Replying to PARAFRASI

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Last 10 Posts [ In reverse order ]

  1. Posted 5/6/2014, 18:04
    L’Olio
    Olio con sapiente arte spremuto
    Dal puro frutto degli annosi olivi,
    Che cantan -pace! -in lor linguaggio muto
    Degli umbri colli pei solenti clivi,
    Chiaro assai più liquido cristallo,
    Fragrante quale oriental unguento,
    Puro come la fè che nel metallo
    Concavo t’arde sull’altar d’argento,
    Le tue rare virtù non furo ignote
    Alle mense d’Orazio e di Varrone
    Che non sdegnàr cantarti in loro note…

    Gabriele D’Annunzio


    parafrasi


    L'olio sapientemente spremuto dal frutto puro degli ulivi centenari che sembrano invocare pace nel loro linguaggio muto.
    Dalle colline umbre e per i liberi pendii.
    Un liquido più chiaro del cristallo, profumato come un unguento orientale
    Puro come il metallo che fonde nello scavo di un altare d'argento
    Le tue virtu' rare non passarono inosservate alla tavola di Orazio e Varrone e non disdegno cantarti le loro lodi.
  2. Posted 14/5/2014, 21:53
    forse se sareste più chiari nelle domande ??????

    poesia---autore sono indispensabili

    spero tu ti riferisca a l'Odissea.


    Ciò che domina senza dubbio l’intero episodio è il tema della vendetta. Odisseo infatti persegue il suo scopo con determinazione e con gioia, con cui sparge il sangue dei Proci e dei loro complici, invasori della sua casa, e ci riesce grazie all’aiuto di Telemaco, Eumeo, e Filezio e grazie all’aiuto divino di Atena, che devia le aste dei pretendenti di Penelope, in maniera che non raggiungano il bersaglio durante la gara di tiro con l’arco da lei organizzata per scegliere definitivamente il futuro sposo al posto di Odisseo, che lei ignora che sia tornato a Itaca dopo dieci anni.

    Dopo l'avventura di Circe, Odisseo, su indicazione della stessa maga si reca nel regno dei morti, dove riesce ad intravedere le figure dei compagni defunti durante la guerra di Troia, la madre e l'indovino Tiresia, che gli predice che gli preannuncia un ritorno luttuoso e difficile e lo invita di guardarsi dal toccare le vacche del Sole. Rimessosi in rotta Ulisse se la vede ancora con le pericolose sirene, i mostri Scilla e Cariddi e con la disubbidienza dei compagni che non riescono a frenare la voglia di banchettare con le attiranti mucche. Per questo Odisseo racconta di essere stato per nove giorni in balia di terribili tempeste scatenate da Zeus, da cui riuscì a scampare grazie all'arrivo sull'isola di Ogigia. L'eroe è dunque riaccompagnato a casa con abbondanti doni, e dopo essersi rivelato al figlio e al fedele Eumeo si reca alla reggia dove si fa accogliere come un mendicante. Qui schernito ripetutamente dai tracotanti proci, partecipa alla gara di arco organizzata da Penelope, che aveva promesso di consegnarsi in sposa a colui che sarebbe riuscito a scoccare una freccia dal pesante arco del marito facendola passare per le fessure di dodici scuri. Nessuno dei pretendenti ci riesce e così l'ultimo tentativo spetta ad Odisseo, che, dopo averlo scaldato sulla fiamma riesce perfettamente nell'impresa. A questo punto non gli rimane che scatenare la vendetta che aveva attentamente preparato con Eumeo, Filezio e il figlio...

    Ed egli si spogliò dei cenci, Odisseo, e balzò sulla grande soglia tenendo in mano l'arco e la faretra piena di frecce: ne versò fuori i veloci dardi proprio lì, davanti ai piedi, e disse ai Proci: «Questa gara ben dura ormai è finita. Ora voglio vedere se raggiungo un altro bersaglio che mai nessun uomo colpì, e se Apollo mi concede questo vanto.»

    Disse, e contro Antinoo drizzava la freccia aguzza.

    Lui stava per alzare una bella coppa d'oro, a due anse, e già la teneva tra le mani. Voleva bere vino: non si dava certo pensiero della morte. E chi mai poteva immaginare tra i convitati che uno solo in mezzo a tanti, anche se era gagliardo, gli avrebbe procurato la mala morte e il nero destino?

    E Odisseo lo prendeva di mira e lo colpì alla gola con la freccia: da parte a parte andò la punta attraverso il tenero collo.

    Si piegò da un lato, il principe: la coppa gli cadde di mano appena fu colpito, e subito un grosso fiotto di sangue gli andò su per le narici. Prontamente spinse via da sé la mensa urtandola col piede e rovesciò le vivande a terra. Il pane e le carni arrostite s’imbrattavano.

    Gettarono un urlo i pretendenti dentro la sala, a veder l’uomo cadere, dai troni, in fuga per tutta la sala, dappertutto spiando i solidi muri: né scudo c’era, né asta robusta da prendere. Urlavano contro Odisseo con irate parole: -Straniero, male colpisci gli uomini! Mai più altre gare farai: adesso è sicuro per te l’abisso di morte. Hai ammazzato l’eroe più gagliardo tra i giovani d’Itaca: qui gli avvoltoi ti dovranno straziare.- Parlava così ciascuno, perché credevano che non di proposito avesse ucciso: questo, ciechi, ignoravano, che tutti aveva raggiunto il termine di morte.

    Ma feroce guardandoli disse l’accorto Odisseo:-Ah cani, non pensavate che a casa tornassi dalla terra dei Teucri, per farmi mangiate la casa, le mie schiave, entrare per forza nel mio letto, e mentre son vivo mi corteggiate la sposa, senza temere gli dèi, che l’ampio cielo possiedono, né la vendetta, che in seguito potesse venire dagli uomini.
  3. Posted 14/5/2014, 18:27
    Mi potresti fare la parafrasi della gara con l'arco e la vendette?
  4. Posted 29/4/2014, 18:29
    Un inno all'amore. Lei dice che il momento più bello è quando lui le parla, rapisce il suo corpo e la mente, e le vengono perdonati gli errori. L'uomo parla con giochi ed enigmi, l'amore è a volte irrazionale e il cuore ha sete di lui tanto da tremare perchè quando si ama si ha paura che l'altro non ti comprenda. Questo amore è come una droga, un vizio che la sfinisce. Si dedica mente e corpo a questo amore come un bambino al suo gioco, come un adolescente attratto dalla sua sensualità, amore che viene chiamato divino quando è così forte, così sovrannaturale.




    L’ora più solare per me
    quella che più mi prende il corpo
    quella che più mi prende la mente
    quella che più mi perdona
    è quando tu mi parli.
    Sciarade infinite,
    infiniti enigmi,
    una così devastante arsura,
    un tremito da far paura
    che mi abita il cuore.
    Rumore di pelle sul pavimento
    come se cadessi sfinita:
    da me si diparte la vita
    e d’un bianchissimo armento io
    pastora senza giudizio
    di te amor mio mi prendo il vizio.
    Vizio che prende un bambino
    vizio che prende l’adolescente
    quando l’amore è furente
    quando l’amore è divino.

    Alda Merini
  5. Posted 28/4/2014, 16:30
    ti prego ho disperato bisogno di commento e parafrasi di "l'ora più solare per me" di Alda Merini entro oggi. ti supplico e ti ringrazio tantissimo se ce la fai
  6. Posted 14/4/2014, 15:59
    CITAZIONE (amathea @ 14/4/2014, 12:07) 
    scusate,trovo anche la parafrasi della Morte di Ettore Illiade? Grazie

    Parafrasi la morte di ettore.

    Quando si trovarono uno di fronte all’altro, Ettore dall’elmo scintillante parlò ad Achille per primo:
    “Non fuggirò più di fronte a te, Achille, come adesso così successe per ben tre volte che di fronte alle mura di *****, non riuscii a difendermi dal tuo attacco; adesso il mio animo mi sprona
    a non fuggire più, qualunque sia la mia sorte. Ci rivolgiamo agli dei: perché essi saranno i migliori testimoni e conservatori degli accordi; io non intendo portarti disonore, se grazie all’aiuto di Zeus
    riuscirò a toglierti la vita; quando, Achille, ti avrò rimosso le tue gloriose armi, restituirò il tuo corpo agli Achei: e anche tu farai così”. Ma Achille guardandolo minacciosamente disse: “Ettore, o tremendo, non scenderò a patti con te: come non vi è alcuna alleanza tra uomini e leoni, e tra lupi e agnelli, i quali non sono mai in accordo, ma si detestano ininterrottamente, così non potrà mai succedere che noi ci vogliamo bene; fra di noi non ci saranno patti, il primo che morirà appagherà Ares con il sangue del nemico. Ricordati che ora devi essere perfetto nell’usare l’asta e veloce nel combattere, senza commettere errori! Ormai non puoi più sfuggire al tuo destino, gli dei hanno già deciso e Atena ti ucciderà per mezzo della mia lancia: sconterai tutto il dolore che hai portato al mio popolo”. Mentre parlò Achille scagliò l’asta contro Ettore; ma egli vedendola prima riesce ad evitarla: si abbassò e l’asta lo schivò, conficcandosi nel terreno; ma Atena, senza essere vista da Ettore, la ripose nelle mani di Achille. A quel punto Ettore disse ad Achille: “La tua mira non ha avuto un esito positivo! Allora in realtà tu non sapevi quello che mi sarebbe successo, Zeus non vuole la mia morte. Eppure tu lo hai dichiarato. Eri molto abile nel parlare, ma l’hai detto perché volevi che io mi scoraggiassi. No, non fuggirò di fronte al tuo attacco, ma ti affronterò a viso aperto, se mi vorrai uccidere, lo dovrai fare mentre ti attacco, se un dio ti aiuterà. Intanto cerca di evitare questa lancia che sto per scagliarti e spero che ti entri nel corpo. Certamente se riuscissi ad ucciderti la guerra risulterebbe molto più facile per i Teucri, perché tu sei il più grande problema” Mentre parlò, bilanciò l’asta e la scagliò ma centrò lo scudo di Achille, non fallì il colpo; ma l’asta rimbalzò cadendo per terra; Ettore si innervosì, perché il suo lancio fu inutile, e preso dallo sconforto, perché non aveva più lance; chiamò il fratello Deifobo, perché gli passasse un’altra lancia: ma egli non gli era più vicino. Allora Ettore capì il suo destino interpretato dal fato e gridò: “Ahi! Adesso non ho più alcun dubbio, gli dei hanno decretato la mia morte. Pensavo di aver vicino Deifobo, ma egli è all’interno di *****, Atena mi ha imbrogliato. Il mio destino è di dover morire, tutto questo era già stato stabilito da Zeus e da suo figlio, Apollo, che adesso mi sono nemici però un tempo
    furono benevoli nei miei confronti. Ormai la morte mi ha raggiunto. So che devo morire, ma non mi ritirerò, lotterò fino all’ultimo perché io possa morire gloriosamente così che i miei posteri mi possano stimare”.
    E mentre parlava così, estrasse la spada, che gli pendeva da dietro al fianco, grande e pesante, e partì di scatto all’attacco, come un’aquila che piomba verso la pianura, attraversando le nuvole buie, per uccidere un giovane agnello o una lepre: in tal modo scattò Ettore, agitando la spada acuminata.
    Ma anche Achille scattò all’attacco, con il cuore selvaggio carico di collera: pose davanti a sé lo scudo bello, decorato, scuotendo la chioma lucente, che Efesto aveva creato fitta attorno al cimiero.
    Come la stella procede tra i vari astri durante la notte, Espero, l’astro più lucente del cielo. Così luceva la spada del glorioso Achille nella sua mano destra, riflettendo intensamente come poter uccidere Ettore, cercando con gli occhi un punto del suo corpo che fosse scoperto dall’armatura. Le armi bronzee ricoprivano tutto il corpo di Ettore, colui che uccise Patroclo; ma vi era una fessura dove le clavicole dividono le spalle dalla gola e dal collo, e quello è un punto di rapida morte.
    Qui Achille lo colpì, la punta dell’asta passò attraverso il morbido collo di Ettore, però non gli tagliò le corde vocali così che Ettore riuscisse a parlare. Achille si vantò: “Ettore, mentre spogliavi Patroclo delle sue armi credevi forse di poter sfuggire da me, che ti ero lontano! Ma io rimanevo suo difensore sulle navi. Ora cani e uccelli ti sbraneranno: ma lui seppelliranno gli Achei”.
    Senza più forze Ettore gli rispose: “Ti prego per la tua vita, per le ginocchia, per i tuoi genitori, non lasciare che venga sbranato dai cani degli Achei, ma accetta oro e bronzo senza fine, i doni che ti verranno dati da mio padre e dalla mia nobile madre: rendi il mio corpo alla mia patria, perché il mio corpo possa essere bruciato”.
    Ma guardandolo bieco, Achille disse: “No, cane, non mi pregare per nessun motivo; che la rabbia e il furore mi spingano a te
  7. Posted 14/4/2014, 11:07
    scusate,trovo anche la parafrasi della Morte di Ettore Illiade? Grazie
  8. Posted 12/3/2014, 16:39
    [QUOTE=Lussy60,11/11/2010, 13:50 ?t=41821323&st=0#entry292857701]
    Cos'è la Parafrasi:



    La parafrasi (parola prestata dal greco: παράφρασις, letto paràphrasis e traducibile con riformulazione) indica la transcodificazione di un testo scritto nella propria lingua ma in un registro linguistico distante (sia esso arcaico, elevato o poetico).
    Il processo di parafrasi prevede dunque operazioni come la ricostruzione sintattica, la sostituzione degli arcaismi, l'esplicitazione delle figure retoriche e la riscrittura in prosa del testo poetico. Possono anche essere operati dei chiarimenti di alcuni punti del testo. Una buona parafrasi include tutti i dettagli e rende il testo originale più semplice da comprendere: dato che il testo risultante è normalmente più ampio del testo di partenza, questa operazione si oppone a quella del riassunto.
    Inevitabile effetto, per così dire "collaterale", della parafrasi la perdita del profondo rapporto tra significante e significato, tipico della comunicazione letteraria e fulcro dei testi poetici.
    Lo scopo della parafrasi è la verifica simultanea sia della comprensione della lingua arcaica, o poetica, che della propria competenza di riformulazione lessicale e sintattica: pertanto la parafrasi è generalmente usata come esercizio scolastico. Dal manuale di Elio Teone (I d.C.) sappiamo che già in epoca antica la creazione di una parafrasi costituiva uno degli esercizi preparatorii (progymnasmata) allo studio della retorica. La creazione di una parafrasi era usata come esercizio anche nella retorica medioevale: agli studenti veniva richiesto di scrivere parafrasi di poesie del periodo classico.








    PARAFRASI IL TEMPORALE DI GIOVANNI PASCOLI,

    AIUTINO



    “TEMPORALE”


    Un bubbolìo lontano…
    Rosseggia l’orizzonte,
    come affocato, a mare;
    nero di pece, a monte,
    stracci di nubi chiare:
    tra il nero un casolare:
    un’ala di gabbiano.

    parafrasi

    Parafrasi della poesia.
    Un brontolio lontano annuncia un temporale…
    Verso il mare, all’orizzonte, il cielo è rosso, infuocato; verso il monte è nero come la pece, rischiarato qua e là da qualche nube frastagliata e sfilacciata; nel nero che domina questo paesaggio si distingue una casa bianca che spicca come un’ala di gabbiano.

    Spiegazione in prosa della poesia.
    Questa poesia di Giovanni Pascoli narra di un temporale in cui si sentiva da lontano il brontolare dei tuoni; i lampi che si trovavano verso il mare, tingevano di fuoco l'orizzonte mentre sulle montagne il cielo era nero come la pece: delle nuvole molto chiare vagavano sulla pianura, s'intravedeva sulla montagna un casolare, e un volo di gabbiano sperduto solcava l'aria in tempesta.
    Attraverso questi pochi versi della poesia si può notare che solo il volo di un gabbiano solitario dimostrava che c'era un essere in terra che cercava un rifugio, ma i colori che erano il rosso del fuoco, il nero della pece, il bianco del casolare e l'ala dell'uccello esprimono l'immobilità paurosa della natura negli attimi che precedono lo scatenarsi della tempesta.














