomo che ha abbandonato l'umanità per il non-limite, anche se è consapevole di aver creato egli stesso questa dimensione: non riesce a darne una consistenza reale, è un infinito del pensiero, ma ugualmente dolce e potente.

    Che cosa resta di questo mare nell'animo dell'uomo? La consapevolezza di poter annegare in esso solo per il breve istante di una illuminazione, perché come basta una siepe ad evocarlo, è altresì bastante un soffio di vento per riportarlo alla sua essenza limitata.


    numero 1. Parafrasi Infinito di Leopardi

    da "Canti", 1835

    La lirica, che fa parte dei cosiddetti "Piccoli Idilli", testimonia una sublime avventura spirituale. Infatti, avvertire l'infinito vuol dire per Leopardi elevarsi di là da una realtà circoscritta e limitante, rappresentata dalla siepe e dalla "voce" del vento, per sprofondare completamente, sulle ali del pensiero e della fantasia, in un infinito in cui è "dolce" smarrire sé stessi, quasi perdersi per sempre nel Nulla per trovare un momento di conforto dai mali.
    La siepe, impedendo di vedere ciò che c'è di là da essa, mette in moto l'immaginazione che fa vagare il poeta nell'immensità dello spazio. A un tratto, l'improvviso stormire del vento richiama il poeta alla realtà, ma è solo un attimo, perché il soffio del vento ispira l'idea dell'eternità, dell'infinito temporale, così come la siepe aveva suggerito l'idea dell'infinito spaziale.
    Metro: endecasillabi sciolti.


    ¦¦
    1 Sempre caro mi fu quest'ermo colle, ¦¦ Sempre caro mi fu questo colle solita-
    ¦¦
    2 E questa siepe, che da tanta parte ¦¦ rio, e questa siepe che esclude lo
    ¦¦
    3 Dell'ultimo orizzonte il guardo asclude. ¦¦ sguardo da tanta parte dell'estremo
    ¦¦ orizzonte.
    4 Ma sedendo e mirando, interminati ¦¦ Ma stando seduto e guardando, io
    ¦¦
    ¦¦
    5 Spazi di là da quella, e sovrumani ¦¦ immagino, di là da quella (la siepe),
    ¦¦ spazi senza fine, silenzi sovrumani
    Silenzi, e profondissima quiete ¦¦ e una quiete profondissima,
    ¦¦
    6 Io nel pensier mi fingo; ove per poco ¦¦ tanto che per poco
    ¦¦
    7 Il cor non si spaura. E come il vento ¦¦ il cuore non si sgomenta. E non appena
    ¦¦
    Odo stormir tra queste piante, io quello ¦¦ odo stormire il vento tra queste
    ¦¦ piante, io paragono
    8 Infinito silenzio a questa voce ¦¦ quel silenzio infinito a questo
    ¦¦ frusciare (del vento):
    9 Vo comparando: e mi sovvien l'eterno, ¦¦ e mi torna alla mente l'idea dell'eter-
    ¦¦
    E le morte stagioni, e la presente ¦¦ nità, e le età passate, e l'epoca
    ¦¦
    E viva, e il suon di lei. Così tra questa ¦¦ presente che si percepisce attraverso
    ¦¦ le sue manifestazioni reali. Così, tra
    10 Immensità s'annega il pensier mio: ¦¦ questa immensità spazio-temporale,
    ¦¦ il mio pensiero perde ogni consapevo-
    11 E il naufragar m'è dolce in questo mare. ¦¦ lezza: e naufragare in questa
    ¦¦ immensità dell'infinito mi è dolce.

    N O T E
    -------


    1 ermo: solitario.

    1 colle: è il Monte Tabor, vicino a casa Leopardi.

    2 siepe: la siepe simboleggia tutto ciò che è limitato e limitante, perciò favorisce il risveglio del naturale bisogno di infinito presente in ogni uomo.

    3 ultimo: estremo, più lontano.

    4 mirando: guardando, ma anche contemplando, riflettendo.

    4 interminati: sconfinati, senza limiti.

    5 sovrumani: che vanno oltre le umane capacità di comprensione della mente umana.

    6 mi fingo: mi rappresento, mi raffiguro nella mente.

    6 ove: in modo tale che, tanto che.

    7 si spaura: si sgomenta, si smarrisce, si spaventa.

    7 come: quando, non appena.

    8-9 infinito... comparando: il poeta confronta l'infinito silenzio (solo immaginato) con lo stormire concreto del vento e coglie, così, l'idea dell'eternità (sovvien l'eterno).

    10 immensità: è l'idea dell'infinito spazio-tempo.

    10 s'annega: si perde fino ad annullarsi del tutto.