    Davanti San Guido di Giosuè Carducci-parafrasi

    parafrasi


    Il poeta Giosuè Carducci sta viaggiando sulla linea Roma – Pisa in treno ed immagina che i cipressi che fiancheggiano la ferrovia dove lui giocava a Bolgheri, gli si facciano incontro e lo invitino a fermarsi. I cipressi alti e snelli dell’oratorio di san Guido a Bolgheri, formando un viale, sembrano al poeta, che li guarda dal treno in corsa, giovani giganti che corrono verso di lui e lo guardano. Lo riconoscono e gli chiedono, chinandosi con la cima piegata dal vento, di fermarsi perché la sera è fresca e lui conosce la strada. Lo invitano a fermarsi presso i loro alberi profumati, dove dal mare spira il vento impetuoso di nord-ovest e gli dicono che non conservano rancore per le sue “battaglie a colpi di sassi” perché in fondo non facevano male. Portano ancora nidi di usignoli e si lamentano che lui si allontani così in fretta. I passeri intersecano il cielo con voli. Il poeta risponde ai cipressi, sinceri amici dell’infanzia, che egli giudica migliore dell’età adulta, che volentieri si fermerebbe, ma chiede loro di lasciarlo andare perché ormai è un uomo maturo e ironicamente dice che, non per vantarsi, è diventato un uomo importante che capisce il greco ed il latino, scrive, ha tanti pregi e capacità e soprattutto non è più un ragazzo vivace ed impertinente e non tira più sassate alle piante (ma casomai invettive e battute polemiche agli uomini del suo tempo). Attraverso le cime che oscillano mosse dal vento, come chi scuote la testa per esprimere un dubbio o dire di no, passa, come un’onda, un brontolio ed il sole, che sta tramontando con un sorriso pietoso (cioè un riso un poco ironico e malizioso, ma senza cattiveria), splende rossastro in mezzo al verde cupo della vegetazione. Il poeta capisce che i cipressi ed il sole hanno un sentimento di pietà per lui ed improvvisamente il mormorare delle piante si trasforma in parole distinte. I cipressi hanno capito che non è altro che un uomo tormentato dagli affanni e dalle delusioni della vita. Il vento, sfiorando le case, porta via con sé l’eco dei sospiri degli uomini e conosce come dentro al petto del poeta brucino tormenti e passioni che egli non sa né può placare. Il poeta potrebbe raccontare alle querce ed ai cipressi la sua pena personale ed il dolore universale degli uomini in quel paesaggio sole sul mare, calmo ed azzurro, scende sorridente il sole. Il tramonto è pieno do voli e di stridi di uccelli, di notte si sentiranno i canti melodiosi degli usignoli. Lo invitano a rimanere ed a non seguire le idee e le passioni vane che sono colpevoli dell’infelicità dell’uomo perché lo staccano dalla semplicità della vita naturale. Le passioni (i pensieri agitati, torbidi, tristi ed angosciosi) nascono dalle profondità dei cuori umani sconvolti dai pensieri come i fuochi fatui dei cimiteri (mettono tanta para ma in realtà sono leggere fiamme vaganti prodotte dai gas che si sprigionano dove ci sono sostanze in putrefazione). Nell’ora del mezzogiorno (che per gli antichi era misteriosa e segreta), quando presso le querce i cavalli stanno nell’ombra muso a muso e introno tutto è pace nella pianura assolata, i cipressi gli canteranno quelle armonie che cielo e terra si scambiano tra loro eternamente e le divinità silvane, che abitano i tronchi delle piante, usciranno dagli olmi per ristorarlo dalla calura e sospingerlo a sognare ed il dio Pane (dio dei boschi e dei pastori) che, a quell’ora se ne va errando senza compagnia per i monti e le pianure, placherà l’insanabile contrasto dei suoi affanni nella divina serenità della natura. Ma il poeta non si può fermare, a Bologna lo aspetta la figlioletta, la Titì, piccola ancora e bisognosa di assistenza. Non si veste di piume come la passeretta a cui provvede madre natura, né si nutre di bacche di cipresso. A questo punto il poeta lancia una sassata polemica contro gli imitatori del Manzoni (quelli che in arte ed in politica si attenevano alle idee del Manzoni e principalmente accettavano le sue idee in fatto di lingua) che badano solo al guadagno e si accaparrano il maggior numero possibile di uffici e stipendi. Non essendo nel numero di costoro urge che il poeta si affretti ai suoi doveri di insegnante per provvedere ai bisogni della sua famiglia e lo fa con un saluto affettuoso e doloroso. I cipressi che hanno cercato di fermare il poeta con le lusinghe del paesaggio, cercano di fermarlo con il ricordo della nonna paterna tanto amata, Lucia Santini, morta nel 1843 e sepolta a Bolgheri. Al ricordo della nonna i “giganti giovinetti” si trasformano in un corteo funebre che si allontana mormorando. Dal dolce pendio per il verde viale dei cipressi ecco apparire al poeta alta e maestosa, vestita di nero, la nonna. Dalla sua bocca in mezzo ai bianchi capelli sgorgava la pura e schietta parlata toscana che molti non toscani imitano goffamente, con la malinconica e dolce inflessione della natia Versilia che è tanto cara al cuore del poeta. La lingua toscana, quando è parlata genuinamente, è nitida e soave come un antico componimento poetico (il sirventese era un antico metro poetico di origine provenzale che celebrava avvenimenti storici e poetici). Il poeta si rivolge al fantasma della nonna e vuole farsi raccontare, lui che con tutto il suo sapere non è riuscito a raggiungere, se non la felicità, almeno la tranquillità dell’animo, l’antica fiaba di “Amore e Psiche” (una fanciulla che aveva sposato un mostro ripugnante per volontà dei parenti, siccome viola il giuramento di non vederlo durante la notte quando riacquista il primitivo e bellissimo aspetto, viene abbandonata dal marito. Per ritrovarlo deve errare per il mondo per sette lunghi anni, consumare sette verghe di ferro per sorreggere i suo corpo stanco, colmare sette fiasche di lacrime… e quando finalmente ritrova lo sposo, questi è immerso in un profondo sonno, né a lei è possibile destarlo). Il Carducci modifica il finale del racconto originario che dice che lo sposo fuggiasco ritorna alla fanciulla commosso dai suoi sacrifici. Nella sorte della fanciulla abbandonata il poeta vede rispecchiata la propria sorte individuale di un uomo incapace di raggiungere gli ideali che si è proposto. Infatti continuando il discorso con la nonna dice che la favola non è soltanto bella, ma anche pena di amara verità. La felicità, la pace che ha cercato invano nei tanti anni è forse nella tranquillità del cimitero e della morte, sotto quel viale dove non soltanto spera, ma non pensa neppure più di fermarsi, ora che la vita lo ha ghermito con le sue necessità ed i suoi doveri. A questo punto la realtà lo riafferra, il treno corre ansimando affannosamente, mentre il poeta si sente triste e desolato. Una schiera di puledri, che in Maremma vivono liberamente nelle campagne, nitriscono, mettendosi a correre in gara con il treno, mentre un asino grigio continua con serietà e lentezza a mangiare il cardo dai fiori rosso turchino. La chiusura della poesia è simbolica: se il treno rappresenta il progresso o comunque la vita che va avanti ed i puledri sono l’immagine della giovinezza che insegue gioiosamente, ma vanamente, i sogni, la figura dell’asino può essere il simbolo degli uomini chiusi ad ogni ideale o anche della persona saggia che si accontenta delle cose che ha, senza lasciarsi distrarre dal chiasso e dai desideri inutili.










    Leopardi - Il passero solitario - parafrasi

    parafrasi

    Dall'alto della torre del vecchio campanile, tu, passero solitario, erri per la campagna cantando finché viene sera; e l'armonia regna nella tua valle. La primavera brilla tutt'intorno e si manifesta sui campi così vividamente che il cuore si intenerisce. Senti le pecore belare, le vacche muggire; e gli altri uccelli, contenti, compiono mille giri nell'aria festosa contenti, trascorrendo così il loro tempo migliore: tu, invece, guardi il tutto in disparte pensieroso; non ti piace la compagnia, non voli, non ti curi dell'allegria, eviti i divertimenti, canti solamente e così trascorri il periodo migliore dell'anno e della tua vita. Ahimè, quanto assomiglia il tuo costume al mio! Divertimento e spensieratezza, tenera famiglia della giovinezza, e amore, fratello della giovinezza, rimpianto amaro dell'età matura, io non curo, non so come; anzi fuggo lontano da loro; quasi estraneo al mio luogo nativo, trascorro la primavera della mia vita. In questo giorno di festa, che ormai giunge a termine, si usa festeggiare al mio paese per tradizione. Senti per l'aria serena il suono delle campane, senti spesso lo scoppio di colpi di fucile, che rimbomba lontano di paese in paese. La gioventù del luogo, tutta vestita a festa, abbandona le case e si sparge per le vie; e guarda ed è guardata, e in cuore si rallegra. Io, solitario in questa parte dimenticata della campagna, rimando a tempi migliori ogni gioco e divertimento: e intanto lo sguardo steso nell'aria soleggiata è ferito dal Sole che tramonta tra i monti lontani, dopo una giornata serena, e cadendo, sembra dileguarsi e che dica che la gioventù sta finendo. Tu, solitario uccellino, giunto alla fine della vita che il destino ti concederà, non ti dorrai della tua vita certamente; perché ogni nostro desiderio è frutto della natura. A me, se non mi sarà concesso di evitare di varcare la detestata soglia della vecchiaia, quando i miei occhi non susciteranno più nulla nel cuore delle altre persone, e il mondo apparirà loro vuoto, e il giorno futuro parrà più noioso e doloroso del presente, che sarà di questa voglia? Che sarà di questi anni miei? Che sarà di me stesso? Ah, mi pentirò, e più volte, mi volgerò al passato sconsolato.








    Parafrasi Novembre di Giovanni Pascoli


    “NOVEMBRE”

    Gemmea l'aria, il sole così chiaro
    che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,
    e del prunalbo l'odorino amaro
    senti nel cuore...
    Ma secco è il pruno, e le stecchite piante
    di nere trame segnano il sereno,
    e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante
    sembra il terreno.
    Silenzio, intorno: solo, alle ventate,
    odi lontano, da giardini ed orti,
    di foglie un cader fragile. E' l'estate
    fredda, dei morti.


    Questa lirica venne inclusa nella prima edizione di Myricae. Il tema generale di questa poesia è l’analisi del paesaggio invernale e una riflessione sulla fragilità della vita. Il poeta descrive una limpida giornata di novembre caratterizzata dall’aria così nitida e luminosa che verrebbe naturale cercare con lo sguardo alberi in fiore e avvertire l’odore del biancospino. Ma il paesaggio si svela per quello che è: privo di vegetazione (brullo) e autunnale, secco e scuro. La natura è penetrata dal silenzio, interrotto solamente dal soffiare del vento e dal cadere delle foglie.


    parafrasi

    L’aria è limpida e fredda come una gemma, il sole è così luminoso che si ricercano con lo sguardo gli albicocchi in fiore, sentendo nel cuore l’odore amarognolo del biancospino. Ma l’albero del biancospino è secco, le piante scheletrite lasciano una traccia nera nel cielo sereno, il cielo è deserto, e il terreno sembra vuoto e sordo al piede che lo calpesta. Intorno c’è silenzio, soltanto grazie ai colpi di vento, si sente lontano un fragile cadere di foglie, proveniente dai giardini e dagli orti. È la fredda estate dei morti.







    Ugo Foscolo - Alla sera - parafrasi

    testo
    Forse perché della fatal quiete fatal quiete
    tu sei l'immago a me sì cara vieni
    o Sera! E quando ti corteggian liete
    le nubi estive e i zeffiri sereni,

    e quando dal nevoso aere inquiete
    tenebre e lunghe all'universo meni
    sempre scendi invocata, e le secrete
    vie del mio cor soavemente tieni.

    Vagar mi fai co' miei pensier su l'orme
    che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
    questo reo tempo, e van con lui le torme

    delle cure onde meco egli si strugge;
    e mentre io guardo la tua pace, dorme
    quello spirto guerrier ch'entro mi rugge


    parafrasi

    Forse perché tu sei l’immagine della morte, a me giungi cosi gradita, e sia quando sei seguita dalle nuvole e dai venti sereni sia quando dal nevoso cielo che porta neve e conduci sulla terra notti lunghe e burrascose, e occupi le vie più segrete del mio animo, placandolo dolcemente.
    Mi spingi a pensare alla via della morte e intanto se ne va via quest’ età malvagia, e insieme al tempo che se ne và se ne vanno anche le preoccupazioni.
    E mentre guardo la tua immagine di pace, dentro di me dorme la voglia di combattere che è dentro di me e mi invita a lottare e mi da tanta angoscia.







    Il lampo di Giovanni Pascoli

    testo


    E cielo e terra si mostrò qual era:
    la terra ansante, livida, in sussulto;
    il cielo ingombro, tragico, disfatto:
    bianca bianca nel tragico tumulto
    una casa apparì sparì d'un tratto;
    come un occhio, che, largo esterefatto,
    s'aprì si chiuse, nella notte nera.



    Questa lirica fu pubblicata nella terza edizione di Myricae. Questa poesia è un “quadretto impressionistico” su un evento atmosferico, il lampo appunto. Nel lampo che ha illuminato cielo e terra – per poi farli precipitare di nuovo nel silenzio sospeso che precede il tuono – l’universo ha rivelato per un istante il suo vero volto spaventoso e angosciante, solitamente celato dietro aspetti illusori e ingannevoli. Nello sconvolgimento della natura in tumulto, l’uomo ha potuto per un attimo cogliere la minaccia che lo insidia, la precarietà del suo destino.

    parafrasi
    E cielo e terra si mostrarono nella loro identità, grazie alla luce del lampo: la terra ansimante, tetra, in un sussulto doloroso, il cielo ingombro di nuvole, cupo e sconvolto: nella silenziosa bufera appare improvvisa una casa bianca che sparisce subito; simile ad un occhio che dilatato, sbigottito, si apre e si chiude nella notte nera






    Ugo Foscolo In Morte del fratello Giovanni - parafrasi

    testo

    Un dì, s'io non andrò sempre fuggendo
    di gente in gente, me vedrai seduto
    su la tua pietra, o fratel mio, gemendo
    il fior de' tuoi gentil anni caduto.

    La Madre or sol suo dì tardo traendo
    parla di me col tuo cenere muto,
    ma io deluse a voi le palme tendo
    e sol da lunge i miei tetti saluto.

    Sento gli avversi numi, e le secrete
    cure che al viver tuo furon tempesta,
    e prego anch'io nel tuo porto quiete.

    Questo di tanta speme oggi mi resta!
    Straniere genti, almen le ossa rendete
    allora al petto della madre mesta.


    parafrasi

    Un giorno se io non sarò sempre costretto a fuggire di paese in paese mi vedrai seduto sulla tua tomba a piangere per la tua morte.
    Ora solo nostra madre ormai vecchia parlerà di me e io non posso fare altro che porgere le mie braccia e salutare la mia città.
    Sento anch’io l’ostilità degli dei e le angoscie che hanno turbato la tua vita.
    Adesso mi resta solo il desiderio di morire!
    Dopo la mia morte, che avverrà lontano dalla mia città, vorrei solo che le persone portino a mia madre le mie ossa.









    Achille e Agamennone parafrasi

    testo

    Cantami, o Diva, del Pelìde Achille
    L'ira funesta, che infiniti addusse
    Lutti agli Achei, molte anzi tempo all'Orco
    Generose travolse alme d'eroi,
    E di cani e d'augelli orrido pasto
    Lor salme abbandonò così di Giove
    L'alto consiglio si adempia, da quando
    Primamente disgiunse aspra contesa
    Il re de' prodi Atrìde e il divo Achille.

    parafrasi


    Ispirami a cantare, o Musa, l'ira funesta di Achille, figlio di Peleo, che portò precocemente al regno dei morti infiniti uomini. La morte e la distruzione furono così atroci che abbandonò ai cani e agli uccelli le salme dei morti, poiché non c'era il tempo per onorarli con una degna sepoltura. Si compia così la decisione di Giove (che aveva promesso a Teti di vendicare l'offesa subita da Achille), presa da quando il divino (divo) Achille e il figlio di Atreo (Agamennone) si divisero (disgiunse) per la contesa della schiava.

    Parafrasi
    raccontami, o dea, l'ira di achille figlio di peleo, che fu la causa di moltissimi lutti per i greci, e mandò nell'ade molte anime prima del giusto tempo, e fece delle loro salme cibo per cani e uccelli ( così che si compisse il disegno di Giove), da quando all'inizio il divino Achille e il re Agamennone furono divisi da un'aspra contesa.







    Iliade - Il duello tra Ettore e Achille


    parafrasi

    Quando si trovarono uno di fronte all’altro, Ettore dall’elmo scintillante parlò ad Achille per primo:
    “Non fuggirò più di fronte a te, Achille, come adesso così successe per ben tre volte che di fronte alle mura di Troia, non riuscii a difendermi dal tuo attacco; adesso il mio animo mi sprona
    a non fuggire più, qualunque sia la mia sorte. Ci rivolgiamo agli dei: perché essi saranno i migliori testimoni e conservatori degli accordi; io non intendo portarti disonore, se grazie all’aiuto di Zeus
    riuscirò a toglierti la vita; quando, Achille, ti avrò rimosso le tue gloriose armi, restituirò il tuo corpo agli Achei: e anche tu farai così”. Ma Achille guardandolo minacciosamente disse: “Ettore, o tremendo, non scenderò a patti con te: come non vi è alcuna alleanza tra uomini e leoni, e tra lupi e agnelli, i quali non sono mai in accordo, ma si detestano ininterrottamente, così non potrà mai succedere che noi ci vogliamo bene; fra di noi non ci saranno patti, il primo che morirà appagherà Ares con il sangue del nemico. Ricordati che ora devi essere perfetto nell’usare l’asta e veloce nel combattere, senza commettere errori! Ormai non puoi più sfuggire al tuo destino, gli dei hanno già deciso e Atena ti ucciderà per mezzo della mia lancia: sconterai tutto il dolore che hai portato al mio popolo”. Mentre parlò Achille scagliò l’asta contro Ettore; ma egli vedendola prima riesce ad evitarla: si abbassò e l’asta lo schivò, conficcandosi nel terreno; ma Atena, senza essere vista da Ettore, la ripose nelle mani di Achille. A quel punto Ettore disse ad Achille: “La tua mira non ha avuto un esito positivo! Allora in realtà tu non sapevi quello che mi sarebbe successo, Zeus non vuole la mia morte. Eppure tu lo hai dichiarato. Eri molto abile nel parlare, ma l’hai detto perché volevi che io mi scoraggiassi. No, non fuggirò di fronte al tuo attacco, ma ti affronterò a viso aperto, se mi vorrai uccidere, lo dovrai fare mentre ti attacco, se un dio ti aiuterà. Intanto cerca di evitare questa lancia che sto per scagliarti e spero che ti entri nel corpo. Certamente se riuscissi ad ucciderti la guerra risulterebbe molto più facile per i Teucri, perché tu sei il più grande problema” Mentre parlò, bilanciò l’asta e la scagliò ma centrò lo scudo di Achille, non fallì il colpo; ma l’asta rimbalzò cadendo per terra; Ettore si innervosì, perché il suo lancio fu inutile, e preso dallo sconforto, perché non aveva più lance; chiamò il fratello Deifobo, perché gli passasse un’altra lancia: ma egli non gli era più vicino. Allora Ettore capì il suo destino interpretato dal fato e gridò: “Ahi! Adesso non ho più alcun dubbio, gli dei hanno decretato la mia morte. Pensavo di aver vicino Deifobo, ma egli è all’interno di Troia, Atena mi ha imbrogliato. Il mio destino è di dover morire, tutto questo era già stato stabilito da Zeus e da suo figlio, Apollo, che adesso mi sono nemici però un tempo
    furono benevoli nei miei confronti. Ormai la morte mi ha raggiunto. So che devo morire, ma non mi ritirerò, lotterò fino all’ultimo perché io possa morire gloriosamente così che i miei posteri mi possano stimare”.
    E mentre parlava così, estrasse la spada, che gli pendeva da dietro al fianco, grande e pesante, e partì di scatto all’attacco, come un’aquila che piomba verso la pianura, attraversando le nuvole buie, per uccidere un giovane agnello o una lepre: in tal modo scattò Ettore, agitando la spada acuminata.
    Ma anche Achille scattò all’attacco, con il cuore selvaggio carico di collera: pose davanti a sé lo scudo bello, decorato, scuotendo la chioma lucente, che Efesto aveva creato fitta attorno al cimiero.
    Come la stella procede tra i vari astri durante la notte, Espero, l’astro più lucente del cielo. Così luceva la spada del glorioso Achille nella sua mano destra, riflettendo intensamente come poter uccidere Ettore, cercando con gli occhi un punto del suo corpo che fosse scoperto dall’armatura. Le armi bronzee ricoprivano tutto il corpo di Ettore, colui che uccise Patroclo; ma vi era una fessura dove le clavicole dividono le spalle dalla gola e dal collo, e quello è un punto di rapida morte.
    Qui Achille lo colpì, la punta dell’asta passò attraverso il morbido collo di Ettore, però non gli tagliò le corde vocali così che Ettore riuscisse a parlare. Achille si vantò: “Ettore, mentre spogliavi Patroclo delle sue armi credevi forse di poter sfuggire da me, che ti ero lontano! Ma io rimanevo suo difensore sulle navi. Ora cani e uccelli ti sbraneranno: ma lui seppelliranno gli Achei”.
    Senza più forze Ettore gli rispose: “Ti prego per la tua vita, per le ginocchia, per i tuoi genitori, non lasciare che venga sbranato dai cani degli Achei, ma accetta oro e bronzo senza fine, i doni che ti verranno dati da mio padre e dalla mia nobile madre: rendi il mio corpo alla mia patria, perché il mio corpo possa essere bruciato”.
    Ma guardandolo bieco, Achille disse: “No, cane, non mi pregare per nessun motivo; che la rabbia e il furore mi spingano a tagliuzzare le tue carni e a divorarle per quello che u hai compiuto: nessuno allontanerà dal tue corpo le cagne, per nessun motivo, nemmeno se Priamo offrirà tanto oro quanto pesi. Così la tua nobile madre non potrà piangere sul tuo letto, perché così i cani e gli uccelli ti sbraneranno. Rispose così Ettore: “Va, ti conosco! Non potevo persuaderti perché tu hai il cuore di ferro, che non prova passione. Bada però che la mia morte non ti porti l’odio degli dei; quel giorno che Paride, guidato da Apollo, ti ucciderà, tu ancora coraggioso, sopra le porte Scee”.
    Mentre parlava morì Ettore: il suo spirito volò via e scese nell’Ade, rimpiangendo la giovinezza e il vigore.
    Rispose al cadavere Achille illustre: “Muori! Anch’io dovrò morire quando gli dei lo vorranno!”
    Disse e tolse al morto le armi insanguinate dopo aver strappato l’asta, accorsero gli altri ammirando la statua e la bellezza stupenda di Ettore, e nessuno si avvicinò senza martoriare e colpire il cadavere dell’eroe.
    E così diceva qualche infido volto al vicino: “ Davvero, è più morbida la carne d’Ettore, di quando appiccò fuoco alle nostre navi”.
    Disse e meditò di fare un offesa al glorioso Ettore: gli forò i tendini dietro ai due piedi dalla caviglia al tallone, ci passò due cinghie, lo legò al cocchio, lasciando la testa ciondolare a terra, e balzato sul cocchio, alzando in alto le armi frustò per partire: desiderosi di correre i cavalli volarono. R intorno al corpo trainato si alzò la polvere: i capelli neri si scompigliarono; tutta la testa giaceva in mezzo alla polvere, prima stupenda: ma allora Zeus lo diede ai nemici, che lo sconciassero nella sua patria.








    Riassunti “Novelle per un anno” di Pirandello

    Riassunto L’Avemaria di Bobbio
    Un caso singolarissimo era accaduto a Marco Saverio Bobbio, notaio a Richieri tra i più stimati. Studioso di filosofia non era più credente come da bambino. Bobbio aveva in bocca più di un dente guasto. Parecchi anni si trovava a villeggiare con la famiglia a due miglia da Richieri. Andava alla mattina a lavorare in paese e alla sera tornava a casa, ma la domenica voleva passarla tutta in vacanza. Così invitò tutti i parenti e mentre le donne parlavano, i bambini giocavano; gli uomini giocavano a bocce. Giunta ora di mangiare a Bobbio venne un fortissimo mal di denti, che decise di ritirarsi in camera sua. Dopo un’oretta decise di andare in paese da un dentista. Per strada vedendo il tabernacolo della SS. Vergine delle Grazie disse la preghiera Ave Maria e il mal di denti gli passò; così tornò a casa. Adesso chiuso in camera sua ripensava al fatto sorridendo quando leggendo Montagne gli venne un forte mal di denti. Provò a continuare a leggere e a non pensarci ma non ce la faceva così decise di andare dal dentista. Per strada provò di nuovo a pregare ma nulla cambiò. Quando arrivò dal dentista il mal di denti gli era passato ma decise comunque di farsi togliere tutti i denti.

    Riassunto La patente
    Il giudice D’Andrea non era vecchio; poteva avere appena quarant’anni. Aveva un viso bianco, dei capelli crespi gremiti da negro, una vasta fronte protuberante piena di rughe, dei piccoli occhi plumbei ed era una misera personcina. Alla notte non dormiva mai ma stava sveglio a pensare alla finestra guardando le stelle. Quando si faceva giorno doveva recarsi al suo ufficio d’Istruzione. Come lui non dormiva non lasciava mai dormire l’incartamento in ufficio anzi delle volte restava per più tempo al lavoro per terminarlo. Per aiutarsi meditava alla notte ma pensava sempre ad altro. Eppure era la prima volte da circa una settimana che un incartamento dormiva sul tavolino di D’Andrea. Il caso era una denuncia verso due uomini da parte di Chiàrchiaro perché loro lo chiamavano iettatore, come d’altronde era soprannominato da tutti. Questo caso divenne una fissazione per D’Andrea. Sapendo che Chiàrchiaro non avrebbe mai vinto la causa decise di chiamarlo nel suo ufficio per parlargli. Quando parlò con Chiàrchiaro l’uomo gli riferì che voleva che gli dessero una patente da iettatore così poteva farlo diventare il suo lavoro e avere i soldi per mantenere le figlie nubili e la moglie paralitica.

    Iettatore = persona a cui viene attribuita la facoltà di esercitare influssi malefici.


    Riassunto Il treno ha fischiato…
    I colleghi di lavoro di Belluca dicevano che farneticava; usavano dei termini scientifici appena imparati e fingevano di mostrarsi afflitti, ma in fondo erano contenti anche del fatto che avevano compiuto il dovere di andarlo a trovare all’ospizio. Nessuno pensava che date le condizioni in cui aveva vissuto fino a quel momento il suo caso poteva essere naturalissimo. Fino a quel momento Belluca era un uomo mansueto e veniva sottomesso, infatti sia il suo capo sia i compagni di lavoro lo trattavano male. Una mattina si presentò in ufficio con un’aria insolita e alla sera quando il capo-ufficio gli chiese cosa avesse fatto tutto il giorno lui con molta calma rispose :”Niente” e si mise a parlare di un treno che aveva fischiato così il capo-ufficio decise di portarlo all’ospizio dei matti. Io (narratore interno perché è un personaggio del racconto) non rimasi meravigliato del fatto anzi secondo me Belluca non era impazzito era una cosa naturalissima. Ero suo vicino di casa e come tutti gli altri inquilini mi domandavo come un uomo potesse vivere in quelle condizioni. Viveva con tre cieche, la moglie, la suocera e la sorella della suocera; tutte tre volevano essere servite. Con lui vivevano anche le due figlie vedove, una con quattro figli l’altra con tre. Per mantenere tutti Belluca oltre a fare il suo lavoro da computista lavorava anche alla sera fino a tardi. Due sere prima Belluca mentre si distendeva sul divano udì il fischio di un treno, così si mise a dormire e sognò tutta la notte quel treno e il resto del mondo che fino a quel momento aveva dimenticato. Appena si sarebbe ricomposto sarebbe andato dal capo-ufficio a scusarsi ma esso non doveva più pretendere tanto da lui e doveva concedergli che ogni tanto facesse una capatina in Siberia oppure nelle foreste del Congo: “ Si fa in un attimo, signor Cavaliere mio. Ora che il treno ha fischiato…”

    Riassunto La mosca
    Saro e Neli Tortorici correvano per il paese in cerca di un dottore per loro cugino Giurlannu Zarù che si era sentito male in una stalla a Montelusa. Arrivarono a casa del dottore Sidoro Lopiccolo, lo trovarono scamiciato, spettorato, con una barbaccia di almeno dieci giorni e gli occhi gonfi e cisposi, con in braccio una bambina malata e ingiallita, pelle e ossa, di circa 9 anni. La moglie in un letto ormai da 11 mesi e la casa una rovina. Il dottore Sidoro Lopiccolo si mise a guardare l’unica cosa rimasta intatta in quella casa, un ritratto fotografico ingrandito di quando era giovane. Guardandolo gli veniva in mente quando sua madre lo chiamava “Sisinè” e credeva che lui poteva fare grandi cose infatti lui era il beniamino, la colonna, lo stendardo della casa. Saro e Neli spiegarono che loro cugino stava male, lui disse che per andare fino a Montelusa voleva una mula. Così Saro andò a prendere una mula e Neli andò a tagliarsi la barba. Neli raccontò al barbiere l’accaduto. Il pomeriggio nella tenuta di Lopes a Montelusa, stavano lavorando quando il capo li disse che avrebbero abbacchiato le mandorle a mezza lira come le donne. Zarù decise si non farlo così andò a riposare in una stalla. I lavoratori decisero di restare tutta la notte al lavoro, così la mattina dopo Saro andò a svegliarlo e lo trovò gonfio e nero con un febbrone da cavallo. Il barbiere distraendosi dal racconto provocò una feritina a Neli. In quel momento arrivarono Luzza , la fidanzata di Neli, Mita Lumia, la fidanzata di Zurò, e sua madre, la fidanzata di Zurò voleva partire con loro ma Neli le disse di no. Così partirono, dopo due ore arrivarono alla stalla e trovarono Zurò come lo avevano lasciato poche ore prima. Il medico disse che un insetto con il carbonchio lo aveva punto. Così Zurò ripensandoci su si ricordò che una mosca lo aveva punto e quella mosca era ancora li sul muro che lo guardava come soddisfatta. La stessa mosca si posò sulla ferita di Neli e iniziò a succhiarli il sangue dopo molto Neli la mandò via. Quando capirono cosa era successo se ne andarono lasciando Zurò solo.

    Riassunto La carriola
    Un commendatore, professore, avvocato un giorno al ritorno da Perugia, si accorge di non aver mai vissuto la vita che ha, che questa vita non gli appartiene e che lui la trascina come un peso. Così per liberarsi appena ha un momento libero dai clienti chiude la porta del suo studio a chiave, si avvicina alla cagna che dorme sul tappeto, la prende per le zampe posteriori e le fa fare 8 o 10 passi a carriola, poi riapre la porta dello studio e si prepara a ricevere il cliente seguente. La cagna lo guarda con terrore perché ha capito che non scherza ma è un segno di pazzia.

    Riassunto La distruzione dell'uomo
    Nicola Petix aveva ucciso la signora Porella non perché era pazzo, non perché aveva una passione per lei e neanche perché era una bestia, ma perché dopo diciannove anni e quindici aborti, forse questa era la volta buona per il compimento della gravidanza. Così quando la buttò nelle acque del fiume non uccise solo un uomo ma uccise l’uomo, non uno dei tanti ma tutti in quel uomo.
    Nicola viveva in una casa diroccata con molti altri inquilini, non aveva ricevuto neanche una parte dell’eredità del padre, che era stata donata al fratello maggiore, perché il padre credeva che aveva trascorso i suoi anni in un ozio vergognoso, all’università, passando da un indirizzo all’altro senza dare mai un esame. Comunque ogni mese aveva diritto a una piccola parte di soldi equivalenti a poche lire.

    Riassunto La fede
    Don Pietro dormiva nella sua cameretta, quando arrivò don Angelino. Don Angelino voleva spogliarsi dagli ordini sacerdotali, già il giorno prima ne aveva parlato con don Pietro, dicendogli che lui ormai credeva in un’altra fede, ma don Pietro gli disse che non c’erano altre fedi. Adesso era tornato in quella camera per parlargliene di nuovo, mentre aspettava che il prete si svegliasse, iniziò a piangere pensando a quanto sarebbe rimasta male sua madre quando glielo avrebbe detto, lei credeva in lui e pensava che fosse un angelo. Mentre stava piangendo, entrò nella camera la sorella del prete e in quel momento si svegliò quest’ultimo. La donna disse al prete che c’era un’anziana che voleva che gli celebrasse la messa. Don Pietro disse a don Angelino di andare lui, così lui ci andò. La donna aveva portato tre lire, due galletti, delle mandorle secche e delle noci come voto per San Calògero. Infatti esso gli aveva fatto guarire il figlio da una malattia, appena guarito il figlio era partito per l’America, promettendo alla madre che le avrebbe scritto e mandato dei soldi ogni mese. Lei credeva che il figlio dopo 16 mesi non le aveva ancora scritto perché lei non aveva mantenuto il voto. Così era andata lì per mantenerlo. Don Angelino prima cercò di convincerla a riportarsi a casa le offerte ma quando la donna si mise a piangere decise di fare la messa. Quando salì all’altare sentì quella fede forte come la prima volta.


    Riassunto La giara
    Ogni volta che succedeva qualcosa Don Lollò andava dall’avvocato per fare gli atti, così l’avvocato stufo di vederselo comparire davanti ogni volta gli aveva regalato un codice da consultare ogni volta che ne aveva bisogno. Don Lollò aveva comprato una giara da quattro onze per metterci dentro l’olio. Aveva lasciato la giara in un magazzino, un giorno tre contadini la videro rotta, così avvisarono Don Lollò che convinto da Zi’Dima l’avrebbe fatta aggiustare da lui. Il giorno seguente Zi’ Dima arrivò puntuale all’aia, lui voleva aggiustare la giara usando un mastice che aveva creato lui, ma Don Lollò lo obbligò ad aggiungere anche i punti oltre che al mastice. Nel mettere i punti Zi’ Dima restò bloccato all’interno della giara Don Lollò non sapeva cosa fare così gli diede cinque lire per pagarlo e del pane e companatico per la colazione, dopo si fece sellare la mula per andare in città dall’avvocato. L’avvocato gli disse che lui doveva rompere la giara seno sarebbe stato sequestro di persona ma Zi’ Dima doveva ripagarli la giara. Tornato all’aia Don Lollò fece stimare da Zi’ Dima la giara, lui disse che adesso valeva un’onza e trentatré. Don Lollò chiese allora a Zi’Dima di dargli i soldi ma lui disse di no e che preferiva restare dentro alla giara. Non sapendo cosa fare Don Lollò gli disse che il giorno dopo gli avrebbe fatto causa per alloggio abusivo ma Zi’Dima gli disse che non stava lì per suo piacere e che se avrebbe rotto la giara sarebbe uscito ma non l’avrebbe pagata. Don Lollò andò in casa, Zi’ Dima con le cinque lire di prima mandò un contadino in una taverna lì vicino e decisero di far festa tutta la notte. Giunta l’ora di mettersi al letto Don Lollò non riusciva a dormire per il baccano che facevano i contadini così andò giù diede un calcio alla giara che andando contro un olivo si ruppe. Così Zi’Dima la vinse.

    Riassunto Ciaula scopre la luna
    Quella sera Cacciagallina voleva che i picconieri facessero la notte per finire di estrarre le casse di zolfo. Tutti se ne andarono anche se lui li minacciò con una pistola. L’unico che restò fu il povero Zi’ Scarda; era vecchio e per un occhio era cieco; così tutti se la prendevano con lui e anche quella sera Cacciagallina fece lo stesso. Anche Zi’ Scarda aveva chi maltrattare, il suo caruso Ciàula. Proprio mentre Cacciagallina se la prendeva con Zi’ Scarda, a quest’ultimo scese una lacrima e lui la bevette; non era una lacrima di pianto, ma si era bevuto anche quelle, quando quattro anni fa gli era morto il suo unico figlio Cavicchio, per lo scoppio di una mina, per la quale lui perse un occhio. Ciàula si stava rivestendo quando Zi’ Scarda lo chiamò e gli disse di rimettersi i vestiti di lavoro, perché sarebbero rimasti lì tutta la notte. L’unico problema era che Ciàula doveva andare a portare i carichi fuori dalla caverna e aveva paura del buio che c’era fuori. Quello all’interno non gli faceva paura ma fuori era un’altra cosa perché non lo conosceva. Ciàula viveva con Zi’ Scarda e con la nuora e i sette nipoti di esso. Quando venne il momento di portare fuori il carico Zi’Scarda glielo caricò sulle spalle e Ciàula si mise in cammino. Arrivato quasi all’entrata vide una chiara e man mano che si avvicinava all’uscita la chiara cresceva fino a quando uscì e restò sbalordito; fece cadere il carico dalle spalle e si mise a guardare la Luna. Lui sapeva cos’era ma non gliene aveva mai dato importanza. E Ciàula si mise a piangere senza saperlo, senza volerlo e non si sentiva più stanco né aveva più paura.


    Riassunto Candelora
    Nane Papa e Candelora erano sposati; lui era un pittore, che non aveva molto successo, così lei arrabbiata per il fatto che sarebbe diventata povera, decise di andare a parlare con un critico che seguivano tutti, in cambio di una buona parola per Nane Papa Candelora doveva essere molto gentile con lui e con tutti gli ammiratori di Nane Papa, soprattutto con il barone Chicco, che li ospitava nella sua villetta. Di ritorno dal mare Candelora litigò con Nane Papa perché lei voleva che lui la amasse come non aveva mai fatto. Candelora andò nella villetta a piangere poco dopo Nane Papa decise di raggiungerla. Arrivò nella stanza dove si trovava Candelora, era distesa a terra, con una coscia scoperta; appena Nane Papa la vide credette che aveva bevuto la boccetta di iodio ma quando arrivo Chicco e la presero in braccio videro che nella mano teneva una rivoltella e sul fianco aveva una grossa macchia di sangue. Nane Papa si mise a piangere perché capì che lei voleva solo essere amata da lui.








    Parafrasi Adelchi coro atto IV Morte di Ermengarda

    La «provida sventura»

    La morte giunge serena per Ermengarda, nella convinzione che «fuor della vita» risiede la liberazione dalla sua dolorosa sorte terrena. E’ il premio, la consolazione ideale, l'esito ultimo di un disegno invisibile che agisce nella storia e si anima nella coscienza di creature generose. Di fronte al crollo inglorioso del regno longobardo, fondato sulla violenza, Ermengarda si salva senza colpa e senza rimorsi: lei, che pure appartiene a quella «rea progenie», è salvata dalla propria sofferenza.
    Alla base c'è la fede in una giustificazione divina della sventura, vista come «provida», cioè come strumento di purificazione offerto dalla Provvidenza. E’ un'idea centrale nella visione manzoniana e e sarà un elemento chiave anche del fondamento ideologico dei Promessi sposi.

    La struttura del coro

    Il coro ha una struttura architettonicamente studiata e calibrata. Le prime due semistrofe (vv. 1-12) rappresentano Ermengarda sul letto di morte, circondata dalle suore del convento. Esse hanno quindi una funzione di raccordo con la scena precedente e, insieme, costituiscono un preambolo al discorso successivo: Ermengarda muore con gli occhi che cercano «il ciel» (vv. 5-6), la pace della vita eterna. Nelle due semistrofe successive (vv. 13-24) interviene la voce del poeta, che si rivolge a Ermengarda invitandola a liberare l'animo angosciato dalle passioni terrene («i terrestri ardori», v. 14): fuori della vita troverà la liberazione dal «lungo martir» che altri le hanno inflitto, ma proprio la sofferenza che ha subito in vita la renderà «santa» e degna di salire al «Dio de' santi».
    Segue la parte centrale del coro (vv. 25-60), che si dilunga per sei semistrofe: è un momento introspettivo nel quale, con scorci repentini, si rievoca il percorso di un'intera esistenza. Muovendo da un presente di silenziosa sofferenza che di continuo rinnova nel ricordo l'ora dolorosa del disinganno e della solitudine, rivivono i momenti di più fiducioso e irrecuperabile abbandono affettivo.
    Le quattro semistrofe successive (vv. 61-84) descrivono la condizione psicologica di Ermengarda, attraverso la similitudine del cespo d'erba: il personaggio, tormentato dai ricordi e dal risorgere della passione, è paragonato al cespo d'erba inaridita che riprende momentaneamente vita grazie alla rugiada, ma è poi di nuovo seccato dalla vampa infuocata del sole. Dalla quindicesima semistrofa(vv. 85 seg.) si ritorna al motivo d'inizio, la liberazione dal tormento che è possibile solo nella morte: si noti il refrain (i primi quattro versi, «Sgombra, o gentil... e muori», vv. 85-88, riprendono esattamente i vv. 13-16). Si chiude così il cerchio: nelle ultime sei
    semistrofe il poeta si rivolge di nuovo al personaggio, ribadendo che la «sventura» è strumento di purificazione e la pace è raggiungibile soltanto fuori della vita.

    Metro

    Dieci strofe settenarie doppie, costituite da due parti di sei versi ciascuna. Il primo, il terzo e il quinto verso sono sdruccioli e sciolti; il secondo e il quarto sono piani e a rima alterna; il sesto è tronco e rima con l'ultimo della seconda parte della strofa, anch'esso tronco. Schema: abcbde fghgie. E’ il metro che Manzoni adotta nella quasi coeva ode Il cinque maggio.