    11 mar: è l'immensità dell'infinito.


    numero 2. Parafrasi Infinito di Leopardi


    Questa collina solitaria mi e' sempre stata cara, e cosi' pure questa siepe, che esclude lo sguardo da tanta parte dell'orizzonte piu' lontano. Ma, stando seduto e guardando, io immagino al di la' di questa siepe spazi immensi, silenzi totali e una calma profondissima, tanto che per poco il cuore non si sgomenta. E, non appena odo il vento frusciare fra queste piante come un uccello che batte la ali, paragono quel silenzio infinito a questo frusciare del vento: e mi torna alla mente l'idea dell'eternita'. Mi appaiono le epoche passate e quella presente, che percepisco attraverso le sue manifestazioni reali: il suono della vita. E cosi', tra questa immensita' spazio-temporale, il mio pensiero perde ogni consapevolezza: e perdersi nel pensiero dell'immensita' dell'infinito mi e' dolce.

    numero 3. Parafrasi Infinito di Leopardi

    Da sempre mi è cara questa solitaria collina, e questa siepe, che esclude lo sguardo da tanta parte dell'orizzonte più lontano. Ma sedendo e guardando l'infinito spazio oltre quella siepe e silenzi (sovrumani) totali e immensi e una calma profondissima, inizio ad immaginare di essere un tutt'uno con l'infinito tanto finchè il mio cuore quasi si spaventa. E come il vento quando penetra tra le piante rumoreggia, così quest'infinito silenzio rumoreggia dentro di me: e mi viene in mente l'eterno, il tempo passato, il presente e quello che sta accadendo. Così in quest'infinito spazio mi perdo con tutto me stesso immedesimandomi e vagando con i miei pensieri: e perdermi mi piace (è dolce).