    I piani temporali del discorso

    Alla struttura del coro corrisponde un complesso e simmetrico gioco di piani temporali. Si presentano in successione tre diversi livelli temporali, incastrati con la tecnica del flash-back: il presente della morte, il passato recente nel monastero, il passato lontano della vita matrimoniale.
    Presente. Il coro prende le mosse da una situazione presente, Ermengarda sul letto di morte. Il presente è il piano temporale delle prime quattro semistrofe.
    Passato recente. Attraverso un flash-back, la quinta semistrofa rievoca il passato recente di Ermengarda, quando, chiusa nel monastero, cercava di soffocare il suo amore e i ricordi dei giorni felici del matrimonio, gli «irrevocati dì» (v. 30).
    Passato lontano. Quei lontani e felici ricordi, benché Ermengarda non voglia rievocarli, prendono prepotentemente campo: con un ulteriore flash-back, le semistrofe successive, dalla sesta alla decima (vv. 31-60), sono occupate da quel gioioso lontano passato trascorso al fianco di Carlo, nelle vivide scene della caccia e del ritorno del re dalla guerra.
    Nelle semistrofe successive, dalla undicesima alla quattordicesima (vv. 61-84), si ritorna al passato recente, con Ermengarda che, chiusa nel monastero, vive il dissidio interiore sospesa tra la volontà di oblio e il risorgere della passione. Dalla quindicesima semistrofa alla fine (vv. 85-120), si ritorna invece al presente dell'agonia di Ermengarda.

    Una lirica elegiaca

    Se si confronta questo coro con quello dell'atto III (Dagli atrii muscosi, dai fòri cadenti), si avverte uno scarto dall'epico all'elegiaco. Di nuovo il coro è dedicato a una vittima: Ermengarda è, come i latini nel coro dell'atto III, una vittima: una vittima d'alto rango, ma anch'essa senza storia e senza voce. Ed è appunto attraverso il coro che l'autore dà spazio e voce al suo dramma. Manzoni non persegue qui la poesia epica e martellante del coro dell'atto III, ma una lirica dai toni elegiaci e delicati, consona al dramma interiore del personaggio. Si notino le due delicate similitudini naturalistiche: quella col cespuglio di tenui steli, ravvivato dalla rugiada e poi arso dal sole (vv. 61-78), e quella finale, col sole che si libera dalle nuvole e tramonta (vv. 114-120).

    CONTENUTO: Questo brano del coro dell’atto quarto dell’Adelchi è dominato dal tema della provvida sventura Manzoniana in relazione alla morte di Ermengarda. La donna viene incitata a liberare la mente dai terrestri ardori, forse dall’Io lirico di Manzoni. Il pensiero poi si rivolge alle altre donne infelici, consumate e già morte a causa del dolore, accostandovi poi l’immagine di Ermengarda che, trovatasi dalla parte degli oppressi invece che degli oppressori, è incitata a morire in pace, col volto che si ricomponga come quando era fanciulla, ignara di un destino avverso, in visione di un buon augurio di salvezza divina. C’è quindi il paragone tra il volto sereno di Ermengarda e la serenità del contadino che, al tramonto vedendo il sole squarciare le nuvole, spera in un giorno più sereno. Ai versi 103 - 104 vediamo, sottolineato da un enjembement, provvida sventura spesso ricorrente nell’idea religiosa di Manzoni, che sta a significare la possibilità di riscattarsi di una colpa, nel caso di Ermengarda le colpe del suo popolo cui fu prodezza il numero, / cui fu ragion l’offesa, / e dritto il sangue, e gloria / il non aver pietà.

    STILE: Al verso 93 vediamo “brando”, una metonimia (figura retorica che consiste nel trasferire un termine dal concetto a cui propriamente si applica ad un altro in cui è in stretto rapporto di dipendenza) che sta per “spada”. Nel passaggio sono presenti termini eruditi di origine latina, come al verso 92 “orbate” e al verso 94 “indarno” oppure al verso 112 “fallace” (dal latino fallax). Al verso 97 e 103 è presente una anafora, cioè una ripetizione di una parola, in questo caso “te”, quasi a sottolineare il senso di colpa che viene addossato ad Ermengarda. Altra anafora è presente ai versi 99 – 100 con “…cui… cui…”. Nel passaggio sono presenti molti enjembements, il più notevole dei quali e quello ai versi 103 – 104 con “provvida / sventura” quasi ad evidenziare ciò che sarà un tema caratteristico nel Manzoni. Ai versi 114 – 115 si trova un ulteriore enjembement della strofa che termina con “Così…” per sottolineare la continuità del paragone tra il volto di Ermengarda e lo stato d’animo del contadino che sull’alba si rasserena per un giorno più sereno.









    analisi metrico-strutturale della poesia Pioggia nel pineto

    La poesia “La pioggia nel pineto” è stata tratta dalla raccolta poetica: Alcyone, che è stata scritta da Gabriele D’Annunzio (1863-1938), il quale è stato uno dei massimi autori della corrente artistica conosciuta come Decadentismo. Lui dopo essersi sposato con una duchessa, dalla quale avrà tre figli, scappa. Dopo questi fatti s’innamorerà di Eleonora Duse, un’attrice di teatro, loro vivranno circondati dal lusso e dai debiti. D’Annunzio, che si considerava un super uomo, compie il famoso volo su Vienna (1918), occupa la città di fiume e aderisce al fascismo ma Mussolini lo terrà lontano dalla vita politica attiva. Alla sua morte la sua regia, il Vittoriale, diventerà un museo della sua vita.
    Questa poesia narra di un giorno di pioggia in una pineta dove D’Annunzio, insieme ad Ermione, ascolta la musica creata della pioggia. Inebriati da questa musica, i due a poco a poco diventano vegetali e si fondono con la natura che li circonda.
    Il poeta per esprimere le sue sensazioni usa quattro strofe di trentadue versi l’una, usa rime senza seguire uno schema metrico definito, utilizza anche alcune figure retoriche, tra cui la similitudine e la personificazione, la più grande personificazione che usa è quando fa suonare gli alberi, il momento più intenso della poesia secondo me; per sottolineare alcuni momenti usa ejambement e molti punti.
    I temi trattati nella poesia sono la pioggia, che continua ad aumentare, e la straformazione da uomini a vegetali. Questa poesia non contiene un vero e proprio messaggio ma è solamente la narrazione di un momento, di una sensazione, è una poesia superficiale.
    La poesia mi è piaciuta perché D’Annunzio ti fa sembrare all’interno della situazione che sta narrando.

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    SPIEGAZIONE: LA PIOGGIA NEL PINETO (G. D’Annunzio)

    Il poeta dice alla donna immaginaria che l’accompagna di tacere, perché lui vuole immergersi nella natura e ascoltarne tutti i suoni.
    Successivamente il poeta le dice di ascoltare il suono che la pioggia, caduta da un cielo con poche nuvole, produce sui pini ruvidi, sulle tamerici bruciate dal sole, sui mirti (considerati sacri dalla dea Venere), sui mazzetti di fiori dorati, sui ginepri pieni di bacche profumate; la pioggia non cade solo sulla natura, ma anche sui loro volti silvestri (al poeta sembra di star diventando della stessa natura degli alberi del bosco), sulle loro mani nude, sui loro vestiti leggeri, sui sentimenti che riaffiorano come nuovi e sulle illusioni della giovinezza che hanno illuso sia Ermione (la donna che l’accompagna) che D’Annunzio.
    L’autore chiede alla donna se sta udendo la pioggia che cade sulla vegetazione, con un crepitio che si protrae e varia a seconda delle chiome degli alberi più rade o meno rade.Lui chiede di nuovo l’attenzione della donna per ascoltare che al pianto del cielo (la pioggia: qui D’Annunzio personifica la natura) risponde la cicala, che non si impaurisce né con la pioggia portata dai venti del sud, né con il cielo grigio cenere.
    Mentre la pioggia cade, ogni albero produce un suono diverso, sembrando strumenti suonati da tante mani. Così, al poeta, sembra di essere talmente immersi nella vegetazione da diventare partecipi alla vita del bosco, quasi come fossero piante. Il volto della donna Ermione è gioioso, bagnato di pioggia come una foglia, e i suoi capelli profumano come le bacche delle ginestre menzionate da poco.
    Continuando a chiederle di ascoltare, si ode il canto delle cicale che comincia a svanire, ma a esso si unisce il canto delle rane proveniente dalla parte più lontana e umida del bosco; anche esso svanisce, e si sente solo il rumore dell’acqua che cade sulla terra. Non si sente alcun rumore del mare, ma è chiaro lo scrosciare della pioggia che pulisce tutto. Mentre la cicala non canta, la rana si ode da lontano, e non si riesce a capire dove sia.
    D’Annunzio, guardando Ermione, si accorge che la pioggia cade anche sulle sue ciglia, e sembra che lei pianga di piacere; lei sembra verdeggiante ed appare come una ninfa che esce dall’albero.
    Il poeta pensa che la loro vita è fresca e profumata, il cuore è come una pesca, gli occhi bagnati dalla pioggia sono come sorgenti d’acqua nel prato, i denti sono come mandorle acerbe.
    Loro vanno da cespuglio a cespuglio, un po’ stretti per mano e un po’ sciolti (i rami degli arbusti gli stringono le caviglie e gli impediscono di camminare), senza una meta precisa.
    Intanto continua a piovere sui loro volti silvestri, sulle loro mani nude, sui loro vestiti leggeri, sui sentimenti nuovi e sulle illusioni della giovinezza che hanno provato i due protagonisti.


    ---==oooOOOooo==---


    • In quale luogo il poeta immagina di trovarsi?
    Il poeta immagina di trovarsi in una pineta.

    • La lirica inizia con un invito al silenzio: “Taci”. Il poeta a chi rivolge questo invito? Perché?
    Alla donna immaginaria che l’accompagna, Ermione. Perché vuole ascoltare i suoni della natura e immedesimarsi con essa.

    • Man mano che la pioggia aumenta d’intensità, quale meravigliosa sinfonia silvestre si diffonde nell’aria?
    Il suono che la pioggia produce a seconda di dove cade.

    • Al suono della pioggia fa eco il canto di due animali. Quali?
    La cicala e la rana.

    • Il poeta e la donna, immersi nella vegetazione, si sentono come trasformare, divenire parte integrante della natura.Come viene descritta la donna? Quali sensazioni prova? Le varie parti del corpo del poeta e della donna in quali aspetti della natura si trasformano?
    La donna ha volto silvano ed ebro, le mani nude, veste con abiti leggeri; i suoi capelli profumano e le sue ciglia sono nere e bagnate dalla pioggia. La donna gioisce e par che pianga di piacere. Il cuore è come una pesca intatta, gli occhi sono come sorgenti d’acqua tra l’erba e i denti sono come mandorle acerbe.

    • Che cos’è la “favola bella” che illude?
    La vita con i suoi sogni d’amore e le sue speranze.

    • Perché il poeta in questa lirica canta la natura?
    Per immergersi in essa e diventarne parte viva.

    • Considera la terza strofa: quali sono le parole che, con il loro suono, riproducono l’aumentare d’intensità della pioggia?
    “Si fa sotto il pianto che cresce me un canto si mesce più roco/ Più sordo e più fioco s’allenta, si spegne. Solo una nota ancora trema, si spegne, risorge, trema, si spegne. Or s’ode su tutta la fronda crosciare.”

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    “La pioggia nel pineto”
    Parafrasi


    Taci. Entrando nel bosco non odo più suoni umani, ma odo parole insolite pronunciate dalle gocce che cadono in lontananza.

    Ascolta. Piove dalle nuvole sparse. Piove sulle tamerici impregnate di salsedine ed arse dal sole, sui pini dalle scorze ruvide e dalle foglie aghiformi, sui mirti sacri a Venere, sulle ginestre dai gialli fiori raccolti e sui ginepri che sono pieni di bacche profumatissime. Piove sui nostri volti divenuti tutt’uno con il bosco piove sulle nostre mani nude, sul nostro corpo, sui nuovi pensieri sbocciati dall’anima rinnovata, sull’illusoria favola dell’amore che ieri t’illuse, che oggi m’illude, o Ermione.

    Odi? La pioggia che cade sul fogliame della pineta deserta producendo un crepitio che dura e varia secondo quanto è folto il fogliame. Ascolta. Alla pioggia risponde il canto delle cicale che non è fermato né dalla pioggia né dal colore scuro del cielo. E il pino ha un suono, e il mirto altro suono, e il ginepro altro ancora, e le gocce di pioggia sono come miriadi di dita che fanno suonare diversamente queste piante. Noi siamo nel più intimo della foresta, non più esseri umani ma vivi d’una vita vegetale. E il tuo volto bagnato ed inebriato dalla gioia e le tue chiome profumano come le ginestre, o creatura originata dalla terra che hai nome Ermione.

    Ascolta, ascolta. Il canto delle cicale che stanno nell’aria va diminuendo sotto la pioggia che aumenta. Ma in crescendo si mescola un canto più rauco, che sale dall’ombra scura dello stagno in lontananza. Solo una nota ancor trema, si spegne, risorge, trema, si spegne. Non arriva il suono delle onde sulla spiaggia. Non si sente sulle fronde degli alberi scrosciare la pioggia d’argento che purifica, lo scroscio che varia secondo i rami più folti, meno folti.
    Ascolta.
    La cicala è muta, ma la figlia del lontano fango, la rana, canta nell’ombra più profonda, chissà dove, chissà dove. E piove sulle tue ciglia, o Ermione.

    Piove sulle tue ciglia nere, che sembra tu pianga di piacere, non bianca ma quasi verde, sembri uscita dalla corteccia di un albero. E tutta la vita è in noi fresca e odorosa, il cuore nel petto è come una pesca non ancora toccata, gli occhi tra le palpebre sono come fonti d’acqua in mezzo all’erba; i denti nelle gengive sembrano mandorle acerbe. E andiamo di cespuglio in cespuglio, ora tenendoci per mano ora separati (la ruvida e forte stretta delle erbe aggrovigliate ci blocca le ginocchia) chissà dove, chissà dove!
    Piove sui nostri volti divenuti tutt’uno con il bosco piove sulle nostre mani nude, sul nostro corpo, sui nuovi pensieri sbocciati dall’anima rinnovata, sull’illusoria favola dell’amore che ieri mi illuse, che oggi ti illude, o Ermione.


    Analisi Guidata

    1. A chi si rivolge il poeta con la richiesta Taci all’inizio della poesia?
    Alla donna immaginaria che l’accompagna, Ermione, perché vuole ascoltare i suoni della natura e immedesimarsi con essa.
    2. Quali sono le parole più nuove di cui si parla al verso cinque?
    Quelle parole nuove sono l’inizio del messaggio della natura portato dalla pioggia.
    3. La pioggia è paragonata al canto (vv. 41, 43, 69, 98). Di che tipo di pianto si tratta?
    Il pianto nominato da D’Annunzio è un pianto di piacere per la metamorfosi che sta avvenendo.
    4. Perché la cicala è detta figlia dell’aria?
    La cicala è chiamata così perché vive sui rami più alti degli alberi.
    5. Che cosa è accaduto ad Ermione per cui si dice di lei, ai versi 100 e 101, che è quasi fatta virente e che sembra uscire da una corteccia?
    In Ermione sta avvenendo la metamorfosi che da spettatori della natura trasforma lei e il poeta tutt’uno con essa.
    9. Qual è la figura etimologica che compare nella prima strofa?
    La figura etimologica nella prima strofa è “parole che parlano”.
    12. Perché si può parlare di questa poesia come del racconto di una metamorfosi?
    Perché il poeta ed Ermione iniziano il loro viaggio nel bosco ascoltando la natura e lo terminano dopo averlo appreso pienamente, diventando tutt’uno con essa.
    14. Perché si può affermare che la poesia compie un itinerario perfettamente circolare? Verifica la correttezza delle risposte nella presentazione del testo.
    All’inizio del componimento Ermione e il poeta si trovano alle soglie del bosco, mentre iniziano ad ascoltare le parole nuove (vv. 5), alla fine della prima strofa la pioggia inizia a renderli parte della natura, il primo annuncio si trova nei versi 20 e 21, con la metafora volti silvani, in altre parole volti che appartengono al bosco. Verso la metà della seconda strofa c’è un altro passo di questa metamorfosi, dal verso 50 fino al 61, dove D’Annunzio e la sua compagna vivono della stessa vita degli alberi (d’arborea vita viventi verso 55), il volto ed i capelli d’Ermione sono divenuti come una foglia e come le chiare ginestre (vv. 58 e 61). Nella presentazione di questa strofa il poeta usa la congiunzione e sia per rivolgersi agli alberi (verso 46) che per rivolgersi a lui ed ad Ermione (verso 52), in questo modo egli mette le due persone allo stesso piano degli alberi. Nell’ultima strofa infine si compie la metamorfosi vera e propria, sottolineata dalle continue similitudini con la natura (vv. 102 – 109). Si può affermare che la poesia compia un itinerario circolare perché alla fine dell’ultima strofa sono ripetuti gli ultimi versi della prima.
    15. Come hai potuto notare in questa poesia, la natura, per D’Annunzio, riesce a rappresentare quei sentimenti e quei segreti che sono propri anche dell’uomo. Sei d’accordo con questa definizione? Motiva la tua risposta con un breve testo.
    Io sono d’accordo, i segreti propri all’uomo sono propri anche della natura soprattutto nel verso 74, dove si parla di quell’umida ombra remota, e nel verso 94 con quel chi sa dove, chi sa dove; l’umida ombra remota rappresenta i segreti della natura e dell’uomo nascosti (segreti, appunto) chissà dove in se stessi.

    Ritmo e metrica
    Questa poesia è composta di quattro strofe lunghe ognuna di 32 versi, per un totale di 128 versi di lunghezza variabile (senari, novenari e settenari). Il ritmo però non rispetta l’ordine dei versi, uno sì e uno no ci sono degli enjambements. Le rime della poesia sono irregolari, ce ne sono una o due per ogni strofa, in fin di verso oppure interne.

    Figure retoriche
    Vedi testo

    Commento
    Leggendo questa poesia si viene immersi in questo pineto versiliano dove tutto è illuminato da una luce verdolina; q uì il poeta ed Ermione immergendosi nella natura, ascoltandone ogni suono fino a che non avviene la metamorfosi, ritrovano loro stessi e tutta la vita è in noi fresca aulente , la loro anima si rigenera e genera pensieri nuovi, quasi fossero fiori che si schiudono.