    L'Infinito viene scritto fra il 1819 e il 1821 (si pensa tra la primavera e l'autunno del 1819), sicuramente dopo il fallimento della fuga dal "vil borgo natìo", orchestrata nel 1819. Dal settembre di quell'anno Leopardi, che ha poco più di 20 anni, comincia a rinchiudersi in una progressiva solitudine, che va peggiorando anche a causa di un fisico che uno studio forsennato di molti anni ha irreversibilmente rovinato. E' in questo clima che nasce il piccolo idillio, pubblicato per la prima volta nel 1825.
    Idillio, in greco, significa "piccolo quadro", "immagine" e nell'antica Grecia rappresentava, in maniera più o meno realistica, piccole scene campestri, spesso di vita pastorale, e aveva come scopo quello di valorizzare il contatto con la natura. Un genere poetico, questo, ripreso nell'Umanesimo e durato sino all'Arcadia settecentesca, ma con risultati poco significativi.
    Qui invece, pur partendo sempre da un'esperienza di natura, l'idillio esprime gli stati d'animo più profondi del poeta, e la descrizione della natura è solo occasione per parlare di sé.
    L'infinito avrebbe potuto essere stato scritto da un recluso, o meglio da un autoemarginato, poiché qui si ha a che fare con uno sconfitto sia dalle contraddizioni della società (feudalesimo decadente) che dalle proprie paure. Ma è un recluso particolare, che non si rassegna del tutto alla propria condizione, vuole sognare una fuga, come Papillon dal bagno penale della Guyana, non col corpo, perché con questo non vi è riuscito, ma con la mente.
    Questo canto è come il sospiro della "creatura oppressa", ma oppressa soprattutto dalla propria incapacità di essere, di vivere una dimensione sociale o comunque di reagire al vuoto, all'insignificanza di un'esistenza di cartapesta, tutta dedicata ai libri, in cui l'aveva condannato il padre, che già nel 1810 gli aveva tolto i privilegi del maggiorascato, imponendogli una carriera ecclesiastica, quasi subodorando che un figlio del genere non avrebbe potuto decidere una propria vita.
    E' il lamento di uno sconfitto che cerca di giustificarsi, di dare un senso alla propria inconsistenza, alla propria eccessiva tensione emotiva, che fino a quel momento si è misurata soltanto virtualmente, tra le "sudate carte".
    Il poeta dice di trovarsi in un luogo preciso, che ama e frequenta abitualmente: un colle solitario, tradizionalmente identificato nel monte Tabor, che domina sulle campagne di Recanati, non molto distante dal palazzo di famiglia. Solo, mentre s'accinge a salire il colle, in uno spazio circoscritto e delimitato da una siepe, il poeta guarda, ma non riesce a vedere parte dell'"ultimo orizzonte" (il "celeste confine" della prima stesura), quello che poi riuscirà a vedere una volta arrivato in cima: proprio questo fa scattare il meccanismo immaginativo.
    Non è dunque la possibilità di vedere dall'alto del colle gli ampi spazi, ma l'ostacolo alla vista determinato, durante il tragitto, dalla siepe, l'esperienza del limite, naturale e umano insieme, a suggerire l'idea dell'infinito. Annota infatti Leopardi nello Zibaldone (28 luglio 1820): "L'anima immagina quello che non vede, che quell'albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe, se la sua vista si estendesse da per tutto, perché il reale escluderebbe l'immaginario".
    Sullo stesso sentiero il poeta veniva a rimirare la luna: "E tu pendevi allor su quella selva / Siccome or fai, che tutta la rischiari".
    Al poeta è caro ciò che gli impedisce di vedere la realtà, ciò che gli permette di fantasticare su questa, come sempre ha fatto, poiché la riconoscenza del merito involontario a questo simbolo naturale e insieme spirituale della vita non è da oggi, ma da sempre.
    Il poeta non sta guardando il colle come lo guardava nel passato, con un senso di nostalgia per i sogni che faceva da bambino o da adolescente, ma lo guarda con gli occhi del presente, dietro la grata della sua prigione domestica e paesana, di figlio di un conte decaduto, il cui declino, morale e materiale, pare inarrestabile.
    Se il poeta fosse davanti a uno psicanalista e raccontasse questo sogno o questa esperienza ch'egli considera di "vita", e se si partisse dal principio che nessuno è in grado di giudicare se stesso, dovremmo azzardare l'ipotesi che il poeta stia mentendo.
    Nessuna persona normale considererebbe come "cara" una cosa che simboleggia ciò che impedisce di vivere, ciò che permette solo di fantasticare. E' evidente che qui si vuole usare il colle (e la siepe che lo sovrasta o meglio lo fiancheggia) come pretesto per giustificare il proprio aristocratico distacco, ancorché intellettualmente sofferto, dalla realtà.
    Non dobbiamo sentirci autorizzati a guardare con occhio benevolo una data situazione solo perché viene descritta con un lirismo di levatura mondiale. Il colle e soprattutto la siepe svolgono una funzione oppiacea, autoconsolatoria, benché in forma eminentemente intellettuale.
    Il segreto dell'infinito sta tutto in questo incipit, dove con straordinaria efficacia poetica il negativo viene fatto apparire positivamente, quasi che il Leopardi non fosse un emulo del buddista Schopenhauer ma del dialettico Hegel.
    E infatti questo idillio non può essere stato suggerito da un'ispirazione improvvisa, da una percezione istintiva della natura. Qui ogni parola è non solo incredibilmente pesata, con la maestria di un finissimo filologo, ma è anche frutto di una faticosa trasposizione poetica di elementi filosofici che fanno capo a una concezione di vita sufficientemente delineata nei suoi fondamenti.
    E' da escludere, in tal senso, che la siepe possa essere "sempre" stata nella vita del giovane (bambino, adolescente) Leopardi un'occasione per sognare in maniera così spiritualizzata, così metafisica. Il colle poteva essergli caro per le passeggiate salutari all'aperto, ma la siepe gli è divenuta "cara" dopo un percorso esistenziale tutt'altro che gratificante.
    In tal senso vien spontaneo porsi una domanda di fronte all'avverbio di tempo "sempre" affiancato da un remoto "fu" in luogo del presente "è", come sarebbe parso più naturale.
    La critica è unanime nel sostenere che un passato remoto svolge qui una funzione particolarmente suggestiva, in quanto evocativa, più pregnante di qualsiasi indicativo. "Fu" è un passato, seppur apparentemente in contrasto con "sempre", che svolge la funzione di un presente iterativo: si racconta in una sola volta quanto è accaduto mille volte. Già da qui si può cogliere l'idea di infinito.
    Tuttavia, se vogliamo accettare l'ipotesi di un iter travagliato all'origine dell'idillio, allora forse si sarebbe potuta azzardare un'interpretazione più rischiosa, che vede p.es. nel "fu" una sorta di porta girevole che da un lato chiude e dall'altro apre. Cioè il colle "fu" perché simbolo di una vita passata che, nonostante tutte le frustrazioni, ha permesso di fantasticare, ma anche perché è segno di un passato che, come tale, al di là di tutti i tentativi autogiustificatori, si vorrebbe veder superato da un presente diverso, eventualmente più reale e meno virtuale.
    Non dobbiamo dimenticarci che qui il protagonista è un ventenne consapevole delle proprie capacità letterarie, per le quali sapeva bene che non avrebbe potuto trovare in un paese di provincia delle soddisfazioni come intellettuale, senza considerare ch'egli ormai considerava concluso il tempo di sopportare gli angusti limiti di aristocrazia decaduta in cui volevano costringerlo i suoi.
    Sappiamo ch'egli compie la sua prima gita da solo nel 1818, a Macerata, in compagnia di Giordani, e che nel 1822 ebbe dalla famiglia il permesso di recarsi a Roma, dove la città lo deluse al punto che preferì tornare a Recanati, dimostrando, in questo, di non saper reagire all'ambiente retrivo della sua famiglia.
    Vedremo comunque che nell'idillio il nuovo presente che il poeta trova non ha nulla di reale, ovvero che la contraddizione della realtà viene mistificata da una rappresentazione fantastica dell'irrealtà.

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