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    La pioggia nel pineto
    Il poeta immagina di trovarsi, in una giornata d’estate, con la sua donna amata, alla quale dà il nome classico di Ermione, nella pineta di Versilia battuta dalla pioggia.
    La lirica rappresenta le sensazioni prodotte dalla pioggia che cade, sempre più intensamente, sulla pineta in cui si sono addentrati l’uomo e la donna. La natura sembra risvegliarsi e rispondere al contatto della pioggia quasi con un discorso musicale, come una serie di strumenti dal suono diverso. In mezzo a questi suoni e sotto l’intensificazione della pioggia, l’uomo e la donna, purificati dall’acqua piovana che ne bagna le vesti, sembrano immergersi progressivamente nella natura, divenendo parte di essa.
    Forma metrica: uscivano, nel 1902, i primi tre libri delle Laudi del Cielo, del Mare e della Terra. A uno di questi tre libri, l’Alcyone, appartiene questa lirica.
    Si tratta di 128 versi liberi, suddivisi in quattro strofe di 32 versi di varia misura, senza alcuna regolarità versi di tre, sei, sette e nove sillabe, con frequenti rime baciate e altre interne al verso. Esse, insieme a frequenti onomatopee e assonanze, sottolineano i toni e l’armonia del cadere della pioggia. L’ultimo verso di ogni strofa è costituito dal nome della donna a cui il poeta si rivolge: Ermione.
    Alcione è il nome della figlia di Eolo, il re dei venti, suicidatosi per il dolore della morte del marito. Gli dei la trasformarono nell’uccello dello stesso nome. Alcione è anche la stella più luminosa della costellazione delle Peleiadi, le cui stelle principali sono nove.
    Livello tematico: il poeta parla alla donna che è con lui, e la invita a tacere, per ascoltare insieme la voce del bosco. Sul limitare della pineta (“su le soglie del bosco”) il poeta non intende più il linguaggio umano di Ermione, teso com’e’ ad ascoltare quello più nuovo della pioggia sul pineto (“non odo parole che dici umane; ma odo parole più nuove”).
    Il linguaggio della natura, fatto di suoni che la pioggia produce cadendo sulle foglie del bosco, sussurra (“parlano”) in lontananza.
    All’invito al silenzio segue ora l’invito all’ascolto (“ascolta”). Piove sulle tamerici, arbusti ornamentali con foglie squamiformi e fiori rosei sempreverdi che crescono in terreni fertili e ben drenati nei climi marittimi; sono dette “salmastre” perché vivono benissimo nell’immediata vicinanza del mare e sono quindi inaridite dalla salsedine, mentre “arse” perché bruciate dal sole. Piove sui pini dalla scorza ruvida (“scagliosi”) e dalle foglie aghiformi (“irti”). Piove sui mirti, arbusti sempreverdi, nell’antica Grecia sacro a Venere (“mirti divini”), sui fiori gialli delle ginestre, a grappoli (“accolti”), che brillano sotto la pioggia che cade e li ravviva (“fulgenti”), sui ginepri, piante sempreverdi con bacche (“coccole”) assai profumate (“aulenti”), piove sui volti delle due persone, detti “volti silvani” perché il poeta comincia a immedesimarsi e a confondere se stesso e la donna con la natura: i volti dunque sono già “silvani”, quasi ritengono natura di albero. È imminente l’inizio di una metamorfosi.
    Piove sulle loro mani nude, sui loro abiti leggeri, sull’anima che, come rinnovata dalla pioggia, si apre (“schiude”) a nuovi e più sereni pensieri (“freschi pensieri”), sulla favola della vita e dell’amore che prima aveva illuso la donna e ora illude anche il poeta.
    Ermione è il nome della donna, che è lo stesso della figlia della greca Elena. La seconda strofa inizia con una domanda: sembra quasi che il poeta voglia accertarsi che la donna viva, proprio come la vive lui, la misura della pioggia.
    La pioggia cade sulla macchia lontana dalla presenza di uomini (“solitaria verdura”) con un suono (“crepitio”) che muta per durata di tempo (“dura”) e per timbro (“varia”) a seconda che la pioggia cada su una vegetazione rada o fitta.
    A ogni rinnovata attenzione corrisponde una nuova percezione sonora: questo è il canto delle cicale, che si leva deciso, non si impaurisce del vento australe che porta la pioggia né del grigiore del cielo. Sotto le gocce di pioggia, gli alberi danno suoni diversi, come strumenti suonati da molte mani.
    La musicale armonia così percepita opera una tanto profonda magia sul poeta, che gli fa dimenticare la sua vita sensitiva e lo immerge in quella silvestre; ormai il poeta e la sua donna sono fusi con il bosco e vivono la stessa vita degli alberi (“arborea vita”).
    Il volto della donna è come ubriaco, estasiato per questa felicità nuova (“il tuo volto ebro”), bagnato come una foglia (“molle di pioggia come una foglia”). Continuano i paragoni arborei: la chioma della figlia della terra (“o creatura terrestre”) è profumata come le ginestre (“le tue chiome auliscono”). È tutto un succedersi di temi musicali: il tema delle cicale che vivono nell’aria (“aeree”) a poco a poco si fa più basso (“sordo”), soverchiato da quello della pioggia che diventa più forte (“si fa sotto il pianto che cresce”). Ma anche a questo si sovrappone e si mescola il nuovo tema: il canto della rana che è più roco perché proviene dal basso (“che di laggiù sale”), da un’ombra profonda, dalla terra bagnata (“dall’umida ombra remota”).
    Più forte, più tenue, poi cede, tace (“più sordo e più fioco s’allenta, si spegne”); ma per poco: ritenta ancora di salire, poi muore definitivamente (“ancor trema, si spegne, risorge, trema, si spegne”). È un continuo alternare di onde sonore che si intersecano a formare la melodia. Riprende il motivo della pioggia e si sente la pioggia luminosa che purifica (“l’argentea pioggia che monda”) cadere con violenza, ancora lo scroscio, variato dalla maggiore o minore densità di vegetazione.
    La cicala ormai non canta più; ma la rana, figlia del fango (“limo”) canta nell’ombra profonda così nascosta che non si sa bene dove sia. E piove sulle ciglia di Ermione così che sembra che piange di gioia. La metamorfosi è ormai completa: la donna è vista sotto una luce colore delle fronde (“vivente”) come uscisse da una scorza e sembra uscire da un tronco come una ninfa. La vita è sentita come un singolare fresco piacere, emanante un profumo di fiori (“aulente”). Poi seguono specificazioni ancora più particolari della prodigiosa metamorfosi: il cuore è paragonato alla pesca (“il cuor nel petto è come una pesca intatta”), come vene d’acqua sorgiva (“polle”) sono i suoi occhi, come mandorle acerbe sono i denti nelle cavità ossee (“alveoli”) che li contengono.
    Così i due vanno senza meta di macchia in macchia e le verdi e vigorose piante selvatiche (“e il verde vigor rude”) legano le loro caviglie (“malleoli”) e attorcigliano le ginocchia.
    I due sembrano confondere le loro estremità con gli arbusti, come se stessero anch’esse mettendo radici nella terra.
    Riprende il motivo della pioggia a ridare la misura del piacere fisico. La ripetizione (“volti silvani”, “mani ignude”, “vestimenti leggieri”) riassume le sensazioni provate prima, le quali tutte insieme hanno offerto attraverso i freschi pensieri il dono di vivere la favola bella.

    [/QUOTE]
  9. Posted 24/2/2014, 23:18
    [QUOTE=Lussy60,11/11/2010, 13:50 ?t=41821323&st=0#entry292857701]
    Cos'è la Parafrasi:



    La parafrasi (parola prestata dal greco: παράφρασις, letto paràphrasis e traducibile con riformulazione) indica la transcodificazione di un testo scritto nella propria lingua ma in un registro linguistico distante (sia esso arcaico, elevato o poetico).
    Il processo di parafrasi prevede dunque operazioni come la ricostruzione sintattica, la sostituzione degli arcaismi, l'esplicitazione delle figure retoriche e la riscrittura in prosa del testo poetico. Possono anche essere operati dei chiarimenti di alcuni punti del testo. Una buona parafrasi include tutti i dettagli e rende il testo originale più semplice da comprendere: dato che il testo risultante è normalmente più ampio del testo di partenza, questa operazione si oppone a quella del riassunto.
    Inevitabile effetto, per così dire "collaterale", della parafrasi la perdita del profondo rapporto tra significante e significato, tipico della comunicazione letteraria e fulcro dei testi poetici.
    Lo scopo della parafrasi è la verifica simultanea sia della comprensione della lingua arcaica, o poetica, che della propria competenza di riformulazione lessicale e sintattica: pertanto la parafrasi è generalmente usata come esercizio scolastico. Dal manuale di Elio Teone (I d.C.) sappiamo che già in epoca antica la creazione di una parafrasi costituiva uno degli esercizi preparatorii (progymnasmata) allo studio della retorica. La creazione di una parafrasi era usata come esercizio anche nella retorica medioevale: agli studenti veniva richiesto di scrivere parafrasi di poesie del periodo classico.








    PARAFRASI IL TEMPORALE DI GIOVANNI PASCOLI,

    AIUTINO



    “TEMPORALE”


    Un bubbolìo lontano…
    Rosseggia l’orizzonte,
    come affocato, a mare;
    nero di pece, a monte,
    stracci di nubi chiare:
    tra il nero un casolare:
    un’ala di gabbiano.

    parafrasi

    Parafrasi della poesia.
    Un brontolio lontano annuncia un temporale…
    Verso il mare, all’orizzonte, il cielo è rosso, infuocato; verso il monte è nero come la pece, rischiarato qua e là da qualche nube frastagliata e sfilacciata; nel nero che domina questo paesaggio si distingue una casa bianca che spicca come un’ala di gabbiano.

    Spiegazione in prosa della poesia.
    Questa poesia di Giovanni Pascoli narra di un temporale in cui si sentiva da lontano il brontolare dei tuoni; i lampi che si trovavano verso il mare, tingevano di fuoco l'orizzonte mentre sulle montagne il cielo era nero come la pece: delle nuvole molto chiare vagavano sulla pianura, s'intravedeva sulla montagna un casolare, e un volo di gabbiano sperduto solcava l'aria in tempesta.
    Attraverso questi pochi versi della poesia si può notare che solo il volo di un gabbiano solitario dimostrava che c'era un essere in terra che cercava un rifugio, ma i colori che erano il rosso del fuoco, il nero della pece, il bianco del casolare e l'ala dell'uccello esprimono l'immobilità paurosa della natura negli attimi che precedono lo scatenarsi della tempesta.














    Davanti San Guido di Giosuè Carducci-parafrasi

    parafrasi


    Il poeta Giosuè Carducci sta viaggiando sulla linea Roma – Pisa in treno ed immagina che i cipressi che fiancheggiano la ferrovia dove lui giocava a Bolgheri, gli si facciano incontro e lo invitino a fermarsi. I cipressi alti e snelli dell’oratorio di san Guido a Bolgheri, formando un viale, sembrano al poeta, che li guarda dal treno in corsa, giovani giganti che corrono verso di lui e lo guardano. Lo riconoscono e gli chiedono, chinandosi con la cima piegata dal vento, di fermarsi perché la sera è fresca e lui conosce la strada. Lo invitano a fermarsi presso i loro alberi profumati, dove dal mare spira il vento impetuoso di nord-ovest e gli dicono che non conservano rancore per le sue “battaglie a colpi di sassi” perché in fondo non facevano male. Portano ancora nidi di usignoli e si lamentano che lui si allontani così in fretta. I passeri intersecano il cielo con voli. Il poeta risponde ai cipressi, sinceri amici dell’infanzia, che egli giudica migliore dell’età adulta, che volentieri si fermerebbe, ma chiede loro di lasciarlo andare perché ormai è un uomo maturo e ironicamente dice che, non per vantarsi, è diventato un uomo importante che capisce il greco ed il latino, scrive, ha tanti pregi e capacità e soprattutto non è più un ragazzo vivace ed impertinente e non tira più sassate alle piante (ma casomai invettive e battute polemiche agli uomini del suo tempo). Attraverso le cime che oscillano mosse dal vento, come chi scuote la testa per esprimere un dubbio o dire di no, passa, come un’onda, un brontolio ed il sole, che sta tramontando con un sorriso pietoso (cioè un riso un poco ironico e malizioso, ma senza cattiveria), splende rossastro in mezzo al verde cupo della vegetazione. Il poeta capisce che i cipressi ed il sole hanno un sentimento di pietà per lui ed improvvisamente il mormorare delle piante si trasforma in parole distinte. I cipressi hanno capito che non è altro che un uomo tormentato dagli affanni e dalle delusioni della vita. Il vento, sfiorando le case, porta via con sé l’eco dei sospiri degli uomini e conosce come dentro al petto del poeta brucino tormenti e passioni che egli non sa né può placare. Il poeta potrebbe raccontare alle querce ed ai cipressi la sua pena personale ed il dolore universale degli uomini in quel paesaggio sole sul mare, calmo ed azzurro, scende sorridente il sole. Il tramonto è pieno do voli e di stridi di uccelli, di notte si sentiranno i canti melodiosi degli usignoli. Lo invitano a rimanere ed a non seguire le idee e le passioni vane che sono colpevoli dell’infelicità dell’uomo perché lo staccano dalla semplicità della vita naturale. Le passioni (i pensieri agitati, torbidi, tristi ed angosciosi) nascono dalle profondità dei cuori umani sconvolti dai pensieri come i fuochi fatui dei cimiteri (mettono tanta para ma in realtà sono leggere fiamme vaganti prodotte dai gas che si sprigionano dove ci sono sostanze in putrefazione). Nell’ora del mezzogiorno (che per gli antichi era misteriosa e segreta), quando presso le querce i cavalli stanno nell’ombra muso a muso e introno tutto è pace nella pianura assolata, i cipressi gli canteranno quelle armonie che cielo e terra si scambiano tra loro eternamente e le divinità silvane, che abitano i tronchi delle piante, usciranno dagli olmi per ristorarlo dalla calura e sospingerlo a sognare ed il dio Pane (dio dei boschi e dei pastori) che, a quell’ora se ne va errando senza compagnia per i monti e le pianure, placherà l’insanabile contrasto dei suoi affanni nella divina serenità della natura. Ma il poeta non si può fermare, a Bologna lo aspetta la figlioletta, la Titì, piccola ancora e bisognosa di assistenza. Non si veste di piume come la passeretta a cui provvede madre natura, né si nutre di bacche di cipresso. A questo punto il poeta lancia una sassata polemica contro gli imitatori del Manzoni (quelli che in arte ed in politica si attenevano alle idee del Manzoni e principalmente accettavano le sue idee in fatto di lingua) che badano solo al guadagno e si accaparrano il maggior numero possibile di uffici e stipendi. Non essendo nel numero di costoro urge che il poeta si affretti ai suoi doveri di insegnante per provvedere ai bisogni della sua famiglia e lo fa con un saluto affettuoso e doloroso. I cipressi che hanno cercato di fermare il poeta con le lusinghe del paesaggio, cercano di fermarlo con il ricordo della nonna paterna tanto amata, Lucia Santini, morta nel 1843 e sepolta a Bolgheri. Al ricordo della nonna i “giganti giovinetti” si trasformano in un corteo funebre che si allontana mormorando. Dal dolce pendio per il verde viale dei cipressi ecco apparire al poeta alta e maestosa, vestita di nero, la nonna. Dalla sua bocca in mezzo ai bianchi capelli sgorgava la pura e schietta parlata toscana che molti non toscani imitano goffamente, con la malinconica e dolce inflessione della natia Versilia che è tanto cara al cuore del poeta. La lingua toscana, quando è parlata genuinamente, è nitida e soave come un antico componimento poetico (il sirventese era un antico metro poetico di origine provenzale che celebrava avvenimenti storici e poetici). Il poeta si rivolge al fantasma della nonna e vuole farsi raccontare, lui che con tutto il suo sapere non è riuscito a raggiungere, se non la felicità, almeno la tranquillità dell’animo, l’antica fiaba di “Amore e Psiche” (una fanciulla che aveva sposato un mostro ripugnante per volontà dei parenti, siccome viola il giuramento di non vederlo durante la notte quando riacquista il primitivo e bellissimo aspetto, viene abbandonata dal marito. Per ritrovarlo deve errare per il mondo per sette lunghi anni, consumare sette verghe di ferro per sorreggere i suo corpo stanco, colmare sette fiasche di lacrime… e quando finalmente ritrova lo sposo, questi è immerso in un profondo sonno, né a lei è possibile destarlo). Il Carducci modifica il finale del racconto originario che dice che lo sposo fuggiasco ritorna alla fanciulla commosso dai suoi sacrifici. Nella sorte della fanciulla abbandonata il poeta vede rispecchiata la propria sorte individuale di un uomo incapace di raggiungere gli ideali che si è proposto. Infatti continuando il discorso con la nonna dice che la favola non è soltanto bella, ma anche pena di amara verità. La felicità, la pace che ha cercato invano nei tanti anni è forse nella tranquillità del cimitero e della morte, sotto quel viale dove non soltanto spera, ma non pensa neppure più di fermarsi, ora che la vita lo ha ghermito con le sue necessità ed i suoi doveri. A questo punto la realtà lo riafferra, il treno corre ansimando affannosamente, mentre il poeta si sente triste e desolato. Una schiera di puledri, che in Maremma vivono liberamente nelle campagne, nitriscono, mettendosi a correre in gara con il treno, mentre un asino grigio continua con serietà e lentezza a mangiare il cardo dai fiori rosso turchino. La chiusura della poesia è simbolica: se il treno rappresenta il progresso o comunque la vita che va avanti ed i puledri sono l’immagine della giovinezza che insegue gioiosamente, ma vanamente, i sogni, la figura dell’asino può essere il simbolo degli uomini chiusi ad ogni ideale o anche della persona saggia che si accontenta delle cose che ha, senza lasciarsi distrarre dal chiasso e dai desideri inutili.










    Leopardi - Il passero solitario - parafrasi

    parafrasi

    Dall'alto della torre del vecchio campanile, tu, passero solitario, erri per la campagna cantando finché viene sera; e l'armonia regna nella tua valle. La primavera brilla tutt'intorno e si manifesta sui campi così vividamente che il cuore si intenerisce. Senti le pecore belare, le vacche muggire; e gli altri uccelli, contenti, compiono mille giri nell'aria festosa contenti, trascorrendo così il loro tempo migliore: tu, invece, guardi il tutto in disparte pensieroso; non ti piace la compagnia, non voli, non ti curi dell'allegria, eviti i divertimenti, canti solamente e così trascorri il periodo migliore dell'anno e della tua vita. Ahimè, quanto assomiglia il tuo costume al mio! Divertimento e spensieratezza, tenera famiglia della giovinezza, e amore, fratello della giovinezza, rimpianto amaro dell'età matura, io non curo, non so come; anzi fuggo lontano da loro; quasi estraneo al mio luogo nativo, trascorro la primavera della mia vita. In questo giorno di festa, che ormai giunge a termine, si usa festeggiare al mio paese per tradizione. Senti per l'aria serena il suono delle campane, senti spesso lo scoppio di colpi di fucile, che rimbomba lontano di paese in paese. La gioventù del luogo, tutta vestita a festa, abbandona le case e si sparge per le vie; e guarda ed è guardata, e in cuore si rallegra. Io, solitario in questa parte dimenticata della campagna, rimando a tempi migliori ogni gioco e divertimento: e intanto lo sguardo steso nell'aria soleggiata è ferito dal Sole che tramonta tra i monti lontani, dopo una giornata serena, e cadendo, sembra dileguarsi e che dica che la gioventù sta finendo. Tu, solitario uccellino, giunto alla fine della vita che il destino ti concederà, non ti dorrai della tua vita certamente; perché ogni nostro desiderio è frutto della natura. A me, se non mi sarà concesso di evitare di varcare la detestata soglia della vecchiaia, quando i miei occhi non susciteranno più nulla nel cuore delle altre persone, e il mondo apparirà loro vuoto, e il giorno futuro parrà più noioso e doloroso del presente, che sarà di questa voglia? Che sarà di questi anni miei? Che sarà di me stesso? Ah, mi pentirò, e più volte, mi volgerò al passato sconsolato.








    Parafrasi Novembre di Giovanni Pascoli


    “NOVEMBRE”

    Gemmea l'aria, il sole così chiaro
    che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,
    e del prunalbo l'odorino amaro
    senti nel cuore...
    Ma secco è il pruno, e le stecchite piante
    di nere trame segnano il sereno,
    e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante
    sembra il terreno.
    Silenzio, intorno: solo, alle ventate,
    odi lontano, da giardini ed orti,
    di foglie un cader fragile. E' l'estate
    fredda, dei morti.


    Questa lirica venne inclusa nella prima edizione di Myricae. Il tema generale di questa poesia è l’analisi del paesaggio invernale e una riflessione sulla fragilità della vita. Il poeta descrive una limpida giornata di novembre caratterizzata dall’aria così nitida e luminosa che verrebbe naturale cercare con lo sguardo alberi in fiore e avvertire l’odore del biancospino. Ma il paesaggio si svela per quello che è: privo di vegetazione (brullo) e autunnale, secco e scuro. La natura è penetrata dal silenzio, interrotto solamente dal soffiare del vento e dal cadere delle foglie.


    parafrasi

    L’aria è limpida e fredda come una gemma, il sole è così luminoso che si ricercano con lo sguardo gli albicocchi in fiore, sentendo nel cuore l’odore amarognolo del biancospino. Ma l’albero del biancospino è secco, le piante scheletrite lasciano una traccia nera nel cielo sereno, il cielo è deserto, e il terreno sembra vuoto e sordo al piede che lo calpesta. Intorno c’è silenzio, soltanto grazie ai colpi di vento, si sente lontano un fragile cadere di foglie, proveniente dai giardini e dagli orti. È la fredda estate dei morti.







    Ugo Foscolo - Alla sera - parafrasi

    testo
    Forse perché della fatal quiete fatal quiete
    tu sei l'immago a me sì cara vieni
    o Sera! E quando ti corteggian liete
    le nubi estive e i zeffiri sereni,

    e quando dal nevoso aere inquiete
    tenebre e lunghe all'universo meni
    sempre scendi invocata, e le secrete
    vie del mio cor soavemente tieni.

    Vagar mi fai co' miei pensier su l'orme
    che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
    questo reo tempo, e van con lui le torme

    delle cure onde meco egli si strugge;
    e mentre io guardo la tua pace, dorme
    quello spirto guerrier ch'entro mi rugge


    parafrasi

    Forse perché tu sei l’immagine della morte, a me giungi cosi gradita, e sia quando sei seguita dalle nuvole e dai venti sereni sia quando dal nevoso cielo che porta neve e conduci sulla terra notti lunghe e burrascose, e occupi le vie più segrete del mio animo, placandolo dolcemente.
    Mi spingi a pensare alla via della morte e intanto se ne va via quest’ età malvagia, e insieme al tempo che se ne và se ne vanno anche le preoccupazioni.
    E mentre guardo la tua immagine di pace, dentro di me dorme la voglia di combattere che è dentro di me e mi invita a lottare e mi da tanta angoscia.







    Il lampo di Giovanni Pascoli

    testo


    E cielo e terra si mostrò qual era:
    la terra ansante, livida, in sussulto;
    il cielo ingombro, tragico, disfatto:
    bianca bianca nel tragico tumulto
    una casa apparì sparì d'un tratto;
    come un occhio, che, largo esterefatto,
    s'aprì si chiuse, nella notte nera.



    Questa lirica fu pubblicata nella terza edizione di Myricae. Questa poesia è un “quadretto impressionistico” su un evento atmosferico, il lampo appunto. Nel lampo che ha illuminato cielo e terra – per poi farli precipitare di nuovo nel silenzio sospeso che precede il tuono – l’universo ha rivelato per un istante il suo vero volto spaventoso e angosciante, solitamente celato dietro aspetti illusori e ingannevoli. Nello sconvolgimento della natura in tumulto, l’uomo ha potuto per un attimo cogliere la minaccia che lo insidia, la precarietà del suo destino.

    parafrasi
    E cielo e terra si mostrarono nella loro identità, grazie alla luce del lampo: la terra ansimante, tetra, in un sussulto doloroso, il cielo ingombro di nuvole, cupo e sconvolto: nella silenziosa bufera appare improvvisa una casa bianca che sparisce subito; simile ad un occhio che dilatato, sbigottito, si apre e si chiude nella notte nera






    Ugo Foscolo In Morte del fratello Giovanni - parafrasi

    testo

    Un dì, s'io non andrò sempre fuggendo
    di gente in gente, me vedrai seduto
    su la tua pietra, o fratel mio, gemendo
    il fior de' tuoi gentil anni caduto.

    La Madre or sol suo dì tardo traendo
    parla di me col tuo cenere muto,
    ma io deluse a voi le palme tendo
    e sol da lunge i miei tetti saluto.

    Sento gli avversi numi, e le secrete
    cure che al viver tuo furon tempesta,
    e prego anch'io nel tuo porto quiete.

    Questo di tanta speme oggi mi resta!
    Straniere genti, almen le ossa rendete
    allora al petto della madre mesta.


    parafrasi

    Un giorno se io non sarò sempre costretto a fuggire di paese in paese mi vedrai seduto sulla tua tomba a piangere per la tua morte.
    Ora solo nostra madre ormai vecchia parlerà di me e io non posso fare altro che porgere le mie braccia e salutare la mia città.
    Sento anch’io l’ostilità degli dei e le angoscie che hanno turbato la tua vita.
    Adesso mi resta solo il desiderio di morire!
    Dopo la mia morte, che avverrà lontano dalla mia città, vorrei solo che le persone portino a mia madre le mie ossa.









    Achille e Agamennone parafrasi

    testo

    Cantami, o Diva, del Pelìde Achille
    L'ira funesta, che infiniti addusse
    Lutti agli Achei, molte anzi tempo all'Orco
    Generose travolse alme d'eroi,
    E di cani e d'augelli orrido pasto
    Lor salme abbandonò così di Giove
    L'alto consiglio si adempia, da quando
    Primamente disgiunse aspra contesa
    Il re de' prodi Atrìde e il divo Achille.

    parafrasi


    Ispirami a cantare, o Musa, l'ira funesta di Achille, figlio di Peleo, che portò precocemente al regno dei morti infiniti uomini. La morte e la distruzione furono così atroci che abbandonò ai cani e agli uccelli le salme dei morti, poiché non c'era il tempo per onorarli con una degna sepoltura. Si compia così la decisione di Giove (che aveva promesso a Teti di vendicare l'offesa subita da Achille), presa da quando il divino (divo) Achille e il figlio di Atreo (Agamennone) si divisero (disgiunse) per la contesa della schiava.

    Parafrasi
    raccontami, o dea, l'ira di achille figlio di peleo, che fu la causa di moltissimi lutti per i greci, e mandò nell'ade molte anime prima del giusto tempo, e fece delle loro salme cibo per cani e uccelli ( così che si compisse il disegno di Giove), da quando all'inizio il divino Achille e il re Agamennone furono divisi da un'aspra contesa.







    Iliade - Il duello tra Ettore e Achille


    parafrasi

    Quando si trovarono uno di fronte all’altro, Ettore dall’elmo scintillante parlò ad Achille per primo:
    “Non fuggirò più di fronte a te, Achille, come adesso così successe per ben tre volte che di fronte alle mura di Troia, non riuscii a difendermi dal tuo attacco; adesso il mio animo mi sprona
    a non fuggire più, qualunque sia la mia sorte. Ci rivolgiamo agli dei: perché essi saranno i migliori testimoni e conservatori degli accordi; io non intendo portarti disonore, se grazie all’aiuto di Zeus
    riuscirò a toglierti la vita; quando, Achille, ti avrò rimosso le tue gloriose armi, restituirò il tuo corpo agli Achei: e anche tu farai così”. Ma Achille guardandolo minacciosamente disse: “Ettore, o tremendo, non scenderò a patti con te: come non vi è alcuna alleanza tra uomini e leoni, e tra lupi e agnelli, i quali non sono mai in accordo, ma si detestano ininterrottamente, così non potrà mai succedere che noi ci vogliamo bene; fra di noi non ci saranno patti, il primo che morirà appagherà Ares con il sangue del nemico. Ricordati che ora devi essere perfetto nell’usare l’asta e veloce nel combattere, senza commettere errori! Ormai non puoi più sfuggire al tuo destino, gli dei hanno già deciso e Atena ti ucciderà per mezzo della mia lancia: sconterai tutto il dolore che hai portato al mio popolo”. Mentre parlò Achille scagliò l’asta contro Ettore; ma egli vedendola prima riesce ad evitarla: si abbassò e l’asta lo schivò, conficcandosi nel terreno; ma Atena, senza essere vista da Ettore, la ripose nelle mani di Achille. A quel punto Ettore disse ad Achille: “La tua mira non ha avuto un esito positivo! Allora in realtà tu non sapevi quello che mi sarebbe successo, Zeus non vuole la mia morte. Eppure tu lo hai dichiarato. Eri molto abile nel parlare, ma l’hai detto perché volevi che io mi scoraggiassi. No, non fuggirò di fronte al tuo attacco, ma ti affronterò a viso aperto, se mi vorrai uccidere, lo dovrai fare mentre ti attacco, se un dio ti aiuterà. Intanto cerca di evitare questa lancia che sto per scagliarti e spero che ti entri nel corpo. Certamente se riuscissi ad ucciderti la guerra risulterebbe molto più facile per i Teucri, perché tu sei il più grande problema” Mentre parlò, bilanciò l’asta e la scagliò ma centrò lo scudo di Achille, non fallì il colpo; ma l’asta rimbalzò cadendo per terra; Ettore si innervosì, perché il suo lancio fu inutile, e preso dallo sconforto, perché non aveva più lance; chiamò il fratello Deifobo, perché gli passasse un’altra lancia: ma egli non gli era più vicino. Allora Ettore capì il suo destino interpretato dal fato e gridò: “Ahi! Adesso non ho più alcun dubbio, gli dei hanno decretato la mia morte. Pensavo di aver vicino Deifobo, ma egli è all’interno di Troia, Atena mi ha imbrogliato. Il mio destino è di dover morire, tutto questo era già stato stabilito da Zeus e da suo figlio, Apollo, che adesso mi sono nemici però un tempo
    furono benevoli nei miei confronti. Ormai la morte mi ha raggiunto. So che devo morire, ma non mi ritirerò, lotterò fino all’ultimo perché io possa morire gloriosamente così che i miei posteri mi possano stimare”.
    E mentre parlava così, estrasse la spada, che gli pendeva da dietro al fianco, grande e pesante, e partì di scatto all’attacco, come un’aquila che piomba verso la pianura, attraversando le nuvole buie, per uccidere un giovane agnello o una lepre: in tal modo scattò Ettore, agitando la spada acuminata.
    Ma anche Achille scattò all’attacco, con il cuore selvaggio carico di collera: pose davanti a sé lo scudo bello, decorato, scuotendo la chioma lucente, che Efesto aveva creato fitta attorno al cimiero.
    Come la stella procede tra i vari astri durante la notte, Espero, l’astro più lucente del cielo. Così luceva la spada del glorioso Achille nella sua mano destra, riflettendo intensamente come poter uccidere Ettore, cercando con gli occhi un punto del suo corpo che fosse scoperto dall’armatura. Le armi bronzee ricoprivano tutto il corpo di Ettore, colui che uccise Patroclo; ma vi era una fessura dove le clavicole dividono le spalle dalla gola e dal collo, e quello è un punto di rapida morte.
    Qui Achille lo colpì, la punta dell’asta passò attraverso il morbido collo di Ettore, però non gli tagliò le corde vocali così che Ettore riuscisse a parlare. Achille si vantò: “Ettore, mentre spogliavi Patroclo delle sue armi credevi forse di poter sfuggire da me, che ti ero lontano! Ma io rimanevo suo difensore sulle navi. Ora cani e uccelli ti sbraneranno: ma lui seppelliranno gli Achei”.
    Senza più forze Ettore gli rispose: “Ti prego per la tua vita, per le ginocchia, per i tuoi genitori, non lasciare che venga sbranato dai cani degli Achei, ma accetta oro e bronzo senza fine, i doni che ti verranno dati da mio padre e dalla mia nobile madre: rendi il mio corpo alla mia patria, perché il mio corpo possa essere bruciato”.
    Ma guardandolo bieco, Achille disse: “No, cane, non mi pregare per nessun motivo; che la rabbia e il furore mi spingano a tagliuzzare le tue carni e a divorarle per quello che u hai compiuto: nessuno allontanerà dal tue corpo le cagne, per nessun motivo, nemmeno se Priamo offrirà tanto oro quanto pesi. Così la tua nobile madre non potrà piangere sul tuo letto, perché così i cani e gli uccelli ti sbraneranno. Rispose così Ettore: “Va, ti conosco! Non potevo persuaderti perché tu hai il cuore di ferro, che non prova passione. Bada però che la mia morte non ti porti l’odio degli dei; quel giorno che Paride, guidato da Apollo, ti ucciderà, tu ancora coraggioso, sopra le porte Scee”.
    Mentre parlava morì Ettore: il suo spirito volò via e scese nell’Ade, rimpiangendo la giovinezza e il vigore.
    Rispose al cadavere Achille illustre: “Muori! Anch’io dovrò morire quando gli dei lo vorranno!”
    Disse e tolse al morto le armi insanguinate dopo aver strappato l’asta, accorsero gli altri ammirando la statua e la bellezza stupenda di Ettore, e nessuno si avvicinò senza martoriare e colpire il cadavere dell’eroe.
    E così diceva qualche infido volto al vicino: “ Davvero, è più morbida la carne d’Ettore, di quando appiccò fuoco alle nostre navi”.
    Disse e meditò di fare un offesa al glorioso Ettore: gli forò i tendini dietro ai due piedi dalla caviglia al tallone, ci passò due cinghie, lo legò al cocchio, lasciando la testa ciondolare a terra, e balzato sul cocchio, alzando in alto le armi frustò per partire: desiderosi di correre i cavalli volarono. R intorno al corpo trainato si alzò la polvere: i capelli neri si scompigliarono; tutta la testa giaceva in mezzo alla polvere, prima stupenda: ma allora Zeus lo diede ai nemici, che lo sconciassero nella sua patria.








    Riassunti “Novelle per un anno” di Pirandello

    Riassunto L’Avemaria di Bobbio
    Un caso singolarissimo era accaduto a Marco Saverio Bobbio, notaio a Richieri tra i più stimati. Studioso di filosofia non era più credente come da bambino. Bobbio aveva in bocca più di un dente guasto. Parecchi anni si trovava a villeggiare con la famiglia a due miglia da Richieri. Andava alla mattina a lavorare in paese e alla sera tornava a casa, ma la domenica voleva passarla tutta in vacanza. Così invitò tutti i parenti e mentre le donne parlavano, i bambini giocavano; gli uomini giocavano a bocce. Giunta ora di mangiare a Bobbio venne un fortissimo mal di denti, che decise di ritirarsi in camera sua. Dopo un’oretta decise di andare in paese da un dentista. Per strada vedendo il tabernacolo della SS. Vergine delle Grazie disse la preghiera Ave Maria e il mal di denti gli passò; così tornò a casa. Adesso chiuso in camera sua ripensava al fatto sorridendo quando leggendo Montagne gli venne un forte mal di denti. Provò a continuare a leggere e a non pensarci ma non ce la faceva così decise di andare dal dentista. Per strada provò di nuovo a pregare ma nulla cambiò. Quando arrivò dal dentista il mal di denti gli era passato ma decise comunque di farsi togliere tutti i denti.

    Riassunto La patente
    Il giudice D’Andrea non era vecchio; poteva avere appena quarant’anni. Aveva un viso bianco, dei capelli crespi gremiti da negro, una vasta fronte protuberante piena di rughe, dei piccoli occhi plumbei ed era una misera personcina. Alla notte non dormiva mai ma stava sveglio a pensare alla finestra guardando le stelle. Quando si faceva giorno doveva recarsi al suo ufficio d’Istruzione. Come lui non dormiva non lasciava mai dormire l’incartamento in ufficio anzi delle volte restava per più tempo al lavoro per terminarlo. Per aiutarsi meditava alla notte ma pensava sempre ad altro. Eppure era la prima volte da circa una settimana che un incartamento dormiva sul tavolino di D’Andrea. Il caso era una denuncia verso due uomini da parte di Chiàrchiaro perché loro lo chiamavano iettatore, come d’altronde era soprannominato da tutti. Questo caso divenne una fissazione per D’Andrea. Sapendo che Chiàrchiaro non avrebbe mai vinto la causa decise di chiamarlo nel suo ufficio per parlargli. Quando parlò con Chiàrchiaro l’uomo gli riferì che voleva che gli dessero una patente da iettatore così poteva farlo diventare il suo lavoro e avere i soldi per mantenere le figlie nubili e la moglie paralitica.

    Iettatore = persona a cui viene attribuita la facoltà di esercitare influssi malefici.


    Riassunto Il treno ha fischiato…
    I colleghi di lavoro di Belluca dicevano che farneticava; usavano dei termini scientifici appena imparati e fingevano di mostrarsi afflitti, ma in fondo erano contenti anche del fatto che avevano compiuto il dovere di andarlo a trovare all’ospizio. Nessuno pensava che date le condizioni in cui aveva vissuto fino a quel momento il suo caso poteva essere naturalissimo. Fino a quel momento Belluca era un uomo mansueto e veniva sottomesso, infatti sia il suo capo sia i compagni di lavoro lo trattavano male. Una mattina si presentò in ufficio con un’aria insolita e alla sera quando il capo-ufficio gli chiese cosa avesse fatto tutto il giorno lui con molta calma rispose :”Niente” e si mise a parlare di un treno che aveva fischiato così il capo-ufficio decise di portarlo all’ospizio dei matti. Io (narratore interno perché è un personaggio del racconto) non rimasi meravigliato del fatto anzi secondo me Belluca non era impazzito era una cosa naturalissima. Ero suo vicino di casa e come tutti gli altri inquilini mi domandavo come un uomo potesse vivere in quelle condizioni. Viveva con tre cieche, la moglie, la suocera e la sorella della suocera; tutte tre volevano essere servite. Con lui vivevano anche le due figlie vedove, una con quattro figli l’altra con tre. Per mantenere tutti Belluca oltre a fare il suo lavoro da computista lavorava anche alla sera fino a tardi. Due sere prima Belluca mentre si distendeva sul divano udì il fischio di un treno, così si mise a dormire e sognò tutta la notte quel treno e il resto del mondo che fino a quel momento aveva dimenticato. Appena si sarebbe ricomposto sarebbe andato dal capo-ufficio a scusarsi ma esso non doveva più pretendere tanto da lui e doveva concedergli che ogni tanto facesse una capatina in Siberia oppure nelle foreste del Congo: “ Si fa in un attimo, signor Cavaliere mio. Ora che il treno ha fischiato…”

    Riassunto La mosca
    Saro e Neli Tortorici correvano per il paese in cerca di un dottore per loro cugino Giurlannu Zarù che si era sentito male in una stalla a Montelusa. Arrivarono a casa del dottore Sidoro Lopiccolo, lo trovarono scamiciato, spettorato, con una barbaccia di almeno dieci giorni e gli occhi gonfi e cisposi, con in braccio una bambina malata e ingiallita, pelle e ossa, di circa 9 anni. La moglie in un letto ormai da 11 mesi e la casa una rovina. Il dottore Sidoro Lopiccolo si mise a guardare l’unica cosa rimasta intatta in quella casa, un ritratto fotografico ingrandito di quando era giovane. Guardandolo gli veniva in mente quando sua madre lo chiamava “Sisinè” e credeva che lui poteva fare grandi cose infatti lui era il beniamino, la colonna, lo stendardo della casa. Saro e Neli spiegarono che loro cugino stava male, lui disse che per andare fino a Montelusa voleva una mula. Così Saro andò a prendere una mula e Neli andò a tagliarsi la barba. Neli raccontò al barbiere l’accaduto. Il pomeriggio nella tenuta di Lopes a Montelusa, stavano lavorando quando il capo li disse che avrebbero abbacchiato le mandorle a mezza lira come le donne. Zarù decise si non farlo così andò a riposare in una stalla. I lavoratori decisero di restare tutta la notte al lavoro, così la mattina dopo Saro andò a svegliarlo e lo trovò gonfio e nero con un febbrone da cavallo. Il barbiere distraendosi dal racconto provocò una feritina a Neli. In quel momento arrivarono Luzza , la fidanzata di Neli, Mita Lumia, la fidanzata di Zurò, e sua madre, la fidanzata di Zurò voleva partire con loro ma Neli le disse di no. Così partirono, dopo due ore arrivarono alla stalla e trovarono Zurò come lo avevano lasciato poche ore prima. Il medico disse che un insetto con il carbonchio lo aveva punto. Così Zurò ripensandoci su si ricordò che una mosca lo aveva punto e quella mosca era ancora li sul muro che lo guardava come soddisfatta. La stessa mosca si posò sulla ferita di Neli e iniziò a succhiarli il sangue dopo molto Neli la mandò via. Quando capirono cosa era successo se ne andarono lasciando Zurò solo.

    Riassunto La carriola
    Un commendatore, professore, avvocato un giorno al ritorno da Perugia, si accorge di non aver mai vissuto la vita che ha, che questa vita non gli appartiene e che lui la trascina come un peso. Così per liberarsi appena ha un momento libero dai clienti chiude la porta del suo studio a chiave, si avvicina alla cagna che dorme sul tappeto, la prende per le zampe posteriori e le fa fare 8 o 10 passi a carriola, poi riapre la porta dello studio e si prepara a ricevere il cliente seguente. La cagna lo guarda con terrore perché ha capito che non scherza ma è un segno di pazzia.

    Riassunto La distruzione dell'uomo
    Nicola Petix aveva ucciso la signora Porella non perché era pazzo, non perché aveva una passione per lei e neanche perché era una bestia, ma perché dopo diciannove anni e quindici aborti, forse questa era la volta buona per il compimento della gravidanza. Così quando la buttò nelle acque del fiume non uccise solo un uomo ma uccise l’uomo, non uno dei tanti ma tutti in quel uomo.
    Nicola viveva in una casa diroccata con molti altri inquilini, non aveva ricevuto neanche una parte dell’eredità del padre, che era stata donata al fratello maggiore, perché il padre credeva che aveva trascorso i suoi anni in un ozio vergognoso, all’università, passando da un indirizzo all’altro senza dare mai un esame. Comunque ogni mese aveva diritto a una piccola parte di soldi equivalenti a poche lire.

    Riassunto La fede
    Don Pietro dormiva nella sua cameretta, quando arrivò don Angelino. Don Angelino voleva spogliarsi dagli ordini sacerdotali, già il giorno prima ne aveva parlato con don Pietro, dicendogli che lui ormai credeva in un’altra fede, ma don Pietro gli disse che non c’erano altre fedi. Adesso era tornato in quella camera per parlargliene di nuovo, mentre aspettava che il prete si svegliasse, iniziò a piangere pensando a quanto sarebbe rimasta male sua madre quando glielo avrebbe detto, lei credeva in lui e pensava che fosse un angelo. Mentre stava piangendo, entrò nella camera la sorella del prete e in quel momento si svegliò quest’ultimo. La donna disse al prete che c’era un’anziana che voleva che gli celebrasse la messa. Don Pietro disse a don Angelino di andare lui, così lui ci andò. La donna aveva portato tre lire, due galletti, delle mandorle secche e delle noci come voto per San Calògero. Infatti esso gli aveva fatto guarire il figlio da una malattia, appena guarito il figlio era partito per l’America, promettendo alla madre che le avrebbe scritto e mandato dei soldi ogni mese. Lei credeva che il figlio dopo 16 mesi non le aveva ancora scritto perché lei non aveva mantenuto il voto. Così era andata lì per mantenerlo. Don Angelino prima cercò di convincerla a riportarsi a casa le offerte ma quando la donna si mise a piangere decise di fare la messa. Quando salì all’altare sentì quella fede forte come la prima volta.


    Riassunto La giara
    Ogni volta che succedeva qualcosa Don Lollò andava dall’avvocato per fare gli atti, così l’avvocato stufo di vederselo comparire davanti ogni volta gli aveva regalato un codice da consultare ogni volta che ne aveva bisogno. Don Lollò aveva comprato una giara da quattro onze per metterci dentro l’olio. Aveva lasciato la giara in un magazzino, un giorno tre contadini la videro rotta, così avvisarono Don Lollò che convinto da Zi’Dima l’avrebbe fatta aggiustare da lui. Il giorno seguente Zi’ Dima arrivò puntuale all’aia, lui voleva aggiustare la giara usando un mastice che aveva creato lui, ma Don Lollò lo obbligò ad aggiungere anche i punti oltre che al mastice. Nel mettere i punti Zi’ Dima restò bloccato all’interno della giara Don Lollò non sapeva cosa fare così gli diede cinque lire per pagarlo e del pane e companatico per la colazione, dopo si fece sellare la mula per andare in città dall’avvocato. L’avvocato gli disse che lui doveva rompere la giara seno sarebbe stato sequestro di persona ma Zi’ Dima doveva ripagarli la giara. Tornato all’aia Don Lollò fece stimare da Zi’ Dima la giara, lui disse che adesso valeva un’onza e trentatré. Don Lollò chiese allora a Zi’Dima di dargli i soldi ma lui disse di no e che preferiva restare dentro alla giara. Non sapendo cosa fare Don Lollò gli disse che il giorno dopo gli avrebbe fatto causa per alloggio abusivo ma Zi’Dima gli disse che non stava lì per suo piacere e che se avrebbe rotto la giara sarebbe uscito ma non l’avrebbe pagata. Don Lollò andò in casa, Zi’ Dima con le cinque lire di prima mandò un contadino in una taverna lì vicino e decisero di far festa tutta la notte. Giunta l’ora di mettersi al letto Don Lollò non riusciva a dormire per il baccano che facevano i contadini così andò giù diede un calcio alla giara che andando contro un olivo si ruppe. Così Zi’Dima la vinse.

    Riassunto Ciaula scopre la luna
    Quella sera Cacciagallina voleva che i picconieri facessero la notte per finire di estrarre le casse di zolfo. Tutti se ne andarono anche se lui li minacciò con una pistola. L’unico che restò fu il povero Zi’ Scarda; era vecchio e per un occhio era cieco; così tutti se la prendevano con lui e anche quella sera Cacciagallina fece lo stesso. Anche Zi’ Scarda aveva chi maltrattare, il suo caruso Ciàula. Proprio mentre Cacciagallina se la prendeva con Zi’ Scarda, a quest’ultimo scese una lacrima e lui la bevette; non era una lacrima di pianto, ma si era bevuto anche quelle, quando quattro anni fa gli era morto il suo unico figlio Cavicchio, per lo scoppio di una mina, per la quale lui perse un occhio. Ciàula si stava rivestendo quando Zi’ Scarda lo chiamò e gli disse di rimettersi i vestiti di lavoro, perché sarebbero rimasti lì tutta la notte. L’unico problema era che Ciàula doveva andare a portare i carichi fuori dalla caverna e aveva paura del buio che c’era fuori. Quello all’interno non gli faceva paura ma fuori era un’altra cosa perché non lo conosceva. Ciàula viveva con Zi’ Scarda e con la nuora e i sette nipoti di esso. Quando venne il momento di portare fuori il carico Zi’Scarda glielo caricò sulle spalle e Ciàula si mise in cammino. Arrivato quasi all’entrata vide una chiara e man mano che si avvicinava all’uscita la chiara cresceva fino a quando uscì e restò sbalordito; fece cadere il carico dalle spalle e si mise a guardare la Luna. Lui sapeva cos’era ma non gliene aveva mai dato importanza. E Ciàula si mise a piangere senza saperlo, senza volerlo e non si sentiva più stanco né aveva più paura.


    Riassunto Candelora
    Nane Papa e Candelora erano sposati; lui era un pittore, che non aveva molto successo, così lei arrabbiata per il fatto che sarebbe diventata povera, decise di andare a parlare con un critico che seguivano tutti, in cambio di una buona parola per Nane Papa Candelora doveva essere molto gentile con lui e con tutti gli ammiratori di Nane Papa, soprattutto con il barone Chicco, che li ospitava nella sua villetta. Di ritorno dal mare Candelora litigò con Nane Papa perché lei voleva che lui la amasse come non aveva mai fatto. Candelora andò nella villetta a piangere poco dopo Nane Papa decise di raggiungerla. Arrivò nella stanza dove si trovava Candelora, era distesa a terra, con una coscia scoperta; appena Nane Papa la vide credette che aveva bevuto la boccetta di iodio ma quando arrivo Chicco e la presero in braccio videro che nella mano teneva una rivoltella e sul fianco aveva una grossa macchia di sangue. Nane Papa si mise a piangere perché capì che lei voleva solo essere amata da lui.








    Parafrasi Adelchi coro atto IV Morte di Ermengarda

    La «provida sventura»

    La morte giunge serena per Ermengarda, nella convinzione che «fuor della vita» risiede la liberazione dalla sua dolorosa sorte terrena. E’ il premio, la consolazione ideale, l'esito ultimo di un disegno invisibile che agisce nella storia e si anima nella coscienza di creature generose. Di fronte al crollo inglorioso del regno longobardo, fondato sulla violenza, Ermengarda si salva senza colpa e senza rimorsi: lei, che pure appartiene a quella «rea progenie», è salvata dalla propria sofferenza.
    Alla base c'è la fede in una giustificazione divina della sventura, vista come «provida», cioè come strumento di purificazione offerto dalla Provvidenza. E’ un'idea centrale nella visione manzoniana e e sarà un elemento chiave anche del fondamento ideologico dei Promessi sposi.

    La struttura del coro

    Il coro ha una struttura architettonicamente studiata e calibrata. Le prime due semistrofe (vv. 1-12) rappresentano Ermengarda sul letto di morte, circondata dalle suore del convento. Esse hanno quindi una funzione di raccordo con la scena precedente e, insieme, costituiscono un preambolo al discorso successivo: Ermengarda muore con gli occhi che cercano «il ciel» (vv. 5-6), la pace della vita eterna. Nelle due semistrofe successive (vv. 13-24) interviene la voce del poeta, che si rivolge a Ermengarda invitandola a liberare l'animo angosciato dalle passioni terrene («i terrestri ardori», v. 14): fuori della vita troverà la liberazione dal «lungo martir» che altri le hanno inflitto, ma proprio la sofferenza che ha subito in vita la renderà «santa» e degna di salire al «Dio de' santi».
    Segue la parte centrale del coro (vv. 25-60), che si dilunga per sei semistrofe: è un momento introspettivo nel quale, con scorci repentini, si rievoca il percorso di un'intera esistenza. Muovendo da un presente di silenziosa sofferenza che di continuo rinnova nel ricordo l'ora dolorosa del disinganno e della solitudine, rivivono i momenti di più fiducioso e irrecuperabile abbandono affettivo.
    Le quattro semistrofe successive (vv. 61-84) descrivono la condizione psicologica di Ermengarda, attraverso la similitudine del cespo d'erba: il personaggio, tormentato dai ricordi e dal risorgere della passione, è paragonato al cespo d'erba inaridita che riprende momentaneamente vita grazie alla rugiada, ma è poi di nuovo seccato dalla vampa infuocata del sole. Dalla quindicesima semistrofa(vv. 85 seg.) si ritorna al motivo d'inizio, la liberazione dal tormento che è possibile solo nella morte: si noti il refrain (i primi quattro versi, «Sgombra, o gentil... e muori», vv. 85-88, riprendono esattamente i vv. 13-16). Si chiude così il cerchio: nelle ultime sei
    semistrofe il poeta si rivolge di nuovo al personaggio, ribadendo che la «sventura» è strumento di purificazione e la pace è raggiungibile soltanto fuori della vita.

    Metro

    Dieci strofe settenarie doppie, costituite da due parti di sei versi ciascuna. Il primo, il terzo e il quinto verso sono sdruccioli e sciolti; il secondo e il quarto sono piani e a rima alterna; il sesto è tronco e rima con l'ultimo della seconda parte della strofa, anch'esso tronco. Schema: abcbde fghgie. E’ il metro che Manzoni adotta nella quasi coeva ode Il cinque maggio.

    I piani temporali del discorso

    Alla struttura del coro corrisponde un complesso e simmetrico gioco di piani temporali. Si presentano in successione tre diversi livelli temporali, incastrati con la tecnica del flash-back: il presente della morte, il passato recente nel monastero, il passato lontano della vita matrimoniale.
    Presente. Il coro prende le mosse da una situazione presente, Ermengarda sul letto di morte. Il presente è il piano temporale delle prime quattro semistrofe.
    Passato recente. Attraverso un flash-back, la quinta semistrofa rievoca il passato recente di Ermengarda, quando, chiusa nel monastero, cercava di soffocare il suo amore e i ricordi dei giorni felici del matrimonio, gli «irrevocati dì» (v. 30).
    Passato lontano. Quei lontani e felici ricordi, benché Ermengarda non voglia rievocarli, prendono prepotentemente campo: con un ulteriore flash-back, le semistrofe successive, dalla sesta alla decima (vv. 31-60), sono occupate da quel gioioso lontano passato trascorso al fianco di Carlo, nelle vivide scene della caccia e del ritorno del re dalla guerra.
    Nelle semistrofe successive, dalla undicesima alla quattordicesima (vv. 61-84), si ritorna al passato recente, con Ermengarda che, chiusa nel monastero, vive il dissidio interiore sospesa tra la volontà di oblio e il risorgere della passione. Dalla quindicesima semistrofa alla fine (vv. 85-120), si ritorna invece al presente dell'agonia di Ermengarda.

    Una lirica elegiaca

    Se si confronta questo coro con quello dell'atto III (Dagli atrii muscosi, dai fòri cadenti), si avverte uno scarto dall'epico all'elegiaco. Di nuovo il coro è dedicato a una vittima: Ermengarda è, come i latini nel coro dell'atto III, una vittima: una vittima d'alto rango, ma anch'essa senza storia e senza voce. Ed è appunto attraverso il coro che l'autore dà spazio e voce al suo dramma. Manzoni non persegue qui la poesia epica e martellante del coro dell'atto III, ma una lirica dai toni elegiaci e delicati, consona al dramma interiore del personaggio. Si notino le due delicate similitudini naturalistiche: quella col cespuglio di tenui steli, ravvivato dalla rugiada e poi arso dal sole (vv. 61-78), e quella finale, col sole che si libera dalle nuvole e tramonta (vv. 114-120).

    CONTENUTO: Questo brano del coro dell’atto quarto dell’Adelchi è dominato dal tema della provvida sventura Manzoniana in relazione alla morte di Ermengarda. La donna viene incitata a liberare la mente dai terrestri ardori, forse dall’Io lirico di Manzoni. Il pensiero poi si rivolge alle altre donne infelici, consumate e già morte a causa del dolore, accostandovi poi l’immagine di Ermengarda che, trovatasi dalla parte degli oppressi invece che degli oppressori, è incitata a morire in pace, col volto che si ricomponga come quando era fanciulla, ignara di un destino avverso, in visione di un buon augurio di salvezza divina. C’è quindi il paragone tra il volto sereno di Ermengarda e la serenità del contadino che, al tramonto vedendo il sole squarciare le nuvole, spera in un giorno più sereno. Ai versi 103 - 104 vediamo, sottolineato da un enjembement, provvida sventura spesso ricorrente nell’idea religiosa di Manzoni, che sta a significare la possibilità di riscattarsi di una colpa, nel caso di Ermengarda le colpe del suo popolo cui fu prodezza il numero, / cui fu ragion l’offesa, / e dritto il sangue, e gloria / il non aver pietà.

    STILE: Al verso 93 vediamo “brando”, una metonimia (figura retorica che consiste nel trasferire un termine dal concetto a cui propriamente si applica ad un altro in cui è in stretto rapporto di dipendenza) che sta per “spada”. Nel passaggio sono presenti termini eruditi di origine latina, come al verso 92 “orbate” e al verso 94 “indarno” oppure al verso 112 “fallace” (dal latino fallax). Al verso 97 e 103 è presente una anafora, cioè una ripetizione di una parola, in questo caso “te”, quasi a sottolineare il senso di colpa che viene addossato ad Ermengarda. Altra anafora è presente ai versi 99 – 100 con “…cui… cui…”. Nel passaggio sono presenti molti enjembements, il più notevole dei quali e quello ai versi 103 – 104 con “provvida / sventura” quasi ad evidenziare ciò che sarà un tema caratteristico nel Manzoni. Ai versi 114 – 115 si trova un ulteriore enjembement della strofa che termina con “Così…” per sottolineare la continuità del paragone tra il volto di Ermengarda e lo stato d’animo del contadino che sull’alba si rasserena per un giorno più sereno.









    analisi metrico-strutturale della poesia Pioggia nel pineto

    La poesia “La pioggia nel pineto” è stata tratta dalla raccolta poetica: Alcyone, che è stata scritta da Gabriele D’Annunzio (1863-1938), il quale è stato uno dei massimi autori della corrente artistica conosciuta come Decadentismo. Lui dopo essersi sposato con una duchessa, dalla quale avrà tre figli, scappa. Dopo questi fatti s’innamorerà di Eleonora Duse, un’attrice di teatro, loro vivranno circondati dal lusso e dai debiti. D’Annunzio, che si considerava un super uomo, compie il famoso volo su Vienna (1918), occupa la città di fiume e aderisce al fascismo ma Mussolini lo terrà lontano dalla vita politica attiva. Alla sua morte la sua regia, il Vittoriale, diventerà un museo della sua vita.
    Questa poesia narra di un giorno di pioggia in una pineta dove D’Annunzio, insieme ad Ermione, ascolta la musica creata della pioggia. Inebriati da questa musica, i due a poco a poco diventano vegetali e si fondono con la natura che li circonda.
    Il poeta per esprimere le sue sensazioni usa quattro strofe di trentadue versi l’una, usa rime senza seguire uno schema metrico definito, utilizza anche alcune figure retoriche, tra cui la similitudine e la personificazione, la più grande personificazione che usa è quando fa suonare gli alberi, il momento più intenso della poesia secondo me; per sottolineare alcuni momenti usa ejambement e molti punti.
    I temi trattati nella poesia sono la pioggia, che continua ad aumentare, e la straformazione da uomini a vegetali. Questa poesia non contiene un vero e proprio messaggio ma è solamente la narrazione di un momento, di una sensazione, è una poesia superficiale.
    La poesia mi è piaciuta perché D’Annunzio ti fa sembrare all’interno della situazione che sta narrando.

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    SPIEGAZIONE: LA PIOGGIA NEL PINETO (G. D’Annunzio)

    Il poeta dice alla donna immaginaria che l’accompagna di tacere, perché lui vuole immergersi nella natura e ascoltarne tutti i suoni.
    Successivamente il poeta le dice di ascoltare il suono che la pioggia, caduta da un cielo con poche nuvole, produce sui pini ruvidi, sulle tamerici bruciate dal sole, sui mirti (considerati sacri dalla dea Venere), sui mazzetti di fiori dorati, sui ginepri pieni di bacche profumate; la pioggia non cade solo sulla natura, ma anche sui loro volti silvestri (al poeta sembra di star diventando della stessa natura degli alberi del bosco), sulle loro mani nude, sui loro vestiti leggeri, sui sentimenti che riaffiorano come nuovi e sulle illusioni della giovinezza che hanno illuso sia Ermione (la donna che l’accompagna) che D’Annunzio.
    L’autore chiede alla donna se sta udendo la pioggia che cade sulla vegetazione, con un crepitio che si protrae e varia a seconda delle chiome degli alberi più rade o meno rade.Lui chiede di nuovo l’attenzione della donna per ascoltare che al pianto del cielo (la pioggia: qui D’Annunzio personifica la natura) risponde la cicala, che non si impaurisce né con la pioggia portata dai venti del sud, né con il cielo grigio cenere.
    Mentre la pioggia cade, ogni albero produce un suono diverso, sembrando strumenti suonati da tante mani. Così, al poeta, sembra di essere talmente immersi nella vegetazione da diventare partecipi alla vita del bosco, quasi come fossero piante. Il volto della donna Ermione è gioioso, bagnato di pioggia come una foglia, e i suoi capelli profumano come le bacche delle ginestre menzionate da poco.
    Continuando a chiederle di ascoltare, si ode il canto delle cicale che comincia a svanire, ma a esso si unisce il canto delle rane proveniente dalla parte più lontana e umida del bosco; anche esso svanisce, e si sente solo il rumore dell’acqua che cade sulla terra. Non si sente alcun rumore del mare, ma è chiaro lo scrosciare della pioggia che pulisce tutto. Mentre la cicala non canta, la rana si ode da lontano, e non si riesce a capire dove sia.
    D’Annunzio, guardando Ermione, si accorge che la pioggia cade anche sulle sue ciglia, e sembra che lei pianga di piacere; lei sembra verdeggiante ed appare come una ninfa che esce dall’albero.
    Il poeta pensa che la loro vita è fresca e profumata, il cuore è come una pesca, gli occhi bagnati dalla pioggia sono come sorgenti d’acqua nel prato, i denti sono come mandorle acerbe.
    Loro vanno da cespuglio a cespuglio, un po’ stretti per mano e un po’ sciolti (i rami degli arbusti gli stringono le caviglie e gli impediscono di camminare), senza una meta precisa.
    Intanto continua a piovere sui loro volti silvestri, sulle loro mani nude, sui loro vestiti leggeri, sui sentimenti nuovi e sulle illusioni della giovinezza che hanno provato i due protagonisti.


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    • In quale luogo il poeta immagina di trovarsi?
    Il poeta immagina di trovarsi in una pineta.

    • La lirica inizia con un invito al silenzio: “Taci”. Il poeta a chi rivolge questo invito? Perché?
    Alla donna immaginaria che l’accompagna, Ermione. Perché vuole ascoltare i suoni della natura e immedesimarsi con essa.

    • Man mano che la pioggia aumenta d’intensità, quale meravigliosa sinfonia silvestre si diffonde nell’aria?
    Il suono che la pioggia produce a seconda di dove cade.

    • Al suono della pioggia fa eco il canto di due animali. Quali?
    La cicala e la rana.

    • Il poeta e la donna, immersi nella vegetazione, si sentono come trasformare, divenire parte integrante della natura.Come viene descritta la donna? Quali sensazioni prova? Le varie parti del corpo del poeta e della donna in quali aspetti della natura si trasformano?
    La donna ha volto silvano ed ebro, le mani nude, veste con abiti leggeri; i suoi capelli profumano e le sue ciglia sono nere e bagnate dalla pioggia. La donna gioisce e par che pianga di piacere. Il cuore è come una pesca intatta, gli occhi sono come sorgenti d’acqua tra l’erba e i denti sono come mandorle acerbe.

    • Che cos’è la “favola bella” che illude?
    La vita con i suoi sogni d’amore e le sue speranze.

    • Perché il poeta in questa lirica canta la natura?
    Per immergersi in essa e diventarne parte viva.

    • Considera la terza strofa: quali sono le parole che, con il loro suono, riproducono l’aumentare d’intensità della pioggia?
    “Si fa sotto il pianto che cresce me un canto si mesce più roco/ Più sordo e più fioco s’allenta, si spegne. Solo una nota ancora trema, si spegne, risorge, trema, si spegne. Or s’ode su tutta la fronda crosciare.”

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    “La pioggia nel pineto”
    Parafrasi


    Taci. Entrando nel bosco non odo più suoni umani, ma odo parole insolite pronunciate dalle gocce che cadono in lontananza.

    Ascolta. Piove dalle nuvole sparse. Piove sulle tamerici impregnate di salsedine ed arse dal sole, sui pini dalle scorze ruvide e dalle foglie aghiformi, sui mirti sacri a Venere, sulle ginestre dai gialli fiori raccolti e sui ginepri che sono pieni di bacche profumatissime. Piove sui nostri volti divenuti tutt’uno con il bosco piove sulle nostre mani nude, sul nostro corpo, sui nuovi pensieri sbocciati dall’anima rinnovata, sull’illusoria favola dell’amore che ieri t’illuse, che oggi m’illude, o Ermione.

    Odi? La pioggia che cade sul fogliame della pineta deserta producendo un crepitio che dura e varia secondo quanto è folto il fogliame. Ascolta. Alla pioggia risponde il canto delle cicale che non è fermato né dalla pioggia né dal colore scuro del cielo. E il pino ha un suono, e il mirto altro suono, e il ginepro altro ancora, e le gocce di pioggia sono come miriadi di dita che fanno suonare diversamente queste piante. Noi siamo nel più intimo della foresta, non più esseri umani ma vivi d’una vita vegetale. E il tuo volto bagnato ed inebriato dalla gioia e le tue chiome profumano come le ginestre, o creatura originata dalla terra che hai nome Ermione.

    Ascolta, ascolta. Il canto delle cicale che stanno nell’aria va diminuendo sotto la pioggia che aumenta. Ma in crescendo si mescola un canto più rauco, che sale dall’ombra scura dello stagno in lontananza. Solo una nota ancor trema, si spegne, risorge, trema, si spegne. Non arriva il suono delle onde sulla spiaggia. Non si sente sulle fronde degli alberi scrosciare la pioggia d’argento che purifica, lo scroscio che varia secondo i rami più folti, meno folti.
    Ascolta.
    La cicala è muta, ma la figlia del lontano fango, la rana, canta nell’ombra più profonda, chissà dove, chissà dove. E piove sulle tue ciglia, o Ermione.

    Piove sulle tue ciglia nere, che sembra tu pianga di piacere, non bianca ma quasi verde, sembri uscita dalla corteccia di un albero. E tutta la vita è in noi fresca e odorosa, il cuore nel petto è come una pesca non ancora toccata, gli occhi tra le palpebre sono come fonti d’acqua in mezzo all’erba; i denti nelle gengive sembrano mandorle acerbe. E andiamo di cespuglio in cespuglio, ora tenendoci per mano ora separati (la ruvida e forte stretta delle erbe aggrovigliate ci blocca le ginocchia) chissà dove, chissà dove!
    Piove sui nostri volti divenuti tutt’uno con il bosco piove sulle nostre mani nude, sul nostro corpo, sui nuovi pensieri sbocciati dall’anima rinnovata, sull’illusoria favola dell’amore che ieri mi illuse, che oggi ti illude, o Ermione.


    Analisi Guidata

    1. A chi si rivolge il poeta con la richiesta Taci all’inizio della poesia?
    Alla donna immaginaria che l’accompagna, Ermione, perché vuole ascoltare i suoni della natura e immedesimarsi con essa.
    2. Quali sono le parole più nuove di cui si parla al verso cinque?
    Quelle parole nuove sono l’inizio del messaggio della natura portato dalla pioggia.
    3. La pioggia è paragonata al canto (vv. 41, 43, 69, 98). Di che tipo di pianto si tratta?
    Il pianto nominato da D’Annunzio è un pianto di piacere per la metamorfosi che sta avvenendo.
    4. Perché la cicala è detta figlia dell’aria?
    La cicala è chiamata così perché vive sui rami più alti degli alberi.
    5. Che cosa è accaduto ad Ermione per cui si dice di lei, ai versi 100 e 101, che è quasi fatta virente e che sembra uscire da una corteccia?
    In Ermione sta avvenendo la metamorfosi che da spettatori della natura trasforma lei e il poeta tutt’uno con essa.
    9. Qual è la figura etimologica che compare nella prima strofa?
    La figura etimologica nella prima strofa è “parole che parlano”.
    12. Perché si può parlare di questa poesia come del racconto di una metamorfosi?
    Perché il poeta ed Ermione iniziano il loro viaggio nel bosco ascoltando la natura e lo terminano dopo averlo appreso pienamente, diventando tutt’uno con essa.
    14. Perché si può affermare che la poesia compie un itinerario perfettamente circolare? Verifica la correttezza delle risposte nella presentazione del testo.
    All’inizio del componimento Ermione e il poeta si trovano alle soglie del bosco, mentre iniziano ad ascoltare le parole nuove (vv. 5), alla fine della prima strofa la pioggia inizia a renderli parte della natura, il primo annuncio si trova nei versi 20 e 21, con la metafora volti silvani, in altre parole volti che appartengono al bosco. Verso la metà della seconda strofa c’è un altro passo di questa metamorfosi, dal verso 50 fino al 61, dove D’Annunzio e la sua compagna vivono della stessa vita degli alberi (d’arborea vita viventi verso 55), il volto ed i capelli d’Ermione sono divenuti come una foglia e come le chiare ginestre (vv. 58 e 61). Nella presentazione di questa strofa il poeta usa la congiunzione e sia per rivolgersi agli alberi (verso 46) che per rivolgersi a lui ed ad Ermione (verso 52), in questo modo egli mette le due persone allo stesso piano degli alberi. Nell’ultima strofa infine si compie la metamorfosi vera e propria, sottolineata dalle continue similitudini con la natura (vv. 102 – 109). Si può affermare che la poesia compia un itinerario circolare perché alla fine dell’ultima strofa sono ripetuti gli ultimi versi della prima.
    15. Come hai potuto notare in questa poesia, la natura, per D’Annunzio, riesce a rappresentare quei sentimenti e quei segreti che sono propri anche dell’uomo. Sei d’accordo con questa definizione? Motiva la tua risposta con un breve testo.
    Io sono d’accordo, i segreti propri all’uomo sono propri anche della natura soprattutto nel verso 74, dove si parla di quell’umida ombra remota, e nel verso 94 con quel chi sa dove, chi sa dove; l’umida ombra remota rappresenta i segreti della natura e dell’uomo nascosti (segreti, appunto) chissà dove in se stessi.

    Ritmo e metrica
    Questa poesia è composta di quattro strofe lunghe ognuna di 32 versi, per un totale di 128 versi di lunghezza variabile (senari, novenari e settenari). Il ritmo però non rispetta l’ordine dei versi, uno sì e uno no ci sono degli enjambements. Le rime della poesia sono irregolari, ce ne sono una o due per ogni strofa, in fin di verso oppure interne.

    Figure retoriche
    Vedi testo

    Commento
    Leggendo questa poesia si viene immersi in questo pineto versiliano dove tutto è illuminato da una luce verdolina; q uì il poeta ed Ermione immergendosi nella natura, ascoltandone ogni suono fino a che non avviene la metamorfosi, ritrovano loro stessi e tutta la vita è in noi fresca aulente , la loro anima si rigenera e genera pensieri nuovi, quasi fossero fiori che si schiudono.

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    La pioggia nel pineto
    Il poeta immagina di trovarsi, in una giornata d’estate, con la sua donna amata, alla quale dà il nome classico di Ermione, nella pineta di Versilia battuta dalla pioggia.
    La lirica rappresenta le sensazioni prodotte dalla pioggia che cade, sempre più intensamente, sulla pineta in cui si sono addentrati l’uomo e la donna. La natura sembra risvegliarsi e rispondere al contatto della pioggia quasi con un discorso musicale, come una serie di strumenti dal suono diverso. In mezzo a questi suoni e sotto l’intensificazione della pioggia, l’uomo e la donna, purificati dall’acqua piovana che ne bagna le vesti, sembrano immergersi progressivamente nella natura, divenendo parte di essa.
    Forma metrica: uscivano, nel 1902, i primi tre libri delle Laudi del Cielo, del Mare e della Terra. A uno di questi tre libri, l’Alcyone, appartiene questa lirica.
    Si tratta di 128 versi liberi, suddivisi in quattro strofe di 32 versi di varia misura, senza alcuna regolarità versi di tre, sei, sette e nove sillabe, con frequenti rime baciate e altre interne al verso. Esse, insieme a frequenti onomatopee e assonanze, sottolineano i toni e l’armonia del cadere della pioggia. L’ultimo verso di ogni strofa è costituito dal nome della donna a cui il poeta si rivolge: Ermione.
    Alcione è il nome della figlia di Eolo, il re dei venti, suicidatosi per il dolore della morte del marito. Gli dei la trasformarono nell’uccello dello stesso nome. Alcione è anche la stella più luminosa della costellazione delle Peleiadi, le cui stelle principali sono nove.
    Livello tematico: il poeta parla alla donna che è con lui, e la invita a tacere, per ascoltare insieme la voce del bosco. Sul limitare della pineta (“su le soglie del bosco”) il poeta non intende più il linguaggio umano di Ermione, teso com’e’ ad ascoltare quello più nuovo della pioggia sul pineto (“non odo parole che dici umane; ma odo parole più nuove”).
    Il linguaggio della natura, fatto di suoni che la pioggia produce cadendo sulle foglie del bosco, sussurra (“parlano”) in lontananza.
    All’invito al silenzio segue ora l’invito all’ascolto (“ascolta”). Piove sulle tamerici, arbusti ornamentali con foglie squamiformi e fiori rosei sempreverdi che crescono in terreni fertili e ben drenati nei climi marittimi; sono dette “salmastre” perché vivono benissimo nell’immediata vicinanza del mare e sono quindi inaridite dalla salsedine, mentre “arse” perché bruciate dal sole. Piove sui pini dalla scorza ruvida (“scagliosi”) e dalle foglie aghiformi (“irti”). Piove sui mirti, arbusti sempreverdi, nell’antica Grecia sacro a Venere (“mirti divini”), sui fiori gialli delle ginestre, a grappoli (“accolti”), che brillano sotto la pioggia che cade e li ravviva (“fulgenti”), sui ginepri, piante sempreverdi con bacche (“coccole”) assai profumate (“aulenti”), piove sui volti delle due persone, detti “volti silvani” perché il poeta comincia a immedesimarsi e a confondere se stesso e la donna con la natura: i volti dunque sono già “silvani”, quasi ritengono natura di albero. È imminente l’inizio di una metamorfosi.
    Piove sulle loro mani nude, sui loro abiti leggeri, sull’anima che, come rinnovata dalla pioggia, si apre (“schiude”) a nuovi e più sereni pensieri (“freschi pensieri”), sulla favola della vita e dell’amore che prima aveva illuso la donna e ora illude anche il poeta.
    Ermione è il nome della donna, che è lo stesso della figlia della greca Elena. La seconda strofa inizia con una domanda: sembra quasi che il poeta voglia accertarsi che la donna viva, proprio come la vive lui, la misura della pioggia.
    La pioggia cade sulla macchia lontana dalla presenza di uomini (“solitaria verdura”) con un suono (“crepitio”) che muta per durata di tempo (“dura”) e per timbro (“varia”) a seconda che la pioggia cada su una vegetazione rada o fitta.
    A ogni rinnovata attenzione corrisponde una nuova percezione sonora: questo è il canto delle cicale, che si leva deciso, non si impaurisce del vento australe che porta la pioggia né del grigiore del cielo. Sotto le gocce di pioggia, gli alberi danno suoni diversi, come strumenti suonati da molte mani.
    La musicale armonia così percepita opera una tanto profonda magia sul poeta, che gli fa dimenticare la sua vita sensitiva e lo immerge in quella silvestre; ormai il poeta e la sua donna sono fusi con il bosco e vivono la stessa vita degli alberi (“arborea vita”).
    Il volto della donna è come ubriaco, estasiato per questa felicità nuova (“il tuo volto ebro”), bagnato come una foglia (“molle di pioggia come una foglia”). Continuano i paragoni arborei: la chioma della figlia della terra (“o creatura terrestre”) è profumata come le ginestre (“le tue chiome auliscono”). È tutto un succedersi di temi musicali: il tema delle cicale che vivono nell’aria (“aeree”) a poco a poco si fa più basso (“sordo”), soverchiato da quello della pioggia che diventa più forte (“si fa sotto il pianto che cresce”). Ma anche a questo si sovrappone e si mescola il nuovo tema: il canto della rana che è più roco perché proviene dal basso (“che di laggiù sale”), da un’ombra profonda, dalla terra bagnata (“dall’umida ombra remota”).
    Più forte, più tenue, poi cede, tace (“più sordo e più fioco s’allenta, si spegne”); ma per poco: ritenta ancora di salire, poi muore definitivamente (“ancor trema, si spegne, risorge, trema, si spegne”). È un continuo alternare di onde sonore che si intersecano a formare la melodia. Riprende il motivo della pioggia e si sente la pioggia luminosa che purifica (“l’argentea pioggia che monda”) cadere con violenza, ancora lo scroscio, variato dalla maggiore o minore densità di vegetazione.
    La cicala ormai non canta più; ma la rana, figlia del fango (“limo”) canta nell’ombra profonda così nascosta che non si sa bene dove sia. E piove sulle ciglia di Ermione così che sembra che piange di gioia. La metamorfosi è ormai completa: la donna è vista sotto una luce colore delle fronde (“vivente”) come uscisse da una scorza e sembra uscire da un tronco come una ninfa. La vita è sentita come un singolare fresco piacere, emanante un profumo di fiori (“aulente”). Poi seguono specificazioni ancora più particolari della prodigiosa metamorfosi: il cuore è paragonato alla pesca (“il cuor nel petto è come una pesca intatta”), come vene d’acqua sorgiva (“polle”) sono i suoi occhi, come mandorle acerbe sono i denti nelle cavità ossee (“alveoli”) che li contengono.
    Così i due vanno senza meta di macchia in macchia e le verdi e vigorose piante selvatiche (“e il verde vigor rude”) legano le loro caviglie (“malleoli”) e attorcigliano le ginocchia.
    I due sembrano confondere le loro estremità con gli arbusti, come se stessero anch’esse mettendo radici nella terra.
    Riprende il motivo della pioggia a ridare la misura del piacere fisico. La ripetizione (“volti silvani”, “mani ignude”, “vestimenti leggieri”) riassume le sensazioni provate prima, le quali tutte insieme hanno offerto attraverso i freschi pensieri il dono di vivere la favola bella.

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  10. Posted 13/2/2014, 15:26
    CITAZIONE (elyna @ 12/2/2014, 20:02) 
    la poesia di Giovanni Pascoli "il passato"

    Il Passato
    Rivedo i luoghi dove un giorno ho pianto:
    un sorriso mi sembra ora quel pianto.
    Rivedo i luoghi dove ho già sorriso...
    Oh! Come lacrimoso quel sorriso!
    -- Giovanni Pascoli

